Penale

Saturday 28 February 2004

La ripartizione delle responsabilità penali tra gli organi politici ed i dirigenti degli enti locali.

La ripartizione delle responsabilità penali tra gli organi politici ed i dirigenti degli enti locali.

Tribunale di Roma – Ufficio del Gip – sentenza 26-27 febbraio 2004

Giudice Bianchi

Svolgimento del procedimento

Il presente procedimento ha avuto inizio con la formulazione della richiesta da parte della pubblica accusa di emissione di un decreto penale di condanna al pagamento di lire 500.000 di ammenda nei confronti dell’imputato sopra generalizzato, sull’assunto che questi avrebbe tenuto una condotta sussumibile in quella di natura contravvenzionale prevista all’articolo 650 Cp.

Il Giudice ritiene che la richiesta del Pm debba essere rigettata e che nei confronti dell’imputato debba essere pronunciata sentenza ex articoli 129-530 comma 1°Cpp, poiché, in esito all’esame degli atti contenuti nel fascicolo, appare evidente che lo stesso non ha commesso il fatto.

L’imputazione

Secondo l’astratta prospettazione accusatoria, l’imputato è chiamato a rispondere della contravvenzione di cui sopra, per aver omesso, nella qualità di sindaco protempore del comune di Roma, di osservare l’ordinanza 107509/1998, emessa in data 21 ottobre 1998; con tale atto il Pretore, in funzione di giudice del lavoro, ordinava al Comune di Roma ex articolo 28 legge 300/70 di provvedere a reintegrare il dirigente sindacale Andrea Cataluddi nella direzione della II unità organizzativa circoscrizionale della Polizia Municipale.

Ricostruzione storica del fatto

La vicenda procedimentale è iniziata in data 12 agosto 1998, giorno in cui il comune di Roma con ordinanza 385/98 (Doc. 1) trasferiva, dalla direzione del corpo circoscrizionale della polizia municipale alla scuola del comando dei vigili urbani, il dirigente sindacale Cataluddi, senza preventivamente chiedere ed ottenere il nulla osta dell’organizzazione sindacale di appartenenza, richiesto ai sensi dell’articolo 22 della legge 300/70 a tutela dell’interesse superindividuale dell’organizzazione sindacale che prevale anche su quello del lavoratore ad ottenere uti singulus vantaggi di natura patrimoniale.

Avverso tale provvedimento veniva proposto ricorso ex articolo 28 della legge 300/70 in data 8 ottobre 1998 (Doc. 2). Il Pretore adito, con ordinanza 127917/98, dichiarata l’antisindacalità della condotta tenuta dal Comune, ordinava all’Amministrazione resistente la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti con conseguente reintegrazione del Cataluddi nella direzione della 2° U.O. circoscrizionale della Polizia Municipale.

In prosieguo di tempo, il Segretario Provinciale dell’organizzazione sindacale Cil – Enti Locali denunziava alla Procura la condotta omissiva del Comune di Roma per mancata ottemperanza alla suddetta ordinanza pretorile. 

Motivi della decisione

Nel merito ritiene il Giudice, esaminati gli atti contenuti nel fascicolo, che l’odierno imputato debba essere mandato assolto dal reato ascrittogli, per non aver commesso il fatto, non potendo ritenersi in alcun modo ascrivibile al sindaco, in base alle norme vigenti al momento del fatto descritto nel capo di imputazione, la competenza ad emettere il provvedimento di reintegrazione del dirigente sindacale suddetto in ottemperanza al disposto pretorile di cui all’ordinanza 107509/98, che non risulta, peraltro, essere mai stata comunicata al sindaco, in modo da renderlo edotto dell’obbligo di ottemperanza.

Infatti, il presupposto normativo della responsabilità del sindaco è costituito dalla possibilità di ricondurre allo stesso la competenza all’adozione del provvedimento descritto in rubrica. Sotto tale profilo, il Giudice osserva che, in base alla normativa già vigente al momento del fatto contestato, la competenza ad emettere provvedimenti del tipo di quello descritto in rubrica non era più ascrivibile al sindaco, bensì al dirigente preposto alla gestione del personale.

La motivazione della presente decisione si snoda, pertanto, nella esposizione ed analisi dei seguenti argomenti:

(A) riconducibilità in capo al dirigente e non al sindaco della competenza all’adozione del provvedimento di reintegrazione;

(B) inesistenza in capo al sindaco di un dovere di controllo puntuale dell’operato dei dirigenti comunali in merito allo svolgimento dell’attività di gestione.

(A) Sotto il primo aspetto occorre esporre la normativa di riferimento, che era stata modificata, nel corso degli anni ’90, in attuazione del dettato costituzionale, secondo le linee guida della riforma della Pubblica Amministrazione, esposte nel progetto Lucifredi.

Infatti già la Grundgesetz italiana contemplava quali principi che presiedono allo svolgimento dell’attività della Pa, quelli di buon andamento ed imparzialità dei pubblici uffici (articolo 97 Costituzione) evidenziando, così, la necessità che scelte di tipo amministrativo fossero affidate a soggetti, per loro natura, indipendenti da influenze di tipo politico (imparzialità), per tale motivo, idonei rispetto al perseguimento dell’obiettivo di un ottimale funzionamento della Pa. Il trasferimento ai funzionari aventi qualifica dirigenziale di buona parte delle competenze discrezionali comportava, finalmente, l’emancipazione della Pa dal modello cavouriano di amministrazione pubblica concepita, secondo una rigida struttura piramidale, informata al criterio gerarchico.

Occorre, a questo punto, esaminare la normativa applicabile agli enti locali. Sotto questo aspetto, è da dire che fino all’entrata in vigore della legge 142/90 alla categoria dei dirigenti degli enti suddetti, non era assegnato alcuno stabile complesso di funzioni organiche, mentre solo con la legge 142/90 venivano introdotte innovazioni di rilievo.

La prima novità era costituita dal passaggio dei dirigenti da una mera qualifica funzionale nell’ambito dell’impiego locale, a figura professionale dotata di una propria sfera di autonomia decisionale, gestionale ed operativa (articolo 51 legge 142/90).

La seconda novità, prevista nella legge 142/90, era stata la realizzazione di uno spartiacque tra sfera politica e apparato tecnico – gestionale, che implicava, per l’effetto, il riconoscimento di due distinti settori, quello politico e quello tecnico gestionale, entrambi garantiti dalla non interferenza della reciproca attività; pertanto, l’intervento legislativo del ‘90 ha anticipato, con riguardo agli enti locali, la rivoluzione copernicana di cui al D.Lgs 29/1993, varando un meccanismo centrato sulla distinzione tra la fase della programmazione, riservata agli organi politici, e quella della gestione amministrativa riportata alla competenza dirigenziale.

Necessario corollario di tali innovazioni era stata l’assunzione di piena e diretta responsabilità da parte del dirigente in relazione al settore assegnatogli quale conseguenza dell’attribuzione allo stesso di poteri organizzativi e gestionali nel settore di sua pertinenza.

Ai fini della motivazione della presente decisione, deve aggiungersi che l’articolo 51 lettera c) della legge 142/90, attribuiva espressamente ai dirigenti la competenza alla stipulazione di contratti, quale corollario dell’assegnazione agli stessi dell’adozione di atti che impegnavano l’amministrazione all’esterno ed è evidente che per “contratti” si intendono anche quelli di lavoro a tempo determinato e non.

Nello stesso senso, del resto, si era mosso, in prosieguo di tempo, il legislatore della legge 421/92 che all’articolo 2 ribadiva la netta separazione tra politica ed amministrazione.

Un progresso ulteriore, anticipatore delle recenti tendenze della disciplina organizzatoria dello stato e degli altri enti pubblici, si registrava con la legge Bassanini – bis, la 127/97, che aveva compiuto un’ulteriore evoluzione, portando il principio della distinzione tra indirizzo politico e gestione amministrativa fino ai comuni più piccoli ed era anch’essa vigente al momento del fatto erroneamente ascritto all’imputato.

L’articolo 6 comma 2° della legge 127/97 portava, inoltre, a compimento il principio di separazione tra politica e gestione, prevedendo che ai dirigenti spettava l’adozione di tutti gli atti con rilevanza esterna non riservati per legge e per regolamento agli organi di governo dell’ente.

Non appare ultroneo ricordare come la dirigenza statale sia stata oggetto di una completa riscrittura negli elementi fondamentali ad opera del D.Lgs 29/1993, nell’ambito di una tendenza concretizzatasi in un ribaltamento della precedente ottica.

Principi ispiratori della riforma del 1993 sono, parimenti, stati:

in primo luogo, l’affermazione dell’autonomia gestionale ed operativa dei dirigenti, in piena attuazione, del principio di separazione tra politica ed amministrazione. Nell’articolo 3 del decreto veniva, infatti, sancita una netta distinzione di competenze in base alla quale agli organi di governo era riservata l’individuazione degli obiettivi generali e dei programmi da porre in essere per perseguirli e, in seconda battuta, la verifica della corrispondenza dei risultati all’attività espletata; alla dirigenza, invece, era attribuita la gestione finanziaria, tecnica e di controllo.

In secondo luogo l’enunciazione del principio di responsabilità, atteso che l’autonomia dirigenziale nella gestione del settore di competenza, comportava, quale necessario corollario, l’assunzione della responsabilità per la condotta tenuta.

Deve, peraltro, aggiungersi, per completezza di trattazione, come la riforma del 1993 sia stata concepita dal legislatore con riferimento al modello ministeriale e, tuttavia, gli enti locali, tra i quali sono ricompresi i comuni, erano stati legislativamente chiamati a recepirne i principi.

Nell’economia della presente trattazione, è da evidenziare come la scelta effettuata dal legislatore, quale appena descritta, costituisca un’ulteriore riprova dell’applicazione agli enti locali, al tempo del fatto contestato, del principio legislativo che statuiva una chiara distinzione tra scelte di natura politica riservate agli organi di governo e decisioni relative alla gestione riservate al settore amministrativo.

Seguendo il tradizionale iter logico diacronico di matrice aristotelica, occorre, a questo punto esaminare il caso di specie. A tale proposito occorre ricordare come la condotta che si ritiene abbia integrato gli estremi della contravvenzione di cui all’articolo 650 Cp sia consistita nell’inottemperanza all’ordinanza pretorile 107509/98 che imponeva al Comune di Roma di reintegrare il dipendente Cataluddi nella precedente posizione all’interno dell’organigramma dell’ente locale.

Ora sulla base del quadro normativo, quale sopra esposto, appare evidente come il provvedimento che l’amministrazione avrebbe omesso di adottare avesse natura di atto di gestione e, pertanto, in base alla normativa, l’emissione dello stesso atto competeva non al Sindaco del Comune di Roma, bensì al dirigente preposto alla gestione del personale.

(B) Ai fini dell’affermazione della responsabilità penale o dell’emissione di una declaratoria di assoluzione, occorre, però, in secondo luogo verificare, se nell’ipotesi di specie non residuasse, in capo al Sindaco, un onere di puntuale controllo dell’operato dei dirigenti del Comune cui competeva l’adozione del provvedimento di reintegrazione del Cataluddi nell’organigramma dell’ente locale.

Infatti, in caso di risposta positiva a tale quesito, il fatto contestato sarebbe, comunque, attribuibile all’imputato a titolo di colpa per omesso controllo in relazione allo svolgimento delle funzioni di carattere gestionale aventi natura tecnico – amministrativa da parte dei dirigenti.

Punto di partenza obbligato della disamina è costituito dal dettato normativo. Sotto tale aspetto, è da dire che il legislatore degli anni ’90 prevedeva un controllo da parte degli organi politici sui risultati della gestione posta in essere dai dirigenti, quale conseguenza del trasferimento ai questi ultimi di poteri decisionali ed autonomia gestionale ed economica.

Ne deriva, secondo questo Giudice, che gli organi di governo, tra i quali il Sindaco, in base al dettato normativo, erano posti in una condizione di oggettiva ed effettiva alterità rispetto alla congerie di adempimenti ricadenti sui dirigenti, di modo che non è possibile ipotizzare la necessità di interventi di tipo surrogatorio da parte della compagine politica e quindi anche del Sindaco con riguardo a casi di inattività dei dirigenti.

Sotto altro profilo, è da dire che non sono nemmeno state fornite dalla Pubblica Accusa prove in ordine all’esistenza di circostanze specifiche indicative delle modalità con le quali presunte condotte di inattività da parte degli organi politici abbiano in concreto favorito il compimento di attività illecita da parte dei dirigenti.

Non appare fuori luogo richiamare le teorizzazioni della dottrina e della giurisprudenza in tema di delega di funzioni nelle imprese di grandi dimensioni e responsabilità penale per i fatti di reato occorsi, in quanto il ricorso alle suddette coordinate ermeneutiche fornisce ulteriore conferma della bontà della soluzione adottata.

A questo proposito, è da ricordare, come la soluzione al problema emersa in dottrina ed in giurisprudenza sia duplice a seconda che il titolare dell’azienda abbia delegato la direzione di rami dell’impresa a persone dotate di capacità tecnica ed autonomia decisionale “in base a precise disposizioni preventivamente adottate, quali ad esempio norme statutarie” o in assenza di esse.

Infatti, secondo l’orientamento ermeneutico dominante, solo in quest’ultimo caso non si ritiene ammissibile un esonero totale da responsabilità da parte del delegante, che rimane responsabile, ogni qualvolta possa venire a conoscenza di violazioni poste in essere dai delegati, usando la diligenza consentanea alle dimensioni dell’impresa e si sostiene che, in tale ipotesi, il delegante risponda per fatto omissivo improprio ex articolo 40 comma 2° Cp, poiché la sua inerzia è stata causa di un evento lesivo del bene giuridico tutelato dall’ordinamento.

Dottrina e giurisprudenza dominanti aggiungono che laddove, invece, il datore di lavoro si sia trovato in una situazione di oggettiva ed effettiva alterità statutariamente stabilita rispetto ai compiti assegnati al delegato, tale da non darsi l’occasione di richiedere il suo intervento, la qualifica extrapenalistica assumerà un rilievo esclusivamente formale e potrà rinvenirsi, al più, in capo al datore di lavoro, un generico obbligo di sorveglianza penalmente irrilevante, poiché non vi è spazio per ritenere necessari interventi puntuali e rigorosi, ma, piuttosto, un’attività saltuaria e di modesta incisività (cfr. ex pluribus Cassazione penale 20 giugno 1984 in Mass. penale 5795/85 e Cassazione penale. sezione quarta 27 aprile 1987). In questo caso si ritiene, così, che la delega produca un effetto traslativo liberatorio con efficacia esimente, tale da escludere sul piano obiettivo la responsabilità penale del datore di lavoro a titolo di colpa per omessa vigilanza, sicché in tali ipotesi la responsabilità di quest’ultimo potrà derivare esclusivamente dall’accertamento di circostanze particolari che dimostrino la conoscenza o la conoscibilità da parte del delegante di situazioni concrete che abbiano favorito il compimento dell’attività colposa la parte del delegato.

Appare evidente che, al caso di specie, relativo al Sindaco di un comune di rilevanti dimensioni, quale quello di Roma, possono essere applicati i principi stabiliti dalla giurisprudenza con riguardo alla delega di funzioni nelle imprese, avvenuta in conformità con disposizioni preventivamente vigenti e ciò in quanto l’assegnazione al dirigente, preposto alla gestione del personale, della competenza all’emissione del provvedimento di reintegrazione, discendeva dalla normativa già al tempo vigente, quale sopra descritta.

Sulla base di quanto, fin qui esposto, deve ritenersi, allora, che in capo al Sindaco non sia ascrivibile il fatto a lui contestato nemmeno per omesso controllo dell’operato del dirigente, preposto alla gestione del personale, competente ad emettere il provvedimento di reintegrazione del Cataluddi e ciò, in quanto, la ripartizione di funzioni tra organi politici e amministrativi era prevista da norme precise che non lasciavano residuare in capo al sindaco pro tempore del comune di Roma alcuno spazio di responsabilità per omesso controllo sull’attività di gestione da parte dei dirigenti. Infatti, in virtù del principio di separazione tra politica ed amministrazione, legislativamente sancito, i doveri del sindaco non si sostanziavano in un controllo puntuale sull’attività dei dirigenti, ma, in base allo stesso dettato normativo, solo “sui risultati della gestione”.

Occorre in ogni caso aggiungere, per completezza di trattazione, che la pubblica accusa non ha fornito alcuna prova in ordine all’eventuale conoscenza da parte del sindaco dell’obbligo di riassunzione del Cataluddi, atteso che, dagli atti contenuti nel fascicolo, è dato ricavare che l’ordinanza pretorile è stata notificata al comune di Roma e non all’imputato, in qualità di sindaco (cfr. la stessa denuncia presentata dal segretario dell’organizzazione sindacale Cil-Enti locali). In mancanza di prova della stessa conoscenza da parte dell’imputato del disposto pretorile, non è dato comprendere su quali basi sia stata avanzata l’ipotesi accusatoria nei confronti dello stesso.

Ne consegue che l’imputato va assolto dal fatto a lui ascritto, perché la responsabilità per la commissione dello stesso deve riconoscersi in capo al dirigente preposto alla gestione del personale, come tale competente ad emettere il provvedimento di riassunzione del Cataluddi in ottemperanza a quanto disposto nell’ordinanza pretorile 107509/98.

PQM

Visti gli articoli 129-530 comma 1° Cpp.

Assolve F. R. dal reato a lui ascritto per non avere commesso il fatto.