Civile

Monday 21 July 2008

Il decreto della Corte d’ Appello di Milano sul caso di Eluana Englaro.

Il decreto della Corte d’Appello
di Milano sul caso di Eluana Englaro.

Corte d’Appello

Milano

Sezione I
Civile

Decreto 9 luglio 2008

La Corte d’Appello di Milano

Prima Sezione Civile

composta
dai Sigg.ri Magistrati:

1) Dott. Giuseppe Patrone ..………… Presidente

2) Dott. Paolo Negri della Torre
.…………Consigliere

3) Dott. Filippo Lamanna
…Consigliere rel. est.

ha
pronunciato il seguente

DECRETO

nel
procedimento di reclamo in grado d’appello ex art. 739 c.p.c. rubricato al
numero di ruolo di volontaria giurisdizione sopra indicato, promosso, a seguito
di cassazione con rinvio pronunciata dalla Suprema Corte di Cassazione con
sentenza n. 21748 in
data 16 ottobre 2007, con ricorso in riassunzione depositato in data 5 febbraio
2008, e vertente

tra

Beppino Englaro, quale tutore
della figlia interdetta Eluana Englaro,

rappresentato
e difeso dagli avvocati Vittorio Angiolini e Marco Cuniberti ed elettivamente
domiciliato presso il loro studio, in Milano, Galleria del Corso n. 1, giusta
procura rilasciata in calce al ricorso in riassunzione

rICORRENTE
IN RIASSUNZIONE – ReclamantE

e

Avv. Franca Alessio, quale
curatrice speciale di Eluana Englaro,

con
studio in Lecco, via Roma n. 45

resistente

e con
l’intervento

del
Pubblico Ministero in sede, in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott.ssa Maria Antonietta Pezza.

In fatto e in diritto

1. Cenni sugli antecedenti di
fatto e processuali e sul contenuto della sentenza di cassazione con rinvio da
cui ha tratto causa l’attuale fase decisoria.

Il 18 gennaio 1992 si verificò un
incidente stradale a seguito del quale fu diagnosticato ad Eluana Englaro, che
vi era rimasta coinvolta, e che era allora appena ventunenne (essendo nata il
25 novembre 1970), un gravissimo trauma cranio-encefalico con lesione di alcuni
tessuti cerebrali corticali e subcorticali, da cui derivò prima una condizione
di coma profondo, e poi, in progresso di tempo, un persistente Stato Vegetativo
con tetraparesi spastica e perdita di ogni facoltà psichica superiore, quindi
di ogni funzione percettiva e cognitiva e della capacità di avere contatti con
l’ambiente esterno.

Dopo circa quattro anni
dall’incidente, Eluana Englaro – essendo stata accertata la mancanza di
qualunque modificazione del suo stato – fu dichiarata interdetta per assoluta
incapacità con sentenza del Tribunale di Lecco in data 19 dicembre 1996. Fu
nominato tutore il padre, Beppino Englaro.

Dopo altri tre
anni circa prese avvio una lunga vicenda giudiziaria snodatasi in tre
principali procedimenti consecutivi, nei quali il tutore, deducendo l’ impossibilità
per Eluana di riprendere coscienza, nonché l’inguaribilità/irreversibilità
della sua patologia e l’inconciliabilità di tale stato e del trattamento di
sostegno forzato che le consentiva artificialmente di sopravvivere
(alimentazione/idratazione con sondino naso-gastrico) con le sue precedenti
convinzioni sulla vita e sulla dignità individuale, e più in generale con la
sua personalità, ha ripetutamente chiesto, nell’interesse e in vece della
rappresentata, l’emanazione di un provvedimento che disponesse l’interruzione
della terapia di sostegno vitale.

Nel primo procedimento,
instaurato con ricorso ex art. 732 c.p.c. depositato in data 19 gennaio 1999,
l’istanza del tutore fu dichiarata inammissibile dal Tribunale di Lecco (perché
ritenuta incompatibile con l’art. 2 della Costituzione, letto ed inteso come
norma implicante una tutela assoluta e inderogabile del diritto alla vita) con
decreto depositato il 2 marzo 1999, poi confermato in sede di reclamo dalla
Sezione “Persone Minori e Famiglia” della Corte d’Appello di Milano con decreto
del 31 dicembre 1999 (da questo Giudice reputandosi invece sussistente una
situazione d’incertezza normativa tale da non consentire l’adozione di una
precisa decisione in merito all’istanza d’interruzione del trattamento di
alimentazione/idratazione forzata).

Nel secondo procedimento,
instaurato con ricorso depositato il 26 febbraio 2002, la medesima istanza fu
disattesa dal Tribunale di Lecco con decreto depositato il 20 luglio 2002 (con
cui si ribadiva il principio di necessaria e inderogabile prevalenza della vita
umana anche innanzi a qualunque condizione patologica e a qualunque contraria
espressione di volontà del malato), ancora una volta poi confermato dalla
predetta Sezione della Corte d’Appello di Milano, in sede di reclamo, con
decreto del 17 ottobre 2003 (ivi reputandosi comunque inopportuna
un’interpretazione integrativa volta ad attuare il principio di
autodeterminazione della persona umana in caso di “paziente in SVP”).

Quest’ultimo provvedimento fu
successivamente impugnato dal tutore con ricorso straordinario per cassazione
(ex art. 111 Costituzione), dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte con
ordinanza n. 8291 del 20 aprile 2005 per difetto di partecipazione al procedimento
di un contraddittore ritenuto necessario, e da individuarsi nella persona di un
curatore speciale della rappresentata incapace ex art. 78 c.p.c..

Nel terzo procedimento, avviato,
a seguito della predetta ordinanza, con ricorso depositato in data 30 settembre
2005, il tutore chiese la previa nomina di un curatore speciale, che fu in effetti nominato nella persona dell’avv. Franca Alessio
(da indicare dunque, più esattamente, come “curatrice” speciale), la quale
prestò adesione all’istanza del tutore.

Tale istanza fu non dimeno
dichiarata ancora inammissibile dall’adìto Tribunale con decreto depositato il
2 febbraio 2006 (questa volta reputandosi che il tutore non fosse legittimato,
neppure con l’assenso della curatrice speciale, a esprimere scelte al posto o
nell’interesse dell’incapace in materia di diritti e “atti personalissimi”).

Il decreto fu però riformato
dalla Sezione “Persone Minori e Famiglia” della Corte d’Appello di Milano, in
sede di reclamo, con provvedimento in data 15 novembre/16 dicembre 2006.

In tal caso, infatti, la Corte, andando di contrario
avviso rispetto al Tribunale, reputò ammissibile il ricorso in ragione del
generale potere di cura della persona da riconoscersi in capo al rappresentante
legale dell’incapace ex artt. 357 e 424 c.c..

Tuttavia, esaminando e giudicando
nel merito l’istanza del tutore, la
Corte la giudicò insuscettibile di accoglimento, sul rilievo
secondo cui l’attività istruttoria espletata non consentisse di attribuire alle
idee espresse da Eluana all’epoca in cui era ancora pienamente cosciente un’ efficacia tale da renderle idonee anche nell’attualità a
valere come “volontà sicura della stessa contraria alla prosecuzione delle cure
e dei trattamenti che attualmente la tengono in vita”.

Proposto dal Sig. Beppino Englaro
ricorso per cassazione (notificato il 6 marzo 2007) anche avverso tale
decisione, peraltro autonomamente impugnata anche dalla curatrice speciale con
un ricorso incidentale sostanzialmente adesivo a quello principale, la Suprema Corte si è
infine pronunciata con sentenza n. 21748 in data 16 ottobre 2007 disponendo la
cassazione dell’impugnato provvedimento e il rinvio della “causa” per una nuova
decisione, relativamente alle parti cassate (secondo la disciplina di cui agli
artt. 384, 392 e 394 c.p.c.), ad altra Sezione della medesima Corte d’Appello
di Milano.

La Suprema Corte, in
particolare, ha accolto i ricorsi proposti sia dal tutore che dalla curatrice
speciale di Eluana Englaro, nei limiti meglio specificati in motivazione, reputando,
in estrema sintesi, che:

– in situazioni ove sono in gioco
il diritto alla salute o il diritto alla vita, o più in generale assume rilievo
critico il rapporto tra medico e paziente, il fondamento di ogni soluzione
giuridica transita attraverso il riconoscimento di una regola, presidiata da
norme di rango costituzionale (in particolare gli artt. 2, 3, 13 e 32 della
Costituzione), che colloca al primo posto la libertà di autodeterminazione
terapeutica;

– pertanto è la prestazione del
consenso informato del malato, il quale ha come correlato la facoltà non solo
di scegliere tra le diverse possibilità o modalità di erogazione del
trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di
decidere consapevolmente di interromperla in tutte le fasi della vita, a
costituire, di norma, fattore di legittimazione e fondamento del trattamento
sanitario ;

– il riconoscimento del diritto
all’autodeterminazione terapeutica non può essere negato nemmeno nel caso in
cui il soggetto adulto non sia più in grado di manifestare la propria volontà a
causa del suo stato di totale incapacità, con la conseguenza che, nel caso in
cui, prima di cadere in tale condizione, egli non abbia
specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate,
quali terapie avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso
rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza,
al posto dell’incapace è autorizzato ad esprimere tale scelta il suo legale
rappresentante (tutore o amministratore di sostegno), che potrà chiedere anche
l’interruzione dei trattamenti che tengano artificialmente in vita il
rappresentato;

– tuttavia questo potere-dovere
che fa capo al rappresentante legale dell’incapace non è incondizionato, ma
soffre di limiti “connaturati” al fatto che la salute è un diritto
“personalissimo” di chiunque, anche dell’incapace, e che la libertà di
rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte
che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e
comunque (anche) extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive, che per ciò
stesso devono essere pur sempre riferibili al soggetto-malato, anche se
incapace;

– un primo limite, coessenziale
alla scelta del rappresentante, va in particolare ravvisato nella necessità che
tale scelta sia sempre vincolata, come attività rappresentativa, e nella
concretezza del caso, al rispetto del migliore interesse (“best interest”) del
rappresentato;

– due ulteriori ed indefettibili
condizioni si riassumono poi nel seguente principio di diritto, cui deve
conformarsi il Giudice di rinvio:

«Ove il malato giaccia
da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo
permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo
esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico
che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo
rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può
autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva
l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica
nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti:
(a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso
apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico,
secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che
lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile,
recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e
(b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di
prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta
dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile
di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire,
prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della
persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare
l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto
alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di
intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri
possano avere, della qualità della vita stessa»;

– alla luce del suddetto
principio, il decreto impugnato, reso dalla Corte d’Appello di Milano nella
pregressa fase del procedimento, non si sottrae alle censure articolate dal
tutore e dal curatore speciale di Eluana Englaro, poiché, pur risultando
“pacificamente dagli atti di causa che nella indicata situazione si trova
Eluana Englaro, la quale giace in stato vegetativo persistente e permanente a
seguito di un grave trauma cranico-encefalico riportato a seguito di un
incidente stradale (occorsole quando era ventenne), e non ha predisposto, quando
era in possesso della capacità di intendere e di volere, alcuna dichiarazione
anticipata di trattamento”, la
Corte di merito ha comunque omesso di indagare adeguatamente
sulla sussistenza dell’altra imprescindibile condizione idonea a legittimare la
scelta del rappresentante intesa al rifiuto dell’alimentazione artificiale,
ossia non ha ricostruito la “presunta volontà” di Eluana dando rilievo ai
desideri da lei precedentemente espressi, o più in generale alla sua
personalità, al suo stile di vita e ai suoi più intimi convincimenti;
accertamento che dovrà quindi essere effettuato dal Giudice del rinvio, tenendo
conto di tutti gli elementi emersi dall’istruttoria e della convergente
posizione assunta dalle parti in giudizio (tutore e curatore speciale).

A seguito di tale pronuncia, il
pregresso procedimento di reclamo è stato riassunto dal tutore, originario
reclamante, con ricorso depositato in data 5 febbraio 2008 e assegnato –
secondo predeterminato criterio tabellare previsto per il caso di cassazione di
provvedimenti emessi dalla Sezione “Persone Minori e Famiglia” – a questa Prima
Sezione Civile.

Nel procedimento si è costituita
con propria memoria la curatrice speciale, non opponendosi, ma aderendo
nuovamente all’istanza del tutore.

Ha formulato le sue conclusioni
anche l’Ufficio del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale designato, chiedendo il rigetto del reclamo o, in subordine, un
supplemento istruttorio.

Sentite le parti all’odierna
udienza, e disposta ed esperita in tale frangente un’integrazione probatoria
con l’audizione del Sig. Beppino Englaro, che ha riferito profusamente in
relazione alle concezioni di vita che aveva avuto modo di esprimere Eluana
prima di cadere in stato di permanente incapacità, e più in generale sulla sua
personalità, questa Corte ha assunto la riserva di decidere che provvede ora a
sciogliere.

2. Delimitazione
dell’accertamento demandato al Giudice di rinvio. L’intervenuto giudicato
interno sul carattere “irreversibile” dello Stato Vegetativo
: esclusione della possibilità di svolgere un nuovo accertamento su tale
aspetto.

In concreto, dev’essere ancora
verificata da questo Collegio giudicante solo la seconda delle due condizioni
che – secondo il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte – possono
legittimare la scelta del tutore orientata al rifiuto del trattamento di
sostegno vitale; ossia quella riguardante la corrispondenza di tale scelta alla
“volontà presunta” di Eluana, e non invece la prima, concernente il carattere
irreversibile del suo Stato Vegetativo.

Su tale aspetto, infatti, risulta
già espresso nella precorsa fase di reclamo un giudizio accertativo che,
essendo ormai coperto da giudicato interno o comunque da un’equivalente
preclusione endoprocessuale, ha assunto in questo procedimento efficacia
definitiva.

La gravità, importanza e
delicatezza della decisione da assumere impone però di dar conto di tale
conclusione – come pure delle altre di cui si darà giustificazione
successivamente – con una motivazione non sintetica, ma analiticamente estesa
ad ogni punto che presenti rilevanza ai fini del
decidere.

Si rileva dunque che, in ragione
degli accertamenti di diagnostica strumentale e clinica effettuati su Eluana
Englaro sin dal primo ricovero che fece seguito all’incidente stradale del
gennaio 1992, e poi dei successivi controlli periodicamente posti in essere, il
fatto che lei si trovasse in uno Stato Vegetativo Permanente, e come tale
“irreversibile”, è sempre stato considerato comprovato e “pacifico” nelle
diverse fasi processuali pregresse.

È stato evidentemente ritenuto di
preminente rilievo, in primo luogo, il fatto che, ai fini della dichiarazione
di interdizione, fosse stato svolto già nel 1996 un accertamento molto
accurato, di carattere diagnostico e prognostico, sulle condizioni di Eluana,
sfociato nella certificata persistenza della sua condizione vegetativa.

Ma rilievo conclusivo è stato poi
certamente dato alla circostanza che, nel successivo sviluppo delle fasi
processuali attivate dal tutore, è stata acquisita ulteriore ed aggiornata
documentazione finalizzata a dimostrare sia sul piano clinico la sussistenza e
l’irreversibilità di tale stato, sia a dar conto dei parametri che, sul piano
dei più accreditati studi medici di carattere internazionale in questa materia,
potevano giustificare scientificamente tale diagnosi-prognosi.

Quanto a quest’ultimo tipo di
documentazione, in particolare, risulta essere stata prodotta in causa dal
tutore – proprio a giustificazione della reiterata presentazione dell’istanza
finalizzata all’interruzione del trattamento di sostegno vitale dopo i primi
provvedimenti reiettivi – copia della Relazione tecnica, di riconosciuto valore
scientifico, redatta da un Gruppo di lavoro interdisciplinare formato da
esperti, in relazione agli obiettivi conoscitivi di cui ai Decreti del
Ministero della Sanità 20.10.2000 prot. ssd/I/4.223.1
e 4 maggio 2001.

L’importanza di tale studio è
risultata in effetti talmente significativa che la
stessa elaborazione della sentenza n. 21748/2007 della S. Corte di Cassazione
sembra confermare anche letteralmente alcuni suggerimenti e conclusioni in essa contenuti (come ad esempio in riferimento alla
necessità, che rileva giustappunto sotto il profilo qui in esame, di valutare
la sussistenza dello Stato Vegetativo Permanente proprio «sulla base» – come si
esprime la Relazione
prima, e la Suprema
Corte poi – «di un’osservazione prolungata, per il tempo
necessario secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello
internazionale»).

Nella Relazione risulta svolta
un’ampia disamina delle differenze tra Stato Vegetativo Permanente ed altre
contigue e talora controverse patologie (stati comatosi, sindrome di
deafferentazione, mutismo acinetico, morte del tronco
encefalico, morte dell’encefalo).

Quanto, in particolare, allo
Stato Vegetativo Persistente e Permanente, la Relazione precisa che in
esso:

«Il paziente ventila, gli occhi
possono restare aperti, le pupille reagiscono, i riflessi del tronco e spinali
persistono, ma non vi è alcun segno di attività psichica e di partecipazione
all’ambiente, e le uniche risposte motorie riflesse consistono in una
ridistribuzione del tono muscolare. Consegue alla totale distruzione della
corteccia o delle connessioni cortico-diencefaliche, mentre il tronco
encefalico sopravvive e resta funzionante. I principali referti neuropatologici
sono necrosi laminare della corteccia cerebrale, il danno diffuso delle vie
sottocorticali o la necrosi bilaterale del talamo, ove originano le proiezioni
reticolari per la corteccia. L’essenza dello Stato vegetativo, come descritto
da Jennett e Plum [avvertenza dell’estensore: nel testo della Relazione risulta
una nota con citazioni a pie’ di pagina] è “la mancanza di ogni risposta
adattativa all’ambiente esterno, l’assenza di ogni segno di una mente che
riceve e proietta informazioni, in un paziente che mostra prolungati periodi di
veglia”. Questi pazienti sono in grado di respirare spontaneamente, e le loro
funzioni cardiovascolari, gastrointestinali e renali sono conservate (di solito
non le funzioni sfinteriche, e i pazienti sono incontinenti). A volte sembrano
dormire, con gli occhi chiusi, altre volte sembrano svegli, con gli occhi
aperti. Gli stimoli sensoriali intensi possono provocare accelerazione del
respiro, apertura degli occhi, smorfie mimiche o movimenti degli arti. Talora
sono presenti, senza alcuno stimolo, movimenti spontanei automatici
(masticazione, deglutizione ma anche sorrisi o smorfie di pianto). L’EEG può
mostrare una residua attività elettrica corticale. Escludono lo stato
vegetativo la presenza di segni anche minimi di percezione cosciente o di
motilità volontaria, come una risposta riproducibiIe a
un comando verbale o gestuale, anche limitata al semplice battito degli occhi.
I concetti di persistenza e di permanenza vanno distinti. Mentre l’aggettivo
persistente si riferisce solo a una condizione di passata e perdurante
disabilità con un incerto futuro, l’aggettivo permanente implica
l’irreversibilità. Può dirsi quindi che quella di Stato vegetativo persistente
sia una diagnosi, mentre quella di Stato Vegetativo Permanente sia una
prognosi. Tale distinzione, elaborata dalla MultiSociety Task Force on PVS nel
lavoro pubblicato sul New England Journal of Medicine, vol. 330, n. 21 e 22, è
condivisa da questo gruppo di lavoro, che considera quell’elaborato la migliore
sintesi scientifica e clinica oggi disponibile
[avvertenza dell’estensore: nel testo risulta una nota con citazioni a pie’ di
pagina]. La Task Force
ha raggiunto un accordo su alcuni punti. Uno di essi è
che prima di dichiarare permanente, cioè irreversibile, lo stato vegetativo di
origine traumatica di un soggetto adulto è necessario attendere almeno dodici
mesi [avvertenza dell’estensore: nel testo risulta una nota con citazioni a
pie’ di pagina, ove in particolare si precisa che “è sufficiente un lasso di
tre mesi per gli adulti e i bambini che siano in Stato Vegetativo Persistente a
seguito di danni di origine non traumatica”]. Trascorso tale lasso di tempo, la
probabilità di una ripresa di funzioni superiori è insignificante (…). Lo Stato
Vegetativo Permanente indica una situazione sia clinica sia giuridica del tutto
diversa da quella che, secondo la legislazione attuale italiana (e di tutti gli
altri paesi), può portare alla certificazione di morte cerebrale. È fuori
discussione, dunque, che gli individui in SVP non rispondono ai criteri per
l’accertamento della morte cerebrale. Resta il fatto, però, che per essi non sarà mai più possibile un’attività psichica e che
in essi è andata perduta definitivamente la funzione che più di ogni altra
identifica l’essenza umana. Essi (…) sono esseri puramente vegetativi (…)»
[N.B. : le enfasi grafiche sono state aggiunte qui ed
ora].

Come dunque emerge dai riportati
passaggi della Relazione del citato Gruppo di studio (costituente organo
tecnico di primario livello, la cui opinione in ordine alla
stato della scienza medica in materia di Stato Vegetativo Permanente
poteva essere evidentemente quanto meno equiparata a quella di un C.T.U.
esperto nella materia), deve considerarsi “Permanente”, ossia “Irreversibile”
(giacché i due aggettivi sono da accepire come equivalenti), in caso di adulti
(come appunto è, e già era, Eluana al momento della perdita di coscienza), lo
Stato Vegetativo – nei termini specificamente enunciati in premessa sempre
dalla Relazione – di origine traumatica protrattosi oltre i dodici mesi,
periodo di durata che, evidentemente, ha valore non assoluto, ma statistico.

La Relazione si preoccupa
dunque di fornire sia gli elementi per definire sul piano clinico-diagnostico
lo Stato Vegetativo, sia gli elementi per connotarlo, ai fini della
formulazione di un giudizio prognostico, nella sua evoluzione
temporale/funzionale, trascorrendo da Stato Persistente a Stato
Permanente/Irreversibile.

Sul primo aspetto, la Relazione prende atto
degli studi che, in ambito internazionale, sono pervenuti a definire gli
standards per la definizione di SVP, avvalendosi in particolare dei dati
elaborati dalla MultiSociety Task Force on PVS nel lavoro pubblicato sul New
England Journal of Medicine, vol. 330, n. 21 e 22, considerato “la migliore
sintesi scientifica e clinica oggi disponibile”.

Quando dunque il medesimo Gruppo
di studio, nel concludere la sua Relazione, fa un richiamo alla necessità che
l’accertamento in ordine alla sussistenza dello Stato Vegetativo Permanente venga poi effettuato dai medici, nei diversi casi concreti,
“sulla base di un’osservazione prolungata, per il tempo necessario secondo gli
standard scientifici riconosciuti a livello internazionale”, in realtà sembra
riferirsi a null’altro che a quegli standards di cui esso stesso ha dato atto
al fine di illustrare, sotto il profilo diagnostico, i caratteri definitori
dello Stato Vegetativo (sussistenza di lesioni della corteccia o delle
connessioni cortico-diencefaliche determinanti sul piano funzionale la
conseguente mancanza di ogni risposta adattativa all’ambiente esterno e
l’assenza di ogni segno di una mente che riceva e proietti informazioni), e,
sotto il profilo prognostico, il tempo di durata senza variazioni di tale
condizione, e quindi, in modo concomitante, il necessario “tempo di
osservazione” della stessa, per poterla definire “Permanente” (ossia
“Irreversibile”), tempo di durata pari ad almeno dodici mesi in caso di SVP da
etiologia traumatica relativa ad un adulto.

In presenza
della diagnosi di tale condizione, precisa la Relazione, e trascorso
il lasso di tempo-limite, la prognosi è definitivamente infausta quanto ad un
possibile recupero delle funzioni percettive e cognitive, poiché “la
probabilità di una ripresa di funzioni superiori è insignificante” e “non sarà
mai più possibile un’attività psichica” (conclusione, questa, peraltro avallata
anche da altri studi autorevoli; si deve poi precisare che, nella specifica patologia
in oggetto, la sua irreversibilità va correlata anche al concetto di
inguaribilità sotto il profilo terapeutico, nel senso che qualunque terapia
farmacologica, chirurgica, radioterapica o qualunque altro tipo d’intervento
non è più in grado di modificare lo stato della patologia stessa).

Dal che non avrebbe potuto che
derivare anche l’ininfluenza di eventuali opinioni minoritarie, più o meno
scettiche sulla possibilità di effettuare attendibili
valutazioni prognostiche di irreversibilità.

Trascorrendo dal piano generale a
quello particolare, la documentazione che la Corte d’Appello ha avuto modo di compulsare nella
pregressa fase processuale in relazione alla concreta diagnosi/prognosi
effettuata sulle condizioni di Eluana Englaro, si è sostanziata in una
relazione medica redatta dal prof. C.A. Defanti, neurologo di chiara fama e
primario del reparto di Neurologia dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano.

Non risulta che la correttezza ed
attendibilità scientifica di tale Relazione sia mai stata
posta in dubbio da alcun contraddittore processuale del tutore (né dal Pubblico
Ministero, né dalla curatrice speciale, la quale ultima ha anzi confermato
anche ora, per quanto a sua conoscenza, l’effettiva mancanza di variazioni
nello stato di Eluana rispetto alle risultanze cliniche di cui si dava atto
nella Relazione del prof. Defanti).

Deve aggiungersi che a tale
documento non avrebbe fatto difetto neppure alcun ipotetico requisito di forma,
tenuto conto che la
Suprema Corte non ha stabilito affatto di quali mezzi di
prova o di valutazione della prova debba avvalersi il Giudice di merito, che,
nella specie, già nella precedente fase avrebbe potuto dunque certamente basare
il suo apprezzamento su tutti quelli ritenuti in concreto più
confacenti, tanto più mancando una disciplina legislativa di carattere
prescrittivo in ordine all’eventuale necessità od opportunità di consultare
istituzionali organi tecnici o specifiche commissioni mediche.

Da tale relazione emerge
anzitutto una ricostruzione delle modalità di insorgenza della patologia in
base all’ esistente documentazione clinica.

Emerge in particolare che, a
seguito dell’incidente stradale del 18 gennaio 1992, derivò ad Eluana il già
detto gravissimo trauma cranio-encefalico con frattura frontale, frattura
dell’epistrofeo e lussazione anteriore di detta vertebra; che Eluana fu
ricoverata in Rianimazione presso l’Ospedale di Lecco, ove giunse con un
punteggio di 3-4 alla “Glasgow Coma Scale” ; che la TC dimostrava raccolte ematiche
intraparenchimali in sede frontotemporale sinistra e iperdensità, espressione
di sofferenza, a livello talamico bilaterale; che la paziente veniva intubata e
ventilata artificialmente; che nei giorni seguenti si manifestavano i segni di
un impegno transtentoriale con atteggiamento in decerebrazione e crisi
vegetative; che parallelamente una TC dimostrava la comparsa di un’emorragia a
livello mesencefalico; che poi gradualmente la situazione si stabiIizzava e,
circa un mese dopo il trauma, la paziente ricominciava ad aprire gli occhi
entrando da quel momento in Stato Vegetativo Persistente; che nel 1996 veniva
ricoverata presso l’U.O. Neurologia degli Ospedali Riuniti di Bergamo, ove
veniva confermata la valutazione diagnostica e prognostica di stato vegetativo
postraumatico; che l’evoluzione successiva confermava la diagnosi-prognosi
allora formulata, non essendosi avuta negli anni successivi, e neanche in
occasione del successivo accertamento svolto nel 2002 previo apposito ricovero
all’Ospedale Niguarda di Milano, alcuna modificazione significativa dello stato
clinico e nessuna ripresa di contatto con l’ambiente; che, pertanto, «malgrado
un’osservazione estremamente accurata e protratta nel tempo, non è mai stato
possibile rilevare indizi di contatto della paziente con l’ambiente
circostante».

Quanto all’obiettività
neurologica di cui ha dato atto il prof. Defanti, vi è anzitutto una
descrizione delle condizioni di Eluana riassumibile come segue : giovane donna in buone condizioni generali e di
nutrizione, con gli occhi per lo più aperti, deviazione sghemba dei globi
oculari, anisocoria per midriasi fissa in OD; mioclonia ritmica interessante le
labbra, la lingua, la mandibola e in minor misura le palpebre e i globi oculari
stessi (con scosse di tipo nistagmico); tetraparesi spastica con atteggiamento
in flessione delle dita delle mani e atteggiamento equino dei piedi; respiro
spontaneo e valido, senza ingombro tracheobronchiale; nutrizione indotta
tramite sondino nasogastrico; alvo regolare con minzione autonoma e
incontinenza.

Il prof. Defanti ha poi dato atto
dei vari esami strumentali eseguiti anche nel 2002 (esami di laboratorio di
routine, ECG, RX al torace) e, in particolare, dell’esito :

– di un EEG: «tracciato
caratterizzato da un’attività monotona in banda alfa e 10 Hz, con sovrimposti
artefatti di origine muscolare e oculare, insopprimibili. Nessuna reattività
allo stimolo algico. Il tracciato è compatibile con un “alfa coma”»;

– nonché di una RM all’encefalo
particolarmente eloquente: «esame eseguito in sedazione farmacologica. In fossa
posteriore vi è un marcato ampliamento del quarto ventricolo e delle cisterne
dell’angolo pontocerebellare e degli spazi corticali con importante atrofia
delle strutture della fossa posteriore. In particolare estremamente atrofico si
presenta il mesencefalo, che è caratterizzato da una netta alterazione di
segnale ipointensa in FFE T2 da residui emosiderinici di pregressa emorragia
(tipo Duret). Marcata alterazione di segnale iperintensa in entrambi gli echi
interessante la sostanza bianca periventricolare attorno alle
celle medie ed estesa ad interessare la corona raggiata di entrambi i
lati sino alla giunzione corticale-sotto corticale da danno assonale diffuso
cronico. Massiva atrofia del corpo calloso con alterazione di segnale da danno
assonale. Piccoli segnali di alterato segnale sono riconoscibili nella capsula
interna di ambo i lati con residui emosiderinici; altri piccoli focolai
consimili da esiti di focolai contusivi appaiono localizzati in sede
nucleocapsulare bilaterale, temporale sinistra, nel ginochio del corpo calloso,
in sede parasagittale e frontale sinistra posteriore cortico-sottocorticale».

Traendo dunque le somme dalle
indagini strumentali e sintomatologiche compiute, il prof. Defanti ha
confermato la conclusione, diagnostica e prognostica, già risalente al 1996,
secondo cui : «la paziente si trova in uno stato
vegetativo permanente, cioè irreversibile. Nessun recupero della vita cognitiva
è ormai possibile.. Le indagini ora effettuate, e in
particolare la
Risonanza Magnetica, corroborano l’ipotesi del danno assonale
diffuso come meccanismo fisiopatologico del danno cerebrale che ha portato al
tragico sbocco attuale» [N.B. : enfasi grafiche qui ed ora aggiunte].

Tale conclusione, di carattere
clinico, rispondeva e risponde dunque pienamente, nella sua elaborazione
inferenziale-scientifica, proprio a quei criteri – distillati alla luce degli
studi e degli standards internazionali – cui ha fatto riferimento sia la Relazione redatta dal
citato Gruppo di lavoro, che la Suprema Corte nella sentenza di cassazione con
rinvio, ponendo in evidenza come lo Stato Vegetativo di Eluana, da reputarsi
tale in ragione della obiettivamente accertata irreparabile lesione cerebrale
(per consolidata alterazione/atrofia di alcuni tessuti corticali e subcorticali,
del mesencefalo e degli assoni, ossia della sostanza bianca che interessa
l’encefalo e il tronco cerebrale con conseguente disconnessione anche tra
queste due parti, senza più evidenza di una coscienza di sé e dell’ambiente, di
risposte comportamentali intenzionali o volontarie a stimoli esterni, di
comprensione o espressione del linguaggio, pur in presenza
di riflessi del tronco cerebrale conservati), abbia certamente assunto
carattere irreversibile per la sua straordinaria durata, cui corrisponde,
peraltro, quel parallelo e necessario prolungarsi del periodo di osservazione
medica (che va ben oltre il limite dei dodici mesi necessario e sufficiente,
come s’è visto, per un’attendibile prognosi di Stato vegetativo
permanente/irreversibile nei casi da etiologia traumatica) che integra uno dei
parametri – insieme alla natura delle lesioni cerebrali e alla perdita di
funzionalità di tipo percettivo, cognitivo ed emotivo – cui riferirsi per
valutare la rispondenza della diagnosi-prognosi (svolta in concreto) a
“standard scientifici riconosciuti a livello internazionale”.

La lunghissima ed invariata
durata del predetto stato, peraltro, sembra in effetti
superare di molto quella già considerata in altri noti precedenti giudiziari
come idonea a suggellare l’irreversibilità della patologia in oggetto (solo a
titolo esemplificativo può ricordarsi, fra i vari casi che hanno assunto
rilievo internazionale e di cui si ha traccia negli atti del procedimento, che
in Francia, nel caso Hervé Pierra, vicenda di SVP tra le più lunghe, è stata
disposta l’interruzione dell’alimentazione con sondino naso-gastrico che teneva
in vita una donna in Stato Vegetativo Permanente da otto anni, mentre in Gran
Bretagna, nel caso Toni Blands, lo Stato Vegetativo Permanente durava da soli
tre anni).

Ad ogni modo, di tutti i sopra
illustrati elementi conoscitivi ha già preso atto la Corte d’Appello nella
pregressa fase del procedimento, e in particolare ha preso atto della
conclusione prognostica testè riferita, secondo cui “Nessun recupero della vita
cognitiva è ormai possibile”, pervenendo alla duplice conclusione che tali
elementi fossero idonei ad attestare sia il fatto che
Eluana versasse in Stato Vegetativo, sia che tale condizione fosse
irreversibile.

La motivazione addotta al riguardo
è inequivocabile.

Già nel decreto pronunciato in
data 17 ottobre/10 dicembre 2003, non impugnato sul punto con il primo ricorso
innanzi alla Suprema Corte, la
Corte d’Appello aveva osservato che, pur avendo avvertito nel
corso della trattazione del procedimento l’esigenza di acquisire uno specifico
profilo clinico della patologia di Eluana, doveva considerarsi del tutto «superflua la consulenza tecnica, in quanto alla
stregua delle risultanze processuali non sussistono dubbi sulla diagnosi, la
prognosi e la condizione clinica attuale di Eluana, quale paziente in stato
vegetativo permanente con il quadro prognostico di irreversibilità descritto
nella letteratura scientifica».

Si trattò, tuttavia, di un
accertamento svolto, in apparenza, in via meramente incidentale, nel contesto
di un provvedimento che si limitò a confermare il decreto reiettivo emanato dal
Tribunale di Lecco.

Diversa la situazione, invece, in
occasione della pronuncia del successivo decreto in data 15 novembre/16
dicembre 2006.

In tal caso la Corte d’Appello non ha
confermato affatto la declaratoria d’ inammissibilità
dell’istanza del tutore resa dal Tribunale di Lecco sulla base dell’opinione
secondo cui il legale rappresentante dell’incapace non sarebbe stato
legittimato (neppure con l’assenso della curatrice speciale) a esprimere scelte
al posto o nell’interesse del rappresentato; ha al contrario ritenuto che
l’istanza fosse ammissibile in ragione del generale potere di cura della
persona da riconoscersi in capo al rappresentante legale dell’incapace ex artt.
357 e 424 c.c..

Proprio per tale ragione la Corte ha riformato il
decreto reclamato e ha dovuto esaminare e giudicare la fondatezza dell’istanza
del tutore nel merito, a tal fine affrontando proprio il problema circa il se sussistessero in concreto entrambe quelle due condizioni di
legittimità della scelta del tutore cui proprio la Suprema Corte ha
fatto poi riferimento.

Quanto alla prima, quella
dell’irreversibilità dello Stato Vegetativo, la Corte d’Appello ha dovuto
esaminarla per prima, poiché di carattere logicamente prioritario, atteso che,
senza di essa, sarebbe stato in effetti incongruo
procedere ad accertare l’ulteriore condizione riguardante la ricostruibilità di
una precedente o presunta volontà di Eluana orientata verso un rifiuto del
trattamento di sostegno vitale.

Dopo aver risolto positivamente
tale prima questione, ha quindi affrontato la seconda, in tal caso risolvendola
negativamente sul rilievo secondo cui l’attività istruttoria espletata non
avrebbe consentito di attribuire alle idee espresse da Eluana all’epoca in cui
era ancora pienamente cosciente un’ efficacia tale da
renderle idonee anche nell’attualità a valere come “volontà sicura della stessa
contraria alla prosecuzione delle cure e dei trattamenti che attualmente la
tengono in vita”.

Solo tale secondo punto della
decisione è stato poi impugnato per cassazione, e solo in ordine ad esso la S.
Corte ha pronunciato la sentenza di
annullamento, imponendo la rinnovazione dell’accertamento di merito in
sede di rinvio.

Il tema del decidere si
ripresenta dunque in questa sede esattamente in tale stato e con il suddetto
contenuto : da un lato l’accertamento sul carattere
dell’irreversibilità è stato già effettuato e, non essendo stato impugnato, è
divenuto definitivo e immodificabile in questo procedimento; dall’altro,
occorre rinnovare invece l’accertamento riguardante la ricostruzione della
“volontà presunta” di Eluana, in quanto impugnato innanzi alla Suprema Corte e
da questa annullato perché non correttamente svolto dalla Corte di merito.

Che l’accertamento sullo stato
d’irreversibilità sia stato già effettuato, e con
esame svolto pure in via principale, si evince con estrema chiarezza dalla
motivazione del decreto in data 15 novembre/16 dicembre 2006.

Preso atto della documentazione
anche di natura clinica acquisita, la
Corte ha ritenuto al riguardo provato, appunto, che Eluana
effettivamente si trovasse «in Stato Vegetativo
Permanente, condizione clinica che, secondo la scienza medica, è caratteristica
di un soggetto che “ventila, in cui gli occhi possono rimanere aperti, le
pupille reagiscono, i riflessi del tronco e spinali persistono, ma non vi è
alcun segno di attività psichica e di partecipazione all’ambiente e le uniche
risposte motorie riflesse consistono in una redistribuzione del tono muscolare”.
Questo stato (…) è caratterizzato da un “quadro prognostico di irreversibilità”
(…). è accertato che lo stato vegetativo di Eluana è
immodificato dal 1992, è irreversibile e che la cessazione della alimentazione
a mezzo del sondino nasogastrico, richiesta dal tutore e dal curatore speciale,
la condurrebbe a sicura morte nel giro di pochissimi giorni» [N.B. : enfasi
grafiche aggiunte qui ed ora].

In definitiva, l’accertamento
sulla sussistenza di uno stato Vegetativo Permanente/Irreversibile è stato
effettuato già nella precorsa fase del procedimento, in via principale e non
meramente incidentale, e appare ormai coperto da giudicato interno, o in ogni
caso da un effetto preclusivo endoprocessuale di stabilità/immodificabilità del
tutto equiparabile al giudicato (dovendo solo ricordarsi a questo proposito che
il concetto di giudicato interno è più ampio di quello di giudicato esterno,
perché non attiene solo ai diritti, o ai fatti-diritti, che per di più siano
oggetto solo di statuizioni di accoglimento della domanda, ma anche a tutti i
fatti semplici e a tutte le possibili questioni sostanziali e processuali che
possono insorgere nel processo ed essere oggetto di esame da parte del
Giudicante con esito accertativo positivo o negativo).

Effetto, questo del giudicato o
di una preclusione ad esso equivalente, nemmeno
incompatibile (forse è il caso di precisarlo, per quanto possa apparire
superfluo) con la struttura formale del presente procedimento, ancorché basata
sul modello cd. camerale, considerata la natura della
pronuncia terminativa cui il procedimento tende : essa implica, infatti,
all’evidenza, una decisione su diritti soggettivi (perdippiù costituzionalmente
garantiti, come il diritto alla vita, all’autodeterminazione terapeutica, alla
libertà personale), idonea ad assumere efficacia definitiva (sia per difetto di
ulteriore impugnabilità nel merito, ma anche – come effetto correlato
all’oggettiva natura della materia trattata – a causa dell’efficacia definitiva
che sulla residua aspettativa di vita di Eluana non potrebbe non avere un
provvedimento di autorizzazione all’interruzione del sostegno vitale di cui è
stata chiesta la pronuncia; oltre che in ragione del fatto stesso che il
ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. sia stato ritenuto ammissibile
dalla Suprema Corte, tale ammissibilità potendo predicarsi solo in caso di
impugnativa riguardante diritti, avverso una decisione atta a divenire
definitiva), sì da essere equiparabile a una sentenza in senso sostanziale.

Ciò esclude che tale accertamento,
già divenuto definitivo e immodificabile, possa essere sottoposto ad una
rinnovata verifica, la quale sarebbe, prima ancora che ultronea,
processualmente inammissibile.

È forse opportuno rimarcare che
la sussistenza del giudicato interno è poi tanto più indiscutibile in quanto,
alla luce della motivazione contenuta nella sentenza n. 21748/2007, la medesima
Suprema Corte sembra aver dato atto, in sostanza, del prodursi di tale effetto,
ed è principio giurisprudenziale ormai ricevuto che, quando l’interpretazione
del giudicato interno possa considerarsi in tutto o in
parte compiuta dalla stessa Corte di Cassazione (nella sentenza di cassazione
con rinvio), essa vincoli e condizioni, in modo irreversibile, i poteri del
Giudice di rinvio (Cass. Sez. Un. 23 aprile 1971, n. 1175; Cass. 11 luglio
1968, n. 2433).

La Suprema Corte,
infatti, ha apertamente riconosciuto come sia emerso «pacificamente dagli atti
di causa che nella indicata situazione si trova Eluana Englaro, la quale giace
in stato vegetativo persistente e permanente a seguito di un grave trauma
cranico-encefalico riportato a seguito di un incidente stradale (occorsole
quando era ventenne)» [N.B. : enfasi grafiche aggiunte
qui ed ora].

La Suprema Corte ha
anche descritto la condizione di Eluana come un dato di fatto obiettivo,
evidenziando i caratteri del suo Stato Vegetativo Permanente: «In ragione del
suo stato, Eluana, pur essendo in grado di respirare spontaneamente, e pur
conservando le funzioni cardiovascolari, gastrointestinali e renali, è
radicalmente incapace di vivere esperienze cognitive ed emotive, e quindi di
avere alcun contatto con l’ambiente esterno: i suoi riflessi del tronco e
spinali persistono, ma non vi è in lei alcun segno di attività psichica e di
partecipazione all’ambiente, né vi è alcuna capacità di risposta
comportamentale volontaria agli stimoli sensoriali esterni (visivi, uditivi,
tattili, dolorifici), le sue uniche attività motorie riflesse consistendo in
una redistribuzione del tono muscolare».

Si tratta evidentemente della
presa d’atto dell’accertamento già contenuto nel predetto decreto della Corte
d’Appello, accertamento che, non essendo stato impugnato (come invece quello
relativo all’impossibilità di ricostruire la volontà di Eluana), non poteva che
essere considerato definitivo anche dalla Suprema Corte.

Non a caso essa, per indicare in presenza di quali presupposti il Giudice possa
autorizzare una scelta del rappresentante legale dell’incapace orientata alla
disattivazione del trattamento di sostegno artificiale, è partita
esplicitamente proprio dalla constatazione effettuale – basata su quanto emerso
in concreto dalle risultanze processuali del presente giudizio – che, di fatto,
Eluana giaceva già «da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato
vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al
mondo esterno».

Ora è del tutto evidente che, nel
rilevare che nel caso di specie il malato – ossia Eluana Englaro – versava
concretamente in Stato Vegetativo Permanente da oltre quindici anni (al momento
in cui la Cassazione
ha redatto la sua sentenza, ma ora gli anni sono già divenuti sedici e passa), la Suprema Corte ha
necessariamente riconosciuto che tale stato, prolungatosi per un lasso di tempo
straordinario (comunque ben oltre il termine di dodici mesi riconosciuto
idoneo, statisticamente e scientificamente, per formulare una prognosi di
irreversibilità secondo le indicazioni e gli studi internazionali di cui s’è
detto), nel caso di Eluana è diventato, appunto, definitivo e come tale non più
soggetto a regressione o a guarigione, anche solo parziali, l’aggettivo
“Permanente” – certamente utilizzato dalla Suprema Corte con piena
consapevolezza del dato scientifico – equivalendo, come si è visto,
all’aggettivo “Irreversibile” (che a sua volta, per definizione, esprime un
significato di immodificabilità/irrecuperabilità/inguaribilità di carattere
assoluto, escludendo, per ciò stesso, “la benché minima possibilità di un
qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una
percezione del mondo esterno”, che, se fossero possibili, contraddirebbero in
re ipsa la nozione di irreversibilità).

Sarebbe dunque anche logicamente
contraddittorio, in via consequenziale, oltre che contrario all’intervenuto
effetto sostanziale e processuale di giudicato (o a quello analogo di
stabilità/preclusione comunque prodottosi), ipotizzare ora che un tale presupposto
– l’irreversibilità – possa non più sussistere.

Sul che sembra peraltro aver
concordato lo stesso Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale intervenuto in causa, visto che, pur concludendo per il rigetto del
reclamo – com’era ovviamente suo pieno diritto in virtù della personale
valutazione delle risultanze processuali che era chiamato ad esprimere -, ha
comunque riconosciuto nel suo parere conclusivo che «in base alle conoscenze
mediche Eluana si trova in condizione di Stato Vegetativo Permanente, non
essendosi evoluto lo stato di coma derivato dalle lesioni riportate nel
sinistro automobilistico da lei subito nel gennaio 1992» [N.B. : enfasi grafica aggiunta qui ed ora], conclusione sulla
quale questo Collegio giudicante non avrebbe potuto comunque che concordare,
alla luce degli elementi conoscitivi acquisiti, anche nel caso in cui, se il
giudicato non avesse avuto modo di formarsi, fosse stato chiamato ad esprimere
ex novo il giudizio già anteriormente espresso dalla medesima Corte d’Appello,
in quanto meritevole senza dubbio, in fatto, di essere condiviso.

Infine, non può non rimarcarsi
ancora che la Suprema Corte, una
volta ricostruito il principio di diritto da applicare al caso, ha
espressamente cassato il decreto emesso dalla Sezione “Persone Minori e
Famiglia” di questa Corte solo con riferimento al mancato accertamento circa la
sussistenza della seconda condizione, quella di carattere soggettivo,
riguardante la ricostruzione della “volontà presunta” di Eluana, attribuendo ad
altra designanda Sezione della medesima Corte territoriale il compito di
svolgere appunto (soltanto) tale residuo accertamento.

La Suprema Corte,
infatti, alla stregua del limitativo e specifico contenuto delle impugnative
proposte da tutore e curatrice speciale, ha esclusivamente sanzionato il fatto
che i Giudici della Corte di merito, pur preso atto delle convinzioni e
dichiarazioni a suo tempo espresse da Eluana, così come emerse in istruttoria,
non abbiano «affatto verificato se tali dichiarazioni – della cui attendibilità
non hanno peraltro dubitato -, ritenute inidonee a configurarsi come un
testamento di vita, valessero comunque a delineare, unitamente alle altre
risultanze dell’istruttoria, la personalità di Eluana e il suo modo di concepire,
prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della
persona».

Ha quindi concluso, la Suprema Corte, che
(proprio) «tale accertamento dovrà essere effettuato dal giudice del rinvio».

Tutto ciò autorizza pertanto,
senza altri residui dubbi, a procedere con carattere di novità alla sola
indagine riguardante l’unico punto di fatto relativamente al quale la sentenza
rescindente della Suprema Corte ha mostrato di voler disporre il rinvio
all’attuale giudizio rescissorio: quello riguardante la ricostruzione della
“volontà presunta” di Eluana.

3. Opportunità e doverosità di
un’indagine incidentale e preliminare sull’eventuale sussistenza di plausibili
dubbi di legittimità costituzionale del principio di diritto enunciato dalla
Suprema Corte.

Reputa peraltro questa Corte di
non potersi considerare esentata, prima di concentrarsi su tale aspetto, dallo
svolgere ancora un’ulteriore indagine di carattere preliminare ed incidentale.

Tale esigenza trae causa dal
fatto che, poco tempo dopo l’emanazione della sentenza n. 21748/2007, la Suprema Corte, con
un’altra pronuncia ampiamente motivata (Cass. 21 dicembre 2007, n. 27082),
abbandonando un suo precedente indirizzo propugnato in apparente contrasto con
quello della Corte Costituzionale, ha compiuto un deciso revirement riguardo
alla questione circa il se, il Giudice di rinvio, possa
rilevare profili di sospetta incostituzionalità del principio di diritto che, a
seguito di sentenze di cassazione con rinvio, egli sia tenuto ad applicare.

Ha in particolare ritenuto che il
principio di diritto, almeno nei casi e nei limiti in cui la Corte di Cassazione sia
pervenuta ad affermarlo senza esaminare esplicitamente specifici profili della
sua conformità alla Costituzione, dovrebbe ritenersi pur esso ancora soggetto
ad un autonomo controllo di costituzionalità da parte del Giudice di rinvio.

Questa, appunto, è sempre stata
l’interpretazione della Corte costituzionale, secondo la quale la contraria
interpretazione si porrebbe in contrasto «con il chiaro disposto della Legge
Cost. n. 1 del 1948, art. 1 e L. n. 87 del 1953, art. 23, secondo cui tali
questioni possono essere sollevate nel corso del giudizio, senza alcuna
specifica limitazione (…) altrimenti, la Corte costituzionale non potrebbe pronunciarsi sulle
questioni di legittimità costituzionale relative a norme che devono ancora
ricevere applicazione nella fase di rinvio, con conseguente violazione della
disposizione costituzionale sopra indicata" (Corte cost. nn. 138/1977,
11/1981, 21/1982, 2/1987, 345/1987, 30/1990, 138/1993, 257/1994, 321/1995,
58/1995, 78/2007).

Il contrastante indirizzo della
Suprema Corte sul punto (secondo cui invece non sarebbe stato possibile
effettuare tale accertamento nel giudizio rescissorio di rinvio, benché il
principio di diritto altro non sia che il sostanziarsi di una norma di legge
ordinaria, come tale soggetta a valutazione incidentale di legittimità
costituzionale da parte del Giudice chiamato a farne applicazione) risulta
dunque ora – e almeno per il momento – superato in forza della sopra citata
pronuncia n. 27082 del dicembre 2007, con la conseguenza che anche questa Corte
d’Appello, nella presente sede, non solo ha la possibilità/facoltà, ma ancor
prima il dovere, di valutare, anche ex officio (tanto più in ragione dei molti
commenti, anche critici sul piano della legittimità costituzionale, che si sono
registrati dopo la pronuncia di cassazione con rinvio in oggetto, della grande
delicatezza del tema trattato e dell’enorme importanza degli interessi e dei
valori coinvolti), se il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte –
in mancanza peraltro, fino ad oggi, di uno jus superveniens di segno contrario
rispetto ad esso – non si ponga in eventuale contrasto
con norme di rango costituzionale, non risultando svolta da essa alcuna
indagine in tal senso, o, comunque, nella parte in cui non ha svolto
esplicitamente una siffatta indagine.

La quale può proporsi,
virtualmente, con riferimento ad entrambi i punti problematici principali del
ragionamento sviluppato dalla Suprema Corte : quello
del fondamento del diritto di scelta terapeutica che viene esercitato
dall’incapace, attraverso il proprio tutore, rifiutando il trattamento di
sostegno alimentare forzato; e quello dei limiti – ritenuti coessenziali
(“connaturati”) – all’espressione di tale opzione volitiva da parte del tutore.

Indagine il
cui esito, tuttavia, sembra non poter essere che negativo.

Quanto, infatti, al primo punto
del ragionamento giuridico sviluppato dalla Suprema Corte, è davvero poco
plausibile ipotizzare un qualunque tipo di eventuale contrasto con principi
costituzionali, se non altro perché la premessa maggiore da cui muove il suo
argomentare a sostegno del pieno diritto di autodeterminazione terapeutica del
malato, anche se incapace, si racchiude nella – in effetti
ineccepibile – valorizzazione, sul piano giuridico, della preminenza della
persona umana e della sua potestà di autodeterminazione terapeutica, che hanno
un diretto fondamento normativo proprio in norme di rango costituzionale (artt.
2, 3, 13 e 32 della Costituzione).

Il valore-uomo (nel suo essere
“dato” e nel suo essere “presupposto” come “valore etico in sé”) non viene disgiunto dalla Suprema Corte, nella sua lettura delle
norme costituzionali (ma com’è del resto congruente anche in senso logico nel
rapporto tra soggetto e suoi predicati giuridici), dagli stessi diritti che
l’ordinamento costituzionale repubblicano gli riconosce.

Tale correlazione si esprime
anche rispetto al diritto alla salute e alla vita; chiarimento, questo, certo
non nuovo, per quanto di copernicana importanza nell’interpretazione dell’art.
2 della Costituzione, che è norma fondazionale – nel nostro ordinamento – del
riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, e
chiarissima nel riferire tali diritti, appunto, all’uomo, quali
predicati del soggetto-titolare cui essi appartengono.

La Suprema Corte ha
voluto dunque eliminare ogni possibile fraintendimento, respingendo la
contraria concezione che considera il diritto alla salute o alla vita, in certo
senso, come un’entità esterna all’uomo, che possa imporsi, in questa sua
oggettivata, ipostatizzata autonomia, anche contro e a dispetto della volontà
dell’uomo.

Laddove, in particolare, la Suprema Corte ha
posto in evidenza che la prosecuzione della vita non può essere imposta a
nessun malato, mediante trattamenti artificiali, quando il malato stesso
liberamente decida di rifiutarli, nemmeno quando il
malato versi in stato di assoluta incapacità, ha prospettato un’interpretazione
che appare in effetti in grado di attuare, più che di contrastare, il principio
di uguaglianza nei diritti di cui all’art. 3 della Costituzione, che
evidentemente non va riguardato solo nella finalità di assicurare sostegno
materiale agli individui più deboli o in difficoltà, come gli incapaci, ma
anche in quella di rendere possibile la libera espressione della loro
personalità, della loro dignità e dei loro valori.

E tale diritto non può che –
necessariamente – esprimersi attraverso la mediazione di “qualcun altro”, nella
specie non irragionevolmente individuato in un legale rappresentante (peraltro
“istituzionale”), ossia il tutore o l’amministratore di sostegno, giacché, se
non vi fosse nessun “mediatore” abilitato ad esprimere la “voce” del
malato-incapace, non potrebbe neppure attuarsi, per definizione, quel diritto
“personalissimo” all’autodeterminazione terapeutica che pure non può non
essergli riconosciuto .

Risulta altresì ben chiaro come
l’orientamento della Suprema Corte non avalli comunque l’esistenza di un
diritto assoluto di morire (inteso come negazione o contraddizione del diritto
di vivere), ma si limiti a riconoscere l’esistenza di un diritto, di matrice
costituzionale – ma che prima ancora incarna la necessità di assecondare un
inevitabile destino biologico – a lasciare che la vita segua il suo corso
“naturale” fino alla morte senza interventi “artificiali” esterni
quando essi siano più dannosi che utili per il malato, o non
proporzionati, né da lui tollerabili; senza potersi confondere tale diritto,
dunque, con quello, certamente fino ad oggi non riconosciuto dal nostro
ordinamento, di eutanasia.

Ma da ciò la conseguenza che,
paradossalmente, eventuali profili di disformità costituzionale potrebbero
tutt’al più ipotizzarsi, sia pure solo in astratto, non già in rapporto al
riconoscimento del diritto di autodeterminazione terapeutica anche in favore
del malato incapace, ma semmai, piuttosto, con riferimento alle condizioni
limitative poste dalla Suprema Corte all’esercizio del diritto stesso da parte
del tutore per conto di lui, in quanto potenzialmente idonee a far emergere,
appunto, un disparitario trattamento in danno del malato incapace (rispetto a quello
pienamente capace e cosciente), in violazione dell’art. 3 della Costituzione
appena citato.

Sennonché, nemmeno in tal caso un
dubbio di costituzionalità ha motivo di porsi plausibilmente in concreto,
almeno a giudizio di questo Collegio giudicante, e nei limiti consentiti da una
mera delibazione incidentale e sommaria, potendo al più ravvisarsi, nel
pronunciamento della Suprema Corte, un semplice parziale difetto di
enunciazione dei fondamenti logici atti a giustificare l’operare delle
condizioni limitative da essa dettate (fondamenti
logici che però, come ora si dirà, appaiono comunque enucleabili proprio in
quanto le dette condizioni limitative sono state considerate dalla Suprema
Corte come “connaturate” alla necessità di far capo alla volontà dell’incapace),
e non un difetto di conformità a parametri costituzionali.

Così, dove la Suprema Corte ha
ritenuto che l’opzione del tutore orientata al rifiuto del trattamento medico
non sia del tutto libera, ma debba comunque essere espressione del reale sentire
e della “voce” dell’incapace da ricostruire in via presuntiva, essa ha sì posto
una condizione limitativa, senza peraltro aver modo di esplicitarne in modo più
esteso il fondamento logico di carattere generale (e nemmeno normativo, questo
non apparendo del tutto surrogabile, forse, con il richiamo, apparentemente
analogico, all’art. 5 del d.lgs. n. 211 del 2003, a tenore del quale il
consenso del rappresentante legale alla sperimentazione clinica – dunque
rispetto ad una ipotesi del tutto speciale – deve
corrispondere alla “presunta volontà” dell’adulto incapace), ma pur sempre una
condizione che si muove all’interno della sfera logica del principio di libera
autodeterminazione terapeutica del malato, poiché mira in effetti solo a
ricostruire compiutamente proprio quella volontà del soggetto incapace senza la
quale non potrebbe per definizione realizzarsi il suo diritto di
autodeterminazione.

Si tratta quindi, in effetti, di
un limite di natura logica coessenziale all’espressione del diritto “personalissimo”
(come precisa la Suprema
Corte, ponendolo in connessione con i limiti nascenti dalla
“funzionalizzazione del potere di rappresentanza”) di autodeterminazione
volitiva orientata al rifiuto del trattamento, e dunque all’interno di quella
tutela di tale diritto basata sulle norme costituzionali sopra citate. In tal
senso, il suddetto limite non sembra dunque porsi specificamente in contrasto
con il principio di uguaglianza, ma piuttosto realizzarlo.

Parimenti, ove si è ritenuto che
solo il carattere irreversibile dello stato vegetativo del malato possa in via
di principio conferire legittimità al rifiuto del tutore al trattamento, anche
in tal caso la condizione limitativa sembra muoversi sempre all’interno della
sfera logica dell’autodeterminazione.

La Suprema Corte non ha
avuto modo di motivare con ampiezza neppure il fondamento logico di tale
condizione limitativa, ma è ragionevole ritenere che essa si sia mossa partendo
dall’implicito, ma evidente presupposto che, se il
tutore potesse esprimere una volontà orientata al rifiuto anche in caso di
patologia reversibile, come si è ritenuto che possa fare motu proprio un malato
non incapace (dal che l’eventuale dubbio di trattamento diseguale), finirebbe
per privare il malato, nella prospettiva di un recupero delle sue facoltà
psichiche (reso possibile appunto dal carattere reversibile della patologia),
della potestà di esprimersi un domani lui stesso, direttamente e personalmente,
in merito a tale scelta; privazione, questa, che finirebbe per contraddire logicamente
proprio quel diritto di autodeterminazione terapeutica del malato che trae
fondamento dagli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione (e proprio per questo
motivo tale diritto potrebbe tradursi invece, senza indegradati residui, in una
valida espressione di volontà del tutore in caso di un’incapacità patologica
del malato che, in quanto irreversibile, escluda in re ipsa la possibilità di
un futuro ripristino della sua possibilità di determinazione volitiva).

In tal caso, perciò,
l’estrapolazione della condizione di irreversibilità della patologia che
determina il diverso modo di operare della volontà a seconda che il malato sia o meno capace di esprimerla validamente e direttamente al
fine dell’interruzione delle cure mediche, non sembra tradursi affatto in un’
ipotesi di discriminazione ingiustificata; la quale, peraltro, nemmeno avrebbe
rilevanza nel presente giudizio ai fini del decidere, considerato che, come si
è visto, nel caso di specie effettivamente sussiste, in base ad un già
effettuato e definitivo apprezzamento di fatto, secondo l’accertamento compiuto
nella pregressa fase del procedimento, appunto quel carattere della
permanenza/irreversibilità dello stato vegetativo in cui versa l’incapace, che la Suprema Corte ha
considerato imprescindibile.

Resta infine da rilevare che un
plausibile dubbio di eventuale disformità costituzionale per disparità di
trattamento non ha modo di porsi nemmeno con riferimento all’ultimo e più
generale profilo, enucleabile – allo stato attuale del dibattito giuridico – ai
fini di tale indagine : quello attinente, cioè, al
ribaltamento di prospettiva cui sembra dar luogo il principio di diritto
enunciato dalla Suprema Corte laddove essa ha prospettato che, mentre per il
malato capace di esprimersi, sempre e soltanto la prestazione di un valido
consenso informato al trattamento medico possa legittimare quest’ultimo; al
contrario, per il malato incapace, il trattamento sia da considerare di per sè
legittimo, salvo motivato e valido rifiuto del tutore alla sua erogazione (e
sempre che risulti espresso conformemente alle richiamate condizioni
limitative).

Tale distinzione risponde,
infatti, proprio all’evidente diversità di situazione oggettiva che accompagna
chi cada non già in una qualunque situazione di incapacità, più o meno totale e
più o meno transitoria, ma solo chi cada in quella del
tutto speciale condizione-limite definibile Stato Vegetativo Permanente.

Ove sopravvenga tale stato, il
trattamento di sostegno alimentare forzato non può che autolegittimarsi sempre,
nell’immediatezza, anche in mancanza di esplicito consenso, e non solo per un
elementare principio di precauzione, ma ancor prima per il suo carattere di
cura medica doverosa sin dall’inizio, in quanto finalizzata al rispetto del
diritto alla vita del malato incapace.

Ma, proprio per questo, la
legittimità del trattamento non può venir meno sic et simpliciter
successivamente, almeno fino al momento in cui non sopravvenga
una valida espressione di volontà contraria del tutore (nei termini e secondo i
requisiti già detti) o altra giusta causa legalmente riconosciuta come idonea a
determinare la cessazione della terapia.

La possibilità di considerare
legittima una richiesta del tutore volta all’interruzione del trattamento di
sostegno vitale non può essere poi esclusa (nemmeno ora che una disciplina
legislativa specifica non è stata ancora emanata su tale problematica) neppure
nei casi in cui sia di fatto impossibile ricostruire
una volontà presunta dell’incapace orientata al rifiuto del trattamento
(ipotesi di impossibilità – di esperire un substituted judgment di carattere
soggettivo/volontaristico – rispetto alla quale potrebbe in effetti apparire
ingiustamente sfornito di tutela il diritto alla dignità individuale del malato
incapace, da un lato non potendosi affermare, ma neppure escludere, che egli
sarebbe stato contrario al trattamento, e dall’altro correndo egli il rischio
di restare indefinitivamente esposto a trattamenti che potrebbero anche essere
– prima ancora che per soggettiva opinione – obiettivamente degradanti), anche
se tale soluzione potrebbe sembrare a prima vista incoerente con l’opinione
della Suprema Corte, laddove questa, ad oggettiva confutazione della contraria
prospettazione del tutore, ha ritenuto che non sia ravvisabile nel trattamento
alimentare forzato con sondino naso-gastrico una forma di accanimento
terapeutico in sè, dando così adito alla possibilità di inferirne che
l’interruzione del trattamento stesso non potrebbe mai considerarsi come il
“best interest” del malato incapace.

Il convincimento espresso dal S.
Collegio circa la non configurabilità oggettiva di un’ipotesi di accanimento
terapeutico sembra infatti prospettato e riguardare
solo, nella concreta situazione esaminata (e dunque sulla base, in apparenza,
di un apprezzamento più di fatto, che di natura nomofilattica), la specifica
terapia costituita dall’alimentazione con sondino naso-gastrico erogata ad una
malata in condizioni di riceverla senza particolare difficoltà o intolleranza
fisica, e non qualunque altro genere di trattamento medico di sostegno vitale
che risultasse pure in concreto praticato con carattere intollerabilmente
invasivo e secondo le mutevoli prassi operative della scienza medica (peraltro
soggette ad evolversi anche in tale ambito).

Vero è che tale convincimento
sembra poi essersi riflesso in senso restrittivo nell’enunciazione del principio
di diritto (poiché questo risulta perentoriamente
formulato come se non vi fosse mai spazio per un giudizio di sproporzionalità
oggettiva della cura quando non fosse possibile ricostruire la volontà presunta
del malato incapace); tuttavia, siccome il principio enunciato può vincolare
solo questo Giudice nel presente giudizio e solo in relazione alla ritenuta non
sproporzionalità della specifica terapia di alimentazione forzata che le parti
ricorrenti in cassazione avevano considerato e chiesto di considerare come
accanimento terapeutico (appunto l’alimentazione/idratazione forzata con
sondino naso-gastrico erogata ad Eluana), è lecito inferirne che la forma
espressiva utilizzata dalla Suprema Corte per formulare il detto principio vada
al di là delle sue stesse intenzioni, e che nulla comunque impedisca di
ritenere che il tutore possa adire l’Autorità Giudiziaria quando, pur non
essendo in grado di ricostruire il pregresso quadro personologico del
rappresentato incapace che si trovi in Stato Vegetativo Permanente, comunque
ritenga, e riesca a dimostrare che, il (diverso) trattamento medico in concreto
erogato sia oggettivamente contrario alla dignità di qualunque uomo e quindi
anche di qualunque malato incapace, o che sia aliunde non proporzionato, e come
tale una forma di non consentito accanimento terapeutico, e quindi un
trattamento in ogni caso contrario al “best interest” del rappresentato, quale
criterio, quest’ultimo, da utilizzare come dirimente fattore diacritico in via
surrogatoria per una decisione di interruzione del trattamento.

Da un lato, infatti, se si
esamina l’intera motivazione, emerge come la Suprema Corte abbia
comunque fatto salvo il ricorso al criterio generale del “best interest”, il
quale, è appena il caso di notarlo, avendo sempre come referente l’utilità del
malato, non può restare confinato in senso meramente soggettivistico solo
nell’area di un’indagine riguardante la volontà/personalità.

Dall’altro, poi, il riferimento
alla specifica tipologia del trattamento di sostegno alimentare sembra
assumere, nell’enunciato principio di diritto, ed alla stregua del valore
attribuito all’indagine sulla volontà presunta dell’incapace, un rilievo
logicamente secondario : la Suprema Corte,
infatti, si preoccupa sì di chiarire che l’alimentazione forzata non è una
forma di accanimento terapeutico, ma richiede al Giudice di rinvio, prima
ancora di accertare se Eluana avrebbe o meno accettato tale trattamento in
particolare, di valutare piuttosto se, in ragione delle sue concezioni di vita e
in ispecie di dignità della vita, lei avrebbe comunque accettato o meno di
sopravvivere in una condizione di totale menomazione fisio-psichica e senza più
la possibilità di recuperare le sue funzioni percettive e cognitive.

Pertanto, con il principio di
diritto in esame, la
Suprema Corte sembra essersi peritata più di rimarcare questo
rapporto logico, che di escludere in via di principio, e con riferimento ad
ogni altra ipotesi, il rilievo che potrebbe assumere il carattere
oggettivamente degradante o sproporzionato di un singolo trattamento di
sostegno vitale (non a caso, del resto, la stessa Suprema Corte ha evidenziato
che, finanche quando tale trattamento ancora consista nell’alimentazione
indotta con sondino naso-gastrico, la quale, di norma, non dovrebbe
considerarsi, secondo la sua opinione, una forma di accanimento terapeutico,
essa può non dimeno assumere tale connotazione in alcune particolari
situazioni, a loro volta indicate dalla Suprema Corte, ma chiaramente soltanto
a titolo esemplificativo, con riferimento ai due casi in cui, nell’imminenza
della morte : a) l’organismo non sia più in grado di
assimilare le sostanze fornite; b) oppure sopraggiunga uno stato di
intolleranza, clinicamente rilevabile, collegato alla particolare forma di
alimentazione; si tratta peraltro di casi – per quanto controversi – riportati
anche nella sopra citata Relazione redatta dal Gruppo di esperti del Ministero
della Sanità, e si suppone che, ove tali casi ricorrano, possa farsi luogo ad
un provvedimento di autorizzazione all’interruzione del trattamento anche se
manchi la possibilità di ricostruire la volontà presunta dell’incapace).

Ne consegue il superamento del
rischio di ravvisare un vuoto di tutela ingiustificato del malato incapace
(potenzialmente tale da concretare una lesione al paradigma di cui all’art. 3
della Costituzione) nei casi in cui sia impossibile
ricostruire una sua volontà presunta chiaramente rivolta al rifiuto del
trattamento, almeno se, ed in quanto, l’opinione della Suprema Corte venga
recepita, come sembra più corretto, nei termini appena indicati, e dunque con
interpretazione coerente rispetto al suo dictum e anche costituzionalmente
orientata.

Nessun particolare dubbio sul
piano della disformità costituzionale sembra porre, infine, l’enunciazione del
principio di diritto laddove, in forza del ragionamento della Suprema Corte,
deve ritenersi ormai accertato – sulla base di un’interpretazione che, se non
propriamente di natura nomofilattica, comunque rende non più controversa la
questione nel presente giudizio ai fini del decidere – che
l’alimentazione/idratazione artificiale con sondino naso-gastrico sia un trattamento di natura medica, giusta la
specificazione con cui la
Suprema Corte ha ritenuto di dover confutare la contraria
opinione espressa in proposito dalla Sezione “Persone Minori e Famiglia” di
questa Corte d’Appello nel decreto emesso all’esito della precedente fase
processuale.

Su tale aspetto, si tratta solo
di prendere francamente atto che l’accertamento della Suprema Corte fa stato in
questa sede, e non può quindi essere revisionato.

Per il che, non potendo ormai più
individuarsi alcun ostacolo atto ad impedirlo, deve infine procedersi a
trattare del profilo tematico riguardante la corrispondenza alla presunta
volontà di Eluana della richiesta di autorizzazione del tutore orientata al
rifiuto del trattamento di sostegno vitale.

4. Il residuo accertamento
demandato al Giudice di rinvio: valutazione in ordine all’attendibilità della
ricostruzione effettuata dal tutore sulla “volontà presunta” di Eluana
orientata al rifiuto del trattamento di sostegno vitale. Parametri di
riferimento cui attenersi ai fini dell’apprezzamento di fatto.

Al riguardo, peraltro, tre
elementi di giudizio contenuti nella motivazione della sentenza n. 21748/2007
ed un altro contenuto nel decreto di questa Corte in data 15 novembre/16
dicembre 2006 rendono almeno in parte già compiuta tale indagine, il che allevia
non poco la responsabilità del decidere che compete a questo Collegio
giudicante.

La Suprema Corte,
infatti, proprio nello specificare la condizione consistente nella necessità di
ricostruire la volontà presunta, ha puntualizzato (v. paragrafo
9 della sentenza):

a) che nell’indagine istruttoria
già svolta nella pregressa fase del procedimento è stato “appurato, per testi,
che Eluana, esprimendosi su una situazione prossima a quella in cui ella stessa
sarebbe venuta, poi, a trovarsi, aveva manifestato l’opinione che sarebbe stato
per lei preferibile morire piuttosto che vivere artificialmente in una
situazione di coma”;

b) che in tal modo sono stati
acquisiti convincimenti e dichiarazioni di Eluana “della cui attendibilità
[leggasi : “i Giudici della Corte d’Appello”] non
hanno peraltro dubitato”;

c) che l’accertamento demandato
ai Giudici del rinvio va da essi effettuato tenendo
conto di tutti gli elementi emersi dall’istruttoria, compresa la “convergente
posizione assunta dalle parti in giudizio (tutore e curatore speciale) nella
ricostruzione della personalità della ragazza”.

Alla luce di tale triplice
puntualizzazione, costituente presupposto – e quindi per ciò stesso parte
connotativa e costitutiva – del principio di diritto posto a base della pronuncia
di cassazione con rinvio, deve ritenersi dunque già “appurato, per testi, che
Eluana (…) aveva manifestato l’opinione che sarebbe stato per lei preferibile
morire piuttosto che vivere artificialmente in una situazione di coma”; che
comunque sulle idee e sulle dichiarazioni espresse da Eluana a tale riguardo è
stato già espresso un giudizio orientato a considerarle indubitabilmente
attendibili; e che ai fini della conclusiva valutazione circa la conformità dell’ interpretazione data dal tutore in ordine alla
presunta volontà di Eluana assume rilievo anche la circostanza che la curatrice
speciale abbia in effetti completamente confermato e avallato tale
interpretazione, aderendo in tutto e per tutto alle allegazioni e alle istanze
del tutore.

Quanto al decreto di questa Corte
in data 15 novembre/16 dicembre 2006, ivi risulta affermato, con riferimento
alle testimonianze rese dalle amiche di Eluana, che il relativo contenuto,
«benché sia indicativo della personalità di Eluana, caratterizzata da un forte senso
di indipendenza, intollerante delle regole e degli schemi, amante della libertà
e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni, non può essere
tuttavia utilizzato al fine di evincere una volontà sicura della stessa
contraria alla prosecuzione delle cure e dei trattamenti che attualmente la
tengono in vita».

Come si è detto, la Suprema Corte ha
considerato erronea la conclusione di tale ragionamento, ma non la sua premessa
valutativa, che pertanto assume anch’essa in questa fase del procedimento il
significato di un apprezzamento di fatto non più controverso, nel senso che le
prove testimoniali assunte sono state già considerate “indicative della
personalità di Eluana, caratterizzata da un forte senso di indipendenza,
intollerante delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita
dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni”.

Può allora ritenersi che, anche
in tal caso, anche all’interno dello specifico accertamento riguardante la
“volontà presunta”, il giudizio di fatto demandato a questa Corte sia alquanto
più ristretto di quanto non appaia ad una prima sommaria lettura del principio
di diritto enunciato dal Supremo Collegio.

Ad ogni modo può essere utile
ricordare che tale giudizio, secondo il principio enunciato dal Supremo Collegio,
deve intendersi finalizzato in generale ad accertare complessivamente (comprese
cioè le predette circostanze già appurate) :

1) quale sia – nei suoi aspetti
essenziali – la ricostruzione effettuata dal tutore in ordine alla presunta
volontà di Eluana;

2) se tale ricostruzione, laddove
suppone che la decisione ipotetica che Eluana avrebbe assunto ove fosse stata
capace sarebbe stata quella del rifiuto del trattamento di sostegno vitale,
possa considerarsi attendibile e non quindi espressione del giudizio sulla
qualità della vita proprio del rappresentante, né in alcun modo condizionata
dalla particolare gravosità della situazione;

3) se la ricostruzione della
volontà ipotetica abbia riscontro nei vari elementi conoscitivi emersi
dall’istruttoria, che devono connotarsi come elementi di prova chiari, univoci
e convincenti;

4) se e in che misura la
curatrice speciale abbia assunto una posizione convergente con quella del
tutore;

5) se la ricostruzione effettuata
dal tutore e riscontrata con gli elementi di prova sopra indicati tenga conto,
con riferimento al passato di Eluana:

5a) della sua personalità;

5b) della sua identità
complessiva;

5c) del suo stile di vita e del
carattere della sua vita;

5d) del suo senso dell’integrità;

5e) dei suoi interessi critici e
di esperienza;

5f) dei suoi desideri;

5g) delle sue precedenti
dichiarazioni;

5h) del suo modo di concepire
l’idea di dignità della persona (alla luce dei suoi valori di riferimento e dei
convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che orientavano le sue
determinazioni volitive).

4.1. Aspetti salienti della
ricostruzione effettuata dal tutore in ordine alla “volontà presunta” di Eluana ; convergente posizione della curatrice speciale.

Cominciando dal primo aspetto,
quello riguardante il contenuto della ricostruzione della volontà di Eluana
effettuata dal tutore, ne costituiscono fonte sia i molteplici scritti
difensivi, sia alcune specifiche dichiarazioni rese in alcuni documenti, sia le
dichiarazioni raccolte a verbale in sede di interrogatorio.

Questa Corte ha
infatti ritenuto opportuno interrogare direttamente e nuovamente il Sig.
Englaro nel corso dell’udienza camerale odierna, ponendogli molteplici domande
e richieste di chiarimento, nella convinzione non solo che l’istruttoria, in
questa fase rescissoria del procedimento, per la parte ancora oggetto di
giudizio, dovesse estendersi – per quanto possibile – a recepire ogni ulteriore
ed utile elemento informativo oltre alle prove già acquisite, ma anche che
parte della valutazione di credibilità della ricostruzione offerta dal tutore
dipendesse anche dal modo in cui egli fosse riuscito oralmente ad esporre di
persona, e convincentemente, le esperienze e le convinzioni di vita di Eluana
ed esposto di persona le ragioni della sua istanza di autorizzazione
all’interruzione del trattamento.

In questa occasione il Sig.
Englaro ha fornito una rappresentazione globale della personalità di Eluana,
che, a questo Collegio giudicante, è parsa lucida e precisa, pienamente in
linea con il quadro personologico tratteggiato già nei precedenti scritti
difensivi.

Egli ha in particolare
raffigurato – anche con l’ausilio del riferimento a specifici episodi – una
ragazza dalla precoce ed acuta intelligenza e dalla vibrante sensibilità,
responsabile, indipendente, estranea a qualunque compromesso o ipocrisia, piena
di voglia di vivere con intensità la sua vita, franca ed aperta alle esperienze
con gli altri, con la voglia di viaggiare e vedere il mondo, un autentico
“purosangue della libertà” (questa la definizione datane dai genitori anche in
una congiunta dichiarazione scritta recante la data del 15.12.2005).

Ha ricordato – tra gli episodi
più sintomatici della precocità di Eluana – che, già quando non aveva ancora
compiuto dieci anni, era riuscita a colpire e carpire, durante una lunga
passeggiata, l’attenzione del suo anziano nonno (imprenditore e insegnante in
una scuola tecnica, e certamente in grado di dare un giudizio culturalmente
adeguato) per come aveva dialogato con lui su argomenti riguardanti in generale
la vita e la morte, lasciando sorpreso il nonno di tanta già acquisita maturità
di pensiero e del suo manifestarsi come “spirito libero”.

Ha detto di essere stato sempre
impressionato proprio dall’intensità della voglia di libertà di Eluana, che
mostrava “di voler essere a tal punto libera e responsabile da reagire con
forza in qualunque occasione le stesse sembrando che gli altri la forzassero a
fare o a dire qualcosa” contro la sua volontà.

A questo riguardo ha anche
menzionato – tra gli altri – un ulteriore episodio particolarmente
significativo, accaduto quando Eluana aveva circa tredici anni, allorché,
trovandosi in vacanza al mare (“lei adorava il mare”), reagì in maniera
“sorprendentemente intensa” alla proibizione impostale dal padre di non uscire
di casa oltre una certa ora : cominciò a sudare tanto
profusamente che la nonna, presente alla scena, preoccupata di questo tipo di
reazione, “fulminò il padre con lo sguardo” affinché recedesse dalla sua
imposizione.

Nel riferire di tali ed altri
particolari episodi, peraltro, è bene sottolineare che il Sig. Englaro non ha
mostrato di voler trarre da essi alcuna conclusione
generale sul piano della correttezza comportamentale di Eluana, né di voler
farsi vanto del modo di agire “ribelle” di Eluana, ma ha mostrato solo di voler
dare un quadro quanto più verace possibile della personalità “indipendente”
della figlia e delle sue convinzioni di vita, che egli si sente, in sostanza,
“vincolato” a rispettare e far rispettare in una situazione in cui Eluana non è
più in grado di farlo da sola.

In quest’ordine di idee il Sig.
Englaro ha posto in luce anche lo stato di disagio e di sofferenza che ha accompagnato
una parte dell’esperienza scolastica di Eluana, quella riguardante i cinque
anni trascorsi, dopo aver frequentato la scuola pubblica fino alla terza media,
presso un liceo linguistico privato gestito da suore nella sua città di
residenza (liceo che – a suo dire – si era trovata “costretta” a frequentare,
perché non vi era in loco altro liceo linguistico pubblico, e non per
particolari motivazioni religiose, in quanto Eluana non era una cattolica
praticante, ma anzi piuttosto ribelle alle regole che una qualunque istituzione
pretendesse di imporle dall’alto), essendosi dovuta adattare ad un contesto
ambientale e ad un corpo docente che, nel giudizio di Eluana, sarebbero stati del tutto refrattari al confronto e al dialogo, mentre lei
considerava questi ultimi di essenziale importanza.

Tale esperienza le avrebbe creato
una così forte crisi di rigetto e di insofferenza da indurla a cercare, dopo i
primi tre anni di frequenza, di transitare ancora alla scuola pubblica, ma
trovandosi ancora impedita a farlo perché il liceo linguistico pubblico nel
frattempo istituito non prevedeva ancora i corsi per la quarta e la quinta
classe.

Ha evidenziato il Sig. Englaro
che nemmeno la successiva iscrizione di Eluana al corso di laurea in
Giurisprudenza presso l’Università Statale di Milano, pur fatta per sua libera
scelta, riuscì ad appagarne l’inquieto spirito, tanto
che, desiderosa di intraprendere poi una carriera che le potesse permettere di
viaggiare il più possibile e di valorizzare al massimo le sue abilità
linguistiche in modo da moltiplicare le sue possibilità di avere scambi e
contatti con gli altri, mutò successivamente indirizzo di studi passando a
frequentare una facoltà linguistica di tipo turistico-manageriale; segno anche
questo, a detta del padre, della sua “irrefrenabile esplosività”, che non le
consentiva di “appagarsi se non attraverso un continuo confronto, libero e
profondo, con tutte le esperienze della vita”.

Questo modo di intendere la vita
è stato ritenuto dal Sig. Englaro del tutto inconciliabile con l’attuale
condizione di Eluana e con le scelte che lei avrebbe verosimilmente fatto se
avesse potuto decidere.

A conferma di tale convincimento
sono stati fatti anche altri riferimenti, che risultano poi ancor più profusi
negli scritti difensivi, in ordine alle reazioni manifestate da Eluana con
specifico riferimento ad eventi tragici che avevano determinato il coma, o
comunque condizioni di assoluta incapacità di locomozione o di percezione, di
amici suoi o di personaggi noti (come lo sciatore Leonardo David della
Nazionale azzurra, la cui analoga tragedia, sfociata, dopo vari anni di “coma”
– come si affermava genericamente all’epoca – nella morte avvenuta nel 1985,
secondo quanto è stato riferito dal Sig. Englaro in udienza anche con memoria
del riferimento temporale, sarebbe stata pure molto commentata da Eluana, anche
perché il noto sciatore pare abbia passato un certo tempo proprio in Lecco,
città di residenza della ragazza).

In vari frangenti Eluana avrebbe
manifestato la ferma convinzione che restare in quelle condizioni non sarebbe
stato, per lei, un vero vivere, perché solo una vita piena, o comunque in
condizioni di capacità di muoversi, di pensare, di comunicare e di rapportarsi
con gli altri avrebbe meritato di essere vissuta, mentre non lo sarebbe stato
una vita meramente biologica.

Più volte il tutore ha ripetuto
il concetto che, in ogni caso, Eluana non avrebbe sopportato di sopravvivere in
condizioni tali da dover dipendere dall’altrui costante assistenza o tali da
renderla un semplice oggetto sottoposto all’altrui volontà, e ha sostenuto che
lei stessa avrebbe in varie occasioni manifestato tale idea.

Il Sig. Englaro ha in conclusione
evidenziato che “sarebbe stato per lei inconcepibile che qualcun altro potesse
disporre della sua vita contro la sua volontà e le sue scelte” (…) e ha indicato proprio nel rispetto di tale sentire
l’iniziativa processuale da lui intrapresa : “tutta la vicenda che ancora
conduce al presente procedimento nasce proprio anche dalla convinzione paterna
e materna che Eluana avesse diritto all’affermazione di questo suo modo di
essere e di pensare”.

Ciò premesso, deve segnalarsi che
le dichiarazioni rese nell’odierna udienza dal Sig. Englaro appaiono credibili
anzitutto, come già rilevato poc’anzi, per le modalità con cui sono state
espresse, avendo potuto notare questa Corte il suo atteggiamento pacato, ma fermo e preciso nel delineare la figura di
Eluana.

Non è trapelata, in particolare,
ad onta delle molteplici sollecitazioni con cui si è cercato di approfondire le
sue dichiarazioni, alcuna tendenza a “mettere in bocca” ad Eluana parole del
tutore, che invece ha più volte voluto precisare che determinate frasi ed
espressioni da lui utilizzate per descrivere la personalità di Eluana erano
proprio quelle che aveva pronunciato quest’ultima.

Un ulteriore e significativo
elemento di conforto in ordine alla credibilità di quanto dichiarato dal Sig.
Englaro deriva dalla già ricordata “convergente posizione” assunta dalla
curatrice speciale.

Merita rimarcare, a tal
proposito, che, secondo il senso apparente della direttiva interpretativa della
Suprema Corte, tale convergenza di posizione gioca un ruolo rilevante non solo
sul piano probatorio, ma, ancor prima, sul piano della stessa intrinseca
credibilità della ricostruzione della volontà presunta dell’incapace offerta
dal tutore, tale effetto derivando appunto dal fatto che a quella sorta di
“interpretazione autentica” della volontà, dei desideri e della personalità di
Eluana che si richiedeva fornisse, e che ha in concreto fornito, il tutore,
quale suo “fiduciario” istituzionale, si è aggiunta, convergendo con essa, l’ identica versione data dalla curatrice speciale,
nominata al fine di eliminare ogni possibile rischio derivante da un eventuale
conflitto d’interessi tra rappresentante e rappresentata.

Integrazione – di valutazione e
di volontà – che non può non rivestire un rilevante significato ai fini
decisori, data la funzione di garanzia e di controllo che alla curatrice
speciale è stata demandata, come soggetto imparziale, proprio al fine di verificare
in via di principio la genuinità e trasparenza delle intenzioni e dei fini che
possono aver mosso il tutore, onde depurarli da ogni possibile rischio d’ interesse egoistico.

Rischio peraltro che, nella
specie, sembra quasi da doversi escludere in re ipsa già sul piano puramente economico-materialistico-logistico, considerate le modalità
di cura di cui ha sempre fruito e ancora fruisce Eluana (pacificamente
risultando ricoverata presso una struttura ospedaliera esterna che non richiede
l’assistenza domiciliare continua dei familiari, e con costo integralmente a
carico del S.S.N.) e tenuto conto che, trattandosi di persona incontestatamente
nullatenente, non viene in gioco neppure alcun interesse ereditario dei
genitori (nei confronti dei quali, del resto, è difficile anche ipotizzare un
generico interesse a liberare eventualmente altri figli, specie rispetto al
futuro, dal “peso” di Eluana, visto che lei era, ed è rimasta, figlia unica).

La curatrice speciale ha inoltre
pienamente confermato nei suoi contenuti la genuinità ed attendibilità della
ricostruzione effettuata dal tutore, basandosi sulle indagini da lei stessa personalmente svolte, escludendo espressamente che –
a suo giudizio – la suddetta scelta possa essere stata condizionata da
particolari interessi egoistici.

Può essere utile rimarcare,
incidentalmente, che le dichiarazioni del tutore risultano avallate anche dalla
madre di Eluana, la
Sig.ra Saturna Minuti, che ha sottoscritto due lettere
inviate ad Autorità istituzionali con cui entrambi i genitori di Eluana hanno
concordemente ricostruito la lunga vicenda umana e processuale della figlia e
descritto nei suoi tratti essenziali la sua personalità libera e la sua
convinzione di non poter vivere in uno stato di assoluta menomazione e soggezione.

Infine, rende anche credibile la
genuinità del sentimento che ha portato il tutore ad effettuare la sua scelta,
una lettera – acquisita in atti e mai contestata – scritta da Eluana ai
genitori in prossimità delle ultime festività natalizie cadenti poco prima
dell’incidente stradale in cui restò coinvolta. In essa
Eluana dichiarò l’intenzione di voler comunicare e trasfondere al padre e alla
madre tutta la fiducia e il grande affetto che provava per loro, la sua
riconoscenza per quello che essi erano come persone, per come avevano sempre
dialogato con lei, per come le erano stati sempre vicini, per come l’avevano
curata, educata e trattata, e per quello che erano riusciti a fare di lei.

Si tratta di espressioni che
contribuiscono a rendere recessivo il dubbio sulla possibilità che la scelta a
difesa di Eluana, come delineata dal tutore, possa essere stata inquinata o
appannata da interessi o fini secondi, piuttosto che essere stata dettata
semplicemente da affetto e rispetto.

4.2. I riscontri testimoniali.
Valutazione finale e conseguenze dell’esito istruttorio.

Il dato probatorio più rilevante
non può che restare comunque, a parere di questa Corte, la conferma della
ricostruzione effettuata dal tutore così come emergente dalle dichiarazioni
testimoniali rese da alcune amiche di Eluana (Francesca Dall’Osso, Laura
Portaluppi e Cristina Stucchi) sui fatti indicati nei capitoli di prova che la
curatrice speciale (e non il tutore, si badi) ha potuto comporre e formulare
dopo aver svolto lei stessa indagini sul passato di
Eluana.

Reputa questa Corte che le
testimoni abbiano offerto un decisivo contributo conoscitivo, tanto più
credibile in quanto tali amiche hanno quasi tutte frequentato Eluana sin
dall’infanzia (e dunque hanno avuto modo di conoscerla profondamente) e non
hanno riferito solo di singoli episodi, ma hanno tratteggiato anch’esse una
sorta di modello personologico di Eluana.

In ogni caso è proprio nel
rapporto di amicizia fra coetanei, forse ancor di più che nel rapporto con
genitori o fratelli, che ciascuno esprime la maggior parte delle proprie
convinzioni, delle ansie, delle angosce, del suo vero modo di essere. Da qui il
valore inevitabilmente molto rilevante che assumono le dichiarazioni di amici
ed amiche (oltre che dei familiari), specie quando siano passati molti anni dal
momento in cui una persona ha avuto modo – come nel caso di Eluana – di
esprimere se stessa, poiché solo l’immagine che si forma nella memoria di chi è
stato con essa in una relazione di maggiore intimità
può riuscire, almeno in parte, a sfuggire ai deleteri effetti del tempo e del
distacco.

Questo senza poi considerare che,
come già s’è rilevato prima, almeno parte della valutazione sull’attendibilità
delle prove testimoniali e sul loro significato (sia sulla personalità
indipendente, ribelle e irremovibile di Eluana, sia sulla sua concezione di una
vita degna solo se vissuta con pienezza di facoltà motorie e psichiche) è stata
già compiuta dalla Sezione “Persone Minori e Famiglia” di questa Corte con il
decreto del 15.11/16.12.2006, come rilevato anche dalla Suprema Corte.

Ad ogni modo, in relazione
appunto a quella che è stata – con espressione sintetica – la
"Weltanshauung" di Eluana, presentano considerevole interesse le
seguenti dichiarazioni estratte dalle complessive deposizioni testimoniali.

Ha riferito la teste Francesca
Dall’Osso :

«Eluana era molto vivace, sempre
allegra, con mille interessi (…). Le sarebbe piaciuto fare qualcosa che avesse
attinenza con i viaggi. Voleva fare una professione che le consentisse
di viaggiare . La sua indipendenza non le consentiva di essere inquadrata nelle
regole, ad esempio a scuola. Eluana dava un valore molto profondo alla vita che però, secondo lei, doveva essere vissuta fino in fondo.
Non avrebbe mai accettato una vita con limitazioni sia di tipo fisico che
mentale (…). L’andare a scuola dalle suore era una scelta forzata, perché era
il solo liceo linguistico in zona (…). L’incidente di Eluana è avvenuto quando la stessa aveva circa venti anni e quindi
quasi un anno dopo che aveva cambiato università, anzi pochi mesi dopo, perché
l’università è iniziata ad ottobre e l’incidente è avvenuto a gennaio. Eluana
aveva cambiato facoltà da giurisprudenza a lingue».

Ha soggiunto la teste Laura
Portaluppi:

«Eluana aveva il sogno di
lavorare con me e andare in giro per il mondo con il nostro lavoro, una attività di movimento e non certo sedentaria. Eluana non
era sportivissima, ma sempre in movimento e molto, molto vivace».

Infine, per la teste Cristina Stucchi:

«Eluana era vivacissima – non
stava mai ferma – doveva sempre fare qualcosa – diventava matta all’ idea di stare un pomeriggio in casa – era lei che
organizzava e animava la compagnia degli amici».

Si tratta di dichiarazioni in effetti conformi alla descrizione di alcuni
significativi tratti della personalità di Eluana fatta dal Sig. Englaro e
confermano senza dubbio lo spiccato spirito di libertà e di indipendenza di
Eluana, la sua insofferenza a qualunque costrizione.

La credibilità dei riferimenti
alla voglia di essere libera ed indipendente trae anche conforto dai
contestuali riferimenti all’indole di Eluana, descritta come “vivacissima”,
come una che “non stava mai ferma”, che non voleva “essere inquadrata nelle
regole”, alla sua voglia di muoversi e viaggiare per il mondo.

Particolarmente importante è poi
il significato che, nel giudizio di Eluana, come riferito dalla prima teste,
doveva attribuirsi alla vita: “Eluana dava un valore molto profondo alla vita che però, secondo lei, doveva essere vissuta fino in fondo”
e senza limitazioni.

Appare dunque sin da questi
tratti una ragazza che, prima nel suo intimo essere, e poi anche nelle sue
convinzioni, era espressione di un innato, genuino spirito di libertà e di
indipendenza, che amava muoversi di continuo, che voleva vivere intensamente.

Il suo senso della vita, poi,
appare non meramente astratto o metafisico, ma
concreto. Proprio il suo grande amore per la vita esprimeva una condizione
limitativa di senso : vita (amata e da amare) era solo
quella che poteva essere vissuta pienamente.

Dunque la valutazione già
espressa dalla Sezione “Persone Minori e Famiglia” di questa Corte nel decreto
del 15.11/16.12.2006, con specifico riferimento al fatto che il contenuto delle
suddette testimonianze fosse e sia «indicativo della
personalità di Eluana, caratterizzata da un forte senso di indipendenza,
intollerante delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita
dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni», appare, oltre che conclusione valutativa
ormai definitiva in quanto non specificamente impugnata, anche e comunque
frutto di un accertamento pienamente corrispondente alle prove acquisite.

Quanto, poi, al relazionarsi di
Eluana con problematiche specificamente attinenti alla vita e alla morte, e in
particolare alla scelta verso cui si sarebbe diretta la sua volontà in caso di
assoggettamento a un trattamento di sostegno alimentare forzato in una
situazione di assoluta perdita delle sue capacità di locomozione, percezione e
cognizione, si è già detto che il predetto decreto ha anche definitivamente
riconosciuto che Eluana ha più volte espresso l’idea che sarebbe stato meglio
per lei morire subito piuttosto che restare costretta ad un’indefinita
sopravvivenza meramente biologica.

E in effetti, l’opzione del
rifiuto alla prosecuzione del trattamento espressa dal tutore, e confermata e
condivisa dalla curatrice speciale, trova in altre dichiarazioni delle amiche
di Eluana assunte come testimoni un’ulteriore precisa ed inequivoca conferma.

La teste Dall’Osso ha su questo
aspetto riferito che:

«Eluana mi ha parlato di
Alessandro, un suo amico, eravamo già all’università. Alessandro aveva avuto un
incidente in moto ed era in coma. Eluana era andato a trovarlo in ospedale ed
era rimasta sconvolta dalla situazione e mi aveva confidato che secondo lei era
meglio se fosse morto perché quella non poteva
considerarsi vita. Non so quale sia stata poi la
evoluzione delle situazione di Alessandro. Eluana mi ha però
ripetuto più volte la frase che mi aveva riferito sul fatto che quella non era
vita, sia riferita ad Alessandro, sia riferita ad altre persone che avevano
avuto vicende analoghe. Mi ricordo in particolare due episodi.
In particolare di Filippo, un altro nostro amico che aveva avuto un incidente
in macchina ed era morto sul colpo. Era l’ultimo anno di liceo. Ricordo che
Eluana mi aveva detto che Filippo, nella sua disgrazia, era stato fortunato
perché era morto sul colpo e non era rimasto immobilizzato in coma, o comunque
paralizzato o incosciente. L’altro episodio si riferisce ad un racconto delle
suore di Maria Ausiliatrice presso le quali noi abbiamo frequentato il liceo.
Il racconto si riferiva ad una ragazza che viveva in un polmone d’acciaio e le
suore parlavano del coraggio di questa ragazza che, pur vivendo in queste
condizioni, riusciva a confortare gli altri e a godere della vita, pure essendo
in quelle condizioni. Io, Eluana ed altre compagne siamo rimaste molto
impressionate e ci siamo chieste come fosse possibile vivere in condizioni del
genere (…)».

Quanto alla teste Laura
Portaluppi, ella ha riferito che:

«Quando Eluana ha perso un anno
all’università perché si era in precedenza iscritta a giurisprudenza, si è
trovata mia compagna di università al primo anno della facoltà di lingue. In
quegli anni abbiamo avuto alcuni amici che hanno avuto sinistri stradali, tra
cui Filippo e Stefano che sono deceduti sul colpo. In questo caso eravamo
rimaste colpite, ma non abbiamo fatto commenti. Quando però un suo amico (solo
di Eluana), Alessandro, detto Furio, era in coma in ospedale a seguito di un
sinistro, lei era andato a trovarlo ed era rimasta traumatizzata. Mi ha detto
che subito dopo era andata in chiesa ed aveva acceso una candela per chiedere
per lui la grazia di morire piuttosto che vivere così. Ciò mi aveva colpito
perché Eluana, accendendo la candela non aveva neppure pensato o accennato di
chiedere che Alessandro migliorasse e guarisse. Non aveva neppure pensato che
Alessandro potesse guarire o migliorare. Per molti anni sono andata a trovare
Eluana, soprattutto quando era degente a Sondrio. Mi
aveva molto colpito il fatto che ogni volta che doveva essere mossa bisognava
usare un paranco, cioè una imbracatura. Ho pensato che
ciò non fosse dignitoso, soprattutto per Eluana, che avrebbe spaccato il mondo
e non avrebbe mai accettato una situazione del genere».

Infine, la
teste Cristina Stucchi ha dichiarato:

«(…) eravamo molto amiche ed
avevamo amici comuni. Filippo (Rota) l’avevamo conosciuto entrambe, perché
frequentava le elementari nella nostra stessa scuola, ma in classi diverse. Era
una domenica mattina di dicembre 1988 ed eravamo
andate a Messa con Filippo e ci eravamo fermati sul piazzale della chiesa per
concordare di passare il pomeriggio in discoteca in Valsassina. Io poi non ero
andata. Alla sera della domenica ho appreso che Filippo era morto in un
sinistro stradale. Ho visto Eluana il lunedì mattina che era venuta a casa mia
prima di andare a scuola per commentare la vicenda di Filippo. Era scossa.
Ricordo in particolare una sua frase che mi aveva lasciata scossa: e cioè che
era meglio che fosse morto piuttosto che rimanere immobile in un ospedale in
balia di altri attaccato a un tubo – per cui era
meglio morire. (…) Io quel lunedì avevo cercato di
dirle che per me la vita era importante, ma lei era ferma nella sua opinione.
Eluana era così. Non c’era verso di farle cambiare idea – era molto determinata
nelle sue convinzioni (…)».

Alla luce di tali deposizioni
testimoniali, è indubitabile la correttezza dell’interpretazione prospettata
dal tutore in ordine alla scelta (orientata all’interruzione del trattamento di
sostegno vitale) che presumibilmente Eluana avrebbe fatto
o farebbe nella tragica condizione in cui versa, se avesse potuto o potesse
esprimersi direttamente e liberamente.

In sostanza, risulta che Eluana
dava un peso preminente sia alla possibilità di muoversi liberamente ed
autonomamente, sia di esprimere una volontà cosciente interagendo con il mondo
attraverso le sue facoltà intellettive-percettive-cognitive.
Tali facoltà, in sostanza, erano da lei viste come i soli strumenti capaci di
dare senso alla vita.

Si tratta di una concezione
personale, ma certo non rara, e comunque non nuova, essendo anzi un antico
portato della stessa scienza medica : «E l’uomo deve sapere che soltanto dal
cervello derivano le gioie e i piaceri e la serenità e il riso e lo scherzo, e
le tristezze, i dolori, l’avvilimento e il pianto. E per merito suo acquisiamo
saggezza e conoscenza, e vediamo e sentiamo e giudichiamo e impariamo cos’è
giusto e cos’è sbagliato, cos’ è dolce e cos’ è amaro…» (Ippocrate, “Sulla
malattia sacra”, 400 circa A.C.).

Può ritenersi dunque che,
effettivamente, per Eluana sarebbe stato inconcepibile
vivere senza essere cosciente, senza essere capace di avere esperienze e
contatti con gli altri.

Sarebbe davvero poco coerente con
la realtà dei fatti non riconoscere che le indicazioni testimoniali su questo
punto sono di una tale chiarezza, univocità, concordanza e ricchezza di
dettagli da non poter dare adito a dubbi.

Non può quindi condividersi (né
comunque ed evidentemente può conservare efficacia alla stregua del
pronunciamento della Suprema Corte) l’opinione manifestata a questo specifico
proposito dalla Sezione “Persone Minori e Famiglia” di questa Corte nel decreto
del 15 novembre/16 dicembre 2006, laddove ha argomentato che l’esito
testimoniale «non può tuttavia essere utilizzato al fine di evincere una
volontà sicura della stessa contraria alla prosecuzione delle cure e dei
trattamenti che attualmente la tengono in vita».

Dopo aver consentito l’immissione
nel procedimento di tutto il materiale probatorio che è stato fin qui
nuovamente esaminato, e in particolare delle testimonianze delle amiche di
Eluana, che, per di più (come ha segnalato la Suprema Corte), sono
state anche giudicate attendibili (né sussisteva o sussiste alcun apparente
motivo per giudicarle diversamente), non si vede come potesse negarsi poi a
tale materiale probatorio, dopo la sua intervenuta acquisizione,
quell’inequivocabile rilevanza ai fini del decidere che la stessa Sezione
“Persone Minori e Famiglia” gli aveva del resto anticipatamente riconosciuto
già prima, perlomeno in senso astratto e potenziale, nel momento in cui aveva
disposto l’ammissione dei capitoli di prova testimoniale dedotti dalla
curatrice speciale e relativi proprio ai fatti che sono stati in seguito esattamente confermati dalle amiche di Eluana.

D’altronde, proprio tale
conclusiva valutazione negativa in ordine alla rilevanza del materiale
probatorio concretamente acquisito è stata l’oggetto specifico della sanzione
cassatoria della Suprema Corte, la quale, nel giudicarla incoerente (rispetto
alla premessa secondo cui il contenuto delle testimonianze era appunto
“indicativo della personalità di Eluana”) ha rilevato che, per privare di
efficacia le suddette deposizioni testimoniali, non sarebbe bastato neppure
ritenere che le convinzioni espresse da Eluana, così come riferite nelle dette
deposizioni, fossero «inidonee a configurarsi come un
testamento di vita», poiché ciò che andava invece appurato era piuttosto se
esse «valessero comunque a delineare, unitamente alle altre risultanze
dell’istruttoria, la personalità di Eluana e il suo modo di concepire, prima di
cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona, alla
luce dei suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi,
culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive».

Da ciò risulta chiaro che, nello
strutturare ed enunciare il principio di diritto, la Suprema Corte non ha
ritenuto che fosse indispensabile la diretta ricostruzione di una sorta di
testamento biologico effettuale di Eluana, contenente le sue precise
dichiarazioni anticipate di trattamento (advance directives), sia pure rese in modo non formale; ma che fosse necessario e
sufficiente piuttosto «accertare se la richiesta di interruzione del
trattamento formulata dal padre in veste di tutore riflettesse gli orientamenti
di vita della figlia».

Dal che ulteriormente si deduce che gli apprezzamenti contenuti nel precedente
decreto di questa Corte in ordine alla inconferenza/ininfluenza delle
dichiarazioni di Eluana non potevano e non possono considerarsi idonei a
sminuire l’importanza delle dichiarazioni stesse, perchè esse erano comunque
idonei elementi informativi concorrenti a definire in modo univoco il quadro
personologico, l’identità, la "Weltanshauung" di Eluana, come pure la
stessa Sezione “Persone Minori e Famiglia” aveva in premessa riconosciuto.

Ma in realtà dall’espletata
istruttoria emerge non solo questo, come si è appena rilevato; emerge anche
qualcosa di più, proprio perché il diretto riferimento a frasi dette e a
commenti fatti in occasione di tragici incidenti capitati ad altri amici in
giovane età (ma anche ad altre persone note, come lo sciatore Leonardo David di
cui s’è detto), sono inequivocabili nell’indicare non solo che Eluana non
avrebbe voluto essere un mero soggetto passivo di un trattamento finalizzato al
mero sostegno artificiale per la sua sopravvivenza biologica, ma anche le
ragioni del “perché” non avrebbe ammesso tale possibilità :
in particolare perchè considerava radicalmente incompatibile con le sue
concezioni di vita uno stato patologico di totale incapacità motoria e di
assoluta deprivazione sensoriale (immobilità da tetraplegica e incoscienza da
lesioni cerebrali in cui poi è effettivamente caduta) che le impedisse
completamente di muoversi, di sentire e di pensare, passivamente restando come
un semplice “oggetto” in balìa dell’altrui volontà.

Ecco allora che, dinanzi alla
sorte dell’amico Alessandro, caduto in coma, Eluana confida che secondo lei sarebbe stato “meglio se fosse morto, perché quella non
poteva considerarsi vita” ; perché una vita, cioè, da passare sempre in un
letto, senza poter più pensare o sentire, “non era vita, sia riferita ad
Alessandro, sia riferita ad altre persone che avevano avuto vicende analoghe”.

Tali considerazioni – che
palesemente escludono che Eluana avrebbe potuto essere anche in minima parte
propensa a subire un trattamento medico purchessia in una situazione di totale
deprivazione sensoriale come quella definita di Stato Vegetativo Permanente, e
che lei dunque potesse nella sua concezione di vita considerare anche la
terapia di alimentazione artificiale e le altre modalità di trattamento del
corpo cui ancora è sottoposta come non lesive della sua dignità individuale
(stante «l’inaccettabilità per sé dell’idea di un corpo destinato, grazie a
terapie mediche, a sopravvivere alla mente», secondo l’incisiva sintesi fatta
dalla Suprema Corte) – emergono con coerenza nelle plurime occasioni, riferite
dalle amiche-testimoni, in cui Eluana ebbe modo di esprimere sempre lo stesso
concetto : che cioè non sarebbe stato possibile vivere
“immobilizzato in coma, o comunque paralizzato o incosciente” o nelle
condizioni di una ragazza messa in “un polmone d’acciaio”; e che sarebbe stato
molto meglio morire “sul colpo”.

Non potrebbe poi essere più
toccante, e densa di significato ai fini del decidere, la plastica e vivida
immagine di Eluana che accende un cero pregando per…la morte del suo amico
rimasto paralizzato a causa di un incidente stradale, senza aver nemmeno
ipotizzato che potesse essere preferibile per lui la diversa soluzione di
vivere in condizioni di assoluta menomazione.

Infine, concorre a tratteggiare
l’inconciliabilità tra il carattere e le intime convinzioni di Eluana da un
lato, e uno stato di costrizione dovuta all’incapacità di sentire, pensare,
comunicare ed agire, dall’altro, anche il riferimento alla scena cui assiste
una delle sue amiche quando va a trovarla nella casa
di cura ove Eluana è ricoverata, quando viene colpita dal «fatto che ogni volta
che doveva essere mossa bisognava usare un paranco, cioè una imbracatura. Ho
pensato che ciò non fosse dignitoso, soprattutto per Eluana, che avrebbe
spaccato il mondo e non avrebbe mai accettato una situazione del genere».

Vero è che si tratta di una
valutazione soggettiva dell’amica di Eluana, ma nel contesto della
ricostruzione di una volontà presunta non possono non avere spazio anche gli
apprezzamenti soggettivi di chi più da vicino ha conosciuto Eluana,
naturalmente se ed in quanto comunque correlabili a specifici fatti ed
esperienze, il che però è quanto accade appunto nel caso di specie.

In tale ordine d’
idee assume dunque un non irrilevante valore espressivo, indirettamente
utile al fine di tratteggiare quello stato di assoluta soggezione e costrizione
che Eluana non avrebbe sopportato, per l’appunto quell’immagine del corpo
avvolto come un semplice oggetto in un’ ”imbracatura” e sollevato da un
“paranco” ogni volta in cui occorre spostarlo, o lavarlo, o massaggiarlo, o
altrimenti manipolarlo.

Difficile in
effetti dubitare, alla luce del quadro personologico di Eluana fin qui
delineatosi in base alle prove assunte, che lei non avrebbe mai accettato –
nemmeno per un breve periodo, e men che mai per sedici anni e più -, proprio
come ha pensato la sua amica, di restare inchiodata a tale condizione
costrittiva oggettivamente immutevole e senza speranza.

Sembra dunque ulteriormente
confermata l’ “interpretazione autentica” della
presunta volontà di Eluana datane dal tutore, laddove ha evidenziato che per
Eluana sarebbe stato inconcepibile subire non solo un trattamento invasivo
finalizzato a tenerla artificialmente in vita in condizioni di totale
soggezione all’altrui volontà, di necessità tali da implicare un’ inevitabile
esposizione allo sguardo e alla manipolazione da parte di altri soggetti, ma
più in generale restare immobilizzata a letto come un “oggetto”,
indefinitivamente privata della possibilità di vivere pienamente la sua vita,
stato per definizione incomponibile con la sua concezione di dignità
individuale, le condizioni di sopravvivenza meramente biologica non potendo
considerarsi “degne di lei”, per come lei stessa concepiva la dignità e una
vita dignitosa.

In tal senso emerge, di conserva,
come la scelta del tutore sia conforme anche al “best interest” della malata
incapace, così come da lei stessa inteso, nel contesto di una concezione della
vita talmente radicata – anche in ragione del temperamento e del carattere –
nei profili fin qui evidenziati, da apparire nemmeno facilmente soggetta ad
ipotetici ripensamenti che potessero renderla inattuale solo per effetto del
successivo trascorrere del tempo e delle esperienze (tanto che l’amica Cristina Stucchi, pur cercando di convincere Eluana
a deflettere dall’idea che fosse “meglio morire piuttosto che restare in balia
di altri attaccato a un tubo” prospettandole che “la vita era importante”, non
ha potuto fare altro che dare atto che “lei era ferma nella sua opinione.
Eluana era così. Non c’era verso di farle cambiare idea – era molto determinata
nelle sue convinzioni”; irremovibilità peraltro considerata già comprovata
anche nel citato decreto del 15 novembre/16 dicembre 2006).

Dinanzi a tale concezione, il
fatto, indubitabile, che nutrire e idratare i malati non autosufficienti e
totalmente incapaci sia un obbligo cogente per il medico ed un irrinunciabile
dovere di solidarietà sociale, perde evidentemente di rilievo, acquisendo
prioritaria importanza, invece, il fatto che Eluana, quando era ancora
cosciente, aveva manifestato una personalità, un modo e uno stile di vita,
convincimenti e desideri, chiaramente indicativi del fatto che non avrebbe voluto essere curata per nulla nell’evenienza di uno
stato di totale immobilità/incapacità fisio-psichica (dunque nemmeno mediante
quella terapia di sostegno-base costituita dall’alimentazione/idratazione),
preferendo che la si lasciasse morire, ogni intervento esterno in grado di
frapporsi alla naturale evoluzione verso la cessazione di una vita meramente
biologica, essendo da lei visto come una violenza o una lesione degradante
della sua dignità di persona.

Né contro tale evidenza – che
nell’apprezzamento di fatto demandato in via esclusiva a questa Corte appare
indubitabile – potrebbe giocare alcun ruolo, anche solo parzialmente
confutativo, la circostanza che Eluana, secondo l’opinione espressa
dall’Ufficio del Pubblico Ministero nel suo parere conclusivo, avrebbe avuto una “formazione religiosa” e una “impostazione
conforme a quella della religione cattolica”.

Anzitutto perché poi lo stesso
Pubblico Ministero ha correttamente riconosciuto che le “informazioni raccolte
attraverso le testimonianze non parrebbero essere in antitesi con l’istanza del
tutore”; ha cioè ammesso che il tutore ha correttamente interpretato quelle che
sarebbero state le determinazioni volitive di Eluana nella situazione data, sì
che – a parte la conferma che su tale conclusione sembra che in fin dei conti
siano tutti d’accordo – non è chiaro come la pura e semplice rilevazione del
fatto che Eluana avesse un credo religioso potrebbe
contraddire un’ interpretazione della sua volontà già compiuta e ritenuta
corretta alla stregua di tutti gli altri sopra considerati elementi di
giudizio.

Ma poi anche perché, anche a
voler dare il massimo rilievo possibile a questo particolare aspetto (dell’ “impostazione cattolica”) concernente la sfera
religiosa di Eluana, pur al cospetto di un così fuggevole accenno fatto ad esso
da parte del Pubblico Ministero, ma com’è giusto comunque fare in un contesto
decisorio tanto grave, mancano comunque i necessari elementi, sia sul piano
generale ed astratto, che particolare e concreto, per considerarlo antinomico
rispetto alla personalità indipendente e alle convinzioni ed idee di Eluana
sulla vita e sulla dignità individuale.

Così, deve segnalarsi anzitutto
come non risulti affatto chiarito, nel citato parere del P.M.,
sotto quale profilo la formazione religiosa cattolica avrebbe potuto implicare
per Eluana una scelta contraria all’interruzione del trattamento di sostegno
alimentare artificiale.

Ma una tale specificazione
sarebbe stata tanto più necessaria considerato che, come già rilevato prima, il
giudizio che la Suprema
Corte ha richiesto di svolgere sulle convinzioni di Eluana,
anche di carattere religioso, non può che essere riferito alla sua specifica e
concreta individualità così come si era già formata ed espressa al momento in
cui era pienamente cosciente, e non certo basarsi in via meramente astratta su
quelli che potrebbero essere in via generale sulla problematica in oggetto i
canoni e le regole morali della Chiesa cattolica (peraltro rimasti privi, nel
fuggevole accenno fattone dal Pubblico Ministero, di qualsivoglia precisazione
contenutistica), che evidentemente ciascuno, anche se genericamente
qualificabile come “credente”, o più specificamente come “credente cattolico”,
è ben libero – tanto più in uno Stato laico che tutela la libertà di coscienza
come valore preminente – di condividere o meno, di
applicare o meno nella concretezza della sua esperienza di vita privata e
individuale (è del resto evidente che una professione di appartenenza – più o
meno formale o generica – ad una certa confessione religiosa non implica
affatto anche la inesorabilità di una piena condivisione ed osservanza pratica,
e in concreto, di tutte le relative regole, anche morali).

In ogni caso, alla luce del
quadro personologico di Eluana emerso in sede istruttoria, e dunque al cospetto
della sua già rimarcata indipendenza di giudizio e della sua insofferenza verso
qualunque imposizione esterna, anche di tipo religioso, sembra ragionevole
escludere che, se anche fosse stato comprovato un
preciso ed univoco orientamento della Chiesa cattolica sul tema in oggetto (e
con specifico riferimento, comunque, all’epoca in cui Eluana era pienamente
cosciente, e non all’epoca attuale), esso – ove in ipotesi consentaneo ad una
prosecuzione del sostegno vitale – avrebbe potuto costituire efficace
controindicazione ad una presumibile scelta di Eluana orientata al rifiuto di
tale trattamento.

In concreto, infatti, e con
particolare riguardo all’ ipotizzata “formazione
cattolica” di Eluana, il Sig. Englaro ha posto in evidenza, e alcune
dichiarazioni testimoniali hanno confermato, che la scelta di Eluana di
iscriversi ad una scuola media superiore gestita da suore cattoliche fu resa
inevitabile e “costretta” dalla mancanza di un equivalente istituto scolastico
pubblico, e ha soggiunto che anzi proprio l’esperienza presso tale scuola le
procurò una reazione di insofferenza per quella che lei riteneva fosse un’
oggettiva impossibilità di dialogo e di confronto con il corpo docente.

Il Sig. Englaro ha poi
evidenziato che, pur essendo vissuta nel formale rispetto dell’istituzione
religiosa, Eluana non è mai stata di fatto una
cattolica praticante e che, al di là della sua intima religiosità, è stata sempre
critica verso qualunque richiesta istituzionale di adesione a pratiche o
ideologie che fosse basata sul puro e semplice principio di autorità.

Tale più specifico insieme di
elementi informativi, dunque, qualunque sia il grado di efficienza probatoria che
gli si voglia riconoscere, è comunque l’unico da cui
emerga una qualche traccia un po’ più chiara sulla dimensione religiosa della
personalità di Eluana, e si pone semmai esattamente agli antipodi del dubbio
che il suo intimo credo religioso potesse non conciliarsi con una scelta
orientata verso l’interruzione del trattamento di sostegno artificiale.

Non potrebbe esservi poi nulla di
più esplicito nel dimostrare il modo del tutto soggettivo e libero di
interpretare il sentimento religioso da parte di Eluana, di quella già
ricordata ed icastica immagine consegnata all’istruttoria soprattutto dalla sua amica Laura Portaluppi, in cui Eluana accende sì
un cero in chiesa, ma per chiedere come grazia non che il suo amico, in coma a
causa di un incidente stradale, possa continuare a vivere, ma che invece possa
morire.

In tale circostanza si esprime
indubbiamente un profondo sentimento religioso, che nasce e si sublima, nel
rapporto con un’altra persona, nella più empatica pietà per la sua tragica
condizione, e che non rifugge nemmeno dalla speranza o dalla convinzione
dell’esistenza di una divinità trascendente che possa intervenire a risolvere
dall’alto le tragedie umane; ma si esprime al tempo stesso anche la convinzione
di come sia intollerabile e inconcepibile accettare la riduzione di sé a un
corpo privo della possibilità di muoversi, di pensare e di sentire, e in
definitiva incapace ormai di vivere una vita nel senso più umano e completo del
concetto.

Perchè, a ben vedere, proprio il
suddetto sentimento di pietà, che nell’ occasione in
cui Eluana chiese per il suo amico la grazia della morte la indusse ad
interpretare questa come un bene, anziché come un male (ovvero, come dovrebbe o
potrebbe dirsi restando nella sfera terminologica della sentenza di cassazione
con rinvio, come il “best interest” per il suo amico nella condizione in cui
costui si era trovato), altro non pare che il sintomo rivelatore della
proiezione del sé di Eluana, del proprio modo di sentire e concepire la vita e
la morte, del proprio modo di immaginare quale sarebbe stata, anche e in primo
luogo per lei stessa, la soluzione migliore in quella data situazione : poter
morire, assecondando un esito “naturale”, e non già consegnarsi al lungo
trascorrere di una vita solo organica ed apparente, senza più contatti con il
mondo esterno, e senza la possibilità di vivere coscientemente e pienamente la
propria esperienza di vita.

Ebbene, il compito di questa
Corte è solo quello, per quanto ostico e ingrato, data
la gravosa natura delle scelte del tutore soggette in questa sede a controllo e
autorizzazione, che è stato segnato dalla pronuncia della Suprema Corte; ossia
di controllare – con logico apprezzamento di fatto delle prove acquisite
(insindacabile purchè congruamente motivato) – la correttezza della
determinazione volitiva del legale rappresentante dell’incapace nella sua
conformità alla presumibile scelta che, nelle condizioni date, avrebbe fatto
anche e proprio la rappresentata, di cui il tutore si fa e deve farsi
porta-”voce” : nulla di più e nulla di meno.

Le prove assunte, attendibili,
univoche, efficaci e conferenti, e definitivamente ritenute in buona parte già
tali con l’ accertamento di fatto già espresso nel
precedente decreto del 15 novembre/16 dicembre 2006, unitamente alla condivisione
della scelta del tutore fatta dalla curatrice speciale (che ha peraltro svolto
in modo apparentemente ineccepibile la sua attività di controllo imparziale),
tranquillizzano in ordine al fatto che la scelta in questione non sia
espressione del giudizio sulla qualità della vita del rappresentante di Eluana,
anziché di quest’ultima, e che non sia stata in alcun modo condizionata da
altro fine o interesse se non quello di rispettare la sua volontà ed il suo
modo di concepire dignità e vita.

Per tutte le precedenti
considerazioni, in conclusione, ponderate anche alla luce di quella «logica
orizzontale compositiva della ragionevolezza» indicata dalla Suprema Corte –
bilanciamento in cui non può non trovare spazio sia la valutazione della
straordinaria durata dello Stato Vegetativo Permanente (e quindi Irreversibile)
di Eluana, sia la, altrettanto straordinaria, tensione
del suo carattere verso la libertà, nonchè la inconciliabilità della sua
concezione sulla dignità della vita con la perdita totale ed irrecuperabile
delle proprie facoltà motorie e psichiche e con la sopravvivenza solo biologica
del suo corpo in uno stato di assoluta soggezione all’altrui volere, tutti
fattori che appaiono e che è ragionevole considerare nella specie prevalenti su
una necessità di tutela della vita biologica in sé e per sé considerata -,
l’istanza di autorizzazione all’interruzione del trattamento di sostegno vitale
artificiale, così come proposta dal tutore di Eluana Englaro e condivisa dalla
curatrice speciale, va inevitabilmente accolta, a tale decisione non potendo
sottrarsi i decidenti, per quanto non senza partecipata personale sofferenza.

5. Disposizioni accessorie cui
attenersi in fase attuativa.

Resta solo da precisare, sebbene
possa apparire ultroneo alla luce degli stessi accorgimenti suggeriti dal
tutore istante quanto alle modalità con cui attuare l’interruzione del
trattamento di sostegno vitale, ma accogliendosi un esplicito richiamo della
Suprema Corte a impartire qualche ulteriore disposizione pratica e cautelativa,
che, in accordo con il personale medico e paramedico che attualmente assiste o verrà chiamato ad assistere Eluana, occorrerà fare in modo
che l’interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione artificiale
con sondino naso-gastrico, la sospensione dell’erogazione di presidi medici
collaterali (antibiotici o antinfiammatori, ecc.) o di altre procedure di
assistenza strumentale, avvengano, in hospice o altro luogo di ricovero
confacente, ed eventualmente – se ciò sia opportuno ed indicato in fatto dalla
miglior pratica della scienza medica – con perdurante somministrazione di quei
soli presidi già attualmente utilizzati atti a prevenire o eliminare reazioni
neuromuscolari paradosse (come sedativi o antiepilettici) e nel solo dosaggio
funzionale a tale scopo, comunque con modalità tali da garantire un adeguato e
dignitoso accudimento accompagnatorio della persona (ad es. anche con
umidificazione frequente delle mucose, somministrazione di sostanze idonee ad
eliminare l’eventuale disagio da carenza di liquidi, cura dell’igiene del corpo
e dell’abbigliamento, ecc.) durante il periodo in cui la sua vita si
prolungherà dopo la sospensione del trattamento, e in modo da rendere sempre
possibili le visite, la presenza e l’assistenza, almeno, dei suoi più stretti
familiari.

P (er) Q (uesti) M (otivi)

La Corte d’Appello di Milano

– Prima Sezione Civile –

1) accoglie il reclamo proposto
dal Sig. Beppino Englaro, quale tutore di Eluana Englaro, cui ha aderito anche
la curatrice speciale di quest’ultima, avv. Franca Alessio, e per l’effetto, in
riforma del decreto n. 727/2005 emesso dal Tribunale di Lecco in data 20
dicembre 2005 e depositato in data 2 febbraio 2006, accoglie l’istanza –
conformemente proposta da entrambi i legali rappresentati di Eluana Englaro –
di autorizzazione a disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale
artificiale di quest’ultima, realizzato mediante alimentazione e idratazione
con sondino naso-gastrico;

2) rinvia per le altre
disposizioni relative all’attuazione in concreto di tale misura alle
indicazioni di massima contenute nella parte conclusiva (punto 5) della sopra
estesa motivazione ;

3) manda la cancelleria per le
comunicazioni a tutte le parti del procedimento.

Così deciso in Milano, in data 25
giugno 2008

Il Consigliere relatore-estensore

Il Presidente

(Dott.
Filippo Lamanna)

(Dott.
Giuseppe Patrone)