Penale

Saturday 08 October 2005

L’ imputato non può appellare le sentenze di patteggiamento.

L’imputato non può appellare le
sentenze di patteggiamento.

Cassazione – Su
penali – sentenza 24 giugno – 6 ottobre 2005, n. 36084

Presidente Marvulli -relatore
Fazzioli

Ritenuto in fatto

1. Con decreto del 7 febbraio
2006 il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di
Torino disponeva il giudizio davanti allo stesso Tribunale di Saleri
Franceschino, Merlanti Guido e Fragomeli Orlando, imputati di reati di
circonvenzione di persone incapaci commessi, in tempi e con modalità diversi,
nei confronti di Giovanni Marsengo.

Prima della apertura
del dibattimento e, quindi, tempestivamente secondo la originaria previsione
dell’articolo 446, comma 1, Cpp (poi modificato dall’articolo 33, comma 1,
lett. a), legge 479/99), Saleri e Fragomeli chiedevano al Tribunale
l’applicazione della pena, ma il pubblico ministero prestava il proprio
consenso soltanto per il Saleri, per cui il giudizio proseguiva nei confronti
di Merlanti e Fragomeli.

All’esito del dibattimento, il
Tribunale, con sentenza del 9 giugno 1997, dichiarava Merlanti responsabile dei
reati ascritti e lo condannava alla pena ritenuta di giustizia con le
conseguenti determinazioni a favore della parte civile.

Ritenendo ingiustificato il dissenso
del pubblico ministero, applicava al Fragomeli, ai sensi dell’articolo 448,
comma 1, Cpp, la pena da lui richiesta, condannandolo, altresì, al risarcimento
dei danni patrimoniali a favore della parte civile nella misura da liquidarsi
in separata sede.

Entrambi gli imputati appellavano
la sentenza.

La Corte d’appello di Torino si
poneva d’ufficio, innanzi tutto, la questione dell’ammissibilità dell’appello del Fragomeli e, risoltala positivamente, con sentenza del
23 novembre 2001, in contumacia dello stesso, rigettava entrambi i gravami,
confermando integralmente le statuizioni di primo grado.

In data 28 maggio 2004 il
Fragomeli, al quale era stato notificato ordine di esecuzione
della sentenza, proponeva incidente di esecuzione, sostenendo la nullità della
notificazione della sentenza perché eseguita presso il difensore non
domiciliatario ai sensi dell’articolo 161, comma 4, Cpp pur risultando dagli
atti, come certificato dall’ufficiale giudiziario, che aveva trasferito la
propria residenza nel comune di Caprie.

Con ordinanza del 1 luglio 2004
la Corte d’appello di Torino, giudice dell’esecuzione, accogliendo la
richiesta, sospendeva l’esecuzione della sentenza, e
disponeva ai sensi dell’articolo 670, comma 1, Cpp la rinnovazione della
notificazione.

Il Fragomeli presentava,
pertanto, ricorso per cassazione contro la sentenza del 23 novembre 2001,
denunziando:

a) la nullità della notifica del
decreto di citazione a giudizio davanti alla Corte
d’appello;

b) la manifesta illogicità della
motivazione in ordine alla affermazione della sua
responsabilità;

c) la mancata
derubricazione del reato di circonvenzione di persone incapaci in quello di
truffa;

d) la mancata
rinnovazione del dibattimento mediante l’espletamento di nuova “consulenza
d’ufficio”.

Successivamente
depositava nella cancelleria della Corte, due memorie, contenenti “motivi
nuovi”, redatte rispettivamente dai difensori, avv. Alfredo Gaito e avv.
Francesco Dassano, con le quali ampliava i temi già sinteticamente proposti con
i motivi di ricorso, in particolare sostenendo la nullità della notificazione
della citazione per il giudizio d’appello e la sussistenza di manifesti vizi
logici della motivazione della sentenza impugnata.

La Seconda Sezione ha rimesso gli
atti alle Sezioni Unite penali, avendo ravvisato un contrasto di giurisprudenza
in ordine alla validità della notificazione effettuata
ai sensi dell’articolo 161, comma 4, Cpp al difensore non domiciliatario dopo
l’esito negativo della notificazione presso il domicilio dichiarato e senza che
si sia proceduto a nuove ricerche, nonostante la conoscenza dell’effettivo
domicilio dell’imputato in base alle informazioni
assunte nel compimento dell’atto.

Considerato in diritto

1. Il Fragomeli ha proposto
ricorso per cassazione a seguito dell’ordinanza del 1 luglio 2004 con la quale la Corte d’appello di Torino, giudice
dell’esecuzione, ha dichiarato la nullità della notifica della sentenza
contumaciale, disponendo la rinnovazione della medesima.

Preliminarmente va stabilito se
tale decisione precluda ogni indagine sulla regolarità
della prima notificazione della sentenza contumaciale, ovvero se tale
accertamento possa formare oggetto di nuovo esame da parte di questa Corte ai
fini del controllo, quale giudice dell’impugnazione, della tempestiva
proposizione del ricorso.

La questione risulta
già affrontata con sentenza, Sezione sesta,
30758/02, Fiorentino, RV. 222355, secondo cui “in tema di questioni relative al titolo esecutivo, se il giudice dell’esecuzione
abbia ordinato la rinnovazione della notifica – ritenuta invalida – del
provvedimento da eseguirsi prima che sia proposto gravame, il giudice
dell’impugnazione deve valutare la tempestività di quest’ultimo a partire dalla
nuova notificazione, restando preclusa una diversa valutazione della ritualità
della prima notifica e quindi la possibilità di far decorrere da quella il
termine per l’impugnazione”.

Non vi sono ragioni per
discostarsi da tale soluzione.

Va in proposito rilevato che nel
previgente codice di rito non esistevano disposizioni analoghe a quelle
contenute nell’articolo 670 Cpp, che è stato introdotto dal legislatore al fine
evidente di mettere ordine nella materia attinente i rapporti tra incidente di esecuzione, impugnazione apparentemente tardiva e
restituzione nel termine, nonché di definire le competenze del giudice
dell’esecuzione e di quello dell’impugnazione e gli effetti reciproci delle
relative decisioni.

A tale scopo, con elencazione non
completamente esaustiva come di seguito precisato, i commi 2 e 3 prendono in
esame alcune situazioni che in concreto possono porsi con maggior frequenza e
che si caratterizzano perché, in mancanza di una specifica regolamentazione,
potrebbero dare luogo a sovrapposizioni di decisioni, direttamente o
indirettamente, sullo stesso oggetto.

Elemento comune dei casi regolati
dal codice è la contestuale pendenza davanti al giudice dell’esecuzione di una
richiesta diretta all’accertamento della mancanza o della non esecutività del
titolo e dell’atto di impugnazione o di opposizione
(articolo 670, comma 2, Cpp), ovvero della richiesta di restituzione nel
termine (articolo 670, comma 3, Cpp), situazione che il legislatore risolve
attribuendo nel primo caso la competenza su entrambi i procedimenti al giudice
dell’impugnazione (il giudice dell’esecuzione deve trasmettere gli atti al
giudice dell’impugnazione competente e può adottare soltanto provvedimenti
interinali urgenti “de libertate” ), e nella seconda ipotesi al giudice
dell’esecuzione.

Elencazione, tuttavia, come si
diceva, non esaustiva: infatti, mentre il comma 3 prevede anche l’ipotesi che
la richiesta di restituzione nel termine sia stata precedentemente
proposta davanti al giudice dell’impugnazione, nel qual caso ogni giudice
decide autonomamente sulla questione di sua competenza (soluzione del tutto
logica in quanto in considerazione dei diversi presupposti dell’incidente di
esecuzione e della restituzione in termini, non è ipotizzabile la pronunzia di
decisioni tra loro in contrasto), il comma 2 non disciplina le ipotesi in cui
l’impugnazione o l’opposizione sia stata in precedenza autonomamente proposta
davanti al giudice di cognizione competente, ovvero venga proposta davanti a
quest’ultimo dopo la presentazione dell’incidente di esecuzione, ma prima della
decisione.

Poiché anche in questi casi
sussiste un’identica situazione di potenziale conflitto, dal momento che la
stessa questione (esistenza o meno di un regolare titolo esecutivo) deve essere
esaminata da entrambi i giudici, sia pure per finalità diverse, la questione
deve essere risolta applicando lo stesso principio di cui all’articolo 670,
comma 2, Cpp, e, quindi, attribuendo la competenza anche per l’incidente di esecuzione al giudice dell’impugnazione.

Con riferimento al caso in esame,
va rilevato che il Fragomeli ha proposto ricorso per cassazione soltanto dopo
l’ordinanza della Corte d’appello che, quale giudice dell’esecuzione, ha deciso
sulla regolarità della notificazione della sentenza contumaciale, disponendone
la sua rinnovazione.

Di conseguenza, poiché non
sussisteva la condizione prevista dal comma 2 per la deroga alla competenza del
giudice dell’esecuzione, l’ordinanza della Corte d’appello è divenuta
definitiva e la questione della regolarità della notificazione non può formare
oggetto di ulteriore esame da parte di questa Corte di
legittimità.

Infatti, in base ai principi
generali che regolano il procedimento di esecuzione,
la decisione del giudice che accoglie la richiesta della parte (il rigetto non
pregiudica la presentazione di nuova richiesta fondata su altri elementi), una
volta che è divenuta definitiva ai sensi dell’articolo 666 Cpp, non può essere
modificata ed ha efficacia tra le parti precludendo ogni ulteriore decisione
sul punto del giudice dell’esecuzione o di altro giudice.

Il ricorso del
Fragomeli, poiché lo stesso è stato proposto nei termini di cui all’articolo
585 Cpp, decorrenti dalla data della rinnovazione della notificazione della
sentenza, dev’essere pertanto considerato tempestivo.

2. Il ricorso va, tuttavia,
dichiarato inammissibile.

Come precisato nella
esposizione in fatto, il Fragomeli, prima dell’apertura del dibattimento
di primo grado, chiedeva, ai sensi dell’articolo 446, comma 1, Cpp nel testo
allora vigente, l’applicazione della pena, ma il pubblico ministero non
prestava il proprio consenso, per cui si procedeva al dibattimento.

Con sentenza del 9 giugno 1997,
il Tribunale di Torino pronunziava sentenza con la quale condannava l’imputato
Merlanti Guido, il cui procedimento era stato riunito nel corso delle indagini
preliminari a quello del Fragomeli, e applicava a quest’ultimo, ai sensi
dell’articolo 448 Cpp, ritenendo ingiustificato il dissenso del pubblico
ministero, la pena nella misura da lui richiesta.

Contro tale sentenza proponevano appello sia il Merlanti che il Fragomeli. La
Corte d’appello di Torino, d’ufficio, si poneva il problema della
ammissibilità dell’appello del Fragomeli e lo risolveva in senso
affermativo per due ordini di ragioni.

Osservava la Corte di merito che
la pena era stata applicata soltanto dopo il dibattimento celebrato con il rito
ordinario ed in esito alla affermazione della
responsabilità dell’imputato, circostanza che integrava una situazione di fatto
“ben diversa” da quella della sentenza di patteggiamento pronunziata “in
apertura di giudizio”, perché la richiesta dell’imputato è accolta, in punto di
pena, “dopo che è stato compiuto un pieno accertamento della sua colpevolezza”,
accertamento che “potrebbe essere viziato da errori e deve consentire un
riesame”.

Aggiungeva che, comunque, la ammissibilità dell’appello derivava
dall’applicazione dell’articolo 580 Cpp, secondo il quale “quando contro la
stessa sentenza sono proposti mezzi di impugnazione diversi, il ricorso per
cassazione si converte in appello”, per cui, essendo stato proposto dal
Merlanti appello, non diversamente poteva essere qualificata l’impugnazione del
Fragomeli.

Nel merito, rigettava, ritenendo infondati
i motivi di doglianza, sia l’appello del Fragomeli che quello del Merlanti.

3. In base alla lettera
dell’articolo 448, comma 1, Cpp, tutte le sentenze di applicazione
della pena, anche quelle dibattimentali, sono inappellabili, con l’unica
eccezione delle sentenze pronunziate malgrado il dissenso del pubblico
ministero, eccezione che si giustifica in considerazione del fatto che la
decisione sulla fondatezza del dissenso presuppone una indagine di merito sulla
gravità del fatto e sulla congruità della pena che non può essere compiuta in
sede di legittimità.

La questione, tuttavia, ha
formato oggetto di contrastanti decisioni da parte delle sezioni semplici della
Corte di cassazione.

Si è sostenuto, infatti, che la
sentenza pronunziata dopo la celebrazione del dibattimento (e addirittura dopo
il giudizio di impugnazione) non sarebbe una sentenza
di “patteggiamento” in senso tecnico, in quanto “la rinuncia a contestare
l’accusa (implicita nella richiesta di applicazione della pena), per il
carattere essenzialmente consensualistico e strutturalmente bilaterale del rito
del patteggiamento, ha effetto solo ed unicamente nel caso in cui sia stato
raggiunto l’accordo con il pubblico ministero sulla pena da applicare e questo
sia stato recepito dal giudice (avverandosi così una sorte di ‘condicio
iuris’), dovendosi altrimenti ritenere detta rinunzia (unilaterale) ‘tamquam
non esset’ salvo che per gli effetti premiali conseguibili nel caso di
riconosciuta infondatezza del dissenso del
pubblico ministero” (Sezione quarta, 3183/99, Ganz, RV. 213483
e conforme; Sezione quarta, 4585/00, Bettini, RV. 217254).

Soluzione
questa che richiama il principio affermato dalle Sezioni Unite, sia pure con
riguardo al rito abbreviato, con sentenza 7227/95, Zoccoli, RV. 201375,
con la quale si è affermato che il riconoscimento postumo dell’accoglibilità
della richiesta formulata dall’imputato “non può essere assimilato alla
prestazione di un consenso che non vi è stato e non vale a cancellare
il fatto che il processo si è svolto con il rito ordinario”, con la
conseguenza che in tale caso si è ritenuto applicabile il regime ordinario
delle impugnazioni.

E’ stato altresì osservato, a
comprova della diversa natura della sentenza di cui all’articolo 448 Cpp, che
la stessa presuppone la ‘plena cognitio’ del giudice, per cui
può essere pronunziata soltanto ove si “ritenga provata ex articolo 533 la
responsabilità dell’imputato”, e non anche “quando si deve prosciogliere
l’imputato ex articolo 529 perché manca una condizione di procedibilità”,
ovvero quando si “deve assolverlo ex articolo 530 perché manca o è
insufficiente o contraddittoria la prova della sua colpevolezza” (Sezione
terza, 21406/02, Cacace, RV. 222141).

La opposta tesi
secondo la quale, invece, anche le sentenze di applicazione della pena
pronunziate a seguito di giudizio ordinario sono inappellabili è sostenuta in
base ad un duplice ordine di considerazioni.

Da una parte si fa riferimento
alla sentenza Su 6/1998, Giangrasso, RV. 210872, che ha ritenuto inapplicabili
alle sentenze di patteggiamento la revisione (poi
ammessa dal legislatore con la recente modifica dell’articolo 629, comma 1,
Cpp) e i mezzi ordinari di impugnazione. Tale sentenza ha esaminato, sia pure
“incidenter tantum”, anche la natura delle sentenze di applicazione
della pena pronunziate a seguito di dibattimento ed ha escluso che possa
attribuirsi loro una diversa natura in quanto rimane fermo il regime tipico
delle sentenze a pena “patteggiata”, perché, anche se vi è una richiesta
formulata dall’imputato che non è stato accolta per il dissenso del pubblico
ministero o del giudice, l’imputato consegue, comunque, i notevoli effetti
premiali connessi alla scelta del rito (cfr. in tal
senso, tra le altre, Sezione quarta, 4551/99, Nardi, RV. 213482,
Sezione seconda, 1166/94, Superbo, RV. 197319.

D’altra parte, si è rilevato che
“l’articolo 448, primo comma, Cpp, accomuna, senza introdurre alcuna riserva,
il regime delle sentenze di applicazione della pena su
richiesta pronunciate in esito al dibattimento a quello di tutte le altre
sentenze di patteggiamento” (Sezione sesta, 190/93, Lattisi, RV. 197230, Sezione sesta, 8635/99, Pm in proc. Arces, RV.
215262 ; Sezione quarta, 12309/03, Vacca, RV. 223928).

4. Queste Sezioni Unite ritengono
che le sentenze pronunziate dal giudice, ai sensi dell’articolo 448, comma 1,
dopo la chiusura del dibattimento di primo grado o nel giudizio di impugnazione, quando ritiene ingiustificato il dissenso
del pubblico ministero o il rigetto della richiesta da parte sua o di altro
giudice, siano inappellabili (ad esclusione ovviamente dell’appello del
pubblico ministero nell’unico caso espressamente previsto).

Dall’esame dell’articolo 448,
comma 1, Cpp risulta che il legislatore ha preso in
esame un ventaglio di situazioni processualmente eterogenee che si concludono,
tuttavia, tutte nello stesso modo e cioè con la pronunzia in ogni caso della
stessa sentenza di applicazione della pena.

Questa, infatti, malgrado possa
essere pronunziata nel corso delle indagini preliminari, nell’udienza
preliminare, nel giudizio di primo grado prima della apertura
del dibattimento e dopo la sua celebrazione e persino dopo il giudizio di
impugnazione, in presenza o in mancanza del consenso del pubblico ministero,
non può mai contenere statuizioni di condanna ad una determinata pena ed i suoi
effetti sono, in tutti i casi, quelli previsti dall’articolo 445 Cpp.

E l’assoluta identità degli
effetti di tutte le sentenze di applicazione della
pena risulta anche dal rinvio implicito dell’articolo 448 all’articolo 445 ed è
confermata espressamente dall’articolo 445, comma 1-bis, che testualmente
recita: “salvo quanto previsto dall’articolo 653 Cpp la sentenza prevista
dall’articolo 444, comma 2, anche quando è pronunziata dopo la chiusura del
dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi”.

Né sussiste la analogia,
ravvisata in alcune decisioni dalle Sezioni semplici della Corte, tra la
sentenza in esame e quella pronunziata ai sensi degli articoli 438 e segg. Cpp
(nel testo vigente prima della riforma di cui alla legge 479/99) dopo la
celebrazione del dibattimento per il dissenso del pubblico ministero. Sia la
sentenza pronunziata nel giudizio abbreviato che quella all’esito del
dibattimento celebrato per il dissenso del pubblico ministero sono, infatti, sentenze di condanna.

Di talché è logico, oltre che in
linea con il principio della parità delle parti e rispondente a evidenti esigenze di giustizia, consentire all’imputato la
proposizione di tutti i mezzi di impugnazione per contestare una decisione di
condanna.

Né la diversa natura della
sentenza di applicazione della pena pronunziata dal
giudice malgrado il dissenso del pubblico ministero può dedursi dalla
circostanza che, mancando l’accordo, non si perfezionerebbe il negozio
giuridico processuale che sta alla base di questo rito speciale, in quanto, se è
vero che il consenso del pubblico ministero può avere l’effetto di rendere
irrevocabile la richiesta di applicazione della pena, la prestazione del
consenso non è condizione indispensabile per l’applicazione della pena in
quanto, come è espressamente previsto, il consenso può essere sostituito dalla
valutazione del giudice che “ritiene fondata la richiesta”.

La circostanza, poi, che la
sentenza di applicazione della pena non possa essere
pronunziata dal giudice del dibattimento qualora ritenga di dovere assolvere
l’imputato per una delle cause di cui all’articolo 530 Cpp, ampliando così le
ipotesi di cui all’articolo 129 Cpp, è una conseguenza della celebrazione del
giudizio dei cui risultati l’imputato non può non beneficiare, in
considerazione che l’applicazione della pena, in presenza dell’accertamento
della mancanza delle condizioni per l’affermazione della sua responsabilità, si
risolverebbe in una abnormità giuridica.

Né argomenti contrari possono
essere dedotti dal comma 3 dell’articolo 448, secondo il quale
“quando la sentenza è pronunziata nel giudizio di impugnazione il
giudice decide sull’azione civile ai sensi dell’articolo 578”. Si tratta,
infatti, di una disposizione speciale a favore della parte civile che, avendo
“incolpevolmente” partecipato a due gradi di giudizio, con la pronunzia della
sentenza di applicazione della pena vedrebbe frustrate
le sue più che fondate aspettative. Va anzi rilevato che tale disposizione
conferma ancora una volta la natura di vera e propria sentenza di applicazione della pena della sentenza in esame, sia
perché con il suo inserimento il legislatore ha inteso introdurre una deroga
agli effetti della sentenza di patteggiamento, che altrimenti non sarebbe stata
necessaria, se tale non fosse stata la sentenza in esame, sia perché la
regolamentazione adottata è quella prevista negli stessi casi in cui il
giudizio si conclude senza l’accertamento della responsabilità o dell’innocenza
dell’imputato.

Deve, pertanto, affermarsi il
principio di diritto che le sentenze di applicazione
della pena, anche se pronunziate dopo la chiusura del dibattimento e dopo il
giudizio di impugnazione, quando il giudice ritiene ingiustificato il dissenso
del pubblico ministero o il rigetto della richiesta, sono inappellabili, a
norma dell’articolo 448, comma 2, Cpp.

Una diversa interpretazione si
risolverebbe, peraltro, nella attribuzione
ingiustificata ed illogica all’imputato di un ulteriore beneficio, oltre a
quelli premiali derivanti dalla scelta del rito, in quanto gli sarebbe
consentito contestare nelle forme ordinarie una sentenza conforme alle sue
richieste e pronunziata proprio sul presupposto della rinuncia alla
celebrazione del giudizio nelle forme ordinarie.

5. Non può inoltre trovare
applicazione, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, il
disposto dell’articolo 580 Cpp in tema di conversione del ricorso in appello.

Il presupposto, infatti, su cui
si basa la disposizione richiamata è costituito dalla possibilità prevista
dalla legge di proporre mezzi di impugnazione diversi
contro la stessa sentenza.

Tale è il caso in cui contro la
sentenza di patteggiamento pronunziata con il dissenso del pubblico ministero,
questi proponga appello e l’imputato ricorso per
cassazione. Unica, infatti, è la statuizione del giudice ed unica la sentenza, per cui se le due impugnazioni non venissero trattate
contestualmente dallo stesso giudice, come previsto dall’articolo 580 Cpp, si
verificherebbero evidenti inconvenienti processuali, aggravati dalla
possibilità di decisioni tra loro contrastanti.

Tale è il caso in cui siano previsti mezzi differenti di gravame contro la stessa
sentenza, come nell’ipotesi disciplinata dall’articolo 443 Cpp.

Diverso, invece, è il caso in
esame, in cui, anche se graficamente è stata redatta una sola sentenza, in
realtà l’elaborato contiene due statuizione di natura completamente diversa
(l’una di condanna, l’altra di applicazione della
pena), rese nei confronti di due diversi imputati, per imputazioni diverse
commesse del tutto indipendentemente l’una dall’altra.

6. L’appello proposto dal
Fragomeli contro la sentenza del Tribunale di Torino in data 9 giugno 1997, per
le indicate considerazioni qualificato ai sensi dell’articolo 568 Cpp come
ricorso per cassazione, deve essere dichiarato
inammissibile.

Il ricorrente, infatti, denunzia:

a) la “mancata assoluzione per
non avere commesso il fatto o quantomeno ai sensi dell’articolo 530, comma 2,
perché insufficiente la prova che l’imputato lo abbia commesso o che il fatto
costituisca reato”;

b) la “mancata derubricazione del
reato ex articolo 643 Cp nella fattispecie indicata dall’articolo 640 Cp;

c) la “eccessività della pena”.

Ciò posto, premesso che non può
costituire motivo di impugnazione da parte
dell’imputato l’applicazione di una pena nella misura da lui stesso indicata, e
che non è consentito “fuori dai casi di palese incongruenza, censurare il
provvedimento in punto di qualificazione giuridica del fatto e di ricorrenza
delle circostanze, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione, ricorrendo
in proposito un dovere di specifica argomentazione solo per il caso che
l’accordo abbia presupposto una modifica dell’imputazione originaria (Sezione
sesta, 32004/03, P.G. in proc. Valletta, RV. 228405), va rilevato che i motivi
dedotti non sono specifici in quanto limitati alla sola enunciazione, peraltro del tutto sommaria, delle circostanze di fatto, senza alcuna
esposizione delle ragioni di diritto per le quali il Tribunale avrebbe dovuto
assolvere l’imputato o derubricare il reato di circonvenzione di incapace in
quello di truffa.

Per effetto della dichiarazione di inammissibilità del ricorso, il Fragomeli deve essere
condannato, ai sensi dell’articolo 616 Cpp, al pagamento delle spese
processuali.

In considerazione, invece, della
particolarità delle questioni trattate, queste Sezioni Unite ritengono di
escludere, in applicazione dei principi di cui alla sentenza Corte
Costituzionale 186/00, la condanna al pagamento di una somma a favore della
Cassa delle ammende.

7. La sentenza in data 23 novembre
2001 della Corte d’appello di Torino, limitatamente alla posizione del
Fragomeli, deve essere annullata senza rinvio non essendo consentito il
giudizio d’appello.

La inammissibilità
originaria del ricorso per non specificità dei motivi (Su, 21/1994, Cresci, RV.
199903) e la mancanza di impugnazione sul punto, non
consentono l’annullamento della sentenza del Tribunale in ordine alle
statuizioni civili sul risarcimento del danno nella stessa contenute.

PQM

Qualificato l’appello proposto
dall’imputato avverso la sentenza del Tribunale di
Torino del 9 giugno 1997 come ricorso per cassazione, lo dichiara inammissibile
e conseguentemente annulla senza rinvio la sentenza impugnata della Corte
d’appello di Torino, limitatamente alla posizione di Fragomeli Orlando, che
condanna al pagamento delle spese processuali.