Civile

Friday 21 July 2006

La natura e la funzione della caparra confirmatoria

La natura e la funzione della caparra confirmatoria

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE SENTENZA 16-05-2006, n. 1135 (Presidente G. Nicastro, Relatore L. A. Scarano)

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato in data 9/2/95 il sig. P. D. conveniva avanti al Tribunale di Venezia il sig. B. A. per ivi sentirlo condannare alla restituzione della somma di L. 5 milioni, oltre interessi, previo accertamento della nullità della scrittura d.d. 3/12/89.

Si costituiva il B., che eccepiva l’inammissibilità o improponibilità della domanda per intervenuto giudicato sulle statuizioni in ordine allo stesso oggetto emesse da Trib. Venezia n. 511 del 1993, e ne chiedeva in ogni caso il rigetto nel merito, in via riconvenzionale instando per la condanna del P. al pagamento del corrispettivo spettantegli in ragione della convenuta cessione di azienda (esercizio di frutta, verdura e generi alimentari) nonchè a titolo di canoni dovutigli per l’inadempimento dello stipulato contratto di locazione avente ad oggetto i locali del negozio.

L’adito giudice, ritenuta la proponibilità della domanda, ne pronunziava il rigetto, unitamente a quella in via riconvenzionale formulata dal convenuto, per infondatezza nel merito.

Interposto gravame dal P., con sentenza dell’11/6/2001 la Corte d’Appello di Venezia nella resistenza del B., che riproponeva anche la domanda di pagamento del saldo per la cessione dell’azienda e di canoni di locazione proposta in via riconvenzionale, in riforma dell’impugnata sentenza dichiarava improponibili le domande, con compensazione tra le parti delle spese di lite.

Avverso la suindicata sentenza della corte di merito ricorre ora per Cassazione il P., sulla base di 2 motivi, illustrati da memoria.

Resiste il B. con controricorso, anch’esso illustrato da memoria.

Motivi della decisione

Con il 1^ motivo il ricorrente denunzia violazione dell’art. 100 c.p.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c.;

insufficiente o erronea motivazione su punto decisivo della motivazione.

Lamenta che erroneamente la corte di merito ha ritenuto essersi nel caso formato il giudicato sulla pronunzia emessa da Trib. Venezia con sentenza n. 511 del 1993, non contenendo quest’ultima alcun capo della decisione concernente la domanda di restituzione della somma di L. 5 milioni fatta valere, essendosi il giudice limitato ad affermare l’insussistenza di elementi idonei a consentire di “identificare se e quale condotta in concreto fosse da qualificare inadempiente” ai fini della (in tale giudizio) richiesta declaratoria di risoluzione del contratto e conseguente restituzione della caparra versata.

Vi era pertanto stata un’omessa pronunzia al riguardo da parte di tale giudice, con conseguente impossibilità del formarsi di alcun giudicato.

Omessa pronunzia in ogni caso non ostativa alla riproposizione della domanda in separato giudizio, avendo la rinunzia implicita alla domanda ex art. 346 c.p.c.. valore meramente processuale e non anche sostanziale, nessun opponibile giudicato potendo pertanto nel caso essersi formato in conseguenza della mancata impugnazione della medesima.

Con il 2 motivo, denunziando violazione dell’art. 2033 c.c. e art. 112 c.p.c. nonchè omessa e falsa interpretazione su un punto decisivo della controversia, lamenta che erroneamente risulta in sentenza affermato attenere la formulata domanda di restituzione alla caparra, trattandosi viceversa nel caso della ontologicamente diversa domanda di ripetizione di indebito oggettivo, conseguente alla declaratoria di nullità del contratto preliminare in questione.

I motivi possono essere esaminati congiuntamente, essendo logicamente connessi.

Il ricorso è fondato e va accolto nei limiti di seguito indicati.

In riforma della sentenza del giudice di prime cure, che l’aveva considerata proponibile e rigettata per l’infondatezza nel merito, la Corte di merito ha ritenuto fondata l’eccezione di giudicato del B. in ordine alla nullità del contratto de quo, affermando essere stata la stessa accertata incidenter tantum da Trib. Venezia n. 511 del 1993 nel qualificare come “del tutto incomprensibile e priva di causa la previsione di un canone per l’affitto dell’azienda mancando a carico del cedente-locatore un’obbligazione corrispettiva”.

Il giudice del gravame di merito aggiunge che, essendosi nella detta sentenza ravvisata “l’impossibilità di identificare le obbligazioni e di qualificare se e quali condotte fossero da qualificare inadempienti”, nonchè rigettate “le domande tendenti alla risoluzione del contratto e, quindi, anche quella di restituzione della caparra” l’allora appellante ed odierno ricorrente P. aveva invero “l’onere di impugnare la sentenza che, sul punto, è passata in giudicato”. Al riguardo concludendo: “Nè a diversa soluzione si perverrebbe se, in ipotesi, si volesse (ma lo stesso appellante lo esclude) attribuire efficacia di giudicato implicito alla declaratoria di nullità del contratto “de quo” giacchè, anche in tal caso, il rigetto, della domanda restitutoria della caparra doveva essere impugnata tempestivamente”.

Va al riguardo precisato che, a fronte di formulate domande dell’odierno resistente ed allora attore B. (di risoluzione del contratto stipulato il 3/12/1989 per inadempimento del P., con conseguente condanna del medesimo al risarcimento dei danni) nonchè dell’odierno ricorrente ed allora convenuto ed attore in via riconvenzionale P. (di nullità della domanda per indeterminatezza dell’oggetto e in subordine di risoluzione del contratto per inadempimento del B. con conseguente condanna alla restituzione della caparra di L. 5.000.000 nonchè, in via riconvenzionale, alla restituzione della somma di L. 5.000.000, oltre ad interessi e rivalutazione nonchè ai danni da quantificarsi in corso di causa), con sentenza n. 511 del 1993 Trib. Venezia si è limitato a rigettare la domanda di quest’ultimo ed altresì quelle di nullità della citazione e di risoluzione del contratto dal P. in tale sede proposte in via di eccezione, senza pronunziare espressamente in ordine alla sopra riportata domanda riconvenzionale di restituzione di L. 5.000.000, oltre ad interessi e ai danni da quantificarsi in corso di causa.

In motivazione tale giudice afferma che, pur avendo entrambe le parti chiesto la risoluzione dello stipulato contratto preliminare de quo, ed essendo “evidentemente necessario” al riguardo “pervenire alla esatta qualificazione giuridica del contratto ed alla individuazione delle obbligazioni da esso nascenti” al fine di “identificare se e quale condotta in concreto sia da qualificare inadempiente”, risulta tuttavia “nella specie … impossibile identificare la natura del contratto …”. Aggiungendo che, pur a fronte di “considerazioni” le quali “indurrebbero a prospettare profili di nullità del contratto”, non gli era invero consentito rilevare quest’ultima d’ufficio, essendo stata nell’occasione proposta una domanda di risoluzione, e non già di adempimento.

La detta pronunzia non veniva impugnata.

Con successiva domanda notificata nel 1995 il P. adiva nuovamente il tribunale veneziano chiedendo accertarsi “la nullità della scrittura 03.02.1989 conclusa dalle parti, ordinarsi al convenuto di restituire all’attore la somma di L. 5.000.000 oltre agli interessi di L. 2 novembre 1990 (corrispondente alla data dello scambio della comparsa di risposta nell’anteriore giudizio) al definitivo saldo”.

Nel disattendere l’eccezione di giudicato sollevata dal B., a chiusura del primo grado del presente procedimento Trib. Venezia 21/8/1997 ha ritenuto proponibile la domanda, “in quanto non esaminata nella sentenza inter partes di questo Tribunale n. 511/93 e perciò non preclusa dal giudicato formatosi in ordine alla medesima pronunzia, siccome correttamente evidenziato dallo stesso attore”.

La medesima rigettando tuttavia nel merito.

In sede di gravame la Corte d’Appello di Venezia ha viceversa accolto l’eccezione di giudicato, avendo asseritamente Trib. Venezia n. 511 del 1993 incidenter tantum accertato la nullità del contratto preliminare de quo, nonchè “rigettato le domande tendenti alla risoluzione del contratto e, quindi, anche quella di restituzione della caparra formulata, appunto in via riconvenzionale dall’odierno appellante”.

Va anzitutto premesso che l’interpretazione della domanda e l’apprezzamento della sua ampiezza, oltre che del suo contenuto, è in effetti rimessa al giudice del merito (da ultimo v. Cass., 2/11/2005, n. 21208), anche di appello (da ultimo v. Cass., 6/10/2005, n. 19475), ed è sindacabile in sede di legittimità solamente sotto il profilo dell’esistenza, sufficienza e logicità della motivazione (v. Cass., 14/4/1999, n. 3678).

Peraltro, come questa Corte di legittimità ha avuto modo – seppure non univocamente – di affermare, il principio secondo cui l’interpretazione delle domande giudiziali implica un giudizio di fatto demandato al giudice di merito, e sindacabile in cassazione solo sotto il profilo del vizio di motivazione, non esaurisce invero la problematica in materia di attribuzioni del giudice di legittimità riguardo all’identificazione dell’oggetto del giudizio, in quanto la Corte di Cassazione deve procedere all’esame e alla valutazione diretta degli atti sia quando si prospetti che il giudice di merito abbia del tutto trascurato determinate richieste ovvero abbia pronunziato su domande che non risultano proposte o ultra petita e manchi un sia pur sintetico contributo sul piano ermeneutico del giudice di merito; sia quando in sede di legittimità si constati, attraverso il controllo della correttezza e congruità della motivazione, la censurabilità in concreto dell’operato del giudice di merito nella interpretazione delle domande.

In ambedue i casi, infatti, si prospetta concretamente la violazione dell’art. 112 c.p.c. e la sussistenza del relativo error in procedendo, ed è analogamente necessario che il giudizio di cassazione si concluda con la precisa identificazione dell’oggetto del giudizio, ai fini, a seconda dei casi, dell’adozione di una pronunzia di cassazione senza rinvio (in caso di pronunzia su domanda non effettivamente proposta), oppure di cassazione con rinvio finalizzata all’esame in sede di merito delle domande effettivamente proposte (v. Cass., 5/12/2002, n. 17307; Cass., 23/5/2001, n. 7049).

Va altresì tenuta distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda, o la pronuncia su domanda non proposta, dal caso in cui si censuri viceversa l’interpretazione data dal giudice di merito alla domanda stessa.

Solo nel primo caso si verte infatti propriamente in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c. per mancanza della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, prospettandosi che il giudice di merito sia incorso in un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti giudiziari onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronunzia richiestale.

Nel caso in cui venga diversamente in contestazione l’interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, tali attività integrano invece un tipico accertamento in fatto, sindacabile in cassazione esclusivamente sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (v. Cass., 5/8/2005, n. 16596; Cass., 28/9/2004, n. 19416; Cass., 20/8/2002, n. 12259).

Sotto altro profilo, costituisce principio pacifico quello secondo cui il contenuto e la portata precettiva di qualsiasi pronunzia giudiziaria devono essere accertati sulla base del dispositivo e della motivazione (v. Cass., 5 ottobre 1999, n. 11033), sicchè la portata del giudicato – sia esso esterno od interno – va effettuata con riferimento non soltanto al dispositivo della sentenza ma anche alla motivazione di quest’ultima, non potendo escludersi nemmeno la correttezza di un’indagine diretta ad attribuire rilevanza integratrice alle stesse domande delle parti, nell’assenza di altri elementi idonei ad escludere un’obiettiva incertezza sul contenuto della pronunzia (v. Cass., 23/11/2005, n. 24594; Cass., 12/12/2003, n. 19052 ; Cass., 5/3/2003, n. 3245; Cass., 27/11/2001, n. 14986; Cass. n. 10498 del 2001; Cass., 1 ottobre 1999, n. 10869; Cass., Sez. Un., 28 aprile 1999, n. 277).

Ancora, va precisato che il giudicato, sia esso interno od esterno, costituendo la regola del caso concreto partecipa della qualità dei comandi giuridici, conseguendone che, come la sua interpretazione non si esaurisce in un giudizio di fatto ma deve essere assimilata – per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce – all’interpretazione delle norme giuridiche, così l’erronea presupposizione della sua esistenza o inesistenza, equivalendo ad ignoranza della regula iuris, rileva non già quale errore di fatto bensì quale errore di diritto, assimilabile al vizio del giudizio sussuntivo, consistente nel ricondurre la fattispecie ad una norma diversa da quella che reca, invece, la sua diretta disciplina, e, quindi, ad una falsa applicazione di norma di diritto (v. Cass., Sez. Un., 17/11/2005, n. 23242, Cass., Sez. Un., 16/11/2004, n. 21639; Cass., Sez. Un., 2/4/2003, n. 5105. Contra, nel senso che esso è censurabile in sede di legittimità per violazione dei criteri di ermeneutica di cui agli artt. 1362 ss. c.c. v. peraltro Cass., 16/5/2005, n. 10229; Cass., 30/5/2003, n. 8809).

Va ulteriormente posto in rilievo che al fine di verificare se si sia formato un giudicato, interno od esterno, che è obbligata a rilevare anche d’ufficio (a prescindere cioè da qualsiasi istanza di parte che, se avanzata, vale quale mera sollecitazione all’esercizio di poteri officiosi), la Corte di Cassazione procede al relativo accertamento con cognizione piena, dantesi alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti del processo, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice del merito (v. Cass., 20/1/2006, n. 1099; Cass., 29/9/2005, n. 19136; Cass., 16/1/2004, n. 630; Cass., 23/1/2002, n. 735; Cass., Sez. Un., 9/8/2001, n. 10977; Cass., Sez. Un., 25/5/2001, n. 226).

Orbene, nel caso il ricorrente ha dedotto sia violazione di legge che vizio di motivazione in ordine al giudicato sulla pronunzia Trib. Venezia n. 511 del 1993; nonchè violazione ex art. 112 c.p.c., violazione di legge e vizio di motivazione relativamente alla formulata richiesta di restituzione dell’importo di L. 5.000.000 nell’impugnata sentenza qualificata in termini di restituzione della caparra, anzichè di restituzione dell’indebito oggettivo conseguente alla nullità del contratto preliminare de quo.

Stante il tenore delle doglianze, riguardate alla stregua dei suesposti principi, va osservato ed affermato quanto segue.

Diversamente da quando sostenuto nell’impugnata sentenza (e pur se risulta ivi operato l’improprio – in parte qua – riferimento al giudicato implicito), va anzitutto escluso che nelle sopra riportate asserzioni, di carattere generico ed ipotetico, rinvenibili nella motivazione della sentenza Trib. Venezia n. 511 del 1993 possa ravvisarsi un compiuto accertamento incidenter tantum in ordine alla nullità del contratto preliminare in questione.

Atteso che il giudicato non si forma sulla pronunzia incidentale di nullità (v., da ultimo, Cass., 14/10/2005, n. 19903; Cass., 14/1/2003, n. 435; Cass., 17/5/2002, n. 7215; Cass., 1/8/2001, n. 19498; Cass., 9/2/1994, n. 1340; Cass., Sez. Un., 3/4/1989, n. 1611; Cass., Sez. Un., 25/3/1988, n. 2572; Cass., 29/5/1982, n. 3329), ed a fortiori in ordine a quelle enunciazioni che, come nel caso, non hanno una connessione logico-giuridica con le statuizioni – anche implicite – del dispositivo (v. Cass., 17/11/1962, n. 3126), va invero escluso, diversamente da quanto al riguardo sostenuto dalla corte di merito nell’impugnata sentenza, che Trib. Venezia n. 511 del 1993 abbia pronunziato (anche) sulla domanda di restituzione della caparra e di risarcimento dei danni dal P. proposta in via ricovenzionale.

Trattandosi nel caso di caparra confirmatoria prevista nel contratto preliminare de quo ed effettivamente corrisposta al B., dal P., che in quel giudizio ha optato per la domanda di risoluzione, va osservato che nel caso la richiesta della restituzione della caparra si aggiunge alla domanda di risarcimento del danno in tale sede spiegata in termini non già limitati alla forfettaria predeterminazione dell’importo dalle parti nel relativo patto accessorio convenzionalmente indicato, bensì ad integrale ristoro dei danni lamentati, con quantificazione da precisarsi in corso di giudizio.

La caparra confirmatoria, che consiste (come nella specie) in una somma o in una quantità di cose fungibili, ha invero natura composita e funzione eclettica (cfr. Cass., 4/3/2004, n. 4411).

Essa è infatti volta a garantire l’esecuzione del contratto, venendo incamerata in caso di inadempimento della controparte, sotto tale profilo pertanto avvicinandosi alla cauzione (v. Cass., 4/3/2004, n. 4411); ha funzione di autotutela, consentendo di recedere dal contratto senza la necessità di adire il giudice; ha funzione di preventiva liquidazione del danno (v. Cass., 20/9/2004, n. 18850; Cass., 4/3/2004, n. 4411) derivante dal recesso cui la parte è stata costretta a causa dell’inadempimento della controparte (mentre va escluso che possa ad essa riconoscersi anche una funzione probatoria e una funzione sanzionatoria).

La caparra confirmatoria si distingue pertanto nettamente sia rispetto alla caparra penitenziale (la quale costituisce il corrispettivo del diritto di recesso: v. Cass., 10/6/1991, n. 6561; Cass., 5/12/1988, n. 6577) sia dalla clausola penale (v. Cass., 13/5/2004, n. 9091).

Diversamente da quest’ultima, in particolare, essa non pone un limite al danno risarcibile, ben potendo la parte non inadempiente recedere senza dover proporre domanda giudiziale o intimare la diffida ad adempiere (v. Cass,, 14/3/1988, n. 2435; Cass., 13/11/1982, n. 6047) e trattenere la caparra ricevuta ovvero esigere il doppio di quella prestata a totale soddisfacimento del danno derivante dal recesso, senza dover dimostrare di aver subito un danno effettivo; ovvero – come appunto avvenuto nel caso – non esercitare il recesso e chiedere la risoluzione del contratto e l’integrale risarcimento del danno sofferto in base alle regole generali ( art. 1385 c.c., comma 3), e cioè sul presupposto di un inadempimento imputabile e di non scarsa importanza (v. Cass., 20/9/2004, n. 18850; Cass., 29/1/2003, n. 1301; Cass., 17/11/1999, n. 12768; Cass., 20/S/1997, n. 4465).

La parte non inadempiente non può in tal caso incamerare la caparra, ma le è consentito trattenerla a garanzia della pretesa risarcitoria (v. Cass., 20/9/2004, n. 18850; Cass., 24/1/2002, n. 849; Cass., 4/8/1997, n. 7180 ); ovvero può trattenerla in acconto su quanto spettantele a titolo di anticipo dei danni che saranno in seguito accertati e liquidati (cfr. Cass., 13/5/2004, n. 9091. Nel senso che può essere trattenuta a titolo di risarcimento, scontando però il rischio che il danno effettivo sia superiore v. peraltro Cass., 3/3/1997, n. 1851).

Nel caso in cui la parte, anzichè recedere dal contratto, si avvalga, dei rimedi ordinari della richiesta di adempimento ovvero di risoluzione del negozio, la restituzione della caparra è ricollegabile agli effetti restitutori propri della risoluzione negoziale, come conseguenza del venir meno della causa della corresponsione (v. Cass., 3/7/2000, n. 8881; Cass., 29/8/1998, n. 8630).

La caparra perde infatti in tale ipotesi la suindicata funzione di limitazione forfettaria e prederminata della pretesa risarcitoria all’importo convenzionalmente stabilito in contratto (v. Cass., 19/10/2000, n. 13828; Cass., 3/7/2000, n. 8881; Cass., 29/8/1998, n. 8630), e la parte che allega di aver subito il danno, oltre che alla restituzione di quanto prestato in relazione o in esecuzione del contratto, ha diritto anche al risarcimento dell’integrale danno subito (cfr. Cass., 11/1/2001, n. 319) se e nei limiti in cui riesce a provarne l’esistenza e l’ammontare in base alla disciplina generale di cui agli artt. 1453 s.s. c.c. (v. Cass., 13/5/2004, n. 9091. V. anche Cass., 14/7/2004, n. 13079).

Deve ammettersi che la parte non inadempiente possa esercitare – ma non è questo il caso – il recesso anche dopo aver proposto la domanda di risarcimento e fino al passaggio in giudicato della relativa sentenza (da ultimo v. Cass., 10/2/2003, n. 1952), ma in tale ipotesi essa implicitamente rinunzia al risarcimento integrale tornando ad accontentarsi della somma convenzionalmente predeterminata al riguardo (v. Cass., 18/11/2002, n. 16221; Cass., 24/1/2002, n. 849; Cass., 6/9/2000, n. 11760; Cass., 1/11/1999, n. 186).

Ben può dunque, come da questa Corte già affermato nonchè sostenuto anche autorevolmente in dottrina, il diritto alla caparra essere fatto valere anche nella domanda di risoluzione (v. Cass., 19/2/1993, n. 2032; Cass., 10/6/1991, n. 6561).

Orbene, emerge allora evidente al riguardo, da un canto, che – come dedotto dall’odierno ricorrente ed accolto dal giudice di prime cure – quando la sentenza di primo grado manchi di statuire su una delle domande introdotte in causa (e non ricorrono gli estremi di una sua reiezione implicita, nè risulta che la stessa sia rimasta assorbita dalla decisione di altra domanda da cui dipenda: cfr. Cass., 2/4/2002, n. 4628; Cass., 10/9/1999, n. 9619) deve riconoscersi alla parte istante la facoltà di far valere tale omissione in sede di gravame, ovvero, in alternativa, di riproporre – come appunto nel caso che ne occupa – la domanda in separato giudizio, considerato che la rinunzia implicita alla domanda stessa di cui all’art. 346 c.p.c., per non avere denunciato quell’omissione in appello, ha valore processuale e non anche sostanziale. Con la conseguenza che, stante la menzionata facoltà di scelta, nel separato giudizio non è opponibile il giudicato derivante dalla mancata impugnazione della sentenza per omessa pronunzia (v. Cass., 30/5/2002, n. 7917; Cass., 9/10/1998, n. 10029; Cass., 22/3/1995, n. 3260).

Nessun giudicato esterno può d’altro canto ritenersi essersi nel caso formato sulla domanda di nullità, avendo Trib. Venezia n. 511 del 1993 espressamente escluso di poter nel giudizio avanti a sè proposto rilevare d’ufficio la nullità (seguendo invero l’orientamento per il quale v. da ultimo Cass., 14/10/2005, n. 19903;

Cass., 6/8/2003, n. 11847; Cass., 14/1/2003, n. 435; Cass., 17/5/2002, n. 7215; e già Cass., Sez. Un., 3/4/1989, n. 1611; Cass., Sez. Un., 25/3/1988, n. 2572. A tale stregua peraltro discostandosi da quello – preferibile – secondo cui a norma dell’art. 1421 cod. civ. il giudice deve rilevare d’ufficio le nullità negoziali, non solo se sia stata proposta azione di esatto adempimento, ma anche se sia stata proposta azione di risoluzione o di annullamento o di rescissione del contratto, procedendo all’accertamento incidentale relativo ad una pregiudiziale in senso logico – giuridico (concernente cioè il fatto costitutivo che si fa valere in giudizio – cosiddetto punto pregiudiziale), – idoneo a divenire giudicato, con efficacia pertanto non soltanto sulla pronunzia finale ma anche (ed anzitutto) circa l’esistenza del rapporto giuridico sul quale la pretesa si fonda, affermato da Cass., 22/3/2005, n. 6170; Cass., 2/4/1997, n. 2858; nonchè da Cass., 20/1/2006, n. 1112; Cass., 8/9/2004, n. 18062; Cass., 2004, 11/8/004, n. 15561; Cass., 2^/2/2004, n. 7780).

E’ del pari da escludersi nel caso la configurabilità di un giudicato implicito sulla domanda di restituzione della caparra e di risarcimento dell’integrale danno lamentato, all’esito della suddetta pronunzia di rigetto delle domande di risoluzione del contratto all’epoca proposte da entrambe le parti.

Stante tale declaratoria, con conseguente forzoso mantenimento in vita del contratto, il P., anzichè recedere dal contratto preliminare de quo (probabilmente seguendo un “suggerimento” intravisto tra le righe della motivazione della sentenza Trib.

Venezia n. 511 del 1993), ha infatti da un canto chiesto la declaratoria giudiziale di nullità del contratto medesimo, e da altro canto formulato nuovamente la domanda di restituzione di L. 5.000.000 a suo tempo versati a titolo di caparra confirmatoria, giusta quanto ivi stabilito.

Orbene, va al riguardo osservato che qualora la parte, anzichè recedere dal contratto, si avvalga – come appunto nel caso – dei rimedi ordinari, venendo meno – sia originariamente che successivamente – il titolo (come appunto in caso di invalidità e di risoluzione del contratto), ossia il rapporto o negozio in relazione o esecuzione del quale la prestazione è stata effettuata, quest’ultima risulta in effetti non (più) dovuta, e la parte che ne pretende la restituzione deve esercitare l’azione di indebito, con l’applicazione della relativa disciplina.

Nel ravvisare fiondata l’eccezione di giudicato, la Corte di merito veneziana ha invero limitato il proprio riferimento ai rapporto giuridico.

Escluso, come sopra esposto, che possa affermarsi nel caso formato il giudicato esterno, quello implicito, accedendo all’interpretazione meno restrittiva del suo portato, potrebbe discendere dal ritenere il rapporto giuridico ormai incontrovertibilmente accertato come valido all’esito del giudicato formatosi per mancata impugnazione della pronunzia Trib. Venezia n. 511 del 1993.

In presenza di una pronunzia di rigetto delle domande di risoluzione proposte da entrambe le parti (e benchè non supportata da una motivazione consentanea con il dictum), quest’ultimo dovrebbe cioè ritenersi sufficiente ed idonea alla formazione del giudicato sul rapporto contrattuale in termini di validità del medesimo, movendo dall’assunto in base al quale l’accertamento in ordine alla odiernamente dedotta invalidità del contratto risulterebbe preclusa, attesa la contraddittorietà ed incompatibilità logica del relativo eventuale accertamento rispetto alla validità del rapporto costituente indefettibile presupposto della precedente pronunzia di rigetto della “domanda di risoluzione per inadempimento e di restituzione della caparra”.

L’accoglimento delira domanda di nullità avrebbe infatti per effetto la vanificazione di quel giudicato.

Tale assunto muoverebbe almeno dal presupposto che le domande nel caso oggetto di omessa pronunzia sono da considerarsi non già meramente connesse con quella decisa bensì ad essa legate da un rapporto di dipendenza indissolubile, sì da costituirne il presupposto di fatto e l’antecedente logico-giuridico (v. Cass., 4/11/2005, n. 21352; Cass., 3/10/2005, n. 19317; Cass., 24/3/2004, n. 5925; Cass., 3/3/2004, n. 4352; Cass., 6/3/2001, n. 3230; Cass., 1/12/2000, n. 15373; Cass., 5 21/11/2000, n. 14999; Cass., 11/5/2000, n. 6041; Cass., 23/10/1995, n. 10999; Cass., 17/1/1992, n. 576).

Impostazione dalla quale consegue che, diversamente dall’orientamento di matrice chiovendiana secondo cui esso copre solamente la statuizione relativa al singolo diritto fatto valere in giudizio come petitum (con riferimento alla tematica del rilievo d’ufficio della nullità ex art. 1421 c.c. cfr. Cass., 14/10/2005, n. 19903; Cass., 14/1/2003, n. 435; Cass., 17/5/2002, n. 7215; Cass., 1/8/2001, n. 19498; Cass., 9/2/1994, n. 1340; Cass., Sez. Un., 3/4/1989 n. 1611;

Cass., Sez. Un., 25/3/1988, n. 2572; Cass., 29/5/1982, n. 3329. V. altresì Cass., 23/6/2000, n. 8583; Cass., 11/8/1997, n. 7458; Cass., 9/12/1970, n. 2602), il giudicato si estende (pure in caso di pronunzia di rigetto della domanda) a tutte quelle statuizioni inerenti all’esistenza è alla validità del rapporto dedotto in giudizio necessarie ed indispensabili per giungere alla pronunzia (v. Cass., 17/11/2003, n. 17375; Cass., 11/2/2003, n. 1976).

In altri termini, il giudicato si estende al rapporto giuridico che del diritto vantato costituisce la fonte, e sul quale la pronunzia incide.

Tale soluzione si sostanzia nel principio secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile. Non solo, quindi, il petitum, la pronunzia finale con cui venga riconosciuto o attribuito il bene della vita controverso, ma anche gli accertamenti che ne costituiscono premessa necessaria e presupposto logico. Con l’effetto di impedire il riesame e la rimessa in discussione del bene della vita già riconosciuto ed attribuito dalla precedente statuizione (v. Cass., 23/12/1999, n. 14477; Cass., 6/9/1999, n. 9401; Cass., 18/10/1997, n. 10196; Cass., 7/10/1997, n. 9744; Cass., Sez. Un., 14/6/1995, n. 6689).

In tal caso risulterebbe disatteso il diverso orientamento in base al quale “non sussiste alcun nesso inscindibile fra l’accertamento dell’esistenza del preliminare, dell’inadempimento o dell’adempimento di alcune delle parti e il vizio genetico della fonte negoziale primaria cagione di nullità o inesistenza” (così Cass., 27/11/1986, n. 6991); e che esclude la possibilità di ritenere la domanda di restituzione della caparra implicita nella declaratoria di nullità o di (quand’anche di rigetto) risoluzione del contratto, non ravvisando tra di esse sussistere un indissolubile rapporto di dipendenza (cfr. Cass., 7/11/2005, n. 21490; Cass., 5/5/2004, n. 8515; Cass., 29/4/2003, n. 6632; Cass., 10/4/2003, n. 5681; Cass., 22/7/2003, n. 11412).

Orbene, va al riguardo osservato che se il giudicato trova fondamento nell’esigenza di evitarsi la formazione di decisioni definitive contrastanti che l’ordinamento peraltro non sempre si preoccupa di evitare in via preventiva, al riguardo prevedendo lo specifico rimedio della revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 5 (ma diversamente v. Cass., 23/10/1995, n. 11018; Cass., 1/10/1997, n. 9565; Cass., 26/3/1993, n. 3644): ad es., con riferimento alla costituzione di servitù coattiva di passaggio per l’accesso alla pubblica via, v. Cass., 19/10/1998, n. 10331), non può d’altro canto sottacersi l’esigenza, da questa Corte invero già avvertita, di evitare una dilatazione eccessiva dell’efficacia del giudicato, limitando il portato del deducibile, in particolare in presenza – come nel caso – di diritti eterodeterminati, per l’individuazione dei quali è necessario fare riferimento ai fatti costitutivi della pretesa che identificano diverse causae pretendi (v. Cass., 2/12/2004, n. 22667; Cass. 26/5/2004, n. 10168; Cass., 24/10/2003, n. 16005), nonchè, conseguentemente, il motivo su cui il rigetto della relativa domanda si fonda.

Se la suindicata tesi di matrice chiovendiana che limita il giudicato alla mera statuizione relativa al singolo diritto fatto valere in giudizio come petitum (id est, la coppia pretesa-obbligo azionata) appare in effetti troppo restrittiva (per tale orientamento in giurisprudenza di legittimità v. Cass., 12/5/1999, n. 4725; Cass., 23/1/1989, n. 381; Cass., 6/5/1968, n. 1383), l’accettazione tout court del principio secondo cui il giudicato implicito va considerato esteso agli antecedenti che della pronunzia costituiscono la premessa o gli indefettibili presupposti logici, precludendo quindi il riesame non solo delle questioni pregiudiziali ex art. 34 c.p.c. ma anche dei cd. putirti pregiudiziali (v. Cass., 25/3/2004, n. 5964; Cass., 19/2/2003, n. 2469; Cass., 29/5/2001, n. 7302; Cass., 23/12/1999, n. 14477; Cass., 6/9/1999 n. 9401; Cass., 18/10/1997, n. 10196; Cass., 7/10/1997, n. 9744; Cass., Sez. Un., 14/6/1995, n. 6689), può d’altro canto condurre a risultati eccessivi.

In ossequiosa tale principio, la parte che domanda ad es. all’adempimento del contratto deve, al fine di evitare la possibile formazione del giudicato implicito, al contempo chiederne in particolare la risoluzione (cfr. Cass., 19/1/2005, n. 1077), la rescissione, l’annullamento, la nullità. E far quindi valere in sede di impugnazione le domande non accolte.

Diversamente, può infatti, conseguire una situazione in cui, come nel caso, in presenza di una pronunzia di rigetto delle domande di entrambe le parti di risoluzione del contratto (invero assunta disattendendo l’orientamento di questa Corte in base al quale il giudice che in presenza di reciproche domande di risoluzione fondate da ciascuna parte sugli inadempimenti dell’altra accerti l’inesistenza di singoli specifici addebiti, non potendo pronunciare la risoluzione per colpa di taluna di esse, deve dare atto dell’impossibilità dell’esecuzione del contratto per effetto della scelta, ex art. 1453 c.c., comma 2, di entrambi i contraenti e decidere di conseguenza quanto agli effetti risolutori di cui all’art. 145 c.c.: v. Cass., 18/5/2005, n. 10389; Cass., 16/2/2001, n. 2304; Cass., 16/2/2001, n. 2304), le parti si trovano vincolate da un contratto per il quale non hanno più interesse, senza che possa farsi nemmeno luogo alla ripetizione di quanto prestato in relazione o in esecuzione del medesimo (salvo che non si faccia valere un inadempimento cronologicamente successivo ovvero non si agisca, sussistendone i presupposti, per il risarcimento dei danni; nonchè salvo, ovviamente, un nuovo accordo, peraltro reso più difficile dal contesto litigioso).

A tale stregua, l’attribuzione o negazione di un dato bene può venire a risultare legittimata anche laddove la parte interessata non risulti in concreto messa in grado di svolgere adeguatamente le proprie difese (cfr. Cass., 15/1/1996, n. 281, che prospetta in tal caso la possibile violazione dell’art. 24 Cost.).

Emerge allora l’esigenza di temperare la portata del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile.

La soluzione di limitare tout court il giudicato alla res in iudicio deducta o in relazione ai singoli effetti giuridici (es., pagamento del prezzo, consegna della cosa) perseguiti dall’attore per il tramite del processo con la conseguenza che il rapporto accertato incidenter tantum per pronunziare sulla domanda possa poi essere riesaminato e costituire oggetto di decisione anche diversa senza essere il giudice vincolato da quella in precedenza già assunta (v. Cass., 20/10/2000, n. 13909; Cass., 12/5/1999, n. 4725; Cass., 21/8/1990, n. 8507; Cass., 23/1/1989, n. 381), come pure quella che per converso, movendo non già dai diritto potestativo (sostanziale) alla modificazione giuridica bensì dalla considerazione del rapporto giuridico sottoposto a modificazione con la domanda, estende l’efficacia preclusiva anche laddove venga chiesta la produzione di un effetto giuridico diverso che non sia incompatibile con il precedente accertamento del medesimo (es., risoluzione dopo una sentenza di rigetto della simulazione – a fortiori se relativa -, entrambe tali domande presupponendo la validità del rapporto) appaiono in effetti eccessive.

Va comunque in ogni caso escluso che il giudicato possa intendersi riferito non già alle ragioni concretamente poste a base della domanda e divenute oggetto di discussione, bensì estese sempre e comunque con riferimento all’intero rapporto dedotto in giudizio.

In dottrina si sostiene che il giudicato implicito non possa venire a formarsi anche sulle questioni di cui il giudice non ha avuto bisogno di occuparsi per pervenire ad una pronunzia di rigetta (in giurisprudenza cfr. Cass., 30/3/2001, n. 4773), escludendosi, in applicazione del principio dogmatico della cd. ragione più liquida (Mi base al quale la domanda può essere respinta sulla base della soluzione di una questione assorbente già pronta, senza che sia necessario esaminare previamente tutte le altre), che in ipotesi ad esempio di rigetto per prescrizione del diritto al pagamento del prezzo si formi giudicato sulla sussistenza e validità del rapporto di vendita, stante la mancanza in tal caso di alcuna statuizione esplicita od implicita al riguardo.

Movendo da tale ordine di idee, sembra potersi allora pervenire ad affermare che la pronunzia di rigetto come nella specie assunta in assenza di sostanziale accertamento in ordine alla esistenza e validità e qualificazione del rapporto che ne costituisce il presupposto logico-giuridico, viene a risolversi in un dictum che da quest’ultimo invero totalmente prescinde.

Assegnare in tal caso ad un dictum meramente formale, a fortiori laddove come nel caso privo di connessione logico-giuridica con le argomentazioni esposte in motivazione (cfr. la già richiamata Cass., 17/11/1962, n. 3126. V. anche Cass., 8/10/1997, n. 9775; Cass., 27/4/2001, n. 6088. V. altresì Cass., 26/5/2004, n. 10134) efficacia vincolante nei futuri giudizi (tanto più là dove vengano fratti valere effetti diversi rispetto a quelli oggetto dell’originaria domanda e della già resa decisione) pure con riferimento al rapporto giuridico logicamente presupposto si appalesa allora in effetti eccessivo.

Corollario di un tanto è indubbiamente che al giudicato di rigetto va assegnata una portata invero minore rispetto a quello di accoglimento, il quale (diversamente dal primo) presuppone necessariamente la presa di posizione da parte del giudice in ordine all’esistenza e alla qualificazione del rapporto.

Nel ritenere essersi il giudicato formato sulle domande nel presente procedimento proposte dall’odierno ricorrente, all’esito della pronunzia emessa a chiusura di altro procedimento da Trib. Venezia n. 511 del 1993, la Corte di merito non si è invero attenuta ai suesposti principi.

S’impone pertanto l’accoglimento del ricorso proposto dal P. e la cassazione dell’impugnata sentenza, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Venezia, che procederà ad un nuovo esame della fattispecie, e dei medesimi farà applicazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della Corte d’Appello di Venezia.

Così deciso in Roma, il 19 gennaio 2006.

Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2006.