Penale

Saturday 19 July 2003

Secondo la Cassazione integra il reato di esercizio abusivo della professione medica praticare l’agopuntura senza titolo (Cassazione , sez. VI penale, sentenza 21.05.2003 n° 22528)

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE


Udienza pubblica del 27 marzo 2003

Dott. Bruno Oliva Presidente
Dott. Antonio Agrò Consigliere
Dott. Arturo Cortese “
Dott. Franco Ippolito “
Dott. Domenico Carcano “

ha pronunciato la seguente


SENTENZA

sul ricorso proposto da C. G., nato a Vittoria il 27 giugno 1950, contro la sentenza, pronunciata il 4 febbraio 2002, dalla Corte d’appello di Torino.

Sentita la relazione fatta dal Consigliere Domenico Carcano.

Udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale, dr.ssa Annamaria De Sandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso limitamente al capo a), mentre per il capo b) annullamento senza rinvio perché il fatto non è previsto come reato.

Ritenuto in fatto

La Corte d’appello di Torino, con sentenza 4 febbraio 2002, confermò la decisione del Pretore di Torino, sezione distaccata di Moncalieri, che ebbe a dichiarare C. G. responsabile del delitto di esercizio abusivo della professione medica e di usurpazione di titoli.

Propone ricorso il difensore di fiducia di C. G. e censura la sentenza impugnata per violazione di legge e difetto di motivazione, deducendo:

che la Corte di merito avrebbe attribuito a C. l’esercizio di un’attività professionale diagnostica e terapeutica estranea rispetto a quella di mero esecutore di agopuntura, senza tenere conto delle risultanze processuali le quali dimostrerebbero l’assoluta insussistenza delle condotte in parola;

che, per eseguire la terapia di agopuntura non sarebbe richiesta la laurea in medicina e chirurgia e, tenuto conto che C. sarebbe stato in possesso di un titolo specifico per esercitarla, non avrebbe potuto, pertanto, configurarsi il delitto di cui all’art.348 c.p.;

che l’agopuntura non sarebbe riconosciuta dalla stessa medicina ufficiale e, quindi, non potrebbe essere richiesto per il suo esercizio la laurea in medicina, in quanto non potrebbe essere qualificata attività sanitaria;

che non ricorrerebbero gli elementi costitutivi per la configurazione del delitto di cui all’art. 498 c.p.;

che, in tal modo riassunti, a norma dell’art.173, comma 1, disp. atto c.p.p., i termini delle questioni poste, va

Considerato in diritto

1. Il primo motivo è infondato.

Al di là dei rilievi sulla ricostruzione dei fatti effettuata dai giudici di merito, con il primo motivo si contesta che la condotta di C. possa integrare il delitto l’esercizio abusivo della professione medica.

Quanto al primo profilo, non può che essere ribadita l’inammissibilità di censure dirette ad ottenere una diversa rivalutazione delle risultanze processuali: non è consentito in sede di legittimità opporre una diversa ed alternativa versione, in mancanza di un vizio di manifesta illogicità delle proposizioni argomentative risultanti provvedimento impugnato.

Se così fosse la Corte di cassazione diverrebbe anch’essa giudice del fatto travalicando i limiti imposti dalla lettera e) dell’art.606 c.p.p., in virtù dei quali in sede di legittimità il vizio della motivazione, anche sotto un eventuale travisamento del fatto, non può che risultare dal testo del provvedimento. La selezione delle prove da porre a fondamento della decisione e il significato probatorio che ad esse deve essere riconosciuto è compito del giudice di merito, sempre che le proposizioni giustificative siano prive di difetti logici e di carenze argomentative. La Corte di legittimità è giudice della motivazione e dell’osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, trattandosi di un compito estraneo a quello affidatogli dall’ordinamento. ( Sez. VI, 2 novembre 1998, Archesso, rv .213444).

La Corte di merito ha fatto propri gli accertamenti compiuti dal giudice di primo grado in ordine all’effettiva attività svolta dal C., non limitata soltanto a quella paramedica al quale il suo titolo professionale di infermiere e di massoterapista lo abilitava. Egli operava, in “piena autonomia”, scelte terapeutiche e, in alcuni casi, effettuava anche diagnosi diverse rispetto a quelle mediche. Attività, quest’ultima, tipicamente medica e, come tale, riservata a coloro che fossero in possesso della laurea in medicina e chirurgia e del relativa abilitazione dello Stato.

In particolare, il Pretore, prima, e, poi, la Corte di merito -le cui proposizioni argomentative si integrano reciprocamente in caso di conferma in grado di appello della decisione impugnata -affermano che “[…]dall’esame dei testi è emerso chiaramente come C. esercitasse l’attività di agopuntore in piena autonomia[…]partiva pertanto dalla diagnosi (a volte confermava quella medica), procedeva con la scelta della terapia (massaggi, chiroterapia, agopuntura), procedeva all’esecuzione della stessa secondo le modalità ritenute più opportune[. ..]”, alternando in alcuni casi l’una all’altra terapia “[…]e giungeva sino a rimedi ortopedici (plantare) e farmacologici[ …]”.

1.1. Di diverso significato è, invece, l’ulteriore profilo proposto sempre con il primo motivo, col quale si contesta che l’agopuntura possa essere un terapia praticabile soltanto da medici e non anche da persone in possesso di altri e diversi titoli abilitativi. C., in possesso del titolo professiona e di infermiere e di massoterapista, sarebbe stato legittimato a praticare l’agopuntura per essere in possesso del titolo di “medico agopuntore conseguito a Parigi”, dopo avere frequentato un corso triennale presso una “scuola italiana di agopuntura”. Si rileva, ancora, che l’agopuntura sarebbe un terapia non riconosciuta dalla medicina ufficiale e, pertanto, non riconducibile ad un’attività sanitaria esercitabile da medici.

La questione posta è anch’essa infondata. Tenuto conto che la condotta richiesta per integrare il delitto previsto dall’art.348 c.p. è il compimento “abusivo” di atti “propri” di una professione da parte di soggetti non forniti dalla prescritta abilitazione dello Stato e non iscritti negli appositi albi professionali, la prima analisi da svolgere riguarda la individuazione delle caratteristiche proprie della terapia de qua.

L’agopuntura, al pari di altre terapie quali “omeopatia”, la “omotossicologia”, la “fitoterapie” ed altre terapie omologhe, è annoverata tra le pratiche terapeutiche “non convenzionali”, che richiedono la specifica conoscenza della scienza medica e che realizzano un attività sanitaria consistente, cioè, in una diagnosi di un’alterazione organica o di un disturbo funzionale del corpo o della mente e nell’individuazione dei rimedi e nella somministrazione degli stessi da parte dello stesso medico o da personale paramedico sotto il controllo del medico.

Come noto, l’agopuntura, in particolare, è una branca della medicina cinese, in cui per trattare vari disturbi o indurre anestesia, si inseriscono aghi nella cute del paziente e richiede un’indispensabile – tenuto conto delle molteplici possibilità terapeutiche da cui è caratterizzata -di una diagnosi accurata, in modo che, anzitutto, ne sia accertata l’utilità e la sostituzione parziale o totale di altro tipologia di intervento della medicina tradizionale e, un volta effettuata la scelta terapeutica, l’agopuntore sappia quali siano le sedi appropriate del corpo umano nelle quali inserire gli aghi, in modo da evitare che possa essere punto un vaso sanguigno, una cavità del corpo o un organo vitale.

Ne consegue che l’agopuntura è una terapia invasiva che, oltre all’effetto tipico ipnotico ed anestetico che essa provoca sul paziente, è esposta a tutti i rischi collegati ad intervento di tale natura, quali quelli di lesioni gravi causate da invasioni in parti non appropriate del corpo umano, senza contare il rischio di infezioni per uso di “utensili” non sterilizzati nel rispetto degli standards attualmente previsti e periodicamente verificati dai servizi sanitari.

Le considerazioni svolte non possono che confermare la precedente pronuncia di questa Corte, pur risalente all’anno 1982, secondo cui per l’esercizio dell’agopuntura è richiesto il conseguimento della laurea in medicina: colui che la pratichi, sprovvisto di tale titolo, commette il reato di cui all’art.348 c.p. volto alla tutela della salute pubblica. Infatti – rilevava nell’occasione la Corte -, sebbene l’agopuntura non costituisce materia di insegnamento nelle università italiane, essa può essere esercitata solo da medici o chirurghi, essendo necessaria la conoscenza della medicina o della chirurgia per formulare l’esatta diagnosi, nonché per evitare conseguenze dannose al paziente ( Sez. VI, 6 aprile 1982, De Carolis, rv. 154696).

Ora è superata anche il rilievo che la materia non era oggetto d’insegnamento nelle università italiane. Infatti, nel sito (www.uniroma.it) Università degli studi di Roma “La Sapienza”, I facoltà di medicina e chirurgia, è inserito “il bando attivazione del master di II livello in agopuntura” per l’anno 2003, a firma del Rettore, il cui titolo di ammissione è il diploma di laurea in medicina e chirurgia o in odontoiatria. Obbiettivo formativo del master è quello di fornire una specifica preparazione culturale e pratica sulle problematiche sociali inerenti l’agopuntura, inoltre fare formazione su argomenti di importanza nello specifico settore per l’esercizio della professione, indicando trattamenti di agopuntura ed utilizzando protocolli terapeutici di semplice esecuzione per le patologie più frequenti. La conferma che la materia tende, oramai, ad essere patrimonio anche della medicina convenzionale, è fornita dai moduli del corso in parola, tra i quali risultano: “metodologia e valutazione agopunturistica”, “agopuntura clinica” e “agopuntura applicata alle discipline specialistiche”. All’esito del corso è previsto il rilascio del “Diploma di Master di II livello in Agopuntura (Terapia e tecniche antalgiche per il recupero della cenestesi e della funzionalità)”.

Dunque, l’agopuntura si esplica mediante atti propri della professione medica, oltre che per la scelta terapeutica della malattia da curare, anche per i suoi intrinseci metodi applicativi che possono definirsi “clinici”.

2. Del resto, che la medicina “non convenzionale” si esplicasse in atti che costituissero anch’essi esercizio proprio della professione medica e, come tali, esercitabili da professionisti iscritti all’ordine dei medici fu oggetto di altra pronuncia di questa Corte. Integra il reato di esercizio abusivo della professione medica – affermò la Corte –”la condotta di chi effettua diagnosi e rilascia prescrizioni e ricette sanitarie per prodotti omeopatici. Tali attività rientrano infatti nell’esercizio di un’attività sanitaria che presuppone per il legittimo espletamento, il possesso di un valido e idoneo titolo ( Sez.VI, 25 febbraio 1999, n.2652, Cattaneo).

La Corte rilevò che i rimedi “omeopatici” se non sono riconosciuti dallo Stato, certamente non sono nemmeno vietati, ma rimessi alla libera scelta dell’interessato d’accordo col suo medico curante, da quale le ricette devono essere redatte per l’acquisto di tali medicinali. Per altro verso, la Corte ritenne che la condotta costituisse abusivo esercizio, in quanto realizzata col compimento di uno o più atti riservati in modo esclusivo all’attività professionale medica, quali “l’attività diagnostica e quella prescrittiva dei rimedi suggeriti e delle modalità di loro assunzione”.

Fu recepita la costruzione ermeneutica, inaugurata dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 27 aprile 1993, n.199, secondo cui la fattispecie incriminatrice dell’art..348 c.p. non ha natura di norma “penale in bianco”, bensì è caratterizzata da autonomia precettiva che la rende autosufficiente rispetto alla disciplina dei contenuti e dei limiti imposti dai titoli abilitativi.

Una costruzione che pone la fattispecie penale de qua al riparo da profili di costituzionalità, in quanto essa lungi dall’operare “[…] un meccanico rinvio ad altre fonti dell’ordinamento quali elementi strutturali del precetto, delinea esaurientemente la fattispecie in tutte le sue componenti essenziali[…].”. Il fatto si configura come antigiuridico mediante “[…] la realizzazione dell’atto o degli atti medianti i quali abusivamente viene esercitata una determinata professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato[.. .]”. In altri termini, il provvedimento abilitativo non è un elemento strutturale della fattispecie incriminatrice, bensì costituisce il presupposto che “[… ]in negativo condiziona la capacità giuridica del soggetto in ordine all’esercizio di quella specifica professione, qualificandone la condotta come abusiva e, perciò stesso, illecita[.. .]”.

Ne consegue che per le professioni c.d. “di confine” con l’attività medica, ciò che rileva è operare una corretta individuazione della condotta, in modo da verificare se essa abbia il contenuto di atti tipici della professione medica che, a norma del D.P.R. 5 aprile 1950, n. 221, puo essere esercitata da coloro che, oltre ad avere conseguito la laurea e superato i prescritti esami di abilitazione, risultino iscritti negli appositi albi.

Il risultato di tale costruzione ermeneutica è quello, in realtà, fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità, per la quale in relazione alla professione medica che si estrinseca nella individuare e diagnosticare le malattie, nel prescriveme la cura, nel somministrare i rimedi anche se diversi da quelli ordinariamente praticati, commette il reato di esercizio abusivo della professione medica chiunque esprima giudizi diagnostici e consigli, ed appresti le cure al malato ( Sez. II, 9 febbraio 1995, Avanzini rv.201513; Sez. VI, 1l maggio 1990, Mancaniello, rv.185187).

Nel caso concreto, dunque, sono privi di significato la natura ed il contenuto dei titoli abilitativi che C. G. assume di avere conseguito ed i limiti dei titoli all’esercizio di ausiliario sanitario e di massoterapista, in quanto egli ha compiuto atti tipici, analiticamente descritti nelle due decisioni di merito, per i quali è richiesta l’abilitazione all’esercizio della professione medica.

3. Un ultimo aspetto, in virtù del principio iura novit curia che per la Corte di legittimità assume particolare significato e valore, non può essere trascurato. Esso riguarda la recente approvazione da parte della Regione Piemonte, nel cui ambito territoriale C.G. operava, della legge 24 ottobre 2002, n.25, recante la “Regolamentazione delle pratiche terapeutiche e delle discipline non convenzionali”, pubblicata nel B.U. Piemonte del 31 ottobre 2002.

Nell’ottica del “pluralismo scientifico e della libertà di scelta da parte del paziente”, la legge de qua istituisce, come sancito nell’art. l, “il registro per le pratiche terapeutiche e per le discipline non convenzionali”, nel cui ambito, come prescritto dall’art.2, Comma 1, lett. a), è annoverata l’agopuntura.

L’art.6 della legge citata istituisce “un registro regionale degli operatori delle pratiche terapeutiche e delle discipline non convenzionali” e, nel comma 2 dello stesso articolo, si prevede che “il registro è articolato in due sezioni dedicate rispettivamente agli operatori medici ed agli operatori non medici, suddivisi per specialità”. In tal modo, la legge regionale abilita anche “gli operatori non medici”, alla pratica terapeutica di agopuntura, sempre che abbiano ottenuto l’iscrizione alla specifica sezione del registro, previa autorizzazione rilasciata, come dispone il terzo comma dello stesso articolo 6, da una speciale Commissione “in seguito al superamento di una prova teorica pratica finalizzata a verificare l’idoneità dell’operatore all’iscrizione”, oltre che alla produzione di attestati formativi.

La disposizione transitoria, contenuta nell’art. 7 della stessa legge, tutela la posizione di coloro che al momento dell’entrata in vigore della legge esercitino sul territorio regionale “le pratiche terapeutiche e discipline non convenzionali”, prescrivendo comunque la loro iscrizione “entro l’anno successivo” nell’apposito registro, previa produzione dei titoli professionali ed esonerandoli dall’esame teorico pratico di cui all’art.6.

Orbene, la nuova disciplina non ha rilievo alcuno rispetto alla posizione di C., la cui condotta di abusivo esercizio della pratica terapeutica in parola risale all’ottobre 1997.

La natura di “fattispecie incriminatrice autosufficiente riconosciuta” all’art.348 c.p. esclude che possano avere effetto su di essa lo ius superveniens relativo ai contenuti del provvedimento abilitativo e alla diversa categoria professionale alla quale la nuova disciplina iscrive le prestazioni svolte dal soggetto, in quanto ciò che rileva è l’esistenza di una abilitazione all’esercizio delle stesse. La disciplina regionale – al di là dei profili costituzionali che essa pone quanto ai limiti delle competenze proprie della regione ex art. 117, commi 1 e 3, della Costituzione e per i quali è stato proposta questione di legittimità in via principale dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e pende giudizio innanzi alla Corte Costituzionale -non ha liberalizzato per il territorio della Regione Piemonte le terapie “non convenzionali”, bensì richiede per la loro esecuzione una abilitazione di contenuto diverso rispetto a quella prescritta per l’esercizio della professione medica e la iscrizione di tali terapeuti in un apposito registro regionale.

Sotto altro profilo non può, peraltro, non rilevarsi che la posizione di C. G. è del tutto diversa e, comunque, non sarebbe stata legittima, quant’anche si dovesse ritenere applicabile la legge della Regione Piemonte nel cui ambito territoriale egli operava. Egli risulta avere svolto attività tipicamente medica, in quanto non si è limitato alla mera esecuzione di terapie “non convenzionali”, bensì ha effettuato, oltre che scelte terapeutiche in relazione alla malattia da curare, anche t diagnosi, confermando o meno quelle mediche e selezionando le terapie da praticare.

Il “registro” e l’abilitazione speciale configurata dalla legge regionale del Piemonte, non legittima gli operatori terapeutici al compimento di atti di esercizio di una professione medica per la quale è richiesta tutt’altra speciale abilitazione da parte dello Stato. In conclusione, la norma penale di cui all’art.348 c.p. tutela gli atti propri, riservati a ciascuna professione, e quelli non caratterizzati di tale tipicità, possono essere compiuti da chiunque ovvero, una volta istituiti albi professionali ad hoc, solo da coloro che in essi risultino iscritti.

4. L’ultima censura relativa all’art.498 c.p. è superata dall’intervenuta abolitio criminis ad opera dell’art.43 del d.lgs. 30 dicembre 1999, n.507.

Pertanto, va eliminata la pena di cinque giorni di reclusione -applicata a titolo di aumento ex art. 81 cpv. c.p. per l’ipotesi decriminalizzata di cui al capo b) -dai quaranta giorni complessivamente inflitti e, in tal modo, la pena pecuniaria sostitutiva va ridotta a lire 2.625.000, pari ad euro 1355,60.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla imputazione di cui all’art.498 c.p. perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Rigetta nel resto il ricorso e ridetermina la pena per il reato residuo in giorni 35 di reclusione, convertiti in lire 2.625.000 di multa, pari ad euro 1355,60 (milletrecentocinquantacinque/60).

Così deciso in Roma, il 27 marzo 2003.

Il Consigliere estensore

Il Presidente

Depositata in Cancelleria il 21 maggio 2003.