Penale

Saturday 11 November 2006

La risoluzione del CSM sull’ indulto

La risoluzione del CSM sull’indulto

Consiglio Superiore della
Magistratura RISOLUZIONE ADOTTATA DALL’ASSEMBLEA PLENARIA NELLA SEDUTA DEL 9
NOVEMBRE 2006

1. Con nota in data 12 settembre
2006, il Ministro della Giustizia, premesso che "a seguito della legge n.
241 del 31 luglio 2006 recante "Concessione di indulto" è stata, da
più parti, prospettata la possibilità di differenziare, rispetto agli altri, la
tempistica dei processi penali destinati ad esaurirsi senza la concreta
inflazione di una pena", ha sollecitato il Consiglio superiore della
magistratura ad assumere "le eventuali iniziative di competenza" per
concorrere a "realizzare, nell’esercizio della giurisdizione, metodologie
funzionali ed efficaci per l’effettività della resa".

2. Per dare risposta adeguata a
tale nota il Consiglio ha ritenuto di procedere a una verifica della situazione
degli uffici in conseguenza dell’indulto – intervenuto, per usare le parole del
Ministro, in "un quadro operativo gravato da notevoli ritardi
nell’esercizio della giurisdizione" – attraverso l’audizione dei
presidenti delle Corti di appello e dei procuratori generali dei più grandi
distretti del Paese (Torino, Milano, Roma, Napoli e Palermo), nei quali si
concentra la maggioranza degli affari.

L’esito delle audizioni può così
sintetizzarsi:

a1) in
tutti i distretti il numero dei procedimenti per reati esclusi dall’indulto
(sia nella fase delle indagini preliminari che in quella dibattimentale) è
esiguo, oscillando, a seconda dei distretti, fra il 3 e il 9% del totale;

a2) nei
periodi esaminati a campione (relativi al 2005), l’entità delle condanne
inflitte è stata, in misura oscillante tra l’80% e il 92% del totale, pari o
inferiore a tre anni di pena detentiva o a 10.000 euro di pena pecuniaria;

a3) alla
luce di tali dati, è ragionevole prevedere che una aliquota prossima all’80%
dei procedimenti attualmente pendenti per reati commessi fino a tutto il 2
maggio 2006 si concluderà, in caso di condanna, con l’applicazione di una pena
interamente condonata;

a4) tale
aliquota corrisponde, in termini assoluti, a numeri ingenti. Per quanto
riguarda il circondario del Tribunale di Torino (nel quale è stata fatta
l’elaborazione più completa dei dati) il numero dei procedimenti in questione è
– sommando quelli pendenti presso la procura della Repubblica (circa 34.000) e
quelli stimati in carico al Tribunale – di circa 40.000;

a5) è
stato previsto che tale mole di procedimenti non possa essere interamente
definita prima di cinque anni;

a6)
tutti i presidenti di corte e i procuratori generali – anche quelli che hanno
voluto sottolineare la propria contrarietà all’indulto – hanno rappresentato
l’esistenza, nei rispettivi distretti, di una situazione egualmente drammatica,
definendola inevitabile in assenza di un provvedimento di amnistia almeno per i
reati "minori" commessi sino a tutto il 2 maggio 2006;

a7) per
far fronte a detta situazione alcuni presidenti di Corte e procuratori generali
hanno segnalato l’avvenuta adozione (o lo studio in atto) di provvedimenti
finalizzati a privilegiare la trattazione dei procedimenti per reati non
compresi nell’indulto, mentre altri hanno escluso in radice tale possibilità,
ritenendola inutile o lesiva delle prerogative dei magistrati preposti ai
singoli affari.

3. È in questo contesto che si
colloca la nota del Ministro della Giustizia citata in premessa, che richiama,
tra l’altro, l’art. 227 del decreto legislativo n. 51 del 1998 (relativo alla
istituzione del giudice unico di primo grado) e l’avvenuta adozione da parte
dei dirigenti di alcuni uffici di "criteri di priorità" nella
gestione degli affari, anche "a regime".

La questione relativa al potere
dei capi degli uffici di fissare, nella trattazione degli affari, "criteri
di priorità" (come sono stati definiti, con termine onnicomprensivo,
interventi in realtà eterogenei contenenti,
prevalentemente, misure di carattere organizzativo) è risalente ed è stata
oggetto, oltre che di ampio dibattito politico e dottrinale, di ripetuti
interventi del Consiglio superiore soprattutto in sede di approvazione delle
cosiddette "tabelle". Il primo provvedimento contenente in modo
esplicito la determinazione di "criteri" per la trattazione degli affari,
adottato congiuntamente dal presidente della Corte d’appello e dal procuratore
generale di Torino, risale all’8 marzo 1989 ed è stato seguito – a
dimostrazione dell’impegno di molti dirigenti per rendere razionale e proficuo
il lavoro giudiziario – da numerosi analoghe determinazioni
relative sia agli ufficigiudicanti che a quelli inquirenti. Del tutto
pacifico è stato peraltro sin ab initio che, in sede di definizione di tali
criteri "non è consentita un’opera che si traduca in assoluto nella
esclusione dell’azione penale per fatti che la legge considera reati".
Tale impostazione ha trovato conferma, come meglio si dirà più avanti, in
esplicite prese di posizioni del Consiglio superiore e deve, ancora oggi,
essere ribadita.

4. Anche l’ulteriore problema
sollevato nella nota in esame, riguardante l’eventuale competenza del Consiglio
superiore della magistratura ad assumere iniziative finalizzate – sulla base
della ratio della disciplina di cui all’art. 227 del decreto legislativo n. 51/1998
– a differenziare i tempi di trattazione dei procedimenti destinati ad
esaurirsi senza la concreta applicazione delle pena in
quanto estinta ai sensi della legge n. 241 del 2006, non ha carattere di
assoluta novità.

Sono note, infatti, alcune
risalenti iniziative consiliari tese a rendere più sollecita la trattazione dei
procedimenti per delitti di particolare allarme sociale (luglio 1977) e dei
procedimenti nei confronti di magistrati (11 giugno 1981). Nel primo caso si
sollecitò il potenziamento del settore penale (attraverso una redistribuzione
dei magistrati e una ridefinizione del rapporto tra il numero dei giudici
assegnati al settore civile e di quelli assegnati al settore penale) e si
segnalò l’opportunità di una programmazione dello svolgimento del lavoro penale
in modo tale da consentire la sollecita trattazione dei processi più gravi,
affermando, peraltro, espressamente che "non può essere impartita una
direttiva generale che potrebbe apparire quasi una giustificazione ufficiale e
un incentivo all’estinzione dei "reati minori" per
prescrizione". Con la seconda risoluzione il Consiglio sottolineò che
"anche i procedimenti penali nei confronti di magistrati richiedono la
trattazione più sollecita per l’evidente inerenza al bene dell’Amministrazione
della giustizia", ma non mancò di ribadire che
"spetta, naturalmente, alla responsabilità dei magistrati titolari dei
processi penali di disciplinare i tempi di trattazione nell’ambito delle norme
vigenti".

Dopo tali iniziative, il
Consiglio intervenne con specifiche indicazioni agli uffici, in attuazione
dell’art. 227 del decreto legislativo n. 51/1998 sul giudice unico di primo
grado. Il sistema delineato da tale articolo comportò l’adozione di
determinazioni di tipo organizzativo: l’introduzione di meccanismi finalizzati
ad assicurare una migliore transizione verso il nuovo assetto degli uffici di
primo grado si concretizzò nella previsione di moduli la cui concreta
individuazione venne affidata, dalla circolare 8
aprile 1999, a
una "conferenza degli uffici" costituita dai dirigenti degli uffici
giudicanti e requirenti del distretto. Alla "conferenza degli uffici"
venne attribuito il compito di "elaborare
soluzioni organizzative e operative dirette ad assicurare la più sollecita
definizione dei processi pendenti" (punto 6, lettera c); con specifico
riferimento agli uffici del pubblico ministero, la circolare – ferma restando
la procedura incentrata sulla citata conferenza – prospettò molteplici
soluzioni organizzative volte alla gestione dell’arretrato esistente presso le
procure pretorili (punto 7, lettera h). Nel solco di questa impostazione, la
circolare per la formazione delle tabelle per il biennio 2000-2001 (delibera
del 24 dicembre 2000), stabilì, al punto 58.1, che "la determinazione dei criteri
di priorità indicata in via transitoria dall’art. 227 (…) non deve interferire
con i criteri predeterminati per l’assegnazione degli affari": venne così confermato il carattere transitorio della
disciplina di cui all’art. 227 del decreto legislativo n. 51/1998, finalizzata
alla gestione della fase di passaggio verso il nuovo assetto degli uffici di
primo grado. Identiche previsioni sono state riprodotte nelle circolari per la
formazione delle tabelle per i bienni 2002-2003 (punto 58.1), 2004-2005 (punto 57)
e 2006-2007 (punto 57.1).

Anche la disciplina dei criteri
di priorità dettata dal Consiglio superiore in esecuzione dell’art. 227 del
decreto legislativo n. 51/1998 si colloca dunque – come i precedenti interventi
consiliari – sul piano dell’organizzazione dell’attività giudiziaria e, in
quanto tale, si distingue da quella che è stata definita la "selezione
finalistica" delle notitiae criminis o dei procedimenti. In altri termini,
l’ambito di intervento del Consiglio nel settore della gestione degli affari
giudiziari è sempre stato circoscritto alla sfera dell’organizzazione
dell’attività giudiziaria, con esclusione di iniziative tese ad autorizzare –
di diritto o di fatto – la mancata trattazione di
alcuni procedimenti. Ciò consegue al ruolo che la Costituzione assegna
al Consiglio (preposto alla amministrazione della giurisdizione
ma privo di ogni potere diretto sul concreto esercizio della stessa) ma
è ancor più evidente ove, come nel caso di specie, l’iniziativa prospettata sia
destinata a individuare i processi per reati condonati e ad accantonarli
(inevitabilmente in attesa della maturazione della prescrizione). Infatti:

b1) i
procedimenti interessati non sono, in questo caso, individuabili sulla base di
un riferimento temporale analogo a quello previsto dall’art. 227 del decreto
legislativo n. 51/1998, non potendo all’evidenza essere considerato tale il
tempus commissi delicti ai fini dell’applicazione dell’indulto;

b2) se è
vero che esistono rilevanti tipologie di reati per i quali l’indulto risulta
prima facie applicabile, è parimenti vero che per numerose categorie di
illeciti penali l’estinzione integrale della pena non può che essere riferita
al caso concreto oggetto dell’accertamento giurisdizionale, il che rende non
praticabile l’adozione di criteri sufficientemente obiettivi e trasparenti per
la gestione differenziata dei relativi procedimenti.

5. Alla stregua di quanto
precede, i dirigenti degli uffici (inquirenti e giudicanti) possono e devono,
nell’ambito delle loro competenze in tema di amministrazione della giurisdizione,
adottare iniziative e provvedimenti idonei a razionalizzare la trattazione
degli affari e l’impiego, a tal fine, delle (scarse) risorse disponibili.
Addivenire a scelte organizzative razionali, nel rispetto del principio della
obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) e di soggezione di ogni
magistrato esclusivamente ala legge (art. 101, secondo comma,
Cost.), risponde ai principi consacrati dall’art. 97, prima comma, della
Costituzione – riferibile anche alla amministrazione della giustizia – che
richiama i valori del buon andamento e della imparzialità della amministrazione
con riferimento alle scelte che gli uffici adottano nella loro unità. Tali
scelte sono correttamente collocabili nell’ambito del sistema tabellare,
assicurando in tal modo predeterminazione, uniformità e trasparenza, e
dimostrano la capacità e volontà dei dirigenti degli uffici di non rassegnarsi
a una giurisdizione che produce disservizio, assumendosi la responsabilità di
formulare progetti di organizzazione che, sulla base dell’elevato numero degli
affari da trattare e preso atto delle risorse umane e materiali disponibili, esplicitino le scelte di intervento adottate per pervenire a
risultati possibili e apprezzabili. In questo quadro spetta
al Consiglio superiore stimolare la crescita di una cultura e di una prassi in
tal senso, anche attraverso un’opera di raccolta dei diversi criteri
organizzativi adottati; svolgere una capillare attività di informazione e
divulgazione sul territorio dei dati acquisiti; verificare tempestivamente la
correttezza e congruità delle soluzioni adottate dagli uffici giudiziari.

Ma tali iniziative, data la
ripartizione delle competenze tra poteri dello Stato e considerate le
caratteristiche (anche costituzionali) della organizzazione giudiziaria, sono
strutturalmente inidonee a dare risposte risolutive e uniformi all’esigenza di
selezionare i procedimenti pendenti al fine di garantire comunque la
trattazione di quelli "il cui esito possa concretamente rispondere al
principio di effettività", almeno quando ciò
significhi l’inevitabile accantonamento e la consegna alla prescrizione degli
altri.

L’esigenza prospettata nella nota
ministeriale indicata in epigrafe può essere stabilmente e correttamente
soddisfatta, nel nostro sistema costituzionale, solo mediante un appropriato
intervento legislativo. Il doveroso rispetto delle prerogative e dei poteri di
iniziativa del Parlamento impone al Consiglio di astenersi da specifiche
indicazioni o valutazioni sul punto e di limitarsi a due rilievi di carattere
generale.

Il primo consiste nella
considerazione che i diciassette indulti concessi nel periodo repubblicano
prima di quello in esame sono stati tutti accompagnati da corrispondenti
amnistie: sedici volte i provvedimenti sono stati contestuali; in un caso
(decreto presidenziale 22 dicembre 1990, n. 394) l’indulto è stato concesso
otto mesi dopo l’amnistia (decreto presidenziale 12 aprile 1990, n. 75), ma
anche allora i due provvedimenti hanno riguardato reati commessi nello stesso
arco temporale (sino a tutto il 24 ottobre 1989). Solo in occasione del recente
indulto concesso con legge 31 luglio 2006, n. 241 (pur particolarmente esteso,
anche in termini comparativi) non v’è stata una parallela previsione di
amnistia. Tale costante reiterazione non è, ovviamente casuale, benché
l’abbinamento dei due istituti non sia tecnicamente necessitato. L’amnistia infatti, estinguendo il reato, rende superfluo
l’accertamento della responsabilità e, quindi, il processo; al contrario,
l’indulto si limita a elidere (in tutto o in parte) la pena inflitta ed ha come
necessario presupposto l’accertamento della responsabilità e, dunque, la
celebrazione del processo, potenzialmente in tutte le sue fasi. Le conseguenze
sono evidenti. Quando la giustizia penale ha tempi rapidi e gli uffici sono
privi di arretrato, la trattazione dei processi per reati condonati mantiene
una consistente utilità sociale: non solo si addiviene all’accertamento dei
fatti e delle relative responsabilità, ma restano fermi gli ulteriori effetti
penali della condanna, l’eventuale risarcimento per la persona offesa e la
possibilità di revoca dell’indulto nei casi previsti dalla legge. Quando invece
la giustizia penale è lenta e gli uffici hanno arretrati
rilevanti, la trattazione di tutti i processi per reati interamente condonati
finisce, di fatto, per allontanare – anche in modo significativo – la
definizione di quelli nei quali la pena (eventualmente) inflitta è destinata a
essere effettivamente scontata, con grave danno per la collettività e,
segnatamente, per le parti offese: sta qui la ragione della contestuale
concessione della amnistia, che consente di limitare la trattazione dei
processi per reati interamente coperti da indulto ai soli casi in cui permane
un significativo interesse sociale (per esempio, per la natura del fatto o per
gli interessi lesi).

Il secondo rilievo concerne il
fatto che il precedente legislativo evocato nella nota ministeriale (quello di
cui all’art. 227 del decreto legislativo n. 51/1998) è solo parzialmente appropriato
ché, in allora, si trattava di prevedere misure organizzative idonee "ad
assicurare – come recita la norma in questione – la rapida definizione dei
procedimenti pendenti", mentre ora l’esigenza è
quella – opposta e già sottolineata – di accantonare una mole consistente di
affari, consegnando i relativi reati alla prescrizione.