Penale

Friday 05 November 2004

Risponde di calunnia l’ imputato che accusa di falsa testimonianza i testimoni

Risponde di calunnia l’imputato che accusa di falsa testimonianza i testimoni

Cassazione – Sezione sesta penale
(up) – sentenza 24 maggio-8 ottobre 2004, n. 39528

Presidente
Fulgenti – relatore Mannino

Pg Galasso – ricorrente Sofia

In fatto e diritto

Con sentenza del 15 ottobre 2001
n. 882 il Tribunale di Catanzaro dichiarava Salvatore Sofia colpevole del reato
ascrittogli, e lo condannava con le attenuanti generiche alla pena di un anno e
quattro mesi di reclusione.

Contro tale decisione proponeva
appello il difensore dell’imputato, chiedendone l’assoluzione perché il fatto
non costituisce reato per aver agito nell’esercizio
del diritto di difesa o, comunque, per eccesso colposo nella causa di
giustificazione, in subordine chiedeva la riduzione della pena. La Corte
d’appello di Catanzaro con sentenza n. 460 del 7 marzo 2003 confermava la
decisione di primo grado.

Avverso la suddetta sentenza il Sofia ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone
l’annullamento per i seguenti motivi:

1. carenza di
motivazione in ordine all’elemento soggettivo del reato contestato (art. 606 c.
1 lett. E) in relazione all’art. 553 c.p.p.);

2. violazione
dell’art. 521 c.p.p. (art. 606 lett. B) c.p.p.) per la mancata correlazione tra
la contestazione di cui al decreto dispositivo del giudizio e la sentenza
pronunciata perché in Corte d’appello ha ritenuto di non riconoscere all’imputato
la scriminante dell’jus defendendi in base a premesse in fatto non contestate
all’imputato, definite come atte a colorare l’attribuita calunniosa accusa di
falsa testimonianza;

3. violazione
dell’art. 55 c.p. (art. 606 lett. B) c.p.p.) per il mancato riconoscimento
dell’eccesso colposo in quanto preteso errore di diritto.

Il ricorrente ha dedotto in
appello la questione dell’elemento psicologico sotto il profilo che la
negazione della veridicità della testimonianza non sia stata espressione di una
volontà calunniosa, bensì mero esercizio del diritto di difesa. E, in via
gradata, ha invocato l’eccesso colposo in causa di giustificazione, sempre con
riferimento all’jus defendendi.

Non è stata, invece, proposta nei
motivi d’appello la diversa questione della sussistenza dell’elemento
psicologico per l’aspetto della consapevolezza dell’imputato dell’innocenza
dei soggetti accusati.

Su questa questione, peraltro, il
Giudice di secondo grado si è comunque pronunciato,
segnalando come l’imputato abbia introdotto una pluralità di elementi di fatto
idonei a rafforzare la veridicità della propria in equivoca accusa, mossa
espressamente ai testi di essersi accordati per dichiarare il falso nell’ambito
di un progetto comune diretto a favorire il negligente Bruno Ranieri, elementi
che manifestavano la propria malizia per il carattere strumentale rispetto a
tale accusa; ed ha concluso costatando la mancanza di spazi per porre in dubbio
la sussistenza dell’elemento psicologico in capo al Sofia.

Il primo motivo di ricorso è
dunque per più aspetti inammissibile, sotto il profilo
processuale per inosservanza dell’art. 606 u.c. c.p. e,
nel merito, per manifesta infondatezza.

Col secondo motivo il ricorrente,
dopo aver fatto presente che l’appello era stato proposto in
ordine al mancato riconoscimento della scriminante dell’art. 51 c.p.,
lamenta che il Giudice d’appello abbia tentato di superare le lacune
motivazionali della sentenza di primo grado ancorando la propria decisione a
fatti diversi da quelli contestati, cioè alla negazione da parte dell’imputato
di essersi recato nei locali della copisteria, di aver mai conosciuto il
Cubello e il Gariano e di aver ritirato le copie dall’ufficio del G.I.P.

Ora, l’art. 55 c.p.,
disponendo che quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli articoli
51, 52, 53 e 54 c.p. si eccedono, colposamente i limiti, stabiliti dalla legge
o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le
disposizioni concernenti i delitti colposi se il fatto è preveduto dalla legge
come delitto colposo, richiama espressamente le disposizioni che disciplinano
le cause di giustificazione e tale richiamo, unitamente alla specificazione che
l’eccesso ricorre quando, per colpa, si eccedono i limiti stabiliti rispettivamente
dalla legge o dall’Autorità o dalla necessità di difendere il proprio o
l’altrui diritto o se stesso da un danno grave alla persona – che costituiscono
gli elementi strutturalmente necessari, per la configurabilità della legittima
difesa e dello stato di necessità – consente di affermare, che la norma citata
postu8la necessariamente un collegamento tra eccesso colposo e situazioni
scriminanti e, di conseguenza, l’impossibilità di ritenere quella in essa
descritta come una fattispecie colposa ab origine autonoma, svincolata dalle
previsioni delle singole scriminanti (Cass., Sez. I, 24
settembre 1991 n. 298, ric. Riolo).

Pertanto, la verifica della
sussistenza della scriminante invocata dall’imputato, fondata su elementi della
fattispecie concreta dallo stesso specificamente indicati, e, in subordine,
dell’eccesso colposo, non può dar luogo a difetto di correlazione tra la
decisione e l’accusa contestata, rispetto alla quale quegli elementi si pongono
come circostanze esimenti o attenuanti dedotte dalla difesa.

Secondo questi
principio i fatti addotti dall’imputato per dimostrare la falsità della
testimonianza fatta nei suoi confronti sono strettamente connessi con quelli
contestati perché indispensabili per valutare l’eccepito esercizio dell’jus
defendendi e, in subordine, l’eventuale eccesso colposo.

Nella specie, peraltro, quelli
indicati dall’imputato sono elementi specifici della condotta criminosa,
modalità esecutive da cui la sentenza impugnata ha desunto con procedimento
logico-giuridico assolutamente corretto la sua volontà – di per sé esorbitante
dal diritto di difesa, […] l’accusa di falsa testimonianza non era necessaria –
di accusare persone innocenti (Cass., Sez. VI, 5
dicembre 2002-9 gennaio 2003 n. 448, ric. Greco).

La decisione dell’appello è,
quindi, pertinente all’accusa contestata, rispettando la prescritta
correlazione con l’accusa, peraltro strettamente coordinata con i diritti della
difesa, cui la fattispecie sopra delineata, posta in essere
dall’imputato per la propria tutela, è inidonea ad arrecare alcun pregiudizio.

Il motivo suddetto è perciò infondato.

Quanto al terzo motivo si osserva
che nel meccanismo normativo la causa di giustificazione è costituita da una
circostanza di fatto che si salda con la fattispecie prevista dalla norma
incriminatrice e ne elide l’antigiuridicità.
L’esercizio del diritto di difendersi in giudizio da parte dell’imputato
costituisce in quanto tale una causa di giustificazione ai sensi dell’art. 51 c.p., che consente a chi ha la posizione processuale corrispondente
di svolgere compiutamente ogni attività rilevante sotto il profilo difensivo in
conformità e nei limiti stabiliti dalla norme che lo prevedono e ne dettano la
disciplina.

Anche nel caso dell’jus
defendendi è configurabile l’eccesso colposo previsto dall’art. 55 c.p.,
commesso dall’imputato che compia, nella convinzione, dipendente la colpa, che
sia compreso nell’attività difensiva lecita, un atto che ecceda dai poteri e
dalle facoltà processuali compresi in tale diritto. Con tale situazione è per
definizione incompatibile l’ipotesi in cui l’eccesso sia
preveduto e voluto, e quindi, dolosamente commesso.

In questo senso si deve da un
canto confermare che l’imputato nell’esercizio dell’jus
defendendi non ha il dovere di collaborare alle indagini e può legittimamente
contestare le risultanze acquisite a suo carico, negando, anche contrariamente
al vero, la veridicità di attestazioni a lui sfavorevoli, poiché l’implicita
accusa di falsa testimonianza che può oggettivamente derivarne costituisce
conseguenza non voluta e soltanto indiretta dell’atteggiamento difensivo
(Cass., Sez. VI, 22 febbraio 1983 n. 1834, ric. Sgro; Sez. VI, 14 marzo 1995 n.
5789, ric. Lo Fiego). Tuttavia la scriminante,
incentrata sulla garanzia della funzione della difesa, opera nei limiti
dell’esercizio di tale funzione, contenuto in un rigoroso rapporto di
connessione dell’azione di confutazione svolta dall’imputato nel
contesto del processo con l’accusa a lui contestata, dal quale esorbita
la formulazione da parte sua di accuse a carico dell’accusatore, per le quali
l’imputato risponde, qualora ne sussistano gli estremi, del reato di calunnia
(Sez. VI, 14 marzo 1995 n. 5789, ric. Lo Fiego; Sez. VI, 27 aprile 1995 n.
8042, ric. Tomola e altri; Sez. VI, 16 gennaio 1998 n. 1333, ric. Barbato P.;
Sez. VI, 19 marzo 1998 n. 5574, ric. Ruggeri).

Non vi è dunque scriminante, in
particolare del diritto di difesa nel processo, neanche putativa, e neppure
eccesso colposo dell’esercizio di tale diritto (Cass.,
Sez. I, 26 ottobre 1989-18 gennaio 1990 n. 672, ric.
Busnelli), bensì il reato di calunnia laddove l’imputato ecceda dolosamente dai
limiti della difesa, formulando accuse consapevolmente false nei confronti di
coloro che hanno reso testimonianze o hanno comunque rilasciato dichiarazioni
processualmente rilevanti a loro carico, pur sapendoli innocenti. Pertanto si
rende colpevole di questo reato l’imputato che, accusato d’aver commesso il
reato di soppressione di un atto pubblico, non si limita a negare la propria
reità, confu8tando le accuse contestategli, ma accusa i testimoni di essersi
accordati per rendere falsa testimonianza, nell’ambito di un progetto comune
volto a fuorviare i giudici e provocarne la condanna (Cass.,
Sez. Vi, 5 novembre 2002-4 marzo 2003 n. 9929, ric.
Tummarello; 19 settembre 2000 n. 9853, ric. Cotronei).

Correttamente, pertanto, nel caso
di specie la Corte d’appello ha escluso che costituisse attività difensiva,
perciò scriminata, l’accusa di falsa testimonianza mossa a Bruno Ranieri,
Antonio Cubello e Luigi Gariano dall’imputato, negando di averli mai
conosciuti, di essersi mai recato nei locali della copisteria e di aver
ritirato le copie direttamente dall’ufficio del G.I.P. Altrettanto
correttamente ha rigettato l’eccezione relativa a un
presunto eccesso colposo nell’esercizio del diritto di difesa, affermando in
fatto la mancanza di ogni elemento per affermare che il Sofia abbia incolpato
falsamente le tre persone offese ritenendo di esercitare il proprio diritto di
difesa.

Tale affermazione segue
all’esposizione, sempre in un punto di fatto, degli elementi sopra riportati,
che avevano portato il Giudice d’appello a ritenere
insussistente la scriminante.

Elementi che sono stati ritenuti
tali da comportare la commissione del reato di calunnia.

Ora, come già si è detto, la
natura dolosa della falsa accusa formulata dall’imputato a carico di persone
conosciute come innocenti, comportano la commissione del reato di calunnia, è
di per sé incompatibile con la possibilità che si ritenga
per colpa di esercitare un proprio diritto, per cui viene meno in tal caso la
stessa configurabilità e dell’esercizio putativo e dell’eccesso colposo. Questa
essendo la questione, appare del tutto irrilevante il problema, posto dal
ricorrente, se l’eccesso colposo si configuri come
errore di diritto di fatto. Il Sofia, che pone il problema in astratto, ammette che
all’eccesso può far luogo un errore dell’una o dell’altra natura, distinguendo
tra errore sul diritto ed errore nel diritto.

Anche il
terzo motivo è, dunque, infondato.

PQM

La Corte

Rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali.