Penale

Saturday 13 September 2003

L’ eccidio delle Fosse Ardeatine non è stato un delitto politico.

L’eccidio delle Fosse Ardeatine non è stato un delitto politico.

Cassazione – Sezione prima penale (cc) – sentenza 27 giugno-12 settembre 2003, n. 35488

Presidente Gemelli – relatore Pepino

Garino – ricorrente Priebke

Osserva

1. Con sentenza 7 marzo 1998 la Corte militare di appello di Roma, pronunciando in merito ai fatti storicamente noti come eccidio delle Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944, ha dichiarato Priebke Erich colpevole del delitto di concorso in violenza con omicidio aggravato e continuato in danno di cittadini italiani (previsto e punito dagli articoli 13 e 185, commi 1 e 2, Cp militare di guerra, in relazione agli articoli 81, 110, 575, 577 nn. 3 e 4, 61 n. 4 Cp) e lo ha condannato alla pena dell’ergastolo. La decisione è stata confermata dalla Corte di cassazione con sentenza 12595/98.

Con ordinanza 29 maggio 2002 la Corte militare di appello ‑ sezione distaccata di Napoli ha rigettato l’istanza del Priebke diretta ad ottenere l’applicazione dell’indulto di cui all’articolo 2 del Dpr 922/23 (e la conseguente commutazione della pena in quella della reclusione per dieci anni). La Corte, premesso che l’indulto richiesto, previsto dalla lettera a della norma citata, riguarda solo i reati politici ex articolo 8 Cp e i reati connessi (intervenuti tra l’8 settembre 1943 e il 18 giugno 1946), ha osservato che:

a1) il delitto per cui il Priebke è stato condannato non è qualificabile come soggettivamente “politico” ex articolo 8, comma 3, ultima parte, Cp perché, secondo il costante orientamento giurisprudenziale (ribadito, con riferimento a fattispecie analoga, dal Tribunale Supremo militare, in sentenza 25 ottobre 1960, Kappler), tale carattere è riscontrabile solo quando l’azione delittuosa tende ad alterare l’assetto dei rapporti tra lo Stato italiano e il cittadino, mentre, nel caso di specie «la feroce attività di rappresaglia posta in essere alle Fosse Ardeatine dagli appartenenti alle SS si inseriva «in un rapporto di belligeranza tra Stati in conflitto» ed «era finalizzata al perseguimento, da parte di cittadini tedeschi, di un interesse del proprio Stato di appartenenza» (a nulla rilevando la coincidenza degli interessi della potenza occupante con quelli della Repubblica sociale italiana, dato che quest’ultima era «priva di ogni legittimazione giuridica» e aveva un ruolo “di mera collaborazione” con l’esercito tedesco, «da prestare nel più totale asservimento»);

a2) l’indulto de quo non è applicabile neppure sotto il profilo dell’esistenza di un rapporto di connessione tra il delitto (comune) ascritto al Priebke e quello (politico) di cui all’articolo 5 decreto legge luogotenenziale 159/44 (in relazione all’articolo 51 Cp militare di guerra) per il quale sono stati condannati Caruso Pietro e Koch Pietro, ritenuti responsabili di avere «consegnato alle SS germaniche numerosi detenuti politici e comuni nonché patrioti affinché fossero, come furono,massacrati alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944». Infatti, pur essendo quello ascritto al Caruso e al Koch un reato «politico» (in quanto integrante una forma di «collaborazionismo con il nemico» da parte di cittadini italiani), non sussistono, nella specie, le condizioni richieste dall’articolo 2, lettera a), seconda ipotesi, del Dpr 922/53 per due distinte ragioni. In primo luogo, la condotta del Priebke e quella del Caruso e del Koch sono evidentemente collegate, ma i reati da esse integrati non sono connessi in senso tecnico: si versa piuttosto in una ipotesi di concorso nello stesso delitto, peraltro esclusa, in concreto, dalla normativa vigente che, in ragione della eccezionalità della situazione considerata, ha privilegiato, nella costruzione delle fattispecie in esame, gli interessi tutelati rispetto alla materialità delle condotte. In secondo luogo, anche a ritenere connessi i reati, le condizioni per l’applicazione dell’indulto sarebbero escluse dal fatto che, secondo una corretta interpretazione sistematica, la connessione teleologica (unica ravvisabile nella specie) consentirebbe l’estensione del beneficio solo «quando il reato fine sia reato politico, ovvero, specularmente, quando il reato mezzo sia il reato comune attratto nell’orbita del reato politico»;

a3) l’applicabilità dell’indulto al caso di specie è, inoltre, esclusa dalla ratio del provvedimento di clemenza, consistente, come emerge univocamente dai lavori preparatori, in finalità di pacificazione nazionale, con conseguente presa in considerazione solo delle «posizioni di quegli italiani che si erano trovati su fronti contrapposti durante le tragiche vicende che avevano attraversato l’Italia dall’8 settembre 1943, data in cui fu firmato l’armistizio con gli alleati (e dalla quale i tedeschi furono considerati come nemici invasori) al 18 giugno 1946, data «in cui si concluse la lotta politica per la instaurazione del regime democratico repubblicano e quando la fulgida opera della Resistenza aveva raggiunto tutte le sue altissime finalità patriottiche» (relazione III Commissione permanente sui disegni di legge nn. 152 e 153)». Né l’esclusione dal beneficio di cittadini stranieri coinvolti in operazioni belliche (o, peggio, in «crimini contro l’umanità», come l’eccidio delle Fosse Ardeatine) contrasta con i principi costituzionali (come risulta in modo esplicito dalla sentenza 298/00 della Corte costituzionale) o con le convenzioni o i trattati internazionali sottoscritti dall’Italia che vietano discriminazioni legate alla cittadinanza (in quanto «nel caso di specie si discute non già in tema di esercizio di diritti, bensì di limitazioni apposte dal legislatore in relazione alla applicabilità di provvedimenti di clemenza … non legate in modo diretto allo status di cittadinanza del condannato)».

2. Contro l’ordinanza ha proposto ricorso, tramite i difensori, il Priebke, eccependo violazione di legge e vizi di motivazione sotto tre profili.

Con il primo motivo il ricorrente denuncia erronea interpretazione di legge per avere la corte di merito escluso la natura politica del reato de quo in quanto «commesso nell’interesse di uno Stato straniero e non dello Stato italiano», omettendo di considerare che, ai sensi dell’articolo 8, comma 3, ultima parte, Cp, il reato acquista natura soggettivamente politica quando l’agente è mosso dall’intento di «offendere o conservare un interesse politico dello Stato, ovvero di aggredire un diritto politico del cittadino» (così sentenza 25 ottobre 1960 del Tribunale Supremo militare citata dal giudice di merito) e che tale era, indubbiamente, la connotazione del delitto da lui commesso, che «non solo era ideologicamente motivato, ma era diretto, attraverso la rappresaglia contro azioni belliche compiute da appartenenti al Cln, a reprimere un interesse politico dello Stato italiano, e cioè quello alla integrità del proprio territorio e al recupero (attraverso azioni belliche) della piena sovranità su di esso».

Con il secondo motivo si deduce un ulteriore errore di diritto consistente nell’avere i giudici «ritenuto non discriminatoria l’interpretazione del combinato disposto degli articoli 8 Cp e 2 Dpr 922/53 laddove ritiene applicabile il beneficio de quo ai soli cittadini italiani che hanno agito nell’interesse dello Stato italiano», senza tener conto della evoluzione del sistema legislativo italiano e internazionale successiva alla promulgazione del Cp [in particolare a seguito della entrata in vigore della legge 848/55 (ratifica della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), della legge 436/61 (ratifica del Trattato di amicizia, commercio e navigazione tra Repubblica italiana e Repubblica federale tedesca) e del decreto legislativo 286/98].

Con il terzo motivo il ricorrente eccepisce la manifesta illogicità, e in ogni caso l’erroneità, della motivazione in punto esclusione dell’applicabilità dell’indulto sotto il profilo della connessione tra il reato ascrittogli e quello per il quale sono stati condannati Caruso Pietro e Koch Pietro. Il vizio dedotto consegue, secondo il ricorrente: b1) al fatto che, se non di connessione ma di concorso nello stesso reato (solo diversamente qualificato) si trattasse, a maggior ragione l’indulto dovrebbe ritenersi concedibile (pena, in difetto, una clamorosa violazione del principio di uguaglianza); b2) alla circostanza che nessun dato letterale o sistematico consente di distinguere l’ipotesi in cui il delitto politico sia il reato fine da quella in cui lo stesso sia il reato mezzo, con applicabilità del beneficio solo nel primo caso.

Il Procuratore generale ha concluso come in epigrafe.

3. Il primo motivo è infondato.

L’indulto di cui all’articolo 2, lettera a) Dpr 922/53, relativo ai fatti commessi dall’8 settembre 1943 al 18 giugno 1946, è concesso per «i reati politici ai sensi dell’articolo 8 del Cp» ( … ): non, dunque, per i reati politici tout court, ma per quelli considerati tali ai sensi e per gli effetti della norma del codice sostanziale che disciplina la perseguibilità dei delitti commessi all’estero. La precisazione, lungi dall’essere meramente formale, è decisiva ai fini dell’accertamento circa l’applicabilità del beneficio richiesto al caso in esame. Il nostro sistema normativo non conosce, infatti, un concetto unico e unitario di «reato politico», ma individua con tale definizione fattispecie diverse (e di diversa estensione) a seconda delle finalità perseguite dalle disposizioni che ad esso fanno riferimento. In particolare, non v’è coincidenza tra la nozione di delitto politico contenuta negli articoli io, comma 4, e 26, comma 2, Costituzione e quella di cui all’articolo 8, comma 3, Cp, posto che «il piano di operatività dì quest’ultima nonna è diverso rispetto a quelle costituzionali, in quanto nella norma del Cp il reato politico è definito in funzione repressiva», «mentre nelle norme costituzionali che vietano la estradizione per reati politici esso è assunto a garanzia della persona umana entro i limiti in cui tale garanzia è costituzionalmente giustificabile» (Cassazione, sezione prima, 15 dicembre 1989 ‑ 23 gennaio 1990, Van Anraat, riv. n. 185213 e ID., 7 novembre ‑ 12 dicembre 1990, Cecchini, riv. n. 185990). E, ancora, la categoria del delitto politico «costituzionale», a differenza di quella ex articolo 8 Cp, non è configurabile in presenza ‑ come è stato scritto ‑ «di azioni criminose che, per il loro carattere particolarmente violento e disumano, e per il fatto di dirigersi indiscriminatamente contro persone del tutto estranee agli obiettivi perseguiti non possono non ripugnare ai principi più elementari ed essenziali di quello stesso regime democratico alla stregua del quale va stimato il fondamento costituzionale del divieto di estradizione». Ne consegue che, ove il riferimento dell’articolo 2 lettera a) del Dpr 922/53 fosse alla nozione «costituzionale» di delitto politico, l’inapplicabilità dell’indulto nel caso specifico sarebbe di immediata evidenza dato il carattere di «crimine contro l’umanità» dell’eccidio delle Fosse Ardeatine (cui si fa cenno nella ordinanza impugnata e che, comunque, è qui assumibile come fatto notorio, in base all’insegnamento di Cassazione, sez. 2, 21 gennaio ‑ 23 ottobre 1982, Cerullo, riv. n. 155759 e Cassazione, sezione prima, 6 dicembre 1986 ‑ 23 settembre 1987, Allegrini, riv. n. 176703). Il richiamo del decreto di clemenza al delitto politico ex articolo 8 Cp lascia, invece, aperto il problema, giacché il principio costituzionale che determina l’esclusione dal divieto di estradizione dei delitti caratterizzati da «particolare efferatezza» non vale altresì ad escludere la perseguibilità in Italia degli stessi ove commessi all’estero (e può, anzi, offrire solidi argomenti in contrario).

Occorre dunque addentrarsi nell’esegesi dell’articolo 8 comma 3 Cp per accertare se il delitto ascritto al Priebke sia qualificabile come reato «determinato da motivi politici» ai sensi dell’ultima parte di detta norma (essendo pacifico, e non contestato in ricorso, che sì tratti, sotto il profilo oggettivo, di delitto comune). Solo successivamente, ove si dovesse pervenire alla conclusione che la correlazione delle norme rende applicabile un indulto selettivo (come quello del Dpr 922/53) a crimini contro l’umanità, si dovrà affrontare la questione degli eventuali profili di incostituzionalità di detta normativa.

La Corte militare d’appello, come si è detto, ha risolto il quesito in senso negativo affermando che un reato è soggettivamente politico ex articolo 8, comma 3, Cp [non già, come impropriamente riportato dal ricorrente, se commesso «nell’interesse dello Stato italiano», ma] se motivato da ragioni connesse con «gli interessi propri della nazione e dello Stato italiano» (f. 4) o dal «perseguimento di finalità di alterazione dell’assetto dei rapporti tra Stato e cittadino» (f. 4 retro), mentre, nel caso di specie «la feroce attività di rappresaglia posta in essere alle Fosse Ardeatine dagli appartenenti alle SS» si inseriva «in un rapporto di belligeranza tra Stati in conflitto» ed «era finalizzata al perseguimento, da parte di cittadini tedeschi, di un interesse del proprio Stato di appartenenza». Si tratta di argomentazione razionale e conforme al sistema vigente. Il Priebke è stato, infatti, condannato per il delitto di cui agli articoli 13 e 185, comma 1 e 2, Cp militare di guerra e, dunque, per una violazione delle nonne sulla condotta della guerra (id est per un «crimine di guerra») e tale delitto è irrimediabilmente altro, nel nostro sistema, rispetto al delitto politico (nella accezione di cui al Cp). Due le ragioni fondamentali di tale diversità.

La prima ha carattere formale. Le norme che disciplinano la perseguibilità dei «reati contro le leggi e gli usi della guerra» commessi all’estero sono quelle dettate dagli articoli 13 e 231 e segg. del Cp militare di guerra (secondo cui per tali reati, ove commessi in danno dello Stato italiano o di un cittadino italiano ovvero di uno Stato alleato o di un cittadino di questo, non esistono limiti territoriali e le relative disposizioni si applicano anche ai militari stranieri) e non anche l’articolo 8 del Cp (il cui tenore è, anche nel merito, del tutto diverso da quello della nonna del diritto bellico). Ne consegue, in termini di automatismo e senza necessità di scendere nel merito, l’estraneità dei crimini di guerra alla previsione dell’articolo 8 Cp e, dunque, l’impossibilità di ricondurli alla categoria dei “delitti politici” ai sensi di detta norma. Di ciò ‑ non è inutile aggiungerlo ‑ si trova indiretta conferma nelle stesso articolo 2, lettera a), del Dpr 922/53, che prevede la concessione di indulto «per i reati politici, ai sensi dell’articolo 8 del Cp, e i reati connessi» nonché «per i reati inerenti a fatti bellici commessi da coloro che abbiano appartenuto a formazioni armate», così dando univocamente ad intendere di considerare ipotesi diverse e non sovrapponibili i “delitti politici” e i “delitti bellici” (ivi compresi i “crimini di guerra”).

La seconda ragione che impedisce tale assimilazione sta nella struttura della nonna di cui all’articolo 8, comma 3, Cp, che ricollega la «politicità» in senso soggettivo di un reato all’intento dell’agente di «offendere», con la sua condotta, «un interesse politico dello Stato ovvero un diritto politico del cittadino». In termini più espliciti, «perché un reato comune possa essere ritenuto soggettivamente politico è necessario che sia qualificato da un movente strettamente ed esclusivamente politico», situazione che si realizza «quando il colpevole abbia agito per conseguire fini e scopi che investano la collettività sociale e incidano sull’esistenza, costituzione e funzionamento dello Stato o siano diretti a contrastare o consolidare idee, tendenze politiche e sociali» (Cassazione, sezione prima, 14 gennaio ‑ 13 febbraio 1982, Musbach, riv. n. 152177 e ID., 15 febbraio ‑ 17 aprile 1982, Batrouni, riv. n. 153125). Ne consegue che non è sufficiente, al fine della qualificazione di un reato come politico nella accezione in esame, il fatto che esso abbia conseguenze o ricadute sull’ordinamento italiano, ma occorre che tali effetti siano direttamente voluti e perseguiti (sì che, per esempio, non può essere considerato soggettivamente politico l’omicidio per motivi personali di un capo di governo, con conseguente apertura dì una pur gravissima crisi istituzionale). Orbene, la natura del fatto ascritto al Priebke e gli stessi passaggi delle sentenze di merito e di legittimità riportati nel ricorso mostrano che la strage delle Fosse Ardeatine fu ordinata dal Priebke al fine (perseguito con fanatica adesione personale e in modo contrastante con il diritto di guerra e con il più elementare senso di umanità) di mantenere e rafforzare la supremazia militare dell’esercito tedesco sulle organizzazioni partigiane e sui resti dell’esercito italiano, così determinando un esito della guerra in atto (dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943) favorevole alla Germania. Questo era l’obiettivo perseguito dal Priebke, mentre tutto il resto (e dunque anche le ricadute della strage su «esistenza, costituzione e funzionamento dello Stato italiano» ovvero sul prevalere, in Italia, di una o altra «idea o concezione politica») era semplice effetto collaterale o strumento (in sé indifferente) per raggiungere tale risultato. Anche la mancanza di una diretta motivazione politica (nel senso richiesto dall’articolo 8 Cp) esclude, dunque, che il delitto ascritto al Priebke possa essere definito politico nel senso richiesto dall’articolo 2, lettera a) del provvedimento di indulto.

4. Il secondo motivo è ictu oculi superato da quanto sin qui detto, e cioè dal fatto che la condotta del Priebke non integra, in sé considerata, un delitto politico ex articolo 8, comma 3, cp, indipendentemente dalla nazionalità dell’autore [e ciò anche a prescindere dalla circostanza che il giudice di merito ha escluso la applicabilità del beneficio all’istante non già per il suo status di cittadino straniero, ma per quello, tutt’affatto diverso, di militare di un esercito straniero di occupazione, affermandone nel contempo la applicabilità, in via di principio anche a cittadini stranieri (cfr. f. 4 retro: «le considerazioni del ricorrente, senz’altro suggestive, non tengono però conto del fatto che le truppe tedesche in Italia erano da considerare, in quella fase storica, come un esercito straniero di occupazione e, quindi, del tutto sganciato dalla lotta politica interna che nel contempo si era accesa e alla quale ben potevano partecipare anche cittadini di altre nazionalità»)].

5. Infondato è, infine, il terzo motivo, con cui si censura l’esclusione, da parte della corte militare d’appello, di una ipotesi di connessione rilevante ai sensi dell’articolo 2, lettera a) Dpr 922/53 («è concesso indulto per i reati politici … e i reali connessi») tra il delitto ascritto al Priebke e quello per cui sono stati condannati Caruso e Koch. Anche sotto questo profilo, infatti, la motivazione del giudice di merito è priva di vizi logici e conforme a diritto. In primo luogo, infatti, è da escludere che si versi, nella specie, in ipotesi di connessione ex articolo 12, lettera a), Cp, per l’assorbente ragione che manca l’identità del reato (diversi essendo le condotte contestate, diverso il titolo dei conseguenti reati e diverso altresì l’interesse tutelato dalle nonne penali applicate nelle due ipotesi). In secondo luogo l’interpretazione della corte territoriale secondo cui la connessione teleologica rilevante ai fini della applicabilità dell’indulto è esclusivamente quella in cui il delitto politico si pone come «reato fine» (e non anche quella in cui lo stesso ha il ruolo di «reato mezzo») è, per consolidata giurisprudenza, la sola compatibile con la struttura e la finalità della norma, essendo «il reato politico che, in virtù della ratio ispiratrice del provvedimento di clemenza, finisce con l’attrarre nella sua orbita il reato comune e col qualificarlo attraverso il vincolo della connessione» (Cassazione, Sezioni unite, 43/1955). Né potrebbe essere altrimenti, salvo accettare (in palese violazione del fondamentale canone interpretativo secondo cui «absurda sunt vitanda») l’aberrante conseguenza di considerare coperti da indulto delitti comuni anche gravissimi sol perché legati da connessione a qualunque titolo con un unico reato, anche di modesta entità, commesso con motivazioni politiche.

6. L’infondatezza del ricorso ne impone il rigetto con condanna del ricorrente alle spese.

PQM

Respinge il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali