Lavoro e Previdenza

Thursday 30 June 2005

Il licenziamento motivato da ragioni di restrizione della produzione è legittimo solo se il datore dimostra l’ impossibilità di reimpiego del lavoratore. Lo ha ribadito la Cassazione Cassazione – Sezione lavoro – sentenza 17 marzo – 9 giugno 2005, n. 121

Il licenziamento motivato da ragioni di restrizione della produzione è
legittimo solo se il datore dimostra l’impossibilità di reimpiego
del lavoratore. Lo ha ribadito la Cassazione

Cassazione – Sezione lavoro – sentenza 17 marzo – 9 giugno 2005, n. 12136

Presidente Mattone – relatore Di Cerbo

Pm Sepe –
conforme – ricorrente SSG Srl – controricorrente
Principalli

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 20 dicembre 2001
il Tribunale di Ivrea, accogliendo il ricorso proposto
da Carmen Principalli, condannava la Srl SSG a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro
nonché a risarcirle il danno per l’illegittimità del licenziamento intimatole
con lettera in data 8 ottobre 1999, danno liquidato nella misura di cinque
mensilità della retribuzione di fatto.

Avverso tale
sentenza
proponeva appello la Srl SSG.

Con sentenza depositata in data 24
marzo 2003 la Corte d’Appello di Torino respingeva il gravame. La Corte dì
merito, premesso che il licenziamento della lavoratrice era stato intimato in relazione alla cessazione del contratto di appalto della
SSG con una casa dì riposo presso la quale la ricorrente era stata impiegata
come addetta alle pulizie, rigettava l’eccezione dell’appellante dì difetto di
legittimazione passiva, eccezione basata sull’articolo 4 del contratto
collettivo di settore, a norma del quale, in caso di cessazione dell’appalto,
l’impresa subentrante si impegna a garantire l’assunzione, senza periodo di
prova, degli addetti esistenti in organico sull’appalto. Affermava in proposito
la Corte di merito che la norma sopra citata apprestava una garanzia
ulteriore rispetto ai lavoratori appartenenti all’impresa che perde
l’appalto, ma che restavano comunque fermi gli obblighi della ditta cessante ‘
nei confronti dei propri dipendenti. Sotto altro profilo confermava la
decisione del primo giudice che aveva ritenuto non raggiunta la prova della
soppressione del posto e

dell’impossibilità di utilizzare
altrimenti la lavoratrice in ambito aziendale. Osservava in proposito che vi
erano state assunzioni immediatamente successive alla cessazione dell’appalto e
ciò dimostrava che sarebbe stato ben possibile impiegare diversamente la Principalli.

Per la cassazione di tale decisione
propone ricorso la Srl SSG basato su due motivi.
Resiste con controricorso la lavoratrice. La società
ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

Col primo motivo la società
ricorrente denuncia violazione degli articoli 1362 e segg. Cc
con riferimento al CCNL per i dipendenti delle imprese di pulimento,
disinfezione, disinfestazione e derattizzazione del 24 ottobre 1997, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione
(articolo 360, nn. 3 e 5 Cpc).
Richiamato il testo degli articoli 3 e 4 del suddetto contratto, deduce
l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui, nel rigettare
l’eccezione di carenza di legittimazione passiva
sollevata dalla società, non ha tenuto conto del fatto che il lavoratore
licenziato per cessazione dell’appalto ha un diritto soggettivo perfetto
all’assunzione da parte dell’impresa subentrante.

Il motivo è infondato e deve essere
pertanto rigettato.

In linea di principio deve ricordarsi
che, per consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità (cfr., ex multis, Cassazione,
17749/03; Cassazione 17993/03; Cassazione 19478/03), l’interpretazione dei
contratti collettivi di diritto comune è riservata all’esclusiva competenza del
giudice di merito, essendo il sindacato dì legittimità limitato alla sola
verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui
agli articoli 1362 e segg. Cc, nonché alla coerenza e
logicità della motivazione. Nella specie la sentenza impugnata,
nell’interpretare la norma del contratto collettivo sopra richiamata (articolo
4) nella parte in cui stabilisce che, in caso dì cessazione dell’appalto,
l’impresa subentrante si impegna a garantire
l’assunzione, senza periodo di prova, degli addetti esistenti in organico
sull’appalto, ha correttamente affermato che tale norma stabilisce una tutela
ulteriore a favore del lavoratore licenziato dall’azienda che ha perso
l’appalto, ma non elimina la responsabilità di quest’ultima
per il licenziamento irrogato. La validità di tale conclusione non può essere
in alcun modo inficiata dall’assunto della ricorrente secondo cui il lavoratore
licenziato per perdita dell’appalto avrebbe un diritto soggettivo perfetto
all’assunzione da parte dell’impresa subentrante. Tale diritto infatti non esclude, ma sì aggiunge al diritto dello stesso
lavoratore di impugnare il licenziamento subito e di chiamare a tal fine in
giudizio il datore di lavoro che ha irrogato tale licenziamento. Né giova alla tesi della ricorrente il riferimento alla
circolare del Ministero del lavoro del 28 maggio 2001 n. 5/2651/70. A
prescindere dal fatto che il contenuto di tale circolare non autorizza le
conclusioni della ricorrente circa la propria carenza
di legittimazione passiva, deve osservarsi che la responsabilità del datore di
lavoro per il licenziamento irrogato, e quindi la sua legittimazione passiva
nel giudizio di impugnazione del licenziamento, deriva direttamente dalla legge
(in particolare, legge 604/66; articolo 18 della legge 300/70).

Col secondo motivo la società
ricorrente denuncia violazione degli articoli 3 della legge 604/66 e 18 della
legge 300/70 nonché omessa e insufficiente motivazione
(articolo 360, nn. 3 e 5, Cpc).
Lamenta in particolare l’erroneità della decisione impugnata nella parte in cui
ha concluso che non era stata fornita la prova della
soppressione del posto dì lavoro e dell’impossibilità di destinare la
lavoratrice ad altro posto nell’ambito dell’organizzazione imprenditoriale
della società. Osserva in particolare che la lavoratrice era
stata sempre addetta all’appalto presso la casa di cura e che tale
appalto era cessato come risultava dai documenti prodotti. Osserva inoltre che
se aveva proceduto a nuove assunzioni ciò era stato fatto in
relazione all’acquisizione di nuovi appalti ed in ottemperanza agli
obblighi che il contratto collettivo impone alle imprese subentranti.

Anche tale motivo deve essere rigettato.
In linea di principio ritiene questa Corte che, nel caso di licenziamento per
giustificato motivo oggettivo costituito dalla cessazione di un appalto,
l’onere dell’imprenditore di dimostrare l’impossibilità di un’altra utilizzazione
(nella propria organizzazione) dei lavoratori licenziati non è escluso
dall’applicabilità di norme collettive tese a garantire la rioccupazione del
lavoratore presso l’impresa subentrante nell’appalto, atteso il carattere
inderogabile della disciplina legislativa in tema di licenziamenti individuali,
la quale, considerando giustificato il licenziamento solo se questo costituisca
una extrema ratio, impone
all’imprenditore l’obbligo primario di ricercare ogni possibilità di
riutilizzazione dei dipendenti i cui posti di lavoro siano venuti meno (cfr.,
per un’enunciazione del principio a proposito di appalti concernenti la
gestione di mense aziendali, Cassazione, 2881/92; Cassazione 2550/90). Non
giova pertanto alla tesi della società ricorrente dimostrare che l’appalto
delle pulizie presso la casa di cura nella quale aveva prestato la propria
opera la lavoratrice era cessato. Incombeva infatti sulla stessa l’onere di provare l’impossibilità di reimpiegare comunque la Principalli
nell’ambito dell’intera organizzazione aziendale. La Corte di merito, nel
confermare sul punto la sentenza di primo grado, ha ritenuto che tale prova non
sia stata fornita osservando altresì che la datrice di
lavoro aveva proceduto a nuove assunzioni in epoca immediatamente successiva
alla cessazione dell’appalto. L’odierna ricorrente si limita a criticare tale
ultima affermazione deducendo che la Corte di merito avrebbe
dovuto valutare se le nuove assunzioni erano state imposte dalla norma
sopra richiamata in relazione all’acquisizione di nuovi appalti. Tale censura
non è peraltro idonea a superare il punto centrale sopra evidenziato
concernente la mancata prova dell’impossibilità dì reimpiego
della lavoratrice nell’ambito aziendale.

In applicazione del criterio della
soccombenza la società ricorrente deve essere condannata al pagamento delle
spese del giudizio di cassazione, liquidate come in
dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna
la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate
in euro 19.00 oltre euro 2.500,00 per onorari e oltre
spese generali e accessori di legge.