Lavoro e Previdenza

Wednesday 25 April 2007

La responsabilità del datore di lavoro per gli infortuni dei dipendenti.

La responsabilità del datore di
lavoro per gli infortuni dei dipendenti.

Cassazione – Sezione quarta
penale (up) – sentenza 29 gennaio-24 aprile 2007, n. 16422

Presidente Marzano – Relatore
Piccialli

Ricorrente Di Vincenzo

Fatto e diritto

Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Firenze,
in parziale riforma della sentenza di primo grado, pronunciata dal tribunale di
Prato, per quanto qui rileva, indicava il termine per l’adempimento
dell’obbligo cui è stata subordinata la sospensione condizionale della pena in
giorni 60 dal passaggio in giudicato della sentenza, e confermava il giudizio
di responsabilità nei confronti di Di Vincenzo Fiore
per il reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione di norme
antinfortunisfiche (ex articolo 590, commi 1 e 2 Cp), determinando la pena in
mesi 3 gg. 15 di reclusione.

L’ infortunio era occorso in data
31 marzo 2000 in
danno dei dipendente Giustolisi Sergio, che, mentre
era sul tetto di un capannone industriale per procedere alla riparazione di un
lucernaio, precipitava dall’altezza di circa dieci metri a seguito della
rottura di una lastra di vetroresina posta su di un altro lucernaio, riportando
lesioni personali gravi al cranio, con pericolo di vita.

A carico del Di
Vincenzo erano stati ravvisati profili di colpa, sia generica, per aver omesso
di verificare ed imporre al lavoratore il rispetto delle cautele suggerite
dalla comune prudenza, sia specifica, fondata, quest’ultima, sulla inosservanza
dei disposto dell’articolo 70 del Dpr 164/56, secondo il quale, prima di
procedere all’esecuzione di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili,
deve essere accertato il loro grado di resistenza in relazione al peso degli
operai e dei materiale di impiego.

Avverso la predetta decisione
propone ricorso per cassazione Di Vincenzo Fiore, articolando due motivi,
strettamente connessi.

Con il primo denuncia la
violazione dell’articolo 521 Cpp sul rilievo che il giudice di primo grado avrebbe evidenziato un profilo di colpa non specificamente
individuato prima,con precipuo riferimento alla disamina della condotta dei Di
Vincenzo, che non avrebbe imposto l’uso di cinture di sicurezza ex articolo 10
Dpr 164/56 e che i giudici della Corte di appello avevano cercato di
giustificare tale riferimento sostenendo inutilmente che l’ultima parte
dell’articolo 70 Dpr164/56 prescrive, in caso di dubbio sulla resistenza delle
strutture, anche l’uso di cinture di sicurezza. Gli stessi giudici d’appello
davano comunque atto che la condotta del Di Vincenzo
non appariva censurabile, attese le difficoltà pratiche connesse, nel caso
concreto, all’adozione di tale cautela. La mancanza di necessaria correlazione
tra accusa e sentenza è configurabile, secondo il ricorrente, anche sotto un
altro profilo: i giudici di appello hanno, infatti, contestato per la prima
volta ai ricorrente di non aver provveduto ad una
chiara delimitazione delle zone di lavoro,comunque, pericolose.

Con il secondo motivo deduce
l’assenza di motivazione in ordine all’istanza di rinnovazione dell’istruttoria
dibattimentale ex articolo 603 Cpp, formulata in sede di giudizio di appello.

Con il terzo motivo lamenta la
manifesta illogicità della motivazione, che fonderebbe il giudizio di
responsabilità dell’imputato su valutazioni apodittiche, tra cui l’asserita
pericolosità dei tetto ricurvo di un capannone
industriale con presenza di lucernari, costituenti una vera e propria insidia,
non essendo facilmente rilevabili per l’omogeneità (in vetroresina) rispetto
alla intera copertura( in etemit) da coloro che si fossero trovati sopra il
tetto dei capannone. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto in sentenza, la
zona di lavoro doveva considerarsi ben delimitata ed i giudici del merito non
avevano tenuto conto che la caduta dei Giustolisi era avvenuta da un lucernaio
distante circa dieci metri dal luogo in cui doveva essere eseguito l’intervento
di riparazione. Apodittica, inoltre, sarebbe l’affermazione della Corte di
merito dove sostiene l’inidoneità di tutti lucernari presenti su quel tetto a
sostenere il peso di una o più persone.

Con il quarto motivo lamenta
l’inosservanza della legge penale processuale penale in tema di valutazione
delle prove ex articolo 192 Cpp.in quanto la Corte di appello non avrebbe tenuto conto che
l’infortunio era stato determinato esclusivamente dal comportamento imprudente
del Giustolisi, il quale aveva ammesso di essere salito sul tetto passando da
una tettoia non inclinata e che si trovava al momento dell’incidente in una
zona distante da quella dove avrebbe dovuto essere
eseguito il lavoro.

Il ricorso non può trovare
accoglimento in quanto infondato.

Con riferimento al primo motivo,
non può sostenersi, con la difesa, che i giudici del merito avrebbero
evidenziato profili non evidenziati nel capo di imputazione (ciò con
preciso riferimento alla adozione delle cinture di sicurezza, per evitare la
caduta accidentale da uno dei lucernari), incorrendo, pertanto,nella violazione
dei principio di necessaria correlazione tra la sentenza e la contestazione.

Tale violazione non vi è stata
alla luce di quella che risulta essere stata la contestazione formulata sin
dall’origine nei confronti dell’odierno ricorrente e delle ampie possibilità
defensionali che questi ha avuto, in relazione a tutti i profili di colpa
addebitatigli.

Al riguardo non va innanzitutto
dimenticato che, per assunto pacifico, il principio di correlazione tra
sentenza e accusa contestata è violato soltanto quando
il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto
di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nei senso che si sia
realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei
contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto così,
sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto la
possibilità di effettiva difesa. Tale principio non è invece violato quando nei
fatti, contestati e ritenuti, si possa agevolmente individuare un nucleo comune
e, in particolare, quando essi si trovano in rapporto di continenza (cfr, tra
le tante, Cassazione, Sezione sesta, 29 aprile 2003, Carboni).

Nella fattispecie, non occorre
neanche richiamare il principio suddetto, non potendosi revocare in dubbio,
alla luce della sola disamina della contestazione formulata nei confronti
dell’odierno ricorrente, che tale violazione non vi è stata.

L’articolo 70 del Dpr 164/56, la
cui inosservanza è stata ritualmente contestata, applicabile a tutte le ipotesi
di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili, oltre a prescrivere i
necessari e preventivi accertamenti per verificare la sufficiente resistenza
degli stessi per sostenere il peso degli operai, nell’ipotesi di dubbia
resistenza prescrive espressamente nella seconda parte i’adozione dei necessari
apprestamenti atti a garantire l’incolumità delle persone addette, disponendo a seconda dei casi, tavole sopra le orditure, sottopalchi e
l’uso di cinture di sicurezza.

Non è quindi dubitabile, rispetto
ad una ricostruzione fattuale della vicenda qui non sindacabile, l’esatto
richiamo alla normativa di prevenzione de qua a fondamento della ritenuta colpa
specifica; in una vicenda in cui, dei resto, a carico
dei datore di lavoro è stata ravvisata anche la violazione delle comuni regole
di prudenza e, quindi, la colpa generica (con argomentare sintetico, ma
all’evidenza in linea con il disposto dell’articolo 2087 Cc, in forza dei quale
il datore di lavoro è costituito garante dell’incolumità fisica e della
salvaguardia della personalità morale dei prestatore di lavoro, essendo posto
comunque a suo carico l’obbligo di adottare, secondo le regole della comune
prudenza, le misure che secondo la particolarità dei lavoro, l’esperienza e la
tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale
dei lavoratori).

Anche il secondo motivo, relativo
all’omessa motivazione in merito alla richiesta rinnovazione della istruttoria
dibattimentale, è infondato, poiché non tiene conto delle caratteristiche della
rinnovazione dei giudizio in appello.

In vero, secondo assunto
pacifico, poiché il giudizio d’appello, costituisco un procedimento critico che
ha per oggetto la sentenza impugnata, la rinnovazione dei l’istruttoria
dibattimentale è un istituto di carattere eccezionale, rispetto all’abbandono
del principio di oralità del secondo grado, nel quale vale la presunzione che
l’indagine istruttoria abbia ormai raggiunto la sua completezza nel dibattimento
svoltosi innanzi al primo giudice. In una tale prospettiva, l’articolo 603,
comma 1, Cpp. non riconosce carattere di
obbligatorietà all’esercizio del potere del giudice d’appello di disporre la
rinnovazione del dibattimento, anche quando è richiesta per assumere nuove
prove, ma vincola e subordina tale potere, nel suo concreto esercizio, alla
rigorosa condizione che il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter
decidere allo stato degli atti. Con la conseguenza che, se è vero che il
diniego dell’eventualmente invocata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale
deve essere spiegato nella sentenza di secondo grado, la relativa motivazione
(sulla quale nel limiti della illogicità e della non
congruità è esercitabile il controllo di legittimità) può anche ricavarsi per
implicito dal complessivo tessuto argomentativo, qualora il giudice abbia dato
comunque conto delle ragioni in forza delle quali abbia ritenuto di potere
decidere allo stato degli atti (di recente, Cassazione, Sezione quarta, 28
ottobre 2005, Conti).

La Corte di appello si è posta
in linea con il principio sopra enunciato ed ha in effetti
logicamente ed implicitamente argomentato sul rigettò della richiesta di
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale richiamando i principi generali in
tema di responsabilità dei datore di lavoro ex articolo 2087 Cc, che imponevano
al Di Vincenzo l’adozione delle necessarie cautele per tutelare la salute dei
lavoratore.

Infondato è anche il terzo motivo
che denuncia la mancanza e la illogìcità della
motivazione con riferimento alla ricostruzione della dinamica dei sinistro,
fondata essenzialmente sul comportamento Di Vincenzo, che, nonostante un
contesto non solo generalmente pericoloso ma presentante una specifica insidia,
aveva omesso l’adozione delle necessarie cautele. Si sostiene che il giudice di
appello non avrebbe tenuto conto delle argomentazioni
difensive formulate alla luce delle risultanze istruttorie (fotografie in atti
e le dichiarazioni rese dalla stessa parte offesa) , che avevano escluso la
sussistenza di una situazione di pericolo e, più in generale, della inidoneità
dei lucernari a sostenere il peso di una o più persone.

In realtà, dietro l’apparente
deduzione di un vizio di legittimità, il ricorrente vorrebbe che in questa sede
sí procedesse ad una rinnovata valutazione degli elementi probatori posti a
base dei giudizio di responsabilità.

Ciò che non è consentito in sede
di legittimità laddove non è possibile una rinnovata valutazione dei fatti e
degli elementi di prova.

E’ principio non controverso,
infatti, che nel momento dei controllo della
motivazione, la Corte
di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore
ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma devo
limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso
comune e con i limiti di una “plausibile opinabilità di apprezzamento”. Ciò in
quanto l’articolo 606, comma 1, lettera e), del Cpp
non consente alla Corte di cassazione una diversa lettura dei dati processuali
o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al giudizio di
legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati
processuali (Cassazione, Sezione quinta, 13 maggio 2003, Pagano ed altri). In
altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e
dell’osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della
prova, in particolare non competendogli un controllo sul significato concreto
di ciascun elemento di riscontro probatorío (Cassazione, Sezione sesta, 6 marzo
2003, Di Folco).

Ciò premesso in termini generali,
deve ritenersi che, proprio con riguardo all’apparato argomentativo a supporto
del ritenuto addebito di colpa, la sentenza di merito appare congruamente
motivata in relazione a tutti i profili di interesse, con corretta applicazione
dei principi in tema di accertamento della colpa e di nesso di causalità.

La Corte di appello, attraverso
un’analitica disamina degli atti di causa, ha ampiamente argomentato sui
profili della ritenuta responsabilità dell’imputato, corrispondendo dei resto puntualmente rispetto alle doglianze proposte con
l’appello.

In particolare, i giudici di
appello, con motivazione logicamente ineccepibile, hanno ricostruito la
dinamica del sinistro, esaminando il comportamento dell’imputato, anche alla
luce delle deduzioni difensive, che sono state disattese puntualmente con
argomentazioni che hanno tenuto conto degli esiti della istruttoria
dibattimentale.

Sul punto, è stato sottolineato
che l’incidente si era verificato in un contesto già genericamente pericoloso,
quale quello del tetto ricurvo di un capannone di tipo industriale con presenza
di lucernari, caratterizzato oltretutto da specifica insidia, costituita dal
fatto che le parti della complessiva copertura aventi funzione di lucernari non
presentavano, dal punto di vista strutturale, alcuna soluzione di continuità
rispetto alle altre parti, potendo anzi, sia per la conformazione sia per il
materiale impiegato (di una sfumatura di colore diverso), essere confuse con le
altre zone del tetto (almeno per quanti, come l’infortunato, si fossero trovati
al di sopra di esso).

Nessuna incoerenza logica è
ravvisabile in tale motivazione, con la quale la Corte di merito ha altresì
esaminato e fornito assorbentemente risposta alle altre ipotesi formulate dalla
difesa in merito alla ricostruzione della dinamica dei
sinistro, tutte tese a prospettare la sussistenza di un comportamento
colposo dei lavoratore (v. in particolare, l’asserita e, peraltro, irrilevante,
circostanza dedotta dal ricorrente al fine di escludere la sussistenza dei
rapporto di causalità secondo la quale la caduta del Giustolisi era avvenuta da
un lucernaio distante circa dieci metri dal luogo in cui doveva essere eseguito
l’intervento di riparazione).

Infondata è anche la quarta
censura, volta a prospettare l’interruzione del nesso causale basata sul
comportamento imprudente della parte offesa (che avrebbe inopinatamente assunto
l’iniziativa di salire sul tetto passando da una tettoia non inclinata, come da
lui stesso ammesso) e sulla asserita circostanza che la normale attività di
riparazione non presentava alcun elemento di rischio.

Il ricorrente dimentica di
considerare che, poichè le norme di prevenzione antinfortunistica mirano a
tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua
negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità dei datore di lavoro e,
in generale, del destinatario dell’obbligo di adottare le misure di prevenzione
può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza
di un comportamento del lavoratore che presenti i caratteri dell’eccezionalità,
dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle
precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile o
inopinabile. Peraltro, in ogni caso, nell’ipotesi di infortunio sul lavoro
originato dall’assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna
efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può
essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato
occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza
o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, Sarebbero valse a
neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento (Cassazione, Sezione
quarta, 13 novembre 2006, Perin).

Partendo da queste premesse
indiscutibili in diritto e tenendo altresì conto che la dinamica dei sinistro è stata chiarita dalle dichiarazioni rese dal
solo lavoratore, in quanto il Di Vincenzo non ha ritenuto di rendere
dichiarazioni spontanee, deve ritenersi corretta la decisione del giudice di
merito che, con ricostruzione dei fatti e analisi convincente, ha escluso che
la condotta dell’operaio avesse integrato alcunchè di esorbitante o di imprevedibile,
tale da poter rilevare ai fini dell’interruzione del nesso causale, avendo
ravvisato questo, sempre con argomentazioni qui incensurabili e giuridicamente
corrette, nelle inosservanze colpose ascritte all’imputato (in particolare. di non essersi preoccupato assolutamente della sicurezza ed
incolumità, fisica dell’operaio, omettendo di predisporre, ai fini del lavoro
da eseguir alcuna opera provvisionale e venendo meno all’obbligo di
informazione nei confronti del dipendente sulla specifica pericolosità del
luogo di lavoro).

La decisione dei giudici di
merito è peraltro in linea con la giurisprudenza di questa Corte in materia di
responsabilità colposa del datore di lavoro.

In proposito è stato
condivisibilmente ritenuto (v. Sezione quarta, la già citata sentenza Perin ed
i riferimenti in essa contenuti) che, in materia di
infortuni sul lavoro, il D.Lgs 626/94, se da un lato prevede anche un obbligo
di diligenza del lavoratore, configurando addirittura una previsione
sanzionatoria a suo carico, non esime il datore di lavoro, e le altre figura
ivi istituzionalizzate, e, in mancanza, il soggetto preposto alla
responsabilità ed al controllo della fase lavorativa specifica, dei debito di
sicurezza nei confronti, dei subordinati. Questo consiste, oltre che in un
dovere generico di formazione ed informazione, anche in forme di controllo
idonee a prevenire i rischi della lavorazione che tali soggetti, in quanto più
esperti e tecnicamente competenti e capaci, debbono adoperare al fine di
prevenire i rischi, ponendo in essere la necessaria diligenza, perizia e
prudenza, anche in considerazione della disposizione generale di cui
all’articolo 2087 Cc, norma di " chiusura dei sistema”,
da ritenersi operante nella parte in cui non è espressamente derogata da
specifiche norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Come è noto, in forza della
disposizione generale di cui all’articolo 2087 Cc e di quelle specifiche
previste dalla normativa antinfortunistica, il datore di lavoro è costituito
garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale
dei prestatori di lavoro, con l’ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi
agli obblighi di tutela, l’evento lesivo correttamante gli viene
imputato in forza dei meccanismo reattivo previsto dall’articolo 40, comma 2,
Cp.

Ne consegue che il datore di
lavoro, ha il dovere di accertarsi dei rispetto dei
presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore possa prestare la
propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando altresì a che le condizioni
di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l’opera (v.
Sezione quarta, 4 luglio 2006, Civelli).

In altri termini, il datore di
lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività
lavorative in modo sicuro, assicurando anche l’adozione da parte dei dipendenti
delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi
connessi all’attività lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che
alle disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto
dell’articolo 2087 Cc, in forza del quale il datore di lavoro è comunque
costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della
personalità morale dei prestatori di lavoro, con l’ovvia conseguenza che, ove
egli non ottemperi all’obbligo di tutela, l’evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza dei meccanismo previsto
dall’articolo 40, comma 2, Cp (v., oltre la sentenza citata, anche Cassazione,
Sezione quarta, 12 gennaio 2005, Cuccu).

Tale obbligo comportamentale, che
è conseguenza immediata e diretta della “posizione di garanzia” che il datore
di lavoro assume nei confronti dei lavoratore, in
relazione all’obbligo di garantire condizioni di lavoro quanto più possibili
sicure, è di tale spessore che non potrebbe neppure escludersi una
responsabilità colposa dei datore di lavoro allorquando questi tali condizioni
non abbia assicurato, pur formalmente rispettando le norme tecniche,
eventualmente dettate in materia al competente organo amministrativo, in
quanto, al di là dell’obbligo di rispettare le suddette prescrizioni
specificamente volte a prevenire situazioni di pericolo o di danno, sussiste
pur sempre quello di agire in ogni caso con la diligenza, la prudenza e
l’accortezza necessarie ad evitare che dalla propria attività derivi un
nocumento a terzi (cfr. Cassazione, Sezione quarta, 12 dicembre 2000,
Bulferetti).

Non è pertanto dubitale che I’
incidente sia riconducibile al comportamento colposo dei Di
Vincenzo.

Il ricorso, pertanto, va
rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali.