Penale

Saturday 17 April 2004

La sentenza della Corte Costituzionale sul Lodo Schifani.

La sentenza della Corte Costituzionale sul Lodo Schifani.

Corte costituzionale – sentenza
7-16 aprile 2004, n. 120

Presidente Zagrebelsky
– Relatori Mezzanotte e Capotosti

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza emessa il 10
luglio 2003 nel corso del giudizio penale nei confronti del parlamentare M. D.
per il reato di cui agli articoli 595, terzo comma, del Cp
e 13 della legge 47/1948 (Disposizioni sulla stampa), il Tribunale di Roma, IV
sezione penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 3, comma 1, della legge 140/03 (Disposizioni per l’attuazione
dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia
di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), denunciandone
il contrasto con gli articoli 68, primo comma, 24, primo comma, e 3 della
Costituzione.

1.1. Espone in fatto il
rimettente che, all’esito dell’udienza preliminare del 12 aprile 2001, il
parlamentare M. D. veniva rinviato a giudizio per
rispondere dell’imputazione di diffamazione aggravata a mezzo stampa, perché
nel corso di una intervista – pubblicata in un quotidiano del 4 ottobre 1999,
nell’articolo intitolato «Chi mi vuole in galera non ha letto le carte» e
sottotitolato «Il deputato: i giudici di Palermo sono pazzi» – rilasciata a
seguito della richiesta di custodia cautelare formulata dalla Procura della
Repubblica di Palermo, nella persona dei magistrati Gian
Carlo Caselli, Guido Lo Forte, Domenico Gozzo, Antonio Ingroia,
Mauro Terranova, Lia Sava ed Umberto De Giglio,
offendeva la reputazione di questi ultimi pronunciando, in risposta ad una
domanda della giornalista («Una battuta sui Pm di
Palermo»), le seguenti affermazioni: «Sono dei pazzi, pazzi come Milosevic».

Il giudice a quo prosegue
ricordando che nel corso dell’udienza dibattimentale del 1° luglio 2003 la
difesa dell’imputato eccepiva l’insindacabilità, ex
articolo 68 Costituzione, delle dichiarazioni oggetto dell’imputazione e, in
base alla disciplina dettata dalla sopravvenuta legge 140/03, chiedeva
l’assoluzione ai sensi dell’articolo 129 Cpp ovvero,
in subordine, la trasmissione alla Camera dei deputati di copia degli atti del
procedimento al fine della deliberazione di quest’ultima
in ordine all’insindacabilità.
A siffatte richieste si opponevano sia il Pm, sia la
difesa delle parti civili costituite: il primo contestando anzitutto
l’applicabilità al caso di specie della legge 140/03 ed entrambi sollecitando comunque la proposizione della questione di costituzionalità
dell’articolo 3 della legge medesima.

1.2. Tanto premesso, il Tribunale
rimettente osserva in primo luogo che i fatti oggetto di giudizio penale a
carico del parlamentare M. D. devono ritenersi ricompresi
nella nozione di insindacabilità
delle opinioni espresse dai parlamentari che deriva dall’articolo 3, comma 1,
della legge 140/03, il quale stabilisce che l’articolo 68, primo comma,
Costituzione si applica anche «per ogni altra attività […] di critica e
denuncia politica, connessa alle funzioni di parlamentare, espletata anche
fuori del Parlamento». Secondo il giudice a quo, trattandosi di dichiarazioni
rilasciate dal deputato ad un quotidiano «lo stesso giorno in cui la Giunta per
le autorizzazioni a procedere aveva dato parere favorevole al suo arresto,
richiesto dalla Procura della Repubblica di Palermo», le stesse sarebbero
riconducibili all’ambito di applicazione della citata
disposizione, tenuto conto dell’“ampia e generale previsione della norma”,
nonché della «circostanza della contiguità temporale tra il parere favorevole
della Giunta e le espressioni contestate».

Ne consegue, ad avviso del
rimettente, che l’imputato dovrebbe essere assolto ai
sensi dell’articolo 129 Cpp, come previsto dal comma
3 dello stesso articolo 3 della legge 140/03: donde la rilevanza della
questione concernente il comma 1 del medesimo articolo 3, e non già delle altre
disposizioni dello stesso articolo, delle quali il Tribunale afferma non
dovere, allo stato, fare applicazione.

Sostiene peraltro il giudice a
quo che la rilevanza della questione non verrebbe meno in ragione del fatto che
la questione di costituzionalità verte su “norme penali di favore”, talché
l’imputato dovrebbe essere in ogni caso prosciolto per il principio di irretroattività della legge penale. Alla luce di quanto
statuito dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze 148/83, 167/93 e
25/1994), ciò non sarebbe infatti preclusivo della
proposizione dell’incidente di costituzionalità perché la Corte potrebbe
assumere «una serie di decisioni certamente suscettibili di influire sugli
esiti del giudizio penale».

1.3. Quanto alla non manifesta
infondatezza, il rimettente osserva anzitutto che il censurato articolo 3,
comma 1, «anziché limitarsi ad attuare l’articolo 68, primo comma,
Costituzione, ha finito […] per modificarne sensibilmente la portata». Difatti,
ad avviso del Tribunale di Roma, la norma costituzionale limiterebbe la
garanzia della insindacabilità
«alle sole opinioni riconducibili agli atti e alle procedure specificamente
previsti dai regolamenti parlamentari; alle opinioni, cioè, espresse
nell’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche». Di qui la necessità,
affinché la prerogativa dell’articolo 68 Costituzione possa operare anche per
le dichiarazioni rese al di fuori del Parlamento, della “sostanziale corrispondenza”
di significato con opinioni già espresse o contestualmente espresse
nell’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche.

Tale sarebbe, secondo il giudice
a quo, l’interpretazione dell’articolo 68 Costituzione data dalla stessa Corte
costituzionale con le sentenze 10 e 11/2000 e successivamente
sempre ribadita, con l’ulteriore precisazione che «la mera connessione con la
funzione parlamentare, il semplice collegamento di argomento tra attività
parlamentare e dichiarazione, la mera comunanza di tematiche, il riferimento al
contesto politico parlamentare», non costituiscono elementi sufficienti a
rendere applicabile la prerogativa dell’insindacabilità.

Alla luce di tali considerazioni
il giudice rimettente sostiene dunque che la nozione di insindacabilità che si evince dall’articolo 3, comma 1,
della legge 140/03 si porrebbe in contrasto «con l’interpretazione
dell’articolo 68, primo comma, Costituzione costantemente accolta dalla Corte
costituzionale e con le esigenze di certezza e garanzia ad essa sottese». La
disposizione denunciata stabilisce infatti che
l’articolo 68 Costituzione non debba applicarsi soltanto alle opinioni espresse
nell’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche, ma anche ad ogni altra
dichiarazione – “di divulgazione, di critica, di denuncia politica” – la quale
sia comunque “connessa alla funzione parlamentare, espletata anche al di fuori
del Parlamento” e non invece circoscritta “a riportare quanto già manifestato
in un atto parlamentare”. In tal modo, secondo il rimettente, si verrebbe ad
introdurre, “per il tramite di una legge ordinaria”, una nozione di insindacabilità che la stessa
Corte costituzionale, a partire dalle sentenze innanzi ricordate, «ha
censurato, ritenendola in contrasto con l’articolo 68, primo comma, Costituzione»
e ciò in quanto la garanzia costituzionale coprirebbe dichiarazioni
«difficilmente determinabili a priori, del tutto slegate dalle procedure
parlamentari tipiche e da quelle forme di controllo ad esse inerenti, tramite
le quali si realizza il bilanciamento tra prerogative dell’istituzione
parlamentare e tutela dell’individuo».

Il giudice a quo afferma,
pertanto, che la disposizione denunciata si collocherebbe oltre i limiti
stabiliti dall’articolo 68 Costituzione e “la sua introduzione con semplice
legge ordinaria” violerebbe anche l’articolo 24 Costituzione, «comprimendo i
diritti della persona offesa dal reato, senza che tale lesione sia legittimata
da fonte di pari grado».

Infine il rimettente deduce il
contrasto della norma censurata con l’articolo 3 Costituzione, sotto il profilo
della violazione del principio di eguaglianza:
principio al quale l’articolo 68, primo comma, della Costituzione apporta una
deroga nei limiti innanzi precisati e che non potrebbe essere legittimante
derogato «attraverso una legge ordinaria che introduca, solo per una
determinata categoria, una causa di (non) punibilità che non si applica alla
generalità dei consociati».

2. Si è costituito in giudizio il
dott. Gian Carlo Caselli, parte civile nel giudizio a quo, per sentir
dichiarare l’incostituzionalità dell’articolo 3, comma 1, della legge 140/03,
previa riunione del presente giudizio con quello relativo
alla questione sollevata dal Gip del Tribunale
di Milano con ordinanza iscritta al r. o. n. 715 del 2003.

Ad avviso della difesa della
parte costituita, la disposizione denunciata estenderebbe l’applicazione della
prerogativa costituzionale anche ad atti che non presentano una reale
connessione con le funzioni e le opinioni di cui all’articolo 68 Costituzione,
sicché non di vera attuazione di quest’ultima norma
si tratterebbe, bensì dell’introduzione di un’autonoma fattispecie che
inserirebbe nello stesso articolo 68 “una garanzia ulteriore,
non prevista dalla Carta costituzionale”, ciò che sarebbe precluso al legislatore
ordinario apportare.

La parte sostiene inoltre che la
disposizione censurata violerebbe sia il principio di eguaglianza
di cui all’articolo 3 Costituzione, quale “vincolo comune a tutte le leggi
ordinarie”, sia l’articolo 24 Costituzione, comprimendo i diritti della persona
offesa dal reato senza che tale lesione “sia legittimata da una fonte di pari
grado”. La persona offesa sarebbe quindi privata della tutela giurisdizionale, venendo lasciato in via esclusiva alla maggioranza
parlamentare il giudizio sulla sussistenza di una connessione tra dichiarazioni
e funzione parlamentare. A tal riguardo, si osserva nella memoria, la stessa
Corte europea dei diritti dell’uomo ha di recente sottolineato
la differenza che intercorre tra le “mere dispute private” ed il concetto di
connessione tra opinioni e funzioni parlamentari, precisando che non potrebbe
esservi divieto di accesso alla giustizia per il solo motivo che la disputa
riguarderebbe “ragioni politiche”; se così fosse, infatti, si violerebbe
l’articolo 6, § 1, della Carta europea dei diritti dell’uomo giacché il
cittadino non potrebbe reagire ad offese nei suoi confronti ed ottenere il
danno eventualmente patito.

3. È intervenuto in giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile o comunque infondata.

Quanto all’inammissibilità, la
difesa erariale osserva anzitutto che il rimettente, a fronte di un’eccezione
riguardante l’operatività dell’articolo 68 Costituzione, non ritenendo di
applicare il disposto dell’articolo 3, comma 3, della legge 140/03, avrebbe dovuto applicare, senza ritardo, il comma 4 dello
stesso articolo 3. Il giudice a quo, al contrario, non menziona neppure tale
ultima disposizione e solleva “anticipatamente” una questione di
costituzionalità “che avrebbe potuto e potrebbe risultare
non rilevante” in esito alla deliberazione della Camera di appartenenza del
parlamentare. In definitiva, secondo l’Avvocatura, «il rimettente ipotizza un
giudizio di legittimità costituzionale non incidentale ad un eventuale
conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ma
potenzialmente preclusivo delle valutazioni della Camera competente».

Altra ragione di
inammissibilità risiederebbe, secondo la difesa erariale, nel fatto che
il giudice a quo non precisa i motivi del contrasto con i parametri evocati
dell’inciso “connessa alla funzione parlamentare” (anche se espletata extra moenia) contenuto nel comma 1 dell’articolo 3; inciso che
esprimerebbe invero la nozione di “delimitazione funzionale” o “nesso
funzionale” elaborata dalla giurisprudenza costituzionale.

Sostiene infine l’Avvocatura che
la questione sarebbe, in subordine, “palesemente” infondata: la formulazione
dell’ultima parte del comma 1 dell’articolo 3 non si
discosterebbe dal testo dell’articolo 2, comma 3, dell’ultimo dei decreti-legge
menzionati nell’articolo 8 della stessa legge 140/03 e, peraltro, utilizzandosi
il termine “connessa” invece di “collegata”, si presenterebbe più restrittiva
anche di quella contenuta nell’articolo 2, comma 1, della proposta di legge
Atto Camera n. 185 della XIV legislatura.

4. Con memoria successivamente
depositata, la parte costituita, dott. Gian Carlo Caselli, argomenta
ulteriormente a sostegno delle ragioni di incostituzionalità della norma
denunciata, ribadendone l’illegittimità in riferimento all’articolo 68
Costituzione, del quale sarebbe estesa inammissibilmente
l’applicabilità; sussisterebbe altresì il contrasto con il principio di
eguaglianza di cui all’articolo 3 Costituzione e con l’articolo 24
Costituzione, per il sacrificio che subirebbe il «diritto di azione e di difesa
riconosciuto al terzo che ritiene di aver subito dal parlamentare una lesione
dei propri diritti all’onore e alla reputazione», diritti che a loro volta
trovano fondamento nell’articolo 2 Costituzione.

La difesa della parte costituita conclude quindi sostenendo che, in presenza di una
fattispecie che pone in conflitto il principio di garanzia dell’attività
parlamentare con i principî costituzionali appena enunciati, il “giusto
bilanciamento” era stato già effettuato, “in assenza di una disciplina attuativa dell’articolo 68”, dalla Corte costituzionale con
la sua giurisprudenza, mentre la disposizione denunciata opererebbe un
“bilanciamento completamente diverso”, che però comprimerebbe, fino ad
annullarli, “il principio di eguaglianza di fronte alla giustizia, il diritto
di difesa, lo stesso principio di eguaglianza politica”: si tratterebbe dunque
di un “bilanciamento irragionevole”.

5. Con ordinanza 2 luglio 2003,
il Gip del Tribunale di Milano ha sollevato questione
di legittimità costituzionale dell’articolo 3, commi 1, 3, 4, 5 e 7, della
legge del 2003, n.140, in
riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione.

La questione è stata sollevata
nell’ambito di procedimento penale e nel corso della udienza
preliminare conseguente a richiesta di rinvio a giudizio del parlamentare M. D.
ed altri, imputati del delitto di diffamazione aggravata ai danni di alcuni
magistrati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo,
mediante la pubblicazione in un quotidiano di due articoli, il 10 marzo 1999 e
il 15 luglio 1999, ritenuti offensivi della reputazione dei predetti
magistrati.

5.1. Nella ordinanza
di rimessione si precisa che i difensori del
parlamentare M.D. avevano richiesto la immediata pronuncia di proscioglimento
ex articolo129 Cpp per la sussistenza dell’esimente
di cui all’articolo 68 della Costituzione ovvero, in subordine, la sospensione
del procedimento soltanto per l’imputato M. D. ex articolo 3 legge 140/03;
mentre il Pm e le parti civili costituite avevano
eccepito l’incostituzionalità del procedimento incidentale predisposto
dall’articolo 3, commi 1, 3, 4, 5 6, 7 e 8, della legge 140/03 in riferimento
agli articoli 3, 24, 101 e 112 della Costituzione.

Il giudice a quo impugna le norme
di cui ai commi 1, 3, 4, 5 e 7 dell’articolo 3 della predetta legge 140/03,
nella parte in cui, tra l’altro con legge ordinaria e non con legge
costituzionale, estendono l’applicabilità del primo comma dell’articolo 68
della Costituzione ad «…ogni altra attività di ispezione,
di divulgazione, di critica, di denuncia politica connessa alla funzione di
attività parlamentare, espletata anche fuori dal Parlamento…», non limitandola
alla presentazione di disegni di legge, di emendamenti, di ordini del giorno,
di mozioni, di risoluzioni, di interpellanze e di interrogazioni nonché agli
interventi nelle assemblee e negli altri organi delle Camere ed a qualsiasi
espressione di voto comunque formulata; nonché nella parte in cui impone al
giudice, quando in un procedimento penale è rilevata o eccepita l’applicabilità
dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione, e ove non ritenga
applicabile la guarentigia costituzionale, di trasmettere con ordinanza non
impugnabile e senza ritardo direttamente copia degli atti alla Camera alla
quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento del fatto.

5.2. Nell’ordinanza si richiama
la giurisprudenza costituzionale che ha ancora affermato che la prerogativa di
cui all’articolo 68, comma primo, della Costituzione non copre tutte le
opinioni espresse dal parlamentare nello svolgimento della sua attività
politica, ma solo quelle legate da nesso funzionale con le attività svolte nella qualità di membro della Camera, riconoscendo che
costituiscono opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni quelle
manifestate nel corso dei lavori della Camera e dei suoi vari organi ovvero
manifestate anche in atti individuali costituenti estrinsecazioni delle facoltà
proprie del parlamentare in quanto membro dell’Assemblea.

5.3. La estensione
dell’immunità parlamentare, in mancanza delle condizioni richieste dalla norma
costituzionale, comporta, ad avviso del giudice a quo,la violazione dell’articolo
3 della Costituzione per disparità di trattamento con i cittadini che non
rivestono la qualità di parlamentare, nonché dell’articolo 24 della
Costituzione poiché priverebbe la persona offesa della tutela dei propri
diritti.

5.4. In punto di rilevanza, il
rimettente osserva che le valutazioni imposte dall’articolo 3, commi 3 e 4,
della legge 140/03 – il proscioglimento ex articolo
129 Cpp ovvero la sospensione del processo e
l’immediata trasmissione di copia degli atti alla Camera di appartenenza del
parlamentare – devono essere effettuate nell’udienza preliminare, in base ai
parametri previsti dal comma primo del medesimo articolo 3.

6. Nel giudizio è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che la Corte dichiari
inammissibile e, comunque, manifestamente infondata la sollevata questione di
legittimità costituzionale.

Preliminarmente, la difesa
erariale osserva che il giudice a quo avrebbe dovuto,
una volta deciso di non pronunciare sentenza di proscioglimento ex articolo 129
Cpp, trasmettere direttamente “senza ritardo” copia
degli atti alla Camera di appartenenza del membro del Parlamento, come
stabilito dall’articolo 3, comma 4, della legge n. 140 del 2003.

Il giudice rimettente avrebbe,
invece, prospettato “anticipatamente” una questione che “avrebbe potuto e
potrebbe” risultare non rilevante in esito alla
deliberazione del Senato.

La questione sarebbe, comunque, inammissibile in quanto il giudice a quo non avrebbe
esposto, con specifico riferimento a ciascuna delle norme indicate
nell’ordinanza, le ragioni del dubbio di legittimità costituzionale. Nel
merito, la difesa erariale ritiene la questione infondata, in
quanto la formulazione dell’ultima parte del comma primo del citato
articolo 3 non si discosterebbe “sensibilmente” da quella dell’articolo 2,
comma 3, dell’ultimo dei molti decreti-legge elencati nell’articolo 8 legge
140/03.

7. Si sono costituite le parti
civili presenti nel giudizio principale, aderendo in toto
alle argomentazioni svolte nell’ordinanza di rimessione.

La difesa delle parti costituite
segnala ulteriormente la decisione 31 gennaio 2003 della Corte europea dei
diritti dell’uomo secondo cui vi é violazione dell’articolo 6, paragrafo 1,
della Carta europea dei diritti dell’uomo allorché, senza valide ragioni, si inibisca al cittadino la possibilità di reagire ad offese
formulate nei suoi confronti, e conseguentemente anche di ottenere la
riparazione del danno subito.

7.1. Nell’imminenza della udienza pubblica, hanno depositato memorie le parti
civili, insistendo nelle conclusioni già rassegnate.

8. Con
ordinanza emessa in data 17 settembre 2003, il Tribunale di Bologna, I sezione
penale, nel corso del procedimento penale a carico del parlamentare V.
S. – imputato, in concorso con G. C., di diffamazione aggravata, per avere
rilasciato dichiarazioni ritenute gravemente offensive della reputazione del
magistrato Giancarlo Caselli, all’epoca procuratore della Repubblica di
Palermo, pubblicate in un articolo di stampa di un quotidiano del quale il
coimputato G. C. era direttore responsabile – ha
sollevato, su eccezione della parte civile e degli imputati, questione di
legittimità costituzionale dello stesso articolo 3, comma 1, della legge
140/03, per contrasto con gli articoli 3, 68, primo comma, 24 e 117 della
Costituzione.

8.1. Premette il giudice a quo
che, in data 27 maggio 2003, era intervenuta la delibera della Camera dei
deputati, comunicata nel corso della udienza
dibattimentale del 28 maggio 2003, con la quale era stata recepita la proposta
della Giunta per le autorizzazioni a procedere di dichiarare che i fatti per i
quali è in corso il procedimento penale concernono opinioni espresse dal
parlamentare stesso nell’esercizio delle sue funzioni ai sensi del primo comma
dell’articolo 68 della Costituzione, in quanto sostanzialmente corrispondenti,
quanto al contenuto, a quelle riportate in una interrogazione a risposta orale.
Pervenuta la relativa documentazione nel corso della udienza
dibattimentale, il giudice a quo aveva disposto un rinvio preliminare alla
udienza del 17 settembre 2003.

Nelle more del rinvio, era
entrata in vigore la legge 140/03, il cui articolo 3,
comma 1, ridefinisce l’ambito di applicazione dell’articolo 68, primo comma, della
Costituzione. Giusta il combinato disposto dei commi 3 e 8 dell’articolo 3
della citata legge, il rimettente sarebbe tenuto ad
adottare senza ritardo i provvedimenti indicati nel comma 3, ovvero a
provvedere, con sentenza, a norma dell’articolo 129 Cpp,
o, in alternativa, a sollevare conflitto di attribuzione. Peraltro, la
pronuncia ex articolo 129 del codice di rito gli
imporrebbe una valutazione preliminare dell’ambito di applicazione
dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione, come ridefinito dall’articolo
3, comma 1, della legge 140/03: donde il ritenuto carattere preliminare della
questione di legittimità costituzionale rispetto ad ogni altra decisione, sia
afferente alla proposizione del conflitto di attribuzione, sia alla
applicazione dell’articolo 129 Cpp.

Al riguardo, si rileva nella ordinanza che detta norma non si limita ad una
semplice attuazione del richiamato articolo 68 della Costituzione, estendendo,
senza gli strumenti offerti dall’articolo 138 della Costituzione, l’ambito di
operatività della garanzia della immunità parlamentare ben oltre i limiti
definiti dalla attuale formulazione del citato articolo 68 della Costituzione,
quali individuati dalla giurisprudenza costituzionale.

Il testo attuale dell’articolo 3,
comma 1, della legge 140/03, ad avviso del Tribunale rimettente, indicando
analiticamente, in aggiunta agli atti tipici espressivi dell’esercizio di
funzioni parlamentari, quali disegni di legge, proposte di legge, emendamenti,
interrogazioni, etc., una
serie di ulteriori atti, quali atti di ispezione, di divulgazione, di critica e
denuncia politica, ugualmente coperti dall’immunità anche se compiuti al di
fuori del Parlamento quando risultino connessi alla funzione di parlamentare,
individua il nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia e le attività svolte in sede parlamentare non solo
in tutte le ipotesi di sostanziale identità di significati, ma in tutti i casi
di mero collegamento con la funzione di parlamentare, a prescindere da una
specifica connessione con l’attività parlamentare.

8.2. Il giudice esamina, quindi, la interrogazione indicata dalla Giunta delle autorizzazioni
a procedere come quella alla quale il parlamentare V. S. si era ispirato nelle
dichiarazioni rilasciate alla stampa per le quali si procede, rilevando che
essa si riferisce a fatti specifici solo parzialmente coincidenti con il
contenuto dell’articolo in questione. Pertanto, si rileva nella
ordinanza, quelle stesse dichiarazioni contenute nell’articolo di stampa
che, in base al consolidato orientamento interpretativo dell’articolo 68, primo
comma, della Costituzione fornito dalla Corte costituzionale, non
rientrerebbero nella sfera di operatività di detta norma costituzionale, si
potrebbero far rientrare nell’attuale previsione normativa dell’articolo 3,
comma 1, della legge 140/03.

Il giudice a quo sospetta, poi,
il contrasto della norma impugnata anche con gli articoli 3, 24 e 117 della
Costituzione. Sotto il primo profilo, lamenta la irragionevole
disparità di trattamento che la stessa introduce tra i soggetti che rivestono
la qualità di parlamentare ed i comuni cittadini, trasformando di fatto quella
eccezionale garanzia finalizzata alla tutela del libero esercizio delle
funzioni parlamentari attraverso le opinioni espresse in una ingiustificata
situazione di privilegio personale derivante esclusivamente dallo status di
parlamentare. Quanto al denunciato contrasto con gli articoli 24 e 117 della
Costituzione, esso viene ravvisato dal giudice a quo
nella indebita compressione dell’esercizio del diritto costituzionalmente
attribuito a tutti i cittadini, anche ai sensi dell’articolo 6 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, di agire in giudizio per la tutela
dei propri diritti ed interessi legittimi, diritto suscettibile di legittima
compressione solo a fronte della esigenza di tutelare un preminente interesse
di carattere generale, quale il libero esercizio delle funzioni parlamentari e
non per salvaguardare attività che non ne costituiscono espressione.

8.3. Infine, si osserva nella ordinanza che le questioni di legittimità
costituzionale sollevate rilevano anche con riguardo alla posizione processuale
dell’imputato G. C., dovendosi procedere alla trattazione congiunta delle due
posizioni, in quanto l’accertamento della responsabilità del direttore del
quotidiano ai sensi dell’articolo 57 Cp comporta la
preliminare valutazione della ricorrenza degli estremi del reato presupposto,
e, pertanto, nel caso di cui si tratta, un accertamento che non può prescindere
dalla previa risoluzione delle sollevate questioni di legittimità
costituzionale.

9. Nel giudizio innanzi alla
Corte, è intervenuto il Presidente del consiglio dei ministri, con il
patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso
per la inammissibilità o la infondatezza della questione.

Sotto il primo profilo, la difesa
erariale ha sottolineato che la legge impugnata è
entrata in vigore successivamente sia al fatto imputato al parlamentare V. S.,
commesso in data 31 dicembre 1998, sia alla deliberazione della Camera dei
deputati del 27 maggio 2003, nei confronti della quale il rimettente non ha
proposto conflitto di attribuzione, sollevando invece questione di legittimità
costituzionale, ritenuta pregiudiziale rispetto alla decisione relativa alla
eventuale proposizione del conflitto, oltre che a quella di procedere
all’applicazione immediata dell’articolo 129 Cpp.
L’Avvocatura contesta tale pregiudizialità sia con riferimento all’ipotizzato conflitto di attribuzione, sul quale la pronuncia
avrebbe dovuto essere resa con riguardo ai parametri di legittimità vigenti al
27 maggio 2003, sia rispetto all’applicazione dell’articolo 129 Cpp, applicazione dovuta in assenza di una pronuncia
costituzionale favorevole al potere ricorrente sul conflitto. La questione
sollevata sarebbe, pertanto, inammissibile per difetto di rilevanza, tenuto
anche conto che, alla data del 27 settembre 2003, data in cui è stata emessa la ordinanza di rimessione, il
processo a quo si trovava già nella fase disciplinata dall’articolo 3, comma 8,
della legge 140/03, ed il giudice rimettente non ha sollevato questione
relativa a detto comma 8, da applicarsi per principio di diritto
intertemporale, con la conseguenza che non vi sarebbe spazio per una
impugnativa del comma 1 del medesimo articolo 3.

9.1. Nel merito, l’Avvocatura
ritiene la questione non fondata, rilevando, per un verso, che la formulazione
dell’ultima parte del comma 1 dell’articolo 3 non si discosta né dagli
insegnamenti della Corte costituzionale, né dall’articolo 2, comma 3, dell’ultimo
dei molti decreti-legge elencati nell’articolo 8 della legge 140; per l’altro
verso, che la specialità dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione
esclude di per sé la utilizzabilità degli articoli 3 e
24 Costituzione, mentre incongruo sarebbe il richiamo all’articolo 117 della
Costituzione.

10. Si è costituito nel giudizio
il dott. Giancarlo Caselli, parte civile nel procedimento penale pendente
presso il Tribunale di Bologna, che ha concluso per la
declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata,
riportandosi alle argomentazioni svolte nella ordinanza di rimessione,
ed in particolare soffermandosi sulla circostanza che l’articolo 3 della legge
140/03 detta una disciplina non già attuativa, ma
estensiva della previsione dell’articolo 68 Costituzione, là dove il
bilanciamento tra il principio di autonomia ed indipendenza del Parlamento ed
il diritto alla tutela giurisdizionale del soggetto offeso nell’onore e nella
reputazione dalle dichiarazioni di un parlamentare non è stato affidato al
legislatore ordinario, ma è stato effettuato una volta per tutte dal
Costituente nel senso della prevalenza del primo qualora le opinioni siano
espresse “nell’esercizio delle funzioni”. Tale nesso funzionale, avverte la
difesa della parte, non può non richiedere una sostanziale identità di
contenuto delle dichiarazioni rese extra moenia con
quello delle attività parlamentari.

11. Si è costituito in giudizio
anche G.C., che ha concluso
per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata,
riportandosi alle considerazioni formulate dal giudice rimettente, e
richiedendo altresì la estensione, ex articolo 27 della legge 87/1953, della
dichiarazione di illegittimità anche al comma 2 dell’articolo 3 della legge
140/03.

12. Nella imminenza
della udienza pubblica, la parte civile ha depositato memoria, insistendo nelle
conclusioni già rassegnate.

Considerato in diritto

1.1. Il Tribunale di Roma, IV
sezione penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 3, comma 1, della legge 140/03 (Disposizioni per l’attuazione
dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia
di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), denunciandone
il contrasto con gli articoli 68, primo comma, 24, primo comma, e 3 della
Costituzione.

1.2. Il giudice dell’udienza
preliminare del Tribunale di Milano ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 3, commi 1, 3, 4, 5 e 7, della legge 140/03, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione.

1.3. Il Tribunale di Bologna, I
sezione penale, ha sollevato, su eccezione della parte civile e degli imputati,
questione di legittimità costituzionale dello stesso articolo 3, comma 1, della legge 140/03, per contrasto con gli articoli
3, 68, primo comma, 24 e 117 della Costituzione (parametro, quest’ultimo,
soltanto evocato).

1.4. Secondo i rimettenti
il denunciato articolo 3, comma 1, della citata legge, lungi dal
limitarsi ad attuare l’articolo 68, primo comma, della Costituzione, ne avrebbe
modificato l’ambito applicativo. Nel prevedere che esso si applica anche «per
ogni altra attività […] di critica e di denuncia politica, connessa alla
funzione di parlamentare, espletata anche fuori del
Parlamento», il denunciato articolo 3, comma 1, introdurrebbe nell’ordinamento
una nozione di insindacabilità che la stessa Corte
costituzionale, a partire dalle sentenze 10 e 11/2000, avrebbe rifiutato,
osservando che la garanzia costituzionale verrebbe in tal modo a coprire
dichiarazioni difficilmente determinabili a priori, del tutto slegate dalle
procedure parlamentari tipiche e da quelle forme di controllo ad esse inerenti,
tramite le quali si realizza il bilanciamento tra prerogative dell’istituzione
parlamentare e tutela dell’individuo. Sarebbero violati – ad avviso dei giudici
a quibus – pure l’articolo 24 della Costituzione,
giacché l’introduzione di una così ampia garanzia con una semplice legge
ordinaria, anziché con legge costituzionale, determinerebbe una
ingiustificata compressione dei diritti della persona offesa dal reato,
e l’articolo 3 Costituzione, sotto il profilo della violazione del principio di
eguaglianza.

2. Le tre ordinanze in esame
prospettano una questione di legittimità costituzionale sostanzialmente
identica in riferimento a parametri costituzionali in
larga misura coincidenti, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere
decisi con un’unica pronuncia.

3. In via preliminare va accolta
l’eccezione di inammissibilità prospettata
dall’Avvocatura generale dello Stato in riferimento alla questione di
costituzionalità dei commi 3, 4, 5 e 7 dell’articolo 3 della legge 140/03
sollevata dall’ordinanza del 1° luglio 2003 del Gip presso
il Tribunale di Milano. Ed invero il giudice rimettente, sollevando il dubbio
di compatibilità della disciplina del comma 1 del predetto articolo 3 con i
parametri costituzionali evocati, afferma la rilevanza anche degli altri commi
citati, che contengono norme procedurali, ma non fornisce motivazioni in ordine all’applicabilità in quella fase del giudizio
delle suddette norme, che invece riguardano fasi processuali ulteriori.

Non possono viceversa essere
accolte altre eccezioni di inammissibilità per difetto
di rilevanza sollevate, nei tre giudizi, dalla difesa erariale, che prospetta
il carattere “anticipato” della questione di costituzionalità del comma 1 del
citato articolo 3 rispetto all’ipotizzata instaurazione di un conflitto di
attribuzione con la Camera competente, giacché in proposito va osservato che i
giudici rimettenti erano chiamati, innanzi tutto, ad applicare nei rispettivi
giudizi proprio quel comma della cui costituzionalità appunto dubitavano.

4. Nel merito, la questione è
infondata nei termini di seguito precisati.

La legge 140/03 (Disposizioni per
l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione, nonché
in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato) si
può considerare, a parte l’articolo 1 relativo appunto ai processi penali nei
confronti delle “alte cariche dello Stato”, in continuità ideale con la serie
ininterrotta di 19 decreti-legge in materia di attuazione dell’articolo 68
della Costituzione, emanati tra il 1993 ed il 1996 e mai convertiti, e dei quali,
non a caso, la stessa legge convalida gli atti e fa salvi gli effetti ed i
rapporti giuridici sorti medio tempore. Come è noto, il primo di tali decreti fu emanato il 15
novembre 1993, e cioè subito dopo l’entrata in vigore della legge
costituzionale 3/1993 (Modifica dell’articolo 68 della Costituzione), con la
quale, in particolare, fu abolita l’autorizzazione a procedere nei confronti
dei membri del Parlamento. La modifica costituzionale così operata fu appunto
immediatamente seguita dal citato Dl 455/93, che avrebbe dovuto, secondo il
Governo, «assicurare che la norma costituzionale fosse prontamente accompagnata
da disposizioni atte a disegnarne le modalità
operative».

Si può quindi ritenere che il
predetto Dl – e anche gli altri che seguirono – abbiano avuto la finalità di
dettare una disciplina per dare attuazione, essenzialmente sul piano
processuale, al nuovo disposto dell’articolo 68 della Costituzione, attraverso
l’istituzione della cosiddetta “pregiudizialità parlamentare”, che imponeva al
giudice di dichiarare, in ogni stato e grado del processo, l’improcedibilità del giudizio in caso di evidente
applicabilità del primo comma dell’articolo 68, mentre, in tutti gli altri
casi, faceva obbligo al giudice di sospendere il giudizio e trasmettere gli
atti alla Camera competente a decidere. I criteri che in proposito venivano seguiti nella prassi parlamentare denotavano una
chiara propensione ad estendere l’applicazione della prerogativa, in un primo
momento, agli atti preparatori e conseguenziali rispetto
a quelli tipici e successivamente all’intera attività lato sensu
politica dei singoli membri del Parlamento, in base ad ipotesi di collegamento
con un determinato “contesto politico”.

Nonostante l’ampiezza dei canoni
valutativi elaborati dagli organi parlamentari, in due dei più recenti
decreti-legge della serie, ossia quello 116/96 e quello 555 del 23 ottobre
dello stesso anno, si è proceduto, pur facendo comunque
salvo “ogni altro atto parlamentare”, ad una dettagliata catalogazione di atti
parlamentari tipici, con l’aggiunta delle “attività divulgative connesse, pur
se svolte fuori del Parlamento”, al fine di assicurare a tali atti l’immediata
applicazione, da parte del giudice, dell’articolo 68, primo comma, della
Costituzione, con conseguente improcedibilità del
relativo giudizio, mentre in caso di dubbio il giudice, o anche lo stesso
parlamentare, dovevano investire direttamente la Camera competente alla
decisione. Infine, dopo alcune proposte di legge non approvate nel corso delle
precedenti legislature, si è pervenuti nel 2003 al varo della legge in esame,
il cui articolo 3, riproducendo un emendamento
approvato da una sola Camera in sede di conversione del citato Dl 116/96 e
reintroducendo la pregiudizialità parlamentare, dispone che il giudice debba in
ogni caso applicare l’articolo 68, primo comma, riguardo ai medesimi atti
parlamentari, già indicati dai precedenti decreti-legge, nonché riguardo ad
«ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia
politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del
Parlamento».

5. Si tratta di una disposizione
legislativa che, anche questa volta, nonostante la nuova, più ampia
formulazione lessicale, può considerarsi di attuazione,
e cioè finalizzata a rendere immediatamente e direttamente operativo sul piano
processuale il disposto dell’articolo 68, primo comma. Ed invero le attività
analiticamente indicate possono non essere esaustive del concetto di funzione
parlamentare, ma costituiscono comunque un’ulteriore forma
di specificazione, rispetto a quella dei citati decreti-legge del 1996, ai fini
della loro riconduzione nella sfera di applicabilità processuale dell’articolo
68, primo comma, e comunque esse non fuoriescono dal campo materiale dello
stesso articolo, dal momento che il legislatore stabilisce espressamente che
tutte le attività indicate debbono comunque, anche se espletate fuori del
Parlamento, essere connesse con l’esercizio della funzione propria dei membri
del Parlamento, in conformità appunto con il primo comma dell’articolo 68.

Proprio in base
a questa formulazione si può ritenere che con la norma in esame il
legislatore non innovi affatto alla predetta disposizione costituzionale,
ampliandone o restringendone arbitrariamente la portata, ma si limiti invece a
rendere esplicito il contenuto della disposizione stessa, specificando, ai fini
della immediata applicazione dell’articolo 68, primo comma, gli “atti di
funzione” tipici, nonché quelli che, pur non tipici, debbono comunque essere
connessi alla funzione parlamentare, a prescindere da ogni criterio di
“localizzazione”, in concordanza, del resto, con le indicazioni ricavabili al
riguardo dalla giurisprudenza costituzionale in materia.

Nel raffrontare peraltro la
disposizione legislativa censurata al parametro costituzionale il compito più problematico che si presenta a questa Corte è proprio quello
di definire una volta per tutte ed in modo esaustivo l’ambito precettivo dell’articolo 68, primo comma, della
Costituzione, ossia il contenuto della prerogativa parlamentare in esso
prevista, che segna i confini oltre i quali la giurisdizione non può spingersi.
L’articolo 68 contiene infatti principi che presiedono
alla garanzia delle attribuzioni delle Camere e dell’autorità giudiziaria
contro reciproche interferenze e, al contempo, sono preordinati alla tutela di
beni costituzionali potenzialmente confliggenti, i
quali, per coesistere, debbono essere di volta in volta contemperati per essere
resi tra loro compatibili: da un lato l’autonomia delle funzioni parlamentari
come area di libertà politica delle Assemblee rappresentative; dall’altro la
legalità e l’insieme dei valori costituzionali che in essa si puntualizzano
(eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, eguale tutela giurisdizionale
e diritto di agire e di difendersi in giudizio, ecc.) (cfr.
sentenza 379/96).

Un’esigenza di questo tipo è
avvertita anche nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,
come dimostrano, in particolare, le decisioni 30 gennaio 2003 sui ricorsi n. 40877/98
e n. 45649/99, secondo le quali l’assenza di un chiaro legame tra l’opinione
espressa e l’esercizio di funzioni parlamentari postula una interpretazione
stretta della proporzionalità esistente tra il fine perseguito ed i mezzi
impiegati, specialmente nei casi in cui, sulla base della natura asseritamente politica della dichiarazione contestata,
venga negato il diritto del soggetto leso di agire in giudizio.

Nella giurisprudenza
costituzionale non mancano, in relazione ai conflitti
di attribuzione cui dà luogo l’articolo 68, primo comma, indirizzi che
esprimono la tensione incessante verso la razionalizzazione di moduli di
giudizio atti a garantire stabilità di valutazioni in ordine alla garanzia in
oggetto, ma nessuno di essi può dirsi, in ragione dell’inscindibile legame tra
conflitto e singola fattispecie, espressivo di una ratio decidendi
così piena ed esauriente da potere essere prolungata fino alle sue estreme
conseguenze, così da definire per suo tramite, in positivo, l’intero contenuto precettivo dell’articolo 68, primo comma, e delle
contrapposte istanze in esso rappresentate. È vana, insomma, la pretesa di
cristallizzare una regola di composizione del
conflitto tra principi costituzionali che assumono configurazioni di volta in
volta diverse e richiedono soluzioni non riducibili nei rigidi limiti di uno
schema preliminare di giudizio.

Meno disagevole è invece la
definizione in negativo dei rispettivi ambiti di competenza delle Camere e
dell’autorità giudiziaria; l’identificazione del confine oltre il quale nessuna interpretazione e nessuno schema di soluzione del
conflitto potrebbero spingersi, se si ha riferimento all’articolo 68 nella sua inequivoca testualità. Da esso si
trae pianamente la vera costante di tutte le decisioni di merito sui conflitti:
non qualsiasi opinione espressa dai membri delle Camere è sottratta alla
responsabilità giuridica, ma soltanto le opinioni espresse “nell’esercizio
delle funzioni”. Nonostante le evoluzioni subite, nel tempo, nella
giurisprudenza di questa Corte, è enucleabile un
principio, che è possibile oggi individuare come limite estremo della
prerogativa dell’insindacabilità, e con ciò stesso
delle virtualità interpretative astrattamente ascrivibili all’articolo 68:
questa non può mai trasformarsi in un privilegio personale, quale sarebbe una
immunità dalla giurisdizione conseguente alla mera “qualità” di parlamentare.
Per tale ragione l’itinerario della giurisprudenza della Corte si è sviluppato
attorno alla nozione del cosiddetto “nesso funzionale”, che solo consente di
discernere le opinioni del parlamentare riconducibili alla libera
manifestazione del pensiero, garantita ad ogni cittadino nei limiti generali
della libertà di espressione, da quelle che riguardano
l’esercizio della funzione parlamentare.

Certamente rientrano nella sfera
dell’insindacabilità tutte le opinioni manifestate
con atti tipici nell’ambito dei lavori parlamentari, mentre per quanto attiene
alle attività non tipizzate esse si debbono tuttavia
considerare “coperte” dalla garanzia di cui all’articolo 68, nei casi in cui si
esplicano mediante strumenti, atti e procedure, anche “innominati”, ma comunque
rientranti nel campo di applicazione del diritto parlamentare, che il membro
del Parlamento è in grado di porre in essere e di utilizzare proprio solo e in
quanto riveste tale carica (cfr. sentenze
56/2000, 509/02 e 219/03). Ciò che rileva, ai fini dell’insindacabilità,
è dunque il collegamento necessario con le “funzioni” del Parlamento, cioè l’ambito funzionale entro cui l’atto si iscrive, a
prescindere dal suo contenuto comunicativo, che può essere il più vario, ma che
in ogni caso deve essere tale da rappresentare esercizio in concreto delle
funzioni proprie dei membri delle Camere, anche se attuato in forma
“innominata” sul piano regolamentare. Sotto questo profilo non c’è perciò una
sorta di automatica equivalenza tra l’atto non
previsto dai regolamenti parlamentari e l’atto estraneo alla funzione
parlamentare, giacché, come già detto, deve essere accertato in concreto se
esista un nesso che permetta di identificare l’atto in questione come
“espressione di attività parlamentare” (cfr. sentenze 10 e 11/2000, 379 e 219/03).

È in questa prospettiva che va effettuato lo scrutinio della disposizione denunciata. Le
attività di “ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica” che
appunto il censurato articolo 3, comma 1, riferisce all’ambito di applicazione dell’articolo 68, primo comma, non
rappresentano, di per sé, un’ipotesi di indebito allargamento della garanzia
dell’insindacabilità apprestata dalla norma
costituzionale, proprio perché esse, anche se non manifestate in atti
“tipizzati”, debbono comunque, secondo la previsione legislativa e in
conformità con il dettato costituzionale, risultare in connessione con
l’esercizio di funzioni parlamentari. È appunto questo “nesso” il presidio
delle prerogative parlamentari e, insieme, del principio di eguaglianza
e dei diritti fondamentali dei terzi lesi.

Così intesa la disposizione
censurata si sottrae ai vizi di legittimità addebitati: essa, come già
osservato, non elimina affatto il nesso funzionale e non stabilisce che ogni
espressione dei membri delle Camere, in ragione del rapporto rappresentativo
che li lega agli elettori, sia per ciò solo assistita dalla garanzia
dell’immunità. È pertanto nella dimensione funzionale che le dichiarazioni in
questione possono considerarsi insindacabili: “garanzia
e funzione sono inscindibilmente legate fra loro da un nesso che,
reciprocamente, le definisce e giustifica” (sentenza 219/03). Né, d’altra
parte, ai fini dell’insindacabilità, la prospettata
necessità della connessione tra attività di critica o di denuncia politica e
atti di funzione parlamentare può essere inficiata
dalla precisazione che tali attività possano essere state espletate “anche
fuori del Parlamento”. Tale precisazione, infatti, nulla aggiunge a quanto
ormai è acquisito al patrimonio giurisprudenziale di questa Corte, che non ha
mai limitato la garanzia alla sede parlamentare, giacché il criterio di
delimitazione dell’ambito della prerogativa non è quello della “localizzazione”
dell’atto, ma piuttosto, come già detto, quello funzionale, cioè
riferibile in astratto ai lavori parlamentari (cfr. sentenza 509/02). Solo a queste condizioni l’opinione così
manifestata e così qualificata può essere considerata insindacabile anche
quando dia luogo a forme di divulgazione e
riproduzione al di fuori dell’ambito delle attività parlamentari (cfr. sentenze 10, 11 e 320/00).

In definitiva, alla luce delle
considerazioni che precedono, la prospettata questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 3, comma 1, della legge 140/03
appare infondata.

PQM

La Corte costituzionale riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 1, della legge 140/03
(Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in
materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato),
sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 68, primo comma, e 117 della
Costituzione, rispettivamente dal Tribunale di Roma, IV sezione penale, dal Gip del Tribunale di Milano e dal Tribunale di Bologna, I
sezione penale, con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara
inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, commi
3, 4, 5 e 7, della predetta legge 140/03, sollevata dal Gip
del Tribunale di Milano con l’ordinanza indicata in epigrafe.