Penale

Friday 26 September 2003

Non commette abuso d’ ufficio il sindaco che adotta un atto illegittimo ma per il bene comune . Cassazione – Sezione sesta penale (up) – sentenza 6 maggio-5 agosto 2003, n. 33068

Non commette abuso dufficio il sindaco che adotta un atto illegittimo ma per il bene comune Cassazione Sezione sesta penale (up) sentenza 6 maggio-5 agosto 2003, n. 33068

Presidente Fulgenzi relatore De Roberto

Pm Hinna Danesi ricorrente Cangini

Fatto e diritto

1. Con sentenza 1 febbraio 2000, pronunciata in esito a giudizio abbreviato, il Tribunale di Forlì condannava Cangini Lucio, concesse le circostanze attenuanti generiche, alla pena di mesi tre di reclusione in ordine al reato di cui agli articoli 81 e 323 Cp, perché, quale Sindaco del Comune di Sarsina, nello svolgimento delle funzioni di autorità amministrativa e sanitaria, in violazione degli articoli 28 del Dpr 357/80 e 282 e seguenti del regolamento comunale di igiene 111/86, concernenti i requisiti minimi sostanziali (superficie della cucina, bagno ad uso promiscuo, assenza della dispensa, etc.), richiesti per il rilascio dell’autorizzazione sanitaria di cui all’articolo 2 della legge 283/62, intenzionalmente procurava a Tonetti Federico, titolare e gestore dell’esercizio denominato Le maschere con le autorizzazioni provvisorie del 26 luglio 1995, del 1° agosto 1995 e del 22 dicembre 1995, vantaggi ingiusti. Il Tonetti, infatti, proseguiva l’attività di ristorazione non consentita nelle condizioni igienico-sanitarie concrete; con conseguenti danni ingiusti per i gestori degli altri due ristoranti di Sarsina (amministrativamente e sanitariamente in regola), privati di avventori, in favore di ristorante non abilitato.

Con la stessa sentenza il Tonetti veniva assolto dal delitto di concorso in abuso di ufficio per non aver commesso il fatto; nei confronti di entrambi gli imputati veniva dichiarato non doversi procedere relativamente alla contravvenzione di cui all’articolo 2 della legge 283/62, perché estinta per prescrizione.

A seguito di impugnazione del Cangini, la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della decisione di primo grado, riconosciuta all’imputato l’attenuante di cui all’articolo 323bis Cp, rideterminava la pena in mesi due di reclusione, sostituita con la multa di euro 2.280.

Osservava la Corte territoriale che, come accertato dall’Usl competente, la somministrazione dei primi e dei secondi piatti nell’esercizio Le Maschere avveniva in assenza delle prescritte condizioni igienico-sanitarie; donde la palese illegittimità, per violazione di legge, delle autorizzazioni provvisorie. Senza che, dunque, potesse rilevare la conoscenza da parte di altre autorità della situazione in cui versava l’esercizio né l’entità delle carenze accertate. La chiusura del locale, disposta dal Cangini, rappresenterebbe un post factum del tutto privo di valenza giuridica, non in grado di sanare le illegittime autorizzazione adottate.

In più, le ragioni di pubblico interesse additate dal Cangini risulterebbero ininfluenti, considerando il vantaggio arrecato al titolare dell’esercizio; un vantaggio da ritenere ingiusto in quanto conseguito in violazione della normativa igienico-sanitaria. Peraltro, aggiunge la Corte, l’eventuale coincidenza del pubblico interesse con il vantaggio ingiusto non vale ad escludere l’evento del reato, così come del tutto ininfluente si profilerebbe l’assenza di danno per gli altri esercenti di Sarsina.

Ancora, non rileverebbe l’avvenuta assoluzione del Tonetti perché quello previsto dall’articolo 323 Cp non è un reato a concorso necessario.

La sussistenza dell’elemento soggettivo sarebbe comprovata da una molteplice serie di elementi: la macroscopica illegittimità delle autorizzazioni provvisorie; il palese loro contrasto con gli accertamenti effettuati dall’Usl, competente; la sintomatica reiterazione di tali autorizzazioni, pur in assenza di un operoso comportamento del titolare dell’esercizio al fine di eliminare le carenze denunciate; i rapporti personali di amicizia e di colleganza politica esistenti tra il Cangini ed il Tonetti.

2. Ha proposto ricorso per cassazione il Cangini articolando due serie di motivi.

Con il primo si deduce violazione della legge penale ed omesso esame del motivo di appello concernente la legittimità del contegno del ricorrente considerato che le autorizzazioni provvisorie furono emesse a norma degli articoli 13, 14 e 38 della legge 873/78 (recte, n. 833).

In sostanza, il Sindaco tentò di risolvere un problema che prima di lui nessuno aveva neppure affrontato; operando in modo tale da non determinare effetti devastanti nel periodo delle celebrazioni plautine, effetti che si sarebbero verificati indebolendo il servizio di ristorazione col disporre la chiusura di uno dei tre soli esercizi operanti a Sarsina. Legittimamente adottò, dunque, un provvedimento contingibile ed urgente in modo da consentire al ristoratore di adeguare le strutture a quanto previsto dalla normativa.

La sentenza impugnata sarebbe, inoltre, illogica nella parte in cui ha ritenuto l’intenzionalità della condotta; un dato smentito, oltre tutto, dall’assoluzione del Tonetti, a riprova che i provvedimenti, pure se illegittimi, erano stati posti in essere, non con l’intenzione di favorire il suo conoscente ed amico, ma al solo fine di realizzare il contingibile ed urgente interesse pubblico.

3. Il ricorso è fondato.

Pure a prescindere dalla prima censura – palesemente inammissibile, non rilevando, nel caso di specie, la natura di ordinanza contingibile e urgente emessa dal sindaco, perché la stessa non è stata adottata certo per ragioni di sanità, ma, al contrario, risulta assente l’elemento soggettivo del reato previsto dall’articolo 323 Cp.

Se, infatti – come è dato ricavare dalla sentenza impugnata è pacifica la coincidenza del fine realizzato (anche) con interesse pubblico, non sembra che sia ipotizzabile il dolo di abuso di ufficio; l’eventuale vantaggio verrebbe, infatti a profilarsi come effetto indiretto derivante dal perseguimento del pubblico interesse; per di più facendo assumere all’assoluzione del Tonetti una significazione esponenziale nella individuazione della finalità perseguita dal Cangini, a nulla rilevando la circostanza, valorizzata dal giudice a quo, che il delitto di cui all’articolo 323 Cp non rientri nel novero dei reati a concorso necessario.

4. Sul punto relativo alla configurabilità nel caso di specie del delitto di cui all’articolo 323 Cp, occorre, anzi tutto, rammentare gli interventi normativi che hanno coinvolto, radicalmente modificandolo, il precetto ora ricordato.

Il delitto denominato abuso generico di ufficio, assolveva, nell’originario assetto codicistico, una funzione residuale, costituendo una sorta di contenitore nel quale era ricompresa ogni forma di abuso del pubblico ufficiale, che non fosse previsto come reato da una particolare disposizione di legge. In un quadro entro il quale lo statuto penale della Pubblica amministrazione, con la previsione del peculato per distrazione, della malversazione in danno di privati, dell’interesse privato in atti di ufficio, etc., era contrassegnato da un reticolo di fattispecie in grado di relegare al margine il delitto di cui all’articolo 323 Cp, fra l’altro, caratterizzato – in rapporto ai valori allora rilevanti – dall’estrema tenuità della sanzione.

L’articolo 13 della legge 86/1990, che ha completamente ridisegnato l’articolo 323 Cp, contemplava una ipotesi di reato diretta a reprimere soprattutto l’uso distorto della discrezionalità amministrativa, profilandosi in termini di sintomaticità dell’abuso il vizio di eccesso di potere dell’atto o del provvedimento; vale a dire, il compimento (o l’omissione) dell’atto come esercizio del potere per scopi diversi da quelli imposti dalla funzione predeterminata dalla legge; in tal modo, per un verso, da far assumere all’agire della Pubblica amministrazione uno scopo estraneo rispetto a quello finalizzato dalla norma e, per un altro verso, da realizzare un vero e proprio eccesso del mezzo rispetto al fine da essa presupposto (cfr. sezione sesta, 25 ottobre 1991, Giunta).

Il nucleo della fattispecie veniva peraltro collocato nel momento soggettivo, nel dolo specifico, in quanto esorbitante la stessa realizzazione di un evento antigiuridico e finalizzato ad arrecare ad altri un vantaggio ingiusto (nell’ipotesi aggravata di cui all’articolo 323, comma 2, di carattere patrimoniale) ovvero un danno ingiusto. La centralità del momento soggettivo veniva correttamente enucleata dalla giurisprudenza di questa Corte suprema nel senso sia della finalizzazione dell’abuso verso un vantaggio o un danno ingiusto sia della effettiva ingiustizia del risultato avuto di mira dall’atto. Una regola puntualmente canonizzata nell’affermazione che deve essere contra legem non solo la condotta, ma anche il fine perseguito dall’agente; cosìcché il reato in esame non sussiste quando, pur essendo illegittimo il mezzo impiegato, il fine di danno o

di vantaggio non sia di per sé ingiusto. Ciò non soltanto perché l’articolo 323 Cp menziona separatamente l’abusività della condotta e l’ingiustizia del fine, ma anche perché la ratio della norma tende a sottrarre alla sanzione penale quelle ipotesi in cui, pure se attraverso un’attività amministrativa formalmente illegittima, si persegua un fine di per sé legittimo (cfr. sezione sesta, 19 dicembre 1994, Medea). Principi ulteriormente ribaditi dalla regula iuris in base alla quale, per integrare la fattispecie di cui all’articolo 323 Cp, oltre all’abuso che caratterizza l’elemento oggettivo del reato, occorre il dolo specifico, finalizzato all’ingiusto vantaggio; con la conseguenza che non è sufficiente la coscienza e volontà dell’agente di porre in essere una condotta antidoverosa e l’illegittimità, pur macroscopica, dell’atto di ufficio, ma è necessario che l’abuso sia stato indirizzato a determinare una situazione di vantaggio contraria al diritto (sezione sesta, 20 aprile 1995, Pasetti; cfr., analogamente, 7 marzo 1995, Bussolati; 5 aprile 1994, Presutto).

Il tutto secondo i tracciati interpretativi seguiti da questa Corte, costante nel ritenere che in tema di abuso di ufficio assumono rilievo sia l’atto (o il comportamento) singolarmente valutato (qualora esso esprima ex se il perseguimento di un fine diverso rispetto al fine tipico) sia quegli elementi sintomatici che, apparentemente estranei all’atto (o al comportamento), consentono una verifica di più ampio contesto; così da dar rilievo ai presupposti di fatto in cui si esprime l’abuso, attraverso il coinvolgimento di singoli comportamenti o di singole serie comportamentali antecedenti, concomitanti ovvero anche successivi all’atto (o al comportamento) che designa l’abuso stesso (cfr., ex plurimis, sezione sesta, 30 giugno 1993, Bisogno).

Dal criterio della doppia ingiustizia, emergente anche in chiave semantica dall’articolo 323, comma 1, Cp, quale risultante dalla novella del 1990, deriva che l’ingiustizia del fine non può considerarsi insita nell’ingiustizia del mezzo, nel senso che la seconda deve comunque manifestarsi all’esterno attraverso la violazione dei principi di imparzialità e buon andamento della Pubblica amministrazione. Ne discende che il vantaggio ingiusto, coincidendo con il fine perseguito dall’agente, diviene parte integrante dell’elemento soggettivo. Dunque, anche quest’ultimo resta designato da una duplice qualificazione: come dolo generico, connotante l’abuso; come dolo specifico, esorbitante rispetto a questo, ma interdipendente dal momento soggettivo della condotta abusiva, tanto da rappresentare un continuum nei confronti del momento soggettivo generico e da risultare, nella sua qualificazione finalistica, astrattamente inscindibile rispetto a questo.

Ora, poiché il fine deve essere quello di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio (o di cagionare ad altri un danno), il contenuto teleologico viene a scorporarsi dal momento oggettivo, tanto da consentire l’ulteriore accertamento della sua presenza a prescindere dalla finalità generica e dalla finalità specifica.

E questo dato oggettivo andrebbe individuato nella soluzione di un conflitto di interessi (l’uno e l’altro direttamente o anche soltanto indirettamente rilevanti sul piano pubblicistico) secondo regole che, anziché informate al principio di imparzialità, mirino a comporre tale conflitto tutelando posizioni giuridiche non meritevoli di protezione proprio in forza del preminente interesse del soggetto agente o di altri soggetti destinatari del provvedimento (ovvero anche del comportamento), interesse assunto come dato esponenziale dell’atto, del provvedimento (ovvero del comportamento) stesso (v. sezione sesta, 14 dicembre 1995, Marini).

Rigorosamente circoscritto entro i confini dell’elemento soggettivo era, pertanto, il danno o il vantaggio ingiusto, a nulla rilevando che il soggetto non fosse riuscito a realizzare lo scopo, così da profilarsi la fattispecie in parola come reato a consumazione anticipata. Pur dovendosi considerare come, nel concreto, l’emanazione dell’atto o del provvedimento (e la sua conseguente esecutorietà) diveniva, di regola, l’unico segnale dal quale era ricavabile l’abuso dell’ufficio (o del servizio).

Nonostante gli indirizzi giurisprudenziali sopra richiamati avessero delimitato, soprattutto sotto il profilo funzionale (ma con inevitabili riverberi anche sullo schema strutturale della fattispecie), la norma dell’articolo 323 Cp – la cui centralità nel sistema dei reati contro la Pubblica amministrazione risultava, oltre che dalla corrispondente soppressione dei reati di interesse privato in atti di ufficio e di peculato per distrazione,. dalla significativa elevazione della sanzione prevista dall’editto – era conformata in modo così generico (sintomatica è la permanenza nel testo dell’articolo 323 novellato dell’espressione abuso, ancora una volta designante la condotta tipica) da apparire dotata di una tale potenzialità espansiva ai fini della perseguibilità dell’illecito amministrativo, da indurre il legislatore a riformulare il precetto allo scopo, per un verso, di limitarne la versatilità così da delineare uno schema solo in parte corrispondente ai risultati cui era approdato il diritto vivente scaturente dalla giurisprudenza prima richiamata e, per un altro verso, di ridurre la misura della pena edittale, secondo un modello chiaramente rivolto a precludere che il fumus delicti potesse comportare limitazioni, in via cautelare, della libertà, dell’indagato o imputato di abuso di ufficio, oltre che compressioni della sua privacy ai sensi dell’articolo 266 e segg. Cpp. Il prezzo pagato ad una tale opera di revisione è stato indubbiamente assai caro, tanto da rimuovere i sottili equilibri che sorreggono l’intero statuto dei reati contro la Pubblica amministrazione, soprattutto con riferimento al sistema sanzionatorio del delitto di cui all’articolo 323 Cp, così poco efficace da risultare irragionevole rispetto ad altri fatti reato relativamente ai quali l’esigenza punitiva non ha subito variazioni di sorta.

6. L’articolo 1 della legge 234/97, che ha sostituito l’articolo 323 Cp, ha, in primo luogo, ancorato la configurabilità della condotta materiale alla violazione di leggi o di regolamenti, così da circoscrivere univocamente in ambiti definiti gli estremi ed i presupposti del comportamento punibile; per di più, realizzabile solo in quanto le dette condotte vengano poste in essere, per il pubblico ufficiale nello svolgimento della funzione e per l’incaricato di un pubblico servizio nello svolgimento del servizio.

Quel che peraltro diviene decisivo ai fini di una corretta comprensione dello ius novum è una sorta di emarginazione (bilanciata, però, dall’inscindibile collegamento con l’evento) dell’elemento soggettivo. A differenza dell’articolo 323 previgente che configurava l’abuso di ufficio come reato a consumazione anticipata, fondamentalmente incentrato sul dolo specifico, sulla finalità di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio (se patrimoniale, con elevazione della pena da un minimo di due a un massimo di cinque anni di reclusione) o di arrecare ad altri un danno ingiusto (senza che rilevasse ai fini sanzionatori la natura patrimoniale del danno), il legislatore del 1997 ha configurato l’abuso di ufficio come reato di danno (nel senso dell’emersione di una diversa offensività), richiedendo che venga procurato a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrecato un danno ingiusto, così da spostare in avanti la realizzazione della fattispecie. La tipicità del fatto, quindi, con la novella, non viene più affidata al contenuto di un dolo specifico; la conformità al modello legale dell’incriminazione si ricava, infatti, attraverso una più precisa modulazione del lessico rilevante sul piano prescrittivo, in funzione di esigenze teleologiche puntualmente ricavabili dai lavori preparatori della legge 234/97. Delineando forme vincolate di condotta ed arricchendo la fattispecie di un elemento ulteriore costituito dalla effettiva realizzazione di un vantaggio patrimoniale per il pubblico ufficiale ovvero per altri o di danno altrui; vantaggio o danno contra ius (cfr. sezione sesta, 17 ottobre 1997, Vitarelli; 17 dicembre 1997, Testa).

Nella nuova formulazione, l’abuso è punito a titolo di dolo generico, per di più caratterizzato dal requisito della intenzionalità, restringendosi, in tal modo, l’operatività del momento soggettivo al dolo di evento, con esclusione della rilevanza del cosìddetto dolo eventuale (sezione sesta, 2 ottobre 1997, Angelo; 17 dicembre 1997, Testa; 14 gennaio 1998, Branciforte). Il che condurrebbe a ritenere che, penetrando l’ingiustizia del danno o del vantaggio nella struttura dell’evento, la stessa qualifica di dolo diretto che contrassegna l’elemento soggettivo del reato in parola comporta che anche il dato di qualificazione debba essere preveduto e voluto.

7. Muovendo dagli approdi interpretativi cui è pervenuta la giurisprudenza di questa Corte suprema, costanti nel senso che, in tema di abuso di ufficio, nella formulazione dell’articolo 323 Cp introdotta dalla legge 234/97, l’uso dell’avverbio l’intenzionalmente, per qualificare il dolo ha voluto limitare il sindacato del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad arrecare un ingiusto danno, appare evidente che, qualora nello svolgimento della funzione amministrativa il pubblico ufficiale si prefigga di realizzare un interesse pubblico legittimamente affidato all’agente dall’ordinamento (non un fine privato per quanto lecito,

collettivo, né un fine privato di un ente pubblico e nemmeno un fine politico), pur giungendo alla violazione di legge e realizzando un vantaggio al privato, deve escludersi la sussistenza del reato. E, proprio in una fattispecie relativa alla condotta del sindaco di un Comune sito in zona turistica che aveva rilasciato un certificato di abitabilità e di agibilità di un complesso turistico in violazione delle norme in materia urbanistica e sanitaria che imponevano il previo rilascio di una concessione edilizia in sanatoria, subordinata a nulla osta ambientale, allo scopo di perseguire il fine pubblico di assicurare la stagione turistica del Comune che fonda la sua economia esclusivamente sul turismo, questa Corte ha ritenuto insussistente l’elemento soggettivo del reato (sezione sesta, 22 novembre 2002, Casuscelli di Tocco).

Una vicenda analoga a quella che risulta essersi verificata nel caso di specie, considerata la finalità perseguita dall’imputato e riconosciuta, sia pure in parte, dalla sentenza impugnata il cui intento di favorire il titolare de Le Maschere, non rappresentò certo lo scopo primario dei provvedimenti adottati, occorrendo far fronte ad una situazione emergenziale per la vita turistica di Sarsina nel corso delle celebrazioni plautine.

7. L’emergere l’assenza dell’elemento soggettivo dalla stessa motivazione della sentenza impugnata esime questa Corte dall’annullare con rinvio la predetta decisione, potendo essa stessa provvedere, previa applicazione dell’articolo 620, lettera l) Cpp, a dichiarare l’insussistenza del fatto reato per cui è intervenuta condanna.

PQM

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.