Penale

Thursday 19 May 2005

L’ ultima sentenza della Cassazione in materia di responsabilità del medico ospedaliero. Suprema Corte di Cassazione, Sezione Quarta Penale, sentenza n.9739/2005 11.3.2005

L’ultima sentenza della Cassazione in materia di
responsabilità del medico ospedaliero.

Suprema Corte di
Cassazione, Sezione Quarta Penale, sentenza n.9739/2005
11.3.2005 (Presidente: G. Coco; Relatore: E, Calmieri)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

IV SEZIONE PENALE

SENTENZA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 3/7/2000 del
Tribunale di Bari in composizione monocratica, D.L.
A, G.G., L.A.,
P.D. venivano assolti con la formula perché il fatto
non sussiste dal reato di cui agli artt. 113, 589 c.p loro ascritto perché per colpa, consistita in
imprudenza, negligenza ed imperizia, cagionavano la morte
di S.M., avvenuta in Bari il 7/11/1995, per arresto cardiacocircolatorio terminale in soggetto affetto da shock
infettivo o ipovolemico ed in particolare il G. quale
medico di guardia interdivisionale (dalle ore 20 del 6/11/1995 alle ore 8,00
del 7/11/1995) presso l’Istituto Policattedra di
chirurgia d’urgenza, chirurgia plastica e chirurgia ricostruttive
dell’Università di Bari- Policlinico, la
L. quale medico tirocinante nel
reparto di chirurgia plastica (presente nel corso dello stesso turno), la P. e la C. quali infermiere
professionali presso il citato reparto nello stesso turno, omettevano di
controllare i parametri vitali del paziente S.M., lì
ricoverato a seguito di ustioni di 1° e 2° grado e sottoposto a due innesti
sottoposto a due interventi chirurgici (il primo di escarectomia
della regione posteriore delle cosce e riparo con innesti demo-
epidermici, effettuato il 4/10/1995 ed il secondo di escarectomia
tangenziale delle gambe e della regione lombale,
riparata con innesti cutanei prelevati dagli arti superiori e dai glutei,
eseguito il 6/11/1995 dalle ore 17,00 alle ore 21,00), che evidenziavano lo
stato di shock, omettendo conseguentemente di intervenire tempestivamente e
rendendo pertanto irreversibile la sindrome in atto che conduceva alla morte;
il D.L, quale chirurgo che aveva eseguito
l’intervento del 6/11/1995, per aver posto in essere le condizioni che
causarono l’esito infausto dell’intervento, omettendo tra l’altro, di chiedere
una preventiva consulenza anestesiologica, e per aver
omesso da un lato di tenere anch’egli sotto diretto controllo il decorso post
operatorio del paziente, nonostante si fosse in presenza di un intervento
delicato e di urgenza, e dall’altro, di vigilare affinché il personale medico e
paramedico del turno sopra indicato controllasse i parametri vitali del S.

Il Tribunale, premesso che il capo di imputazione non spiegava neppure in che modo ed in quale
misura l’omesso controllo dei parametri vitali avesse esplicato efficienza
causale sull’evento, perveniva alla assoluzione di tutti gli imputati in forza
della considerazione che mancava qualsiasi prova del necessario nesso eziologico tra la condotta omissiva contestata a medici ed
infermiere ed il decesso del paziente affidato alle loro cure.

Avverso detta sentenza proponevano
rituale e tempestivo appello il Procuratore Generale ed il patrono delle Parti
Civili costituite, svolgendo motivi di doglianza in parte comuni e chiedendo la
riforma della impugnata sentenza.

Nel corso del dibattimento di secondo
grado veniva disposta perizia medico legale intesa ad
accertare quali erano state le cause della morte del S. e se tempestivi ed
appropriati interventi terapeutici avrebbero potuto evitare la morte; i periti
venivano autorizzati ad acquisire il diario infermieristico della notte del
decesso e dei giorni immediatamente precedenti e successivi che però non fu
possibile ottenere.

Acquisita la documentazione depositata
dalle parti e sentiti i periti ed i consulenti di parte, la Corte di appello
pronunciava sentenza con cui riconosceva la responsabilità di D.L. A., G.G., P.D. e
C.D., condannandoli, in concorso di attenuanti
generiche, alla pena di mesi quattro di reclusione ciascuno, oltre che al
risarcimento dei danni in favore delle parti civili alle quali assegnava una
provvisionali ed al rimborso delle spese di lite.

Assolveva L.
A. per non aver commesso il fatto.

La Corte ricostruiva con precisione
la sequenza degli avvenimenti che precedettero il decesso del S. ponendo maggiore attenzione a quanto si era verificato dopo
il secondo intervento operatorio, atteso che fino ad allora il trattamento del
paziente era risultato regolare.

Il S., di anni 46 era stato
ricoverato a seguito di un infortunio domestico nel quale riportò ustioni
estese a circa il 50% della superficie corporea e sottoposto in data 4/10/1995
ad un primo intervento chirurgico, e ad un secondo, quello in esame, il
6/11/1995; a tale secondo intervento era giunto in condizioni sostanzialmente
buone tanto che l’anestesista che lo visitò giudicò che l’intervento avesse un
grado rischio inferiore a quello precedente.

L’operazione ebbe
luogo nel pomeriggio, con inizio alle 17,15 a fine alle 20,20 (ora
della estubazione); tutto si svolse regolarmente ed
all’esito l’anestesista ordinò di eseguire un controllo radiografico del torace
e gli esami urgenti post operatori all’arrivo in reparto: controllo ed esami
che non vennero prontamente eseguiti.

Il D.L. prescrisse una terapia
farmacologia, tramite flebo, che non venne
compiutamente somministrata (solo una flebo risulta essere stata effettuata e
neanche completata); non venne effettuato alcun controllo del polso, pressione
e temperatura.

Nel corso della
notte le due
donne più volte sollecitarono il personale paramedico, dapprima segnalando che
il gocciolamento della flebo era lento, che dopo il precedente intervento era
stata fatta una trasfusione ematica ed erano stati somministrati più liquidi
per via endovenosa ed albumina, poi richiamando l’attenzione sul fatto che il
paziente accusava brividi, sudorazione e conati di vomito nonché sulla
scarsezza di urine contenute nella sacca, rimasta immutata dal momento in cui
il paziente era stato riportato in reparto; esse sollecitavano anche
l’intervento di un medico, ma sempre ricevendo risposte volte ad assicurare
regolarità del decorso post operatorio e il suggerimento di aumentare le
coperte (fino a giungere a otto) e di inumidire le labbra del paziente.

Verso le dei del
mattino la moglie di S. misurava la temperatura corporea del marito, che ad una
prima misurazione risultava di 36 ° e poco dopo di 35°.

Nel frattempo era giunta la L.
(medico tirocinante) che controllò il ritmo cardiaco del S. e cercò di
tranquillizzare la donna, ma il paziente continuava a peggiorare fino a che
verso le sette le infermiere del nuovo turno trasferirono il paziente nel
reparto rianimazione; solo allora sopraggiunse il medico di guardia
interdivisionale, dott. G.

Dalla cartella del reparto
rianimazione risulta che il pazientavi giunse
collassato, cute pallida e sudata, polsi periferici e centrali non
apprezzabili, diuresi contratta, in coma, non risponde agli stimoli verbali,
risponde in maniera in coordinata agli stimoli nocicettive.

Alle otto del mattino, nonostante i tentativi
per rianimarlo, avveniva l’exitus del paziente per
collasso cardiocircolatorio irreversibile.

La
Corte
dava atto di aver effettuato tale ricostruzione sulla
base delle dichiarazioni della moglie del S., che durante la notte era stata
costantemente al suo fianco, e della teste T.R.,
infermiera professionale, amica di famiglia, che dalle 21,30 del 6 novembre
alle 5,45 circa della mattina successiva si era unita alla moglie
nell’assistenza del S., dichiarazioni ritenute pienamente attendibili sia per
la loro precisione e concordanza, sia perché confermate dalle annotazioni della
cartella clinica redatta al momento del ricovero del S. in rianimazione; in
assenza di un diario infermieristico, mai acquisito ed esibito, nonostante
l’espressa autorizzazione ottenuta dai periti non poteva dunque darsi credito a
diverse allegazioni difensive.

I RICORSI

A. D.L. denuncia vizio di motivazione
in ordine alla affermazione di responsabilità basata
solo sul fatto di non aver impartito ferree disposizioni scritte o orali al
personale medico o paramedico cui il paziente veniva affidato, in ordine alla
gestione post operatoria.

La stessa sentenza da atto che egli
ha bene adempiuto l’intervento operatorio; di quanto avvenuto successivamente, del deserto assistenziale riscontrato dalla
sentenza, egli non può e non deve essere chiamato a rispondere; la situazione
critica per il paziente nasce nel reparto di terapia intensiva, dopo che il
D.L. ha esaurito il suo compito e pertanto l’adempimento del proprio obbligo di
protezione; tutte le (eventuali) macroscopiche, a dire della Corte,
inadempienze verificatesi in quel reparto sono assolutamente autonome e da
valutare autonomamente in quanto facenti capo a soggetti cui l’obbligo di
garanzia era stato trasferito, interrompendo il nesso di causalità rispetto a
quanto verificatosi (correttamente) sino a quel momento; non vi è prova che le
disposizioni sarebbero state osservate; la stessa Corte avrebbe riconosciuto
che altri erano i soggetti che avevano il dovere di protezione e sorveglianza
del paziente e cioè il personale del reparto di terapia intensiva dove il
paziente era stato trasferito all’esito dell’intervento operatorio, reparto
dove la sorveglianza avrebbe dovuto essere adeguata per definizione.

Non sussiste dunque nesso causale tra
il comportamento del D.L. e l’evento, atteso che se colpa vi fu questa è solo
del personale del reparto.

Peraltro nessun rapporto di causalità
poteva dirsi regolarmente accertato in assenza di certezza sulla causa della
morte.

G.G. denuncia violazione di legge e
manifesta illogicità di motivazione in quanto la Corte di appello,
trascurando le conclusioni dei periti che avevano ritenuto impossibile porre
una affidabile diagnosi quanto a causa della morte, formulando al riguardo solo
ipotesi, ha ritenuto di poter addivenire ad una ricostruzione certa sulla sola
base delle dichiarazioni della parte offesa, in particolare formulando nei
confronti del G. un addebito colposo (omesso di controllare i parametri vitali
del paziente e pertanto intervenire tempestivamente rendendo pertanto
irreversibile la sindrome in atto che conduceva il paziente a morte) che non
teneva conto, da un lato, delle conclusioni della perizia secondo cui il S. al
termine dell’intervento operatorio non necessitava di un controllo continuo dei
parametri vitali e, dall’altro, dei compiti del medico di guardia
interdivisionale, quali specificati in un documento che la stessa Corte di
appello aveva richiesto ma di cui non aveva fatto utilizzare, compiti che sono
soltanto di intervento su richiesta; pacifico viceversa che egli non venne mai
chiamato dalle infermiere.

D. C. denuncia illogicità di
motivazione per travisamento del fatto.

Elevata al rango di prova una mera
ipotesi formulata dai periti (shock ipovolemico a
seguito di un sanguinamento massivo da ulcera gastrica o intestinale) prendendo a
riferimento solo i sintomi riferiti dalla parte civile M. e dalla teste T.;
tuttavia le due testi non avrebbero dichiarato al dibattimento quello che la Corte di appello ritiene, ed
in particolare che il S. presentava nausea, sudorazione, ingravescente
astenia e conati di vomito, per cui macroscopico sarebbe il travisamento atteso
che il secondo giudice ricostruisce le cause della morte solo sulla base di
tali sintomi, che però potrebbero desumersi solo dall’esposto presentato dalla
M. e dalle sommarie informazioni rese dalla T., atti inutilizzabili ai fini
della prova.

Anche l’accertamento relativo al quantitativo di urine e alle flebo effettuate
sarebbe frutto di travisamento.

In realtà, come gli stessi periti
hanno riconosciuto, la causa della morte è rimasta ignota e da ciò deriva la impossibilità di effettuare il giudizio controfattuale; neppure è stato chiarito quale ulteriore
intervento medico sarebbe stato idoneo ad impedire l’evento: l’accertamento del
nesso causale no soddisfa dunque quei requisiti di certezza posti in luce dalla
più recente giurisprudenza.

D.P. denuncia difetto ed illogicità
della motivazione.

Le affermazioni secondo le quali il
S. è stato abbandonato a se stesso e le infermiere di
turno si limitarono a tranquillizzare le due donne che lo assistevano, non
facendo niente per verificare se le loro preoccupazioni avessero fondamento
sarebbero smentite dalle risultanze processuali ed in particolare dal foglio termografico da cui risulta che la temperatura è stata
misurata più due volte e che la quantità di urina era di 300 ml: l’affermazione
di essere in presenza di una diuresi contratta stante l’alterazione della cifra
in 1 in 3
era solo una mera congettura dell’estensore della sentenza; la sentenza sarebbe
illogica anche nel ritenere che il personale paramedico potesse riconoscere
quei sintomi che debbono essere riconosciuti dal medico.

Impossibilità di
ritenere accertato il nesso di causalità non conoscendosi la causa della morte.

Al dibattimento sono state depositate
conclusioni dell’Avv. Prof. F.
L. per D.L., e conclusioni e nota spese delle parti civili costituite.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I ricorsi, pur ritualmente
proposti, sono infondati.

In via preliminare mette conto
escludere la intervenuta prescrizione del reato per le
sospensioni intervenute nelle more del giudizio, già computate alla decorsa
udienza del 2 aprile 2004, innanzi a questa Suprema Corte, con provvedimento di
sospensione, in detta udienza, del termine di prescrizione.

Infatti delle sospensioni, come quella
determinata alla citata udienza del 2 aprile 2004, sono tutte imputabili alla
difesa degli imputati, e determinano il non utile decorso del tempo, nella
specifica ottica della prescrizione secondo l’indirizzo di queste SS.UU. n. 10211/2001, Cremonese.

Nel merito

Sul ricorso del D.L., va innanzitutto precisato che egli, nella qualità di capo
dell’equipe operatoria, fu titolare di una posizione di garanzia nell’ambito
della quale, secondo quanto accertato dalle precedenti sentenze di merito,
risolse imprudentemente di effettuare un intervento altamente specialistico
(quale quello praticato al paziente S.M.)) nell’ultimo turno pomeridiano, e
così nell’approssimarsi della notte: tempo nel quale; secondo regola di comune
esperienza, il presidio medico e paramedico, nei reparti ospedalieri (anche in
quelli organizzati, a differenza di quello di cui si discute, secondo criteri
accettabili), è notevolmente meno allertabile alle
emergenze che non nelle ore del giorno.

Inoltre egli, concluso
l’intervento, nel trasferire la sua posizione di garanzia all’unico medico di
guardia che aveva sotto il proprio controllo il reparto di terapia intensiva,
unitamente ad altri due reparti facenti capo all’istituto policattedra
che li raggruppava, non curò di fornire le necessarie indicazioni terapeutiche
e dei controlli dei parametri vitali del paziente appena operato, né si
preoccupò di seguire direttamente, anche per interposta persona, il decorso
postoperatorio .

Sì che il S., abbandonato a se stesso
anche per il disinteresse sia dell’unico medico di guardia notturno, sia del
personale paramedico del tutto professionalmente incapace ed assente, e sia
persino della medico tirocinante dello specifico reparto ove il paziente era
stato sottoposto ad intervento chirurgico, si spense rapidamente a causa di un
certo shock ipovelmico seguito a sanguinamento
massivo da ulcera gastrica o intestinale, e del
probabile e conseguente instaurarsi di un’ulcera sanguinante, forse anche
seguita da perforazione.

Il ricorrente ha denunciato
l’adozione di un criterio probabilistico nella individuazione
della causa dell’evento, e dunque ha denunciato dei canoni della più recente
giurisprudenza di questa Corte a SS. UU. (la pronuncia
Francese del 30328/2002).

Per contro deve invece farsi rilevare
che la Corte si
è espressa nei seguenti termini: …le cause della morte sono state indicate, con
apprezzabile grado di assoluta verosimiglianza,
scientificamente ancorato a dati clinici desunti dalla documentazione sanitaria
acquisita, in uno shock ipovolemico a seguito di sanguinamento massivo da ulcera
gastrica o intestinale, ed ha anche indicato i datti oggettivi sui quali la
detta ipotesi, formulata dai Periti, è stata ritenuta fondata (quali le
possibili cause dell’instaurarsi di tale ulcera).

Gli stessi Giudici hanno indicato il
versamento endocavitario ed il conseguente shock ipovolemico, dato caratterizzato da assoluta fondatezza,
partendo, tra l’altro, dai precedenti valori ottimali
di ematocrito (35% prima dell’intervento).

La mancata pratica della terapia
indicata dall’operatore, consistente in 1500 cc. di
liquidi nel corso della notte, della terapia
farmacologia prescritta, e degli altri presidi tempestivamente praticabili,
solo che fossero stati svolti gli accertamenti urgenti prescritti
dall’anestesista, o ritenuti necessari dal controllo medico che in alcun modo
può mancare nella fase postoperatoria di un intervento talmente delicato,
sarebbero stati tali da certamente evitare l’evento al quale si è pervenuti
attraverso un iter che la Corte
di merito ha descritto e qualificato come totale abbandono.

E ciò solo che l’imputato avesse
eletto, al fine di trasferire la propria posizione di garanzia, in maniera
adeguatamente oculata i soggetti che avrebbero dovuto seguire poi il decorso
postoperatorio del paziente, nell’immediatezza del suo ritorno in reparto, e
nelle seguenti ore della notte.

Può dunque affermarsi che, nel caso
del dott. D.L. il rimprovero di non aver usato il
comportamento conseguente alla delicatissima posizione di garanzia che gli era
propria, in vista della fase postoperatoria, trasferendo tale posizione ad un
reparto che egli sapeva (o avrebbe dovuto sapere) affidato solo a personale
paramedico (indipendentemente dalla competenza, diligenza e scrupolo che
costoro possedessero) certamente non in grado di far fronte all’assistenza di
pazienti appena sottoposti ad interventi di alta chirurgia, ed ad un medico di
guardia per contratto disponibile solo dietro chiamata o a richiesta, è stato
ineccepibilmente motivato.

Infatti, in tali condizioni, si può dire che egli ha abbandonato il paziente a se stesso, avendo
la piena consapevolezza di tale abbandono.

Che poi, da tale situazione di abbandono sia derivata la incredibile mancata pratica
delle cure e somministrazione di liquidi che lo steso Primario aveva ordinato,
e che da questa sia derivato il progressivo deterioramento delle funzioni
vitali del paziente che, avendo perduto già plasma durante l’intervento (1000
ml.), ne continuava a perdere per sanguinamento da
ulcera, sino a pervenire allo shock ipovolemico, è
fatto che risulta chiaramente attraverso la ricostruzione della dinamica degli
eventi, caratterizzata dalla totale assenza di assistenza e controllo del
malato, pur in presenza di numerose segnalazioni di dati allarmanti sul decorso
postoperatorio, da parte della moglie e dell’amica di famiglia che ne seguirono
impotenti il percorso verso l’irreparabile.

Ma da tali successive e gravi omissioni
il ricorrente non può valersi quale scusante della propria condotta omissiva,
in quanto vale qui la regola sempre affermata da questa Suprema Corte e secondo
la quale che versa in colpa non può invocare a propria scusante la condotta
colposa altrui.

In materia, per altro, il condiviso
orientamento di questa Corte Suprema è nel senso che gli operatori di una struttura sanitaria, medici e paramedici, sono tutti ex lege portatori di una posizione di garanzia, espressione
dell’obbligo di solidarietà costituzionalmente imposte ex art. 2 e 32 cost., nei confronti dei pazienti, la cui salute essi
devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l’integrità; e
l’obbligo di protezione perdura per l’intero tempo del turno di lavoro
(Cassazione penale, sez. IV, 2 marzo 2000, n. 9638, Troiano).

Si che correttamente la Corte di merito ha ritenuto
che il ricorrente non abbia adempiuto al proprio obbligo nei termini di cui
innanzi.

Sul nesso eziologico,
ritiene questa corte integrare sufficientemente l’obbligo della motivazione
imposto al Giudice di merito la sua individuazione nella ancata
esecuzione della radiografia del torace e degli accertamenti prescritti
dall’anestesista, nella mancata indicazione delle necessarie disposizioni
scritte ed orali al personale medico e paramedico cui il paziente veniva
affidato nella fase postoperatoria, tanto che nulla di tutto ciò fu praticato
al S. ne nell’immediato e nemmeno nel corso di tutta la notte.

Da tali omessi controlli e terapie,
conseguirono le insorgenze che condussero a morte il paziente.

Omissioni imputabili innanzi di ogni altro al D.L., a
titolo di colpa integrata dal connotato della imprudenza e della negligenza.

Ove tutto ciò non fosse
stato omesso, deduce la impugnata sentenza, l’evento si sarebbe evitato.

La sentenza de qua ha inoltre bene
evidenziato che, per altro, egli sapeva bene che, come prima indicato, la sua
posizione di garanzia non veniva trasmessa a personale
sanitario idoneo a riceverla (e pertanto con culpa in eligendo),
ed anzi che veniva trasferita praticamente a nessuno.

Tale condotta è stata ritenuta idonea
a determinare nel paziente quella ulteriore perdita di
liquido ematico che, sommata alla perdita subita durante l’intervento, ed in
assenza di reintegrazione di liquidi, di terapia alcuna e di controllo medico,
ha determinato il progressivo scadimento delle complessive condizioni vitali
del S. che, solo dopo un tempo individuato attorno alle sei e trenta del
mattino (ora fino alla quale è stata ritenuta la possibilità di un intervento
idoneo a salvare la vita del paziente) è divenuto irreversibile.

Da qui la corretta contestazione
della cooperazione colposa con il medico di guardia e con il personale
infermieristico, i quali tutti hanno inserito una condotta- parte, utile
elemento ai fini della determinazione dell’vento; ne
sembra del tutto peregrina la critica alla sentenza, di qualche difensore, in
sede di discussione, secondo cui non riesce comprensibile come sia stata
assolta la specializzando dott. L., rimasta nel turno notturno a presidiare il
reparto in relazione proprio ai compiti specifici del dott. D.L.,
presso il cui reparto la stessa svolgeva la sua attività, la quale, informata
dalla moglie del paziente del peggioramento della condizioni del marito, non si
attivò personalmente con adeguate iniziative, nella sua qualità di medico, non
chiamò il medico di guardia, e nemmeno controllò il (non) normale funzionamento
della flebo e la (mancata) assunzione delle cure anche farmacologiche
prescritte dall’anestesista e dal suo stesso direttore al momento di rinviare
il S. al reparto di terapia intensiva.

Quanto alla impugnazione
proposta dal D.L., pertanto, assorbita in quanto
precedentemente osservato ogni ulteriore considerazione critica formulata
nell’interesse del ricorrente, il ricorso deve essere ritenuto infondato in
ogni sua parte, al limite della inammissibilità, e deve essere pertanto
integralmente rigettato.

Non diversa sorte può avere il
ricorso del dottor G.

Deve infatti
qui ricordarsi l’insegnamento di questa Corte, riferito innanzi in ordine alla
posizione del dottor D. L., secondo il quale (vale la pena ricordarlo) gli
operatori di una struttura sanitaria, medici e paramedici, sono tutti ex lege portatori di una posizione di garanzia, espressione
dell’obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex art. 2 e 32 Cost., nei confronti dei pazienti, la cui salute devono
tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l’integrità; l’obbligo di
protezione perdura per l’intero tempo del turno di lavoro (Cass. penale, sez.
IV, 2 marzo 2000, n. 9638, Troiano).

Egli ritorna a porre in discussione,
con il suo ricorso, la causa mortis, a suo parere imperscrutabile per la (certo assai colpevole)
mancata esecuzione del dovuto esame auptico sul
cadavere.

E tuttavia, come detto qui prima, in relazione alla posizione del dott. D.L.,
tale causa della morte è stata individuata dalla Corte di merito in materia in
maniera del tutto inequivoca e categoricamente
addossata alla responsabilità degli imputati, fra i quali spicca il ricorrente
per la totale sua assenza di controllo, dovuto, a giudizio di questa Corte, nei
termini e per le previsioni normative indicate nella prima riferita pronuncia,
ad inizio di turno e poi durante tutto il corso della notte.

E ciò, indipendentemente dai suoi
obblighi contrattuali.

Senza ritornare a valutare gli esiti
peritali poiché questa Corte non deve effettuare
incursioni negli atti probatori, limitandosi solo ad esaminare gli atti
impugnati e gli atti d’impugnazione onde valutare la coerenza logica dei primi,
e la capacità di questi a resistere alle critiche di ricorso (Sezione Prima, 10
febbraio 2000, n. 94), basta osservare che, proprio in applicazione dei
principi costituzionali indicati dalla pronuncia n. 9638/2000 di questa Corte,
ed in considerazione, della tenutezza del medico, cui
era affidato il reparto, di previamente informarsi quanto meno delle situazioni
di emergenza esistenti al momento della sua assunzione di responsabilità e di
garanzia (e certamente tale era quella della persona offesa per le ripetute
ragioni connesse alla delicatezza del subito intervento ed alla necessità di
essere seguito con attenzione particolare nella delicatissima fase
postoperatoria), il ricorso alla clausola contrattuale che avrebbe configurato
il suo obbligo di intervento su chiamata (e poi, chiamata da parte di chi, nel
caso di specie?) è del tutto privo di rilievo, come la corte di merito ha
ritenuto, pronunciando nei confronti di costui sentenza di condanna per le ragioni
ivi spiegate secondo convincente, ragionevole e condivisa motivazione.

A pag. 21 sentenza, infatti, la Corte di merito evidenzia
come fu proprio a causa… del notevole intervallo di tempo trascorso fra la
comparsa di quei sintomi che avrebbero imposto, se doverosamente rilevanti,
l’instaurazione di una idonea terapia, ed il momento
dell’irreversibile aggravamento verificatosi dopo le ore 6,30… che ebbe a
verificarsi l’evento, specie in considerazione del fatto che l’essere il
paziente affidato ad una struttura di altissimo livello operativo (istituto policattedra di terapia di urgenza del Policlinico di Bari)
avrebbe dovuto consentire che, praticati nei tempi congrui gli interventi farmacologici e chirurgici appropriati, fosse evitato
l’evento.

E conclude:
non ricorre nel caso di specie, in base all’evidenza disponibile, alcuna
incertezza, alcun ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante
dell’omissione degli imputati…

Nel suddetto modo appare dunque
integrata, e in termini di ipotesi controfattuale,
e in termini di formula logica (SS.UU. Francese, 2002), la responsabilità, fra gli altri, anche del
dott. G.

Ne vale il ricorso agli obblighi
contrattuali, attesa la posizione di garanzia specifica che ogni medico (o
paramedico) ha nei confronti dei pazienti a lui affidati, e che deve espletare nel rispetto dei principi costituzionali di cui
agli art 2 e 32, così come già più volte affermato da questa Suprema Corte (una
posizione di garanzia, espressione dell’obbligo di solidarietà costituzionalmente
imposto ex art. 2 e 32 Cost., nei confronti dei
pazienti, la cui salute devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne
minacci l’integrità; l’obbligo di protezione perdura, come già precisato, per
l’intero tempo del turno di lavoro (Cassazione penale, sez. IV, 2 marzo 2000,
n. 9638, Troiano).

Qui, dunque, non è questione di obbligo contrattuale di natura privatistica
(o amministrativistica), ma dell’essere venuto meno,
il dott. G., al pari degli altri, all’esatto adempimento del debito di garanzia
dovuto nei confronti del S., mediante la condotta che gli è stata contestata, e
che è stata di poi accertata nei termini di cui in sentenza, esenti da
qualsiasi vizio logico, oltre che anche genericamente giuridico, in funzione di
un iter argomentativo del tutto ragionevole e
convincente.

Inammissibili sono poi le censure
all’accertamento di fatto che i secondo G. hanno
ritenuto, a seguito della considerazione degli esiti peritali; e questo per le
ragioni di cui all’insegnamento costante e condiviso di questa stessa Corte, a
mente del quale nel giudizio di legittimità non è deducibile il vizio di
travisamento del fatto inteso come ipotesi di contrasto fra le argomentazioni
del contesto motivazionale e gli atti processuali, sicché il controllo
demandato alla Corte di Cassazione…non può esplicarsi in indagini extratestuali
dirette a verificare se i risultati dell’interpretazione delle prove,
costituenti i dati fondanti della decisione, siano effettivamente
corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo
(Sezione Prima, 10 febbraio 2000, n. 94).

Ne scusante è che gli infermieri non
abbiano mai richiesto, durante la notte, il suo intervento, essendo dovere e
scrupolo di un medico, cui è affidato un reparto (specialmente quando si tratti
di una unità dai compiti evidentemente di speciale delicatezza, quale quella di
terapia intensiva in questione) quello di prendere immediata visione,
raccogliendo la posizione di garanzia che gli viene trasferita al momento della
sua presa in carico del reparto, delle specifiche situazioni degli ammalati, a
partire dalle situazioni più delicate (e non se ne immagina una più critica di
quella presentata dal S., in fase immediatamente postoperatoria a seguito della
storia chirurgica di cui in sentenza), e dunque assicurandosi della corretta
instaurazione delle terapie prescritte o ritenute necessarie, seguendo di
persona l’evolversi della situazione fino al cessare della condizione di
rischio.

Obbligo e scrupolo cui il dott. G.,
come affermato in sentenza, è stato ben lontano dal corrispondere.

Per quanto detto, ed assorbita ogni
altra considerazione, la infondatezza del ricorso
conduce alla declaratoria di rigetto dello stesso.

A non diversa soluzione deve
pervenirsi a seguito dell’esame dei motivi presentati dalle infermiere P. e C.

Anche costoro hanno contestato l’addebitabilità di ogni
responsabilità a loro, attesa la incertezza in ordine alla causa mortis del paziente, per la mancata perizia autoptica.

Tuttavia, l’accertamento svolto in
sentenza sulla base delle perizie fondate sulla risoluzione storica del fatto,
non consente alcuna rivisitazione del giudizio di fatto che, per le ragioni qui
prima dette e ripetute, non si presta a censure in ordine
all’ordito argomentativo dello specifico decisus.

Certo è che il S. è morto perché non
solo tempestivamente ma mai, durante l’intero arco della notte (quasi dodici
ore dal suo rientro in reparto dopo l’intervento chirurgico, fino al momento in
cui le sue condizioni fisiche sono irrimediabilmente precipitate) costoro
raccolsero, come era loro preciso dovere, le
preoccupazioni reiteratamente ed in maniera allarmata prospettate dalla moglie
del paziente e dall’infermiera, amica della famiglia, che insieme a costei
trascorse quelle ore attendendo inutilmente che qualcuno comprendesse ciò che a
loro appariva, e non vi era certo necessità di specifica competenza, il
gravissimo evolversi della situazione.

La
Corte
ha sottolineato, attraverso il riferimento alle parole
tranquillanti di costoro (innanzi alla esposizione dei sintomi si cui è inutile
tornare, tanto essi sono chiari anche al di la di qualunque più elementare
nozione di esperienza medica o paramedica) quale sia stata la condizione di
totale assenza di qualsiasi apporto venuto da detto personale, se non l’aver
fornito otto coperte per far fronte alla crisi di ipotermia di una persona, il
S., che si stava totalmente dissanguando e disidratando.

Nemmeno hanno avvertito lo scrupolo di
chiamare il dott. G. che intanto stazionava nella
propria stanza, secondo contratto.

In particolare, la P., con il suo
ricorso, percorre criticamente la ricostruzione degli eventi delle ore
notturne, in chiave alternativa rispetto a quella di cui in sentenza.

Ma ciò non è consentito nella presente
sede di legittimità, per la ben nota preclusione rispetto ad ogni rivisitazione
del merito (già qui prima evidenziata) a condizione che l’apparato argomentativo non presenti incongruità, così come ne
presenta la sentenza sottoposta dunque a non puntuale ed utile critica, per quanto
fin qui evidenziato.

Altrettanto fa la C., sempre
prendendo lo spunto dalla incertezza sulle cause della morte del paziente
(incertezza che la sentenza non manifesta), per denunciare quindi mancanza di
nesso causale, difetto di prova in ordine alla responsabilità , vizio di
motivazione e travisamento del fatto.

Ma, posto che sul nesso di causalità,
anche con specifico riferimento alla posizione di costei, la Corte di merito ha detto in
maniera ineccepibile (e la anonima correzione, meglio
sarebbe parlare di falsificazione, della cifra relativa alla quantità di urine
contenute nella sacca al momento del precipitoso ed inutile trasferimento del
paziente al reparto rianimazione, praticamente già privo di vita, è ulteriore
prova della grave omissione posta in essere dal personale infermieristico, e
del tentativo di ripararvi in chiave difensiva), ogni altra alternativa lettura
degli elementi probatori valutati (o anche no valutati perché implicitamente
ritenuti in conducenti) non può costituire argomento di impugnazione in sede di
legittimità.

Anche tale ricorso, prevalentemente in
fatto, non può trovare l’atteso riscontro censorio, e deve essere rigettato
anche a ragione della sua pressoché manifesta infondatezza.

Al rigetto dei ricorsi di tutti gli
imputati segue la condanna di costoro, in solido, alle
spese.

P.Q.M.

Visti gli artt.
615 e 616 c.p.p., rigetta i
ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.

Li condanna altresì al pagamento in
solido delle spese civili del giudizio di Cassazione
in favore delle parti civili M.A. M., S. P. e S.C., liquidandole in complessivi Euro 6.000,00 (comprese
le spese).

Roma, 1 dicembre 2004.

Depositata in Cancelleria l’11 marzo 2005.