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Monday 11 May 2020

Il datore di lavoro non può negare lo smart working, in maniera irragionevole o discriminatoria al lavoratore una volta accertata la sussistenza delle condizioni per ricorrere al lavoro agile.

Ai sensi dell’art. 39, co. 2, D.l. n. 18/2020, ai lavoratori del settore privato affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa è riconosciuta la priorità nell’accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile ai sensi degli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n 81. Ove il datore di lavoro privato sia nelle condizioni di applicare il lavoro agile, il ricorso alle ferie non può essere indiscriminato, ingiustificato o penalizzante, soprattutto laddove vi siano titoli di priorità per ragioni di salute. Consegue che, accertata la sussistenza delle condizioni per ricorrere al lavoro agile, il datore di lavoro non può agire in maniera irragionevolmente o immotivatamente discriminatoria nei confronti di questo o quel lavoratore, tantomeno laddove vi siano titoli di priorità legati a motivi di salute.
Principio affermato dal Tribunale di Grosseto, Giudice del Lavoro dott. Giuseppe Grosso, con ordinanza pronunciata in data 23 aprile 2020.

La vicenda: ricorso ex art. 700 cpc proposto da lavoratore, portatore di patologia invalidante, cui era stato negata la possibilità di svolgere “lavoro agile””.
Un lavoratore dipendente privato, con mansioni di impiegato, promuoveva ricorso d’urgenza ex articolo 700 cpc, al fine di veder riconosciuto il proprio diritto a svolgere lavoro agile al proprio domicilio, anziché usufruire di ferie imposte dal datore di lavoro. Faceva presente di rientrare nella tipologia di lavoratori prevista dal comma 2 dell’art. 39 del D. l. n. 18 del 2020 in materia di misure atte a contenere il contagio da Covid 19, in quanto affetto da patologia respiratoria, in conseguenza della quale era stato attestato da medico l’inidoneità a svolgere attività lavorativa nel posto di lavoro, per l’elevato rischio di contrarre il virus patogeno. Peraltro, eccepiva il lavoratore, agli altri colleghi di reparto era stato concesso lo svolgimento dello smart working; e di conseguenza non vi era ragione logica per negargli tale possibilità, con correlativa imposizione di ferie o di sospensione non retribuita della prestazione lavorativa. Si costituiva in giudizio l’azienda resistente eccependo in primis l’ammissibilità di una condanna ad un facere infungibile e rilevando comunque l’insussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora quali requisiti necessari del ricorso cautelare.

Sulla domanda di condanna ad un facere infungibile
La decisione esaminata costituisce una interessante pronuncia in materia di svolgimento dello “smart working” previsto dalla legge n. 81 del maggio 2017 e fortemente caldeggiata dalle attuali norme introdotte dal legislatore per prevenire il diffondersi del Covid 19. Pronuncia che, stante il ristrettissimo lasso temporale entro cui trovare efficacia, doveva avere caratteri di immediata e concreta rilevanza coercitiva.
Il giudice del lavoro di Grosseto analizza prima di tutto l’ammissibilità delle domande di condanna ad un facere infungibile. Afferma che, giurisprudenza di merito e di legittimità della Suprema Corte, hanno ritenuto l’ammissibilità di un provvedimento d’urgenza di condanna ad un facere infungibile, dandosi atto che la pronuncia, per quanto impositiva di un obbligo incoercibile, costituisce, comunque, uno strumento di “coazione indiretta”. Implicando un accertamento dell’illecito, va da sé che, in caso di inosservanza, si avrebbe quale conseguenza la successiva richiesta di risarcimento dei danni. E sempre che, ovviamente, durante il tempo occorrente per far valere il diritto in via ordinaria sussista il pericolo imminente e irreparabile della lesione di posizioni sostanziali di carattere assoluto del ricorrente. Sotto altro profilo è stata valorizzata l’idoneità di siffatti provvedimenti ad esercitare una certa pressione sull’obbligato ai fini del suo adempimento volontario. La condanna ad un facere infungibile è stata ritenuta ammissibile anche sul presupposto che la parte soccombente potrebbe comunque dare volontaria esecuzione al provvedimento d’urgenza.

La portata dell’art. 39 del D.l. n. 18/2020
A partire dal mese di febbraio di quest’anno sono stati emanati numerosi provvedimenti emergenziali allo scopo di contenere la diffusione del Covid-19.  Tutta la normativa straordinaria ed urgente cerca di coniugare la salvaguardia dell’attività lavorativa (soprattutto nei settori considerati essenziali) con le esigenze di tutela della salute e di contenimento della diffusione dell’epidemia. In tale contesto, il ricorso al lavoro agile, disciplinato in via generale dalla legge 22 maggio 2017, n. 81, è stato considerato una priorità. Per ovvie ragioni, tale modalità lavorativa non può, né poteva, essere imposta in via generale ed indiscriminata; tuttavia è stata, reiteratamente e fortemente, raccomandata ed addirittura considerata modalità ordinaria di svolgimento della prestazione nella P.A.
Con particolare riguardo al caso in esame, trova rilievo il comma 2 del citato art. 39, che espressamente prevede che “ai lavoratori del settore privato affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa è riconosciuta la priorità nell’accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile ai sensi degli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81”. Ora, appare incontestato e così provato in giudizio, che il lavoratore ricorrente rientri nella fattispecie di grave patologia invocata dal comma 2 citato. E, parallelamente, l’azienda resistente non ha dato prova dell’impossibilità di ricorrere al lavoro agile; anzi, è emerso in giudizio che tutti i colleghi del ricorrente fossero stati messi nelle condizioni di svolgere il loro lavoro impiegatizio presso il domicilio. Dunque, accertata la sussistenza delle condizioni per ricorrere al lavoro agile, come nel caso esaminato, il datore di lavoro non può agire in maniera irragionevolmente o immotivatamente discriminatoria nei confronti di questo o quel lavoratore, tantomeno laddove vi siano titoli di priorità legati a motivi di salute. il rifiuto di ammettere il ricorrente al lavoro agile e la correlata prospettazione della necessaria scelta tra la sospensione non retribuita del rapporto e il godimento forzato di ferie non ancora maturate sono stati pertanto ritenuti illegittimi dal Tribunale del lavoro. Sussistendo così il requisito del fumus boni iuri.

Il periculum in mora. 
Il giudice del lavoro ritiene sussistere altresì il cd. periculum in mora atteso che il ricorrente, non potendo rientrare fisicamente in azienda almeno fino al 30 aprile 2020 ed avuto riguardo al tempo ordinariamente occorrente per fare valere i propri diritti in via ordinaria, si troverebbe di fronte alla scelta tra due distinte, ingiustificabili, rinunce: alla retribuzione o al godimento annualmente ripartito delle ferie come via via maturate in ragione del lavoro prestato. In entrambi i casi con sicura compromissione di diritti fondamentali ed intangibili del lavoratore.  Tale comprovata, specifica, circostanza di fatto ha indotto il Tribunale a ritenere sussistente il pericolo di un pregiudizio imminente ed irreparabile e dunque esistente il concreto pericolo di lesione di beni patrimoniali e non patrimoniali non integralmente risarcibili per equivalente.
In conclusione, il ricorso è stato accolto, ordinando all’azienda con effetto immediato e sino al 2 maggio 2020 (data di cessazione delle restrizioni di cui alle norme Covid 19), di consentire al ricorrente lo svolgimento delle mansioni contrattuali in modalità di lavoro agile; e fissando nella misura di euro 50 al giorno la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del presente provvedimento. Con condanna infine alla rifusione delle spese di lite.

Avv. Roberto Dulio