Enti pubblici

Monday 27 October 2003

La Corte Costituzionale boccia le baby pensioni della Regione Sicilia. Corte Costituzionale – Sentenza 314/2003

La Corte Costituzionale boccia le baby pensioni della Regione Sicilia

Corte Costituzionale

Sentenza 314/2003

Giudizio

Presidente CHIEPPA

Relatore ZAGREBELSKY

Udienza Pubblica del 08/04/2003

Decisione del 13/10/2003

Deposito del 21/10/2003

Pubblicazione in G. U.

Ricorsi in via principale

23/2001   28/2001

Massime:

SENTENZA N. 314

ANNO 2003

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Riccardo        CHIEPPA      Presidente

– Gustavo         ZAGREBELSKY   Giudice

– Valerio         ONIDA         “

– Carlo           MEZZANOTTE          “

– Fernanda        CONTRI              “

– Guido           NEPPI MODONA              “

– Piero Alberto   CAPOTOSTI           “

– Annibale        MARINI              “

– Franco          BILE            “

– Giovanni Maria  FLICK         “

– Ugo             DE SIERVO              “

– Romano          VACCARELLA            “

– Alfio           FINOCCHIARO         “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale del disegno di legge n. 1147 approvato dall’Assemblea regionale siciliana il 20 aprile 2001, recante «Norme per il riconoscimento del periodo pre ruolo per il restante personale inquadrato a norma della legge regionale 25 ottobre 1985, n. 39», e del disegno di legge n. 1176 approvato dall’Assemblea regionale siciliana il 2 maggio 2001, recante «Estensione dell’applicazione dell’articolo 39 della legge regionale 15 maggio 2000, n. 10», promossi con ricorsi del Commissario dello Stato per la Regione Siciliana notificati il 27 aprile e il 9 maggio 2001, depositati in cancelleria il 7 e il 16 maggio successivi ed iscritti ai nn. 23 e 28 del registro ricorsi 2001.

      Visti gli atti di costituzione della Regione Siciliana;

      udito nell’udienza pubblica dell’8 aprile 2003 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky;

      uditi l’avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Germana Civiletti, Paolo Chiapparrone e Michele Arcadipane per la Regione Siciliana.

Ritenuto in fatto

    1. Con ricorso notificato il 27 aprile 2001, depositato il successivo 7 maggio (reg. ricorsi n. 23 del 2001), il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana ha sollevato questione di legittimità costituzionale del disegno di legge n. 1147, approvato dall’Assemblea regionale siciliana il 20 aprile 2001, dal titolo «Norme per il riconoscimento del periodo pre ruolo per il restante personale inquadrato a norma della legge regionale 25 ottobre 1985, n. 39».

    La delibera legislativa impugnata estende (a) al personale immesso in ruolo ai sensi della legge della Regione Siciliana 25 ottobre 1985, n. 39 (Sistemazione in ruolo del personale risultato idoneo agli esami di cui alla legge regionale 2 dicembre 1980, n. 125 e successive modifiche ed integrazioni nonché del personale di cui all’art. 5 della legge regionale 30 gennaio 1981, n. 8), in servizio presso le aziende unità sanitarie locali e le aziende ospedaliere, (b) ai dipendenti in servizio degli enti sottoposti a vigilanza della Regione, nonché (c) ai dipendenti (dei soppressi patronati scolastici) inquadrati ai sensi della legge regionale 5 agosto 1982, n. 93, la disciplina inerente al riequilibrio di anzianità e al salario individuale di anzianità  previsto dall’art. 41 del d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347 (Norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo del 29 aprile 1983 per il personale dipendente dagli enti locali); disciplina già oggetto di estensione, a beneficio del personale degli enti locali, a opera dell’art. 39, comma 9, della legge della Regione Siciliana 15 maggio 2000, n. 10 (Norme sulla dirigenza e sui rapporti di impiego e di lavoro alle dipendenze della Regione siciliana. Conferimento di funzioni e compiti agli enti locali. Istituzione dello Sportello unico per le attività produttive. Disposizioni in materia di protezione civile. Norme in materia di pensionamento).

    1.1. Il Commissario dello Stato denuncia l’illegittimità costituzionale della delibera legislativa regionale per violazione degli articoli 3, 97 e 81, quarto comma, della Costituzione, nonché dell’art. 17, lettera b), del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana).

    Si sostiene, nel ricorso, che l’estensione della disciplina del riequilibrio di anzianità e del salario individuale di anzianità, «frutto [&] di accordi con i rappresentanti sindacali di lavoratori appartenenti a categoria (quella del personale degli enti locali) affatto diversa da quella oggetto della attuale disposizione», oltre a riguardare categorie non omogenee di personale, non sarebbe sorretta da alcuna plausibile motivazione.

    Tale normativa si porrebbe in contrasto con l’art. 17, lettera b), dello Statuto speciale, che, in materia di personale appartenente al servizio sanitario nazionale, attribuirebbe alla Regione una competenza meramente integrativa e in tal senso si menziona la sentenza di questa Corte n. 484 del 1991 , dalla quale «palesemente» la delibera legislativa esorbiterebbe, introducendo una nuova disciplina per la determinazione di una componente del trattamento economico.

    Il provvedimento impugnato, inoltre, nell’individuare soltanto alcune categorie di beneficiari della rideterminazione dell’anzianità di servizio, sarebbe all’origine di ulteriori disparità di trattamento, sia tra il personale già individuato dalla legge regionale n. 39 del 1985 («giacché non vengono richiamati tutti gli uffici sede di servizio dei soggetti ivi contemplati»), sia nei confronti della generalità dei dipendenti delle aziende del Servizio sanitario e degli enti sottoposti a vigilanza della Regione, cui la disciplina non si estende; con conseguenti inevitabili ripercussioni negative sul buon andamento delle pubbliche amministrazioni interessate.

    Le disposizioni denunciate, la cui applicazione comporta necessariamente nuovi e maggiori oneri finanziari a carico degli enti e delle amministrazioni presso cui i beneficiari prestano servizio, violerebbero, infine, l’art. 81, quarto comma, della Costituzione, in quanto esse non farebbero alcun riferimento né alla quantificazione della spesa né alle risorse con le quali farvi fronte.

    1.2. Con atto depositato il 23 maggio 2001, si è costituito in giudizio il Presidente della Regione Siciliana, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata infondata.

    La difesa regionale rileva come la delibera legislativa non riguardi soltanto la materia sanitaria, ma si inserisca, al pari della richiamata legge regionale n. 39 del 1985, «nel filone della legislazione speciale risalente alle leggi n. 285 del 1977 e n. 138 del 1984 sulla c.d. occupazione giovanile». La disciplina impugnata, rientrando nella «sub-materia» dell’occupazione, inciderebbe dunque su un ambito che «comporta per sua natura un intervento a largo raggio in vari settori materiali» (a tal riguardo, si fa riferimento alla sentenza n. 988 del 1988 di questa Corte) e si inserirebbe «nel «sistema di valori» delineato dalla citata legislazione in tema di occupazione giovanile, ispirato ai principi sanciti dagli articoli 4 (diritto al lavoro) e 31, secondo comma (tutela della gioventù), della Costituzione. In quest’ottica, si porrebbe anche l’intento perequativo proprio della delibera legislativa  denunciata e già perseguito, per il personale degli enti locali, con la legge regionale n. 10 del 2000 relativo al trattamento economico dei giovani a suo tempo inquadrati nelle aziende USL ed ospedaliere, rispetto a quelli che vennero immessi nei ruoli dell’amministrazione regionale.

    Così ricostruita la ratio della normativa impugnata, la Regione sottolinea che essa si porrebbe come un «intervento correttivo», destinato a dare una «sistemazione definitiva» al trattamento del personale interessato. Sarebbe quindi frutto di un «evidente travisamento», ad avviso della difesa regionale, differenziare solo sulla base della diversa ampiezza della competenza legislativa regionale nei rispettivi settori la normativa sul personale degli enti locali [per il quale l’art. 14, lettera o), dello Statuto speciale attribuisce alla Regione una competenza esclusiva] e quella sul personale delle aziende sanitarie.

    Con specifico riguardo alla asserita disparità di trattamento denunciata dal Commissario dello Stato, la resistente rimarca altresì come il vizio non sarebbe configurabile sotto il profilo della parzialità dell’estensione dei benefici per il personale delle aziende del Servizio sanitario, data la onnicomprensività del riferimento, contenuto nella normativa impugnata, ai «dipendenti in servizio degli enti sottoposti a vigilanza della Regione», tra i quali, si sottolinea, rientrano quelli inquadrati da tali enti ai sensi della legge regionale n. 39 del 1985.

    La disparità di trattamento non sussisterebbe neppure in relazione alla mancata estensione alla generalità dei dipendenti del Servizio sanitario nazionale in servizio in Sicilia, poiché il personale del comparto sanitario avrebbe già fruito di un meccanismo (disciplinato all’art. 54 del d.P.R. 25 giugno 1983, n. 348) di valutazione dell’anzianità maturata, non dissimile dal «riequilibrio di anzianità» di cui è causa; i dipendenti del Servizio sanitario nazionale, d’altro canto, potrebbero fruire, «ove necessario», della clausola relativa ai dipendenti degli enti sottoposti alla vigilanza della Regione (essendo tali gli enti in cui si articola il Servizio sanitario nazionale che hanno sede in Sicilia).

    In ordine alla denunciata violazione dell’art. 81, quarto comma, della Costituzione, la difesa regionale sottolinea, con riguardo alla mancata quantificazione della spesa, che la materia della determinazione del trattamento retributivo dei pubblici dipendenti di tutti i comparti sarebbe stata da tempo sottratta all’ambito della legislazione e rimessa alla contrattazione collettiva.

    Quanto infine alla mancata copertura, il finanziamento delle spese correnti del settore sanitario graverebbe sul bilancio della Regione, ciò che parrebbe sufficiente a ritenere rispettato il parametro costituzionale richiamato dal ricorrente.

    2. Con ricorso notificato il 9 maggio 2001, depositato il successivo 16 maggio (reg. ricorsi n. 28 del 2001), il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana ha sollevato questione di legittimità costituzionale del disegno di legge n. 1176, approvato dall’Assemblea regionale siciliana il 2 maggio 2001, dal titolo «Estensione dell’applicazione dell’articolo 39 della legge regionale 15 maggio 2000, n. 10».

    Il provvedimento impugnato estende (a) al personale inquadrato a norma della legge regionale n. 39 del 1985 in atto in servizio presso gli enti locali, le aziende USL e le aziende ospedaliere, (b) agli «altri» dipendenti in servizio presso gli enti locali e le aziende USL e le aziende ospedaliere e (c) al personale (dei soppressi patronati scolastici) di cui alla legge regionale n. 93 del 1982 l’applicazione dell’art. 39 della legge della Regione Siciliana n. 10 del 2000, che, nel prevedere (al comma 1) il blocco dei pensionamenti anticipati, attribuisce («al fine di creare condizioni favorevoli all’avvio della riforma burocratica e al completo decentramento di funzioni», e «in deroga a quanto disposto dal comma 1») al personale che abbia raggiunto il sessantesimo anno di età e conti almeno quindici anni di servizio effettivo nonché al personale di qualunque età che abbia maturato venticinque anni di servizio effettivo il «diritto a conseguire l’anticipato collocamento a riposo entro il limite del 45 per cento dei dipendenti in servizio, in ciascuna qualifica, al 31 dicembre 1993» (comma 2 del citato art. 39 della legge regionale n. 10 del 2000).

    2.1. Il Commissario dello Stato denuncia l’illegittimità costituzionale della delibera legislativa impugnata per violazione degli articoli 14 e 17 dello Statuto della Regione Siciliana e degli articoli 3, 5, 81, quarto comma, 97, 119 e 128 della Costituzione.

    Sottolineando come le pensioni per il personale degli enti locali e per quello appartenente al Servizio sanitario nazionale siano erogate dall’INPDAP, nel ricorso si denuncia, in primo luogo, la «palese incompetenza» del legislatore siciliano a «modificare o introdurre nuovi requisiti per il conseguimento del diritto al collocamento a riposo di categorie di dipendenti pubblici il cui sistema previdenziale è amministrato da Istituti nazionali soggetti alla esclusiva normativa statale».

    La normativa impugnata, inoltre, provocherebbe inevitabili conseguenze negative sul buon andamento delle amministrazioni coinvolte, che risulterebbero private di parte dei propri dipendenti e sarebbero quindi costrette a bandire nuovi concorsi per la copertura dei posti resisi vacanti.

    Alla conseguente violazione dell’art. 97 della Costituzione si assocerebbe, quindi, anche quella degli articoli 5 e 128 della stessa, derivante dalla «grave compromissione dell’autonomia organizzativa e finanziaria degli enti locali».

    Inoltre, l’art. 1, comma 3, della delibera impugnata, il quale prevede che gli oneri discendenti dal collocamento a riposo anticipato siano a carico degli enti di appartenenza dei beneficiari del provvedimento, rappresenta, ad avviso del ricorrente, l’«unica soluzione praticabile» per far fronte alle spese derivanti dalla medesima normativa, non essendo possibile assoggettare a tali spese l’ente statale erogatore delle pensioni e neppure porre a carico del bilancio regionale i non quantificati e non quantificabili oneri per la liquidazione dell’indennità di quiescenza in favore di categorie di personale che non appartengono all’amministrazione regionale. Ciò nondimeno, la previsione introdotta risulterebbe «abnorme» e si porrebbe in contrasto con l’art. 81, quarto comma, della Costituzione, sia per la mancata determinazione degli effetti finanziari cui darebbe origine, sia per la mancata individuazione dei mezzi con i quali gli enti locali e le aziende USL ed ospedaliere dovrebbero far fronte agli oneri posti a carico dei loro bilanci (a sostegno della doglianza, si menziona la sentenza n. 92 del 1981 di questa Corte).

    La previsione si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 119 della Costituzione, ai sensi del quale è preclusa alla Regione nel quadro del coordinamento con la finanza statale e locale l’imposizione di oneri agli enti locali non derivanti da decisioni a questi ultimi imputabili.

    Infine, il Commissario dello Stato evidenzia come il diverso trattamento pensionistico riservato ai dipendenti degli enti locali e delle aziende USL ed ospedaliere della Sicilia rispetto a quelli del resto del territorio nazionale risulti «del tutto privo di giustificazione» e pertanto contrastante con il principio di parità di trattamento di cui all’art. 3 della Costituzione.

    2.2. Con atto depositato il 4 giugno 2001, si è costituito in giudizio il Presidente della Regione Siciliana, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata infondata.

    Con riferimento alla denunciata incompetenza del legislatore siciliano, derivante dall’interferenza della previsione impugnata con la disciplina di esclusiva competenza statale del sistema previdenziale dei dipendenti di cui si tratta, la difesa regionale sottolinea come, già in passato, siano state approvate leggi volte a favorire l’esodo di personale il cui trattamento pensionistico è erogato da istituti previdenziali nazionali, senza con ciò modificare la normativa statale relativa ai requisiti per il conseguimento del diritto al collocamento a riposo. Si cita, in tal senso, l’art. 12 della legge della Regione Siciliana 23 maggio 1991, n. 36 (Modifiche ed integrazioni all’attuale legislazione regionale in materia di cooperazione), che, per il pensionamento anticipato dei dipendenti delle cooperative agricole, delle cantine sociali e dei consorzi agrari, ha costituito un fondo gestito dall’Assessorato regionale dell’agricoltura e delle foreste, cui attingere per il pagamento di una rendita mensile dei dipendenti fino al maturare dei requisiti di legge per il conseguimento del diritto alla pensione.

    La disciplina oggi impugnata presenterebbe forti analogie con queste previsioni, nella misura in cui pone a carico degli enti coinvolti gli oneri connessi all’esodo dei dipendenti. Ciò, peraltro, non si tradurrebbe in una violazione degli articoli 81, quarto comma, e 119 della Costituzione, in quanto non si tratterebbe di oneri nuovi, «ma di oneri sostitutivi di quelli connessi al pagamento delle retribuzioni ed anzi inferiori a questi ultimi».

    Infondata sarebbe, ad avviso della difesa regionale, anche la questione inerente alla asserita violazione dell’art. 97 della Costituzione. Ciò in quanto la diminuzione del numero dei dipendenti che discenderebbe dall’applicazione della normativa non comporterebbe conseguenze irragionevoli o arbitrarie, nella misura in cui, almeno con riguardo alle amministrazioni comunali («costituenti la fetta più larga degli enti coinvolti dall’iniziativa legislativa»), la diminuzione dell’organico corrisponderebbe alla diminuzione dei carichi di lavoro derivante dall’applicazione della normativa sulla semplificazione amministrativa (d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447) e sull’autocertificazione (d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445), nonché dai processi di informatizzazione.

    In ordine alla denunciata violazione degli articoli 5 e 128 della Costituzione, viene pregiudizialmente rilevata l’inammissibilità della censura, che conseguirebbe alla invocazione di parametri erronei, dovendosi piuttosto fare riferimento all’art. 15 dello Statuto speciale della Regione Siciliana, che attribuisce a quest’ultima competenza legislativa esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali. Nel merito, comunque, la censura sarebbe infondata, in quanto la «laconicità» della normativa impugnata denoterebbe l’intenzione del legislatore regionale di demandare a un regolamento di esecuzione la disciplina di dettaglio sulle modalità di attuazione dell’esodo: in quella sede si dovrà tenere conto delle esigenze di organico dei singoli enti interessati, assumendo altresì il previsto limite del 45 per cento come soglia massima dell’esodo medesimo.

    La rilevata non irragionevolezza delle previsioni contenute nella delibera legislativa di cui è causa varrebbe, infine, a dimostrare la non contrarietà delle stesse all’art. 3 della Costituzione, dovendosi anzi sottolineare che l’estensione della disciplina di cui all’art. 39 della legge regionale n. 10 del 2000 avrebbe l’effetto di eliminare un’attuale disparità di trattamento del personale in ambito regionale.

    3. Il Commissario dello Stato, in data 26 marzo 2003, ha depositato una memoria nel giudizio promosso con il ricorso iscritto al reg. ricorsi n. 28 del 2001.

    3.1. Nell’atto si sottolinea come il ricorso sia stato proposto anteriormente all’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), e ciò comporterebbe la non diretta rilevanza, nel caso di specie, della questione relativa all’incidenza dell’art. 10 della citata legge costituzionale sugli articoli 28 e 29 dello Statuto siciliano, in relazione ai modi e alle forme di proposizione del giudizio di costituzionalità.

    Pur con questa premessa, la memoria si sofferma sui rapporti tra il sistema di impugnazione delle delibere legislative siciliane e quello disegnato dal nuovo art. 127 della Costituzione, sottolineando gli aspetti di differenziazione: (a) il promovimento delle questioni di legittimità costituzionale spetta, per le leggi siciliane, non al Governo ma al Commissario dello Stato; (b) il ricorso ha ad oggetto, nel caso della Regione Siciliana, deliberazioni assembleari e non già leggi regionali promulgate e pubblicate; (c) il termine per ricorrere è individuato, dall’art. 28 dello Statuto speciale di autonomia, nei cinque giorni dal ricevimento della predetta deliberazione, anziché nei sessanta giorni dalla pubblicazione della legge; (d) contrariamente all’impugnazione ex art. 127 della Costituzione, il ricorso promosso dal Commissario dello Stato ha effetti sospensivi, a decorrere dalla notifica.

    Il ricorrente rileva che la particolare disciplina prevista dagli articoli 28 e 29 dello Statuto «dovrebbe essere considerata come un insieme non scindibile, in quanto espressione di un punto di equilibrio tra differenziati esigenze e poteri», e sottolinea come tale insieme abbia in sostanza dato nei decenni buoni risultati pratici, prevenendo spesso grazie alla promulgazione di testi legislativi depurati le controversie costituzionali.

    L’inscindibilità dei singoli aspetti della normativa statutaria appare ancora più evidente si osserva ipotizzando lo spostamento del potere di impugnazione in capo al Governo, poiché ciò renderebbe in concreto impossibile («per insufficienza palese dei tempi tecnici») il mantenimento del termine particolarmente breve per promuovere il ricorso. Tale brevità, peraltro, costituirebbe, nel sistema dello Statuto, un «bilanciamento» in termini di garanzia per l’autonomia regionale della previsione degli effetti sospensivi dello stesso.

    Quanto all’attribuzione del potere di impugnazione «ad un dipendente dello Stato organo monocratico, anziché ad un organo collegiale politico» (aspetto che pure potrebbe suscitare ad avviso dello stesso ricorrente «qualche perplessità»), si evidenzia come la questione non possa essere sceverata dalla considerazione della natura del potere di ricorso alla Corte costituzionale, per il quale si pone l’alternativa tra il suo essere «espressione di una facoltà politica (o, in Sicilia, commissariale) libera» oppure atto di esercizio di una «funzione pubblica, di un potere-dovere a salvaguardia della effettività dei parametri costituzionali».

    In ordine al nuovo art. 127 della Costituzione, poi, la memoria si sofferma criticamente sulla soppressione dell’istituto del rinvio, la quale «ha fatto venir meno un momento di dialogo, spesso utile e costruttivo, tra Regioni e Stato, ed ha determinato un aumento del contenzioso costituzionale».

    Sulla scorta delle considerazioni svolte, il ricorrente conclude nel senso della «possibilità di una sopravvivenza» della disciplina prevista dallo Statuto siciliano «in quanto lex specialis dopo la riforma del Titolo V».

    3.2. Nel merito, la memoria analizza la disciplina su cui si innesta, ampliandone l’ambito di applicazione, la delibera legislativa impugnata dettata dall’art. 39 della legge della Regione Siciliana n. 10 del 2000, mettendo in evidenza la contraddizione che si riscontrerebbe tra i commi 1 (che sospende «l’applicazione delle norme che consentono pensionamenti di anzianità») e 6 (ai sensi del quale «a far data dal 1° gennaio 2004 il sistema pensionistico regionale si adegua ai principi fondamentali del sistema pensionistico vigente per i dipendenti dello Stato, facendo salvi comunque i diritti quesiti»), da un lato, e il comma 2, dall’altro, poiché quest’ultimo riconosce, in favore dei lavoratori che abbiano maturato determinati requisiti, il diritto a conseguire l’anticipato collocamento a riposo.

    Si rileva, altresì, che tale collocamento a riposo «non dovrebbe autonomamente comportare anche un diritto al trattamento di quiescenza», il quale, tuttavia, parrebbe doversi riconoscere in virtù della applicazione, «implicita nelle intenzioni del legislatore», dell’art. 1, comma 5, della legge della Regione Siciliana 25 maggio 1995, n. 46 (Disposizioni concernenti il personale regionale. Sospensione trattamento anticipato di pensione. Procedure concorsuali e graduatorie. Disposizioni per gli enti locali ed il relativo personale). Se così fosse, peraltro, gli oneri a carico del bilancio regionale che ne deriverebbero condurrebbero ad una situazione nella quale anche l’art. 39, commi 2, 3, 4 e 5, potrebbe essere incidentalmente sottoposto a scrutinio di legittimità costituzionale, in relazione all’art. 17, lettera f), dello Statuto ed ai principi posti dalla legislazione dello Stato in materia di previdenza sociale ed in materia di impiego alle dipendenze di amministrazioni pubbliche.

    Così ricostruita la disciplina vigente, il ricorrente torna ad esaminare la delibera legislativa impugnata, che estende i «benefici» previsti dal citato art. 39 ai dipendenti in servizio presso gli enti locali e le aziende USL e ospedaliere, sottolineando la «palese» incostituzionalità, da un lato, dell’art. 1, comma 3, che porrebbe a carico degli enti interessati gli oneri conseguenti all’anticipato collocamento a riposo, e, dall’altro, della delibera legislativa nel suo complesso, in quanto essa introdurrebbe un «moltiplicatore» dei «guasti gravi», in termini di bilancio, già prodotti dall’art. 39.

    Con riferimento alle deduzioni della resistente nell’atto di costituzione, per ciò che concerne l’affermata non necessità di una copertura finanziaria della legge, in quanto «a costo zero», nella memoria si stigmatizza l’assenza di qualunque dimostrazione «di questa singolare tesi» e della «quantificazione dei supposti esuberi».

    In conclusione, riprendendo le argomentazioni già enucleate nel ricorso, si insiste per l’accoglimento della questione, in particolare per le censure concernenti: (a) il «diniego di qualsivoglia autonomia dell’ente od azienda eventualmente interessato», derivante dalla previsione, in maniera uniforme ed indifferenziata tra i vari enti, dei limiti entro cui consentire il collocamento a riposo anticipato; (b) le ripercussioni della normativa approvata sulla finanza pubblica e sul buon andamento delle amministrazioni, soggette, a seguito di questi «esodi di favore», ad «inevitabili nuove assunzioni»; (c) gli squilibri finanziari degli enti locali e delle aziende sanitarie, che potrebbero avere ricadute anche sul bilancio statale, potenzialmente «chiamato ad iniettare risorse per fronteggiare [la] crisi» che potrebbe prodursi; (d) la violazione, da parte della Regione, dei confini della propria competenza legislativa, che non comprenderebbe né lo stato giuridico ed economico degli impiegati e funzionari degli enti locali e delle aziende sanitarie né la disciplina del loro fabbisogno finanziario, atteso che l’art. 36 dello Statuto ha esclusivo riguardo al «fabbisogno finanziario della Regione».

    4. Il Commissario ricorrente ha successivamente depositato in data 28 marzo 2003 copia di un ordine del giorno, approvato in data 29 novembre 2001 dall’Assemblea regionale siciliana, contenente sulla premessa della particolarità del sistema di impugnazione delle leggi siciliane, quale elemento fortemente caratterizzante l’autonomia della medesima Regione l’invito al Presidente della Regione a «continuare ad applicare l’art. 28 dello Statuto speciale», fino all’approvazione di una nuova disciplina statutaria.

Considerato in diritto

    1. Il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana ha posto la questione della legittimità costituzionale del disegno di legge n. 1147, approvato dall’Assemblea regionale il 20 aprile 2001, che, all’art. 1, estende (a) al personale immesso in ruolo ai sensi della legge regionale 25 ottobre 1985, n. 39, in atto in servizio presso le aziende unità sanitarie locali e le aziende ospedaliere, (b) ai dipendenti in servizio degli enti sottoposti a vigilanza della Regione e (c) ai dipendenti (dei soppressi patronati scolastici) inquadrati ai sensi della legge regionale 5 agosto 1982, n. 93, l’applicazione delle disposizioni contenute al comma 9 dell’art. 39 della legge regionale 15 maggio 2000, n. 10. Ritiene il Commissario ricorrente che questa disposizione violi gli articoli 3, 97 e 81, quarto comma, della Costituzione nonché l’art. 17, lettera b), dello Statuto della Regione Siciliana (regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455).

    Con altro ricorso, il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana ha altresì posto la questione di legittimità costituzionale del disegno di legge n. 1176, approvato dall’Assemblea regionale il 2 maggio 2001, che, all’art. 1, estende ai dipendenti in servizio presso gli enti locali, le aziende unità sanitarie locali e le aziende ospedaliere, nonché al personale (dei soppressi patronati scolastici) di cui alla legge regionale n. 93 del 1982, l’applicazione del comma 2 dell’art. 39 della legge regionale n. 10 del 2000, il quale attribuisce al personale che abbia maturato venticinque anni di servizio effettivo il diritto a conseguire l’anticipato collocamento a riposo, entro il limite del 45 per cento dei dipendenti, in ciascuna qualifica, in servizio al 31 dicembre 1993. Ritiene il Commissario ricorrente che le norme impugnate violino gli articoli 3, 5, 81, quarto comma, 97, 119 e 128 della Costituzione (i due ultimi quali vigenti anteriormente alla riforma del Titolo V della Costituzione, operata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), nonché gli articoli 14 e 17 dello Statuto della Regione Siciliana.

    2. Data la contiguità delle materie e l’identità di vari parametri costituzionali invocati, i giudizi sulle predette questioni di legittimità costituzionale possono essere riuniti ed essere decisi con unica sentenza.

    3. Preliminarmente, deve essere valutata la possibilità di procedere all’esame del merito dei ricorsi, promossi dal Commissario dello Stato secondo la disciplina dell’impugnazione dei disegni di legge approvati dalla Assemblea regionale contenuta nell’art. 28 dello Statuto speciale per la Regione Siciliana, e non invece secondo l’art. 127, nuovo testo, della Costituzione.

    Tale valutazione preliminare è resa necessaria dall’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che impone l’applicazione delle disposizioni della stessa legge costituzionale, tra cui per l’appunto il nuovo art. 127, anche alle Regioni a Statuto speciale (oltre che alle Province autonome di Trento e di Bolzano) «per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite». Tra le «forme di autonomia» in questione sono comprese anche le modalità in cui si estrinsecano i controlli che lo Stato svolge sull’esercizio della potestà legislativa regionale e le forme di proposizione del giudizio costituzionale, come da questa Corte già ritenuto a partire dalle ordinanze n. 65 e n. 377 e dalle sentenze n. 408 e n. 533 del 2002.

    Per ciò, qualora si dovesse ritenere che il procedimento di controllo delle leggi regionali previsto dal vigente art. 127 della Costituzione garantisca alla Regione Siciliana un maggior margine di autonomia, rispetto a quello che risulta dall’art. 28 dello Statuto speciale, ne dovrebbe discendere l’improcedibilità dei ricorsi in questione, ancorché proposti come nella specie anteriormente all’entrata in vigore della modifica del Titolo V della II Parte della Costituzione, conformemente a ciò che già è stato deciso in riferimento ad altre Regioni ad autonomia speciale (o Province autonome), nelle pronunce sopra ricordate.

      3.1. L’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 configura un particolare rapporto tra norme degli Statuti speciali e norme del Titolo V della seconda parte della Costituzione, un rapporto di preferenza, nel momento della loro «applicazione», in favore delle disposizioni costituzionali che prevedono forme di autonomia «più ampie» di quelle risultanti dalle disposizioni statutarie. Condizione, dunque, dell’operatività di tale rapporto tra fonti è che il loro contenuto, con riferimento all’autonomia prevista, si presti a essere valutato comparativamente, secondo una scala omogenea di grandezze.

    Questo tipo di comparazione è risultato possibile, come già si è detto, nei casi in cui si è trattato di valutare il rapporto tra la disciplina dell’impugnazione delle leggi regionali prevista da norme statutarie speciali e la disciplina del vigente art. 127 della Costituzione. Quest’ultimo, prevedendo un controllo successivo da parte della Corte costituzionale, promosso dal Governo entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge, è stato ritenuto rispondente a una logica di maggiore garanzia dell’autonomia legislativa regionale, rispetto al procedimento di controllo preventivo, previsto dalle norme statutarie speciali analogamente alla disposizione del previgente art. 127 della Costituzione, basato (a) sull’opposizione governativa tramite rinvio al Consiglio regionale della delibera legislativa, nel termine di trenta giorni dalla comunicazione (in alternativa all’apposizione del visto da parte del Commissario del Governo); (b) sull’insuperabilità dell’opposizione, se non tramite riapprovazione della delibera da parte dell’assemblea legislativa regionale, senza limiti temporali, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, e (c) sul ricorso alla Corte costituzionale, promosso dal Governo nei quindici giorni successivi alla comunicazione della seconda approvazione, con effetto preclusivo della promulgazione della legge fino all’eventuale rigetto della questione.

    In sintesi: i due procedimenti sono stati considerati confrontabili sotto il profilo della più o meno ampia autonomia regionale, stante l’ingerenza che l’uno, allora, consentiva al Governo di esercitare nel procedimento legislativo regionale e l’altro, oggi, esclude. Il divieto di promulgazione della legge fino all’esito favorevole del controllo e la possibilità di rinviarla al Consiglio regionale, con la speciale maggioranza prevista per la riapprovazione, consentivano al Governo di esercitare una funzione che, in qualche caso, si è potuta dire di co-legislazione (positiva o negativa), orientando nel merito le scelte del legislatore regionale o rendendole comunque proceduralmente più difficili. Il controllo previsto dal vigente art. 127 della Costituzione, invece, è totalmente esterno al procedimento legislativo regionale, il quale si svolge secondo le regole ordinarie e si conclude con la promulgazione e la pubblicazione della legge regionale, indipendentemente da eventuali obiezioni del Governo; obiezioni che possono tradursi esclusivamente, dopo l’entrata in vigore della legge, in censure di illegittimità costituzionale per «eccesso di competenza», di fronte alla Corte costituzionale.

    3.2. Il caso della Regione Siciliana, tuttavia, sotto questo riguardo, è a parte.

    Le regole dell’impugnazione delle leggi regionali siciliane sono state previste nello Statuto speciale del 1946 nell’ambito di quel particolare sistema di garanzia costituzionale che faceva capo all’Alta Corte prevista dall’art. 24 dello Statuto. Esse stabiliscono (art. 28) che «le leggi dell’Assemblea regionale sono inviate entro tre giorni dall’approvazione al Commissario dello Stato, che entro i successivi cinque giorni può impugnarle davanti l’Alta Corte» la quale «decide sulle impugnazioni entro venti giorni dalla ricevuta delle medesime. Decorsi otto giorni, senza che al Presidente della Regione sia pervenuta copia dell’impugnazione, ovvero scorsi trenta giorni dalla impugnazione, senza che al Presidente della Regione sia pervenuta da parte dell’Alta Corte sentenza di annullamento le leggi sono promulgate ed immediatamente pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Regione» (art. 29).

    Il procedimento di impugnazione delle leggi siciliane si caratterizza dunque per la sua singolarità, rispetto a quello previsto tanto per le altre Regioni ad autonomia speciale quanto per le Regioni ad autonomia ordinaria dall’art. 127 della Costituzione, sia nella sua versione originaria, sia in quella riformata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, per: (a) essere preventivo, anteriore alla promulgazione e pubblicazione, pur non essendo necessariamente preventiva la pronuncia della Corte costituzionale, potendo questa intervenire a legge promulgata e pubblicata, cioè successivamente alla decorrenza del termine previsto dall’art. 29 dello Statuto; (b) non essere preceduto dal rinvio all’Assemblea legislativa e quindi da una seconda deliberazione di questa; (c) svolgersi in termini particolarmente brevi; (d) essere promosso da un organo, il Commissario dello Stato, specificamente previsto dallo Statuto siciliano, nel quadro dei rapporti da questo originariamente tracciati tra Regione e Stato.

    Con la sentenza n. 38 del 1957 (cui si è uniformata la giurisprudenza successiva, a partire dalle sentenze n. 111 e n. 112 del 1957), questa Corte, dopo avere affermata l’unità della giurisdizione costituzionale sulle leggi, e perciò l’assorbimento nelle proprie competenze di quelle già assegnate dallo Statuto speciale all’Alta Corte, ha peraltro riconosciuto la permanenza in vita dello speciale procedimento previsto originariamente per l’impugnativa delle leggi siciliane, osservando che «le particolari forme e condizioni di autonomia di cui è parola nell’art. 116 della Costituzione [anteriore alla riforma del 2001] (&) giustificano le particolarità dell’impugnazione delle leggi siciliane (&) e dei termini relativi. L’esistenza di un organo speciale autorizzato a promuovere le questioni di legittimità il Commissario dello Stato , e i termini più brevi che l’art. 28 stabilisce, perché l’impugnativa sia valida, bene si inseriscono nella particolare forma di autonomia riconosciuta alla Regione siciliana. E lo stesso è da dire del termine di venti giorni per la decisione della Corte (art. 29), fermo restando, peraltro, nei rapporti di detto termine, il carattere ordinatorio, quale, del resto, è stato già ammesso nella prassi dell’Alta Corte per la Sicilia».

    Il carattere ordinatorio del termine predetto ha poi aperto ulteriori problemi.

    Innanzitutto, con le sentenze n. 9 e n. 60 del 1958 e n. 31 del 1961, si è precisato che il decorso del termine di trenta giorni, previsto dall’art. 29 dello Statuto per la comunicazione della decisione di annullamento della Corte, «crea non già un obbligo perentorio di promulgazione e pubblicazione immediata, ma soltanto una facoltà della Regione di promulgare e pubblicare la legge anche in pendenza del proposto giudizio di legittimità» e che «l’esercizio di tale facoltà rientra nell’apprezzamento e, quindi, nella responsabilità degli organi della Regione», restando peraltro indiscutibile che «la successiva decisione della Corte, che eventualmente dichiari la illegittimità costituzionale della legge, opera giuridicamente nella pienezza dei suoi effetti, del tutto identici a quelli che avrebbe se la promulgazione e la pubblicazione non fossero avvenute». In pendenza dell’impugnazione, si è poi sviluppata la prassi della «promulgazione e pubblicazione parziali» della legge, con omissione delle parti sottoposte al giudizio di costituzionalità: una prassi dettata dal duplice intento di non impedire alla delibera legislativa di entrare in vigore come legge, almeno per le parti indenni da censure e, al contempo, di evitare le responsabilità anche giuridiche che sarebbero potute derivare a carico degli organi politici e amministrativi regionali, che avessero posto in esecuzione una legge, nella parte censurata e poi dichiarata incostituzionale. Con le sentenze n. 142 del 1981 e n. 13 del 1983, questa Corte ha preso atto di questa certamente anomala prassi e, sulla base del principio di non frazionabilità nel tempo e nell’oggetto della promulgazione, espressione di un potere che si esaurisce in un solo atto di esercizio, ha considerato che le parti impugnate, escluse dalla promulgazione medesima, non sarebbero state più suscettibili di altra, successiva promulgazione, anche nell’ipotesi di una pronuncia di non-incostituzionalità che le avesse riguardate. Conseguentemente, in presenza della promulgazione parziale, ha ritenuto essersi verificata la cessazione della materia del contendere: esito che consegue anche all’ipotesi, frequente, di promulgazione integrale con contestuale approvazione di legge abrogativa o sostitutiva delle disposizioni sottoposte al controllo di costituzionalità (v., ad esempio, sentenze n. 466 del 1994; n. 64 del 1995; n. 456 del 1999).

    La configurazione del controllo di costituzionalità sulle leggi siciliane, in base agli articoli 28 e 29 dello Statuto, è venuto ormai stabilmente a connotarsi, nonostante l’anomalia del potere del Presidente della Regione di scindere l’atto legislativo con la promulgazione della parte della legge che non è stata impugnata, e con l’abbandono di quella che lo è stata, pur sostenuta dalla deliberazione dell’Assemblea legislativa, non diversamente da quella promulgata; potere che, con la sentenza n. 205 del 1996, si è inteso razionalizzare almeno entro i rapporti politico-fiduciari che collegano l’Assemblea legislativa e l’esecutivo regionale.

    Queste difficoltà spingerebbero indubbiamente a considerare con favore l’eventualità di equiparare la Regione Siciliana, con riguardo al problema qui in esame, alle altre Regioni ad autonomia speciale e quindi a estendere anche a essa, tramite l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, il sistema di impugnativa comune delle leggi regionali previsto ora dal riformato art. 127 della Costituzione.

    Sennonché, alla Corte costituzionale non è demandato un giudizio di merito, sulla preferibilità dei differenti sistemi di impugnazione delle leggi regionali. Essa deve limitarsi ad accertare, alla stregua dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, se il sistema di impugnazione previsto dall’art. 127 della Costituzione configuri una «forma di autonomia più ampia» rispetto al sistema vigente di impugnazione delle leggi siciliane.

    La risposta è che si tratta di sistemi essenzialmente diversi, che non si prestano a essere graduati alla stregua del criterio di prevalenza adottato dal menzionato art. 10. Il controllo sulle leggi siciliane è preventivo, quanto alla sua attivazione; ma i termini per promuoverlo sono assai più stretti di quelli previsti per il controllo successivo delle leggi delle altre regioni. Quest’ultimo non ha di per sé effetti sospensivi sull’efficacia della legge impugnata; ma la legge siciliana può essere comunque promulgata e pubblicata decorsi i trenta giorni previsti dall’art. 29, secondo comma, dello Statuto. Il ricorso contro le leggi siciliane è promosso dal Commissario dello Stato nella Regione Siciliana, organo il cui titolare residente nel capoluogo della Regione, secondo l’art. 1 del d. lgs. C. p. S. 10 maggio 1947, n. 307 (Norme relative al Commissario dello Stato per la Regione siciliana) è bensì nominato con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio dei ministri (art. 2 del citato d. lgs. C. p. S. n. 307 del 1947), ma, pur non essendo più riconducibile all’originaria figura di «garante imparziale del patto di autonomia tra l’ordinamento siciliano e l’ordinamento statale» (secondo le parole della sentenza n. 545 del 1989), esercita pur tuttavia un proprio potere di controllo e attivazione del giudizio costituzionale, avente natura essenzialmente giuridica, non spettantegli in qualità di tramite del Governo ma affidatogli direttamente da norma di rango costituzionale; mentre il controllo sulle leggi delle altre Regioni è attivato da una delibera del Consiglio dei ministri, espressiva dell’indirizzo politico-giuridico del Governo.

    In presenza di questi dati di differenziazione, si deve rilevare l’eccentricità del sistema di controllo vigente per le leggi siciliane e concludere per l’impossibilità di assegnare la prevalenza a questo procedimento o a quello previsto dall’art. 127 della Costituzione, alla stregua della nozione di «forma di autonomia più ampia» adottata dall’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001.

    La conclusione è che il sistema di impugnativa delle leggi siciliane previsto dallo Statuto speciale resta tuttora applicabile, come riconosciuto del resto anche dall’art. 9 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), il quale, sostituendo l’art. 31, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, fa espressamente salva «la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione siciliana». Tutto ciò fino all’eventuale adeguamento dello Statuto alle norme del nuovo Titolo V della II Parte della Costituzione, secondo quanto prefigurato dallo stesso citato art. 10.

    Le questioni di legittimità costituzionale oggetto dei presenti ricorsi, così riconosciuti «procedibili», devono quindi essere esaminate nel merito, alla stregua del sistema costituzionale, anteriore al nuovo Titolo V della Costituzione, vigente al momento della proposizione dei ricorsi.

    4.   La questione di legittimità costituzionale sollevata nei confronti del disegno di legge n. 1147, approvato dall’Assemblea regionale il 20 aprile 2001, è fondata.

    Per comprendere il significato della normativa impugnata ricordata al paragrafo n. 1 di questo «Considerato in diritto» e formulata, come di consueto ma non perciò meno reprensibilmente, attraverso multipli rinvii che ne rendono impossibile la diretta percezione del significato è necessario procedere dall’inizio. 

    (a) Il d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347, ha recepito, alla stregua della disciplina a quell’epoca vigente per la contrattazione nel pubblico impiego, l’accordo del 29 aprile 1983 per il personale degli enti locali. L’art. 41 di tale regolamento prevede un meccanismo di riequilibrio tra anzianità economica e anzianità giuridica collegato all’inquadramento del personale degli enti locali secondo qualifiche funzionali, nonché un salario individuale d’anzianità in luogo della «progressione economica per scatti e classi».

    (b) Il comma 9 dell’art. 39 della legge regionale n. 10 del 2000 ha stabilito che il predetto art. 41 del d.P.R. n. 347 del 1983 si applica altresì al personale degli enti locali inquadrato, anche in soprannumero, nel ruolo dei predetti enti, ai sensi della legge regionale n. 39 del 1985 vale a dire ai soggetti risultati idonei negli esami, espletati ai sensi della legge regionale 2 dicembre 1980, n. 125, riservati a coloro che si erano avvalsi di diversi provvedimenti per l’occupazione giovanile, alla cui collocazione in ruolo la medesima legge regionale n. 39 del 1985 destinava i posti in organico all’epoca disponibili presso la Regione, le province, i comuni, le comunità montane, le unità sanitarie locali, gli enti provinciali per il turismo, le camere di commercio, industria, agricoltura e artigianato .

    (c) Con la delibera legislativa impugnata, la predetta disciplina del comma 9 dell’art. 39 della legge regionale n. 10 del 2000 cioè il sistema di riequilibrio tra anzianità economica e anzianità giuridica e il salario individuale d’anzianità, previsti dall’art. 41 del d.P.R. n. 347 del 1983 viene estesa, questa volta, a) al personale immesso in ruolo ai sensi della già ricordata legge regionale n. 39 del 1985 sull’occupazione giovanile, in atto in servizio presso le aziende unità sanitarie locali e le aziende ospedaliere; b) ai dipendenti in servizio degli enti sottoposti a vigilanza della Regione, e c) ai dipendenti inquadrati ai sensi della legge regionale n. 93 del 1982, cioè al personale dei soppressi patronati scolastici, inquadrato nei ruoli organici comunali e provinciali.

    Il Commissario dello Stato ricorrente mette in campo contro la delibera legislativa impugnata una serie di norme costituzionali, con le quali si contesta sia l’esorbitanza dai limiti della competenza legislativa regionale, sia la violazione di norme costituzionali attinenti al merito delle scelte legislative della Regione: precisamente, l’art. 17, lettera b), dello Statuto della Regione Siciliana e gli articoli 3, 97 e 81, quarto comma, della Costituzione.

    Assorbente risulta la censura mossa per contestare la competenza legislativa della Regione Siciliana. Indipendentemente infatti dalla riconducibilità (almeno parziale) della competenza legislativa nella specie esercitata alla materia della sanità pubblica di cui alla lettera b) dell’art. 17 dello Statuto speciale, come sostenuto dal ricorrente, ovvero alla lettera o) dell’art. 14, con riguardo alla pretesa «sub-materia» della occupazione, come sostenuto dalla Regione, ciò che in ogni caso rileva è che la disciplina dei rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche come definite, queste ultime, dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) , disciplina alla quale intende concorrere per le fattispecie particolari previste la normativa impugnata, è attualmente oggetto di contrattazione collettiva. Questo metodo di disciplina costituisce norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica, alla stregua dell’art. 1, comma 3, del citato decreto legislativo n. 165 del 2001, il quale rinvia in proposito ai principi desumibili dall’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), che, al comma 1, lettera a), stabilisce per l’appunto come principio la regolazione mediante contratti individuali e collettivi dei rapporti di lavoro e di impiego nel settore pubblico.

    Poiché tale principio, secondo lo Statuto, si impone a qualunque tipo di potestà legislativa regionale, rientri essa nell’art. 14 o nell’art. 17 dello Statuto regionale, ed è violato dalla disciplina impugnata, la relativa delibera legislativa dell’Assemblea regionale siciliana deve essere annullata.

    L’annullamento che su questa base deve essere disposto rende superfluo l’esame delle ulteriori censure prospettate dal ricorrente, in riferimento agli altri parametri costituzionali invocati.

    5. Anche la questione di legittimità costituzionale sollevata nei confronti del disegno di legge n. 1176, approvato dall’Assemblea regionale il 2 maggio 2001, è fondata.

    Con la delibera in questione, il legislatore siciliano ha inteso estendere i «benefici» dell’art. 39 della legge regionale n. 10 del 2000 (a) al personale inquadrato a norma della legge regionale n. 39 del 1985 cioè, di nuovo, ai soggetti inseriti nei ruoli organici di Regione ed enti locali in applicazione di diversi provvedimenti per l’occupazione giovanile in atto in servizio presso gli enti locali, le aziende unità sanitarie locali e le aziende ospedaliere (art. 1, comma 1, della delibera); (b) agli «altri dipendenti» degli enti locali e delle aziende unità sanitarie locali e aziende ospedaliere (art. 1, comma 2), e (c) al personale di cui alla legge regionale n. 93 del 1982 (art. 1, comma 2), cioè al personale dei soppressi patronati scolastici, inquadrato nei ruoli organici comunali e provinciali. I «benefici» previsti dall’art. 39 della legge regionale n. 10 del 2000, estesi alle anzidette categorie di pubblici dipendenti, consistono nel «diritto» riconosciuto ai dipendenti regionali in possesso dei requisiti di cui alla legge regionale 23 febbraio 1962, n. 2 (Norme per il trattamento di quiescenza, previdenza ed assistenza del personale della Regione) vale a dire il raggiungimento del sessantesimo anno di età con almeno quindici anni di servizio effettivo, ovvero la prestazione di almeno venticinque anni di servizio effettivo, indipendentemente dall’età di conseguire l’anticipato collocamento a riposo entro il limite del 45 per cento dei dipendenti in servizio, in ciascuna qualifica, al 31 dicembre 1993 (art. 39, comma 2). Gli oneri conseguenti alla suddetta estensione del «beneficio» sono posti a carico degli enti presso i quali il personale beneficiario presta servizio (art. 1, comma 3, della delibera impugnata).

    Anche in questo caso, il Commissario dello Stato ricorrente invoca, contro la legittimità costituzionale della delibera legislativa impugnata, numerosi parametri costituzionali, e precisamente gli articoli 3, 5, 81, quarto comma, 97 e 128 (nel testo anteriore alla riforma del 2001) della Costituzione, nonché gli articoli 14 e 17 dello Statuto della Regione Siciliana, contestando, innanzitutto, la competenza della Regione a legiferare in materia di condizioni soggettive per il collocamento a riposo e per il conseguente accesso alle prestazioni previdenziali, posto che tali prestazioni sono erogate da un ente pubblico statale, in base a requisiti stabiliti esclusivamente dalla legislazione dello Stato.

    Indipendentemente da ciò, tali condizioni soggettive risultano da una normativa che costituisce principio fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica (art. 1, comma 2, della legge 8 agosto 1995, n. 335), come tale idonea a imporsi a qualunque tipo di potestà legislativa regionale, ciò che rende evidentemente superflua ogni eventuale discussione circa il possibile inquadramento della materia oggetto della delibera in questione alla stregua degli elenchi di competenze contenuti negli articoli 14 e 17 dello Statuto speciale, evocati dal ricorrente.

    Qualora anche si volesse ritenere che il previsto diritto al collocamento a riposo anticipato e l’accesso alle prestazioni previdenziali secondo le condizioni risultanti dalla delibera impugnata siano da intendere come misure straordinarie di riforma di apparati pubblici pletorici, tramite l’eliminazione anticipata secondo l’espressione corrente dei cosiddetti «esuberi», piuttosto che come disciplina derogatoria rispetto al sistema previdenziale generale, non per questo le determinazioni del legislatore siciliano potrebbero legittimarsi costituzionalmente.

    Anche ad ammettere, in tal caso, che possa invocarsi la competenza legislativa regionale di cui alla lettera o) dell’art. 14 dello Statuto speciale («regime degli enti locali»), l’esodo di una quota così rilevante di pubblici dipendenti ritenuti pletorici, fissata nella misura massima del 45 per cento e generalizzata a tutti gli enti presi in considerazione pur dopo avere agevolato con norme speciali, negli anni e in ogni modo, l’inquadramento in ruolo di nuovo personale , senza alcuna valutazione analitica e selettiva e senza alcuna considerazione delle esigenze specifiche degli enti colpiti dalla misura, viola lo status di autonomia degli enti locali previsto dagli articoli 5 e 128 (nella versione anteriore alla riforma del 2001) della Costituzione.

    Questo motivo di incostituzionalità è ulteriormente rafforzato dalla disposizione del terzo comma dell’art. 1 della delibera, che in modo del tutto generico (ma tale, comunque, da smentire l’affermazione di parte regionale, secondo cui il pensionamento anticipato previsto dalla delibera impugnata avverrebbe «a costo zero»), pone a carico degli enti presso i quali il personale presta servizio gli oneri finanziari conseguenti. In tal modo, non solo non si adempie all’onere costituzionalmente imposto dall’art. 81, quarto comma, della Costituzione, di indicare i mezzi finanziari necessari per fare fronte alle spese previste, in quanto ci si limita esclusivamente a menzionare i soggetti su cui tale onere verrebbe a gravare, ma si finisce per incidere negativamente una seconda volta sull’autonomia degli enti locali, imponendo loro di impegnare proprie risorse per finanziare decisioni incidenti sui propri apparati da altri assunte e, potenzialmente, anche in contrasto con l’interesse al buon funzionamento dei propri apparati amministrativi.

    La difesa regionale, rendendosi conto dell’insostenibilità, sotto numerosi profili costituzionali, della normativa impugnata, si appoggia sulla possibilità di adottare, a norma dell’art. 12, ultimo comma, dello Statuto speciale, un regolamento di esecuzione con il quale, par di capire, si dovrebbero dettare norme analitiche per regolare l’esodo di personale dalle diverse amministrazioni interessate e per prevedere meccanismi incentivanti che non si risolvano necessariamente in un aggravio della spesa previdenziale dell’ente pubblico nazionale competente. Ma a tale regolamento non v’è nemmeno un accenno nella delibera impugnata ed esso, comunque, non potrebbe limitare quello che lo stesso art. 39, comma 2, della legge regionale n. 10 del 2000 qualifica come diritto dei dipendenti, regolando, nel comma 4, le modalità di esercizio e, nel comma 5, le priorità, per il caso che le domande superino la prevista percentuale del 45 per cento. Né potrebbe tale regolamento sopperire alla previsione delle risorse necessarie per far fronte alle spese conseguenti alle determinazioni legislative, previsione che deve essere anch’essa fatta per legge.

    Conclusivamente, l’impugnata delibera che estende ad amministrazioni diverse da quella regionale il diritto a conseguire l’anticipato collocamento a riposo, originariamente previsto per i soli dipendenti della Regione dall’art. 39 della legge regionale n. 10 del 2000 norma, a suo tempo non impugnata, sulla quale il Commissario dello Stato nutre ora dubbi di costituzionalità risulta, per i molteplici motivi indicati, costituzionalmente illegittima.

    L’annullamento che così deve essere disposto rende superfluo l’esame dell’ulteriore censura prospettata dal ricorrente in riferimento all’art. 3 della Costituzione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    1) dichiara l’illegittimità costituzionale del disegno di legge n. 1147, approvato dall’Assemblea regionale siciliana il 20 aprile 2001, dal titolo «Norme per il riconoscimento del periodo pre ruolo per il restante personale inquadrato a norma della legge regionale 25 ottobre 1985, n. 39»;

    2) dichiara l’illegittimità costituzionale del disegno di legge n. 1176, approvato dall’Assemblea regionale siciliana il 2 maggio 2001, dal titolo «Estensione dell’applicazione dell’articolo 39 della legge regionale 15 maggio 2000, n. 10».

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 ottobre 2003.

    F.to:

    Riccardo CHIEPPA, Presidente

    Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

    Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

    Depositata in Cancelleria il 21 ottobre 2003.

    Il Direttore della Cancelleria

    F.to: DI PAOLA