Penale

Tuesday 15 March 2005

Il chirurgo non può lavarsi le mani del paziente dopo l’ operazione e, se lo affida a personale non qualificato, risponde in prima persona delle complicazioni post-operatorie

Il chirurgo non può lavarsi le mani del paziente dopo loperazione e, se lo affida a personale non qualificato, risponde in prima persona delle complicazioni post-operatorie

Cassazione Sezione quarta penale sentenza 1 dicembre 2004-11 marzo 2005, n. 9739

Presidente Coco estensore Calmieri

Ricorrenti Di Lo Nardo ed altri

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 3 luglio 2000 del tribunale di Bari in composizione monocratica, Dì Lonardo Antonio, Giudice Giuseppe, Loiacono Annalinda, Poto Dora e Catino Damiana venivano assolti con la formula perché il fatto non sussiste dal reato di cui agli articoli 113, 589 Cp loro ascritto perché per colpa, consistita in imprudenza, negligenza ed imperizia, cagionavano la morte di Serafino Michele, avvenuta in Bari il 7 novembre 1995, per arresto cardiacocircolatorio terminale in soggetto affetto da shok infettivo a ipavolemico ed in particolare il Giudice quale medico di guardia interdivisionale (dalle ore 20 del 6 novembre  1995 alle ore 8.00 del  07 novembre 1995) presso listituto Policattedra di chirurgia d’urgenza, chirurgia plastica e chirurgia ricostruttiva dell’Università di Bari-Policlinico, la Loiacono quale medico tirocinante nel reparto di chirurgia plastica (presente nel corso dello stesso turno), la Poto e la Catino quali infermiere professionali presso il citato reparto nello stesso turno, omettevano di controllare i parametri vitali del paziente Serafino Michele. Il ricoverato a seguito di ustioni di primo e secondo grado e sottoposto a due interventi chirurgici (il primo di escarectomia della regione posteriore delle cosce e riparo con innesti dermo-epidermici, effettuato il 4 ottobre 1995 ed il secondo di escarectomia tangenziale delle gambe e della regione lombare, riparata con innesti cutanei prelevati dagli arti superiori e dai glutei, eseguito il 6 novembre 1995 dalle ore 17.00 alle ore 21.00), che evidenziavano lo stato di shok, omettendo conseguentemente di intervenire tempestivamente e rendendo pertanto irreversibile la sindrome in atto che conduceva alla morte; il Di Lo nardo, quale chirurgo che aveva eseguito l’intervento del 6 novembre 1995, per aver posto in essere le condizioni che causarono l’esito infausto dell’intervento, omettendo tra l’altro. di chiedere una preventiva consulenza anestesiologica, e per aver omesso da un lato di tenere anch’egli sotto diretto controllo il decorso post operatorio del paziente, nonostante si fosse in presenza di un intervento delicato e di urgenza, e dall’altro, di vigilare affinchè il personale medico e peramedico del turno sopra indicato controllasse i parametri vitali del Serafino.

Il Tribunale, premesso che il capo di imputazione non spiegava neppure in che modo ed in quale misura l’omesso controllo dei parametri vitali avesse esplicato efficienza causale sull’evento, perveniva alla assoluzione dì tutti gli imputati in forza della considerazione che mancava qualsiasi prova del necessario nesso eziologico tra la condotta omissiva contestata a medici ed infermiere ed il decesso dei paziente affidato alle loro cure.

Avverso detta sentenza proponevano rituale e tempestivo appello il Pg ed il patrono delle parti civili costituite, svolgendo motivi di doglianza in parte comuni e chiedendo la riforme della impugnata sentenza.

Nel corso del battimento di secondo grado veniva disposta perizia medico legale intesa ad accertare quali erano state le cause della morte del Serafino e se tempestivi ed appropriati interventi terapeutici avrebbero potuto evitarne la morte; ì periti venivano autorizzati ad acquisire il “diario infermieristico della notte del decesso e dei giorni immediatamente precedenti e successivi che però non fu possibile ottenere. Acquisita la documentazione depositata dalle parti e sentiti i periti ed i consulenti di parte, la Corte di appello pronunciava sentenza con cui riconosceva la responsabilità di Di Lonardo Antonio, Giudice Giuseppe, Poto Dora e Catino Damiana, condannandoli, in concorso di attenuanti generiche, alla pena di mesi quattro di reclusione ciascuno, oltre che al risarcimento dei danni in favore delle parti civili alle quali assegnava una provvisionale ed al rimborso delle spese di lite. Assolveva Loiacono Annalinda per non aver commesso il fatto.

La Corte ricostruiva con precisione la sequenza degli avvenimenti che precedettero il decesso del Serafino ponendo maggiore attenzione a quanto si era verificato dopo il secondo intervento operatorio, atteso che

fino ad allora il trattamento del paziente era risultato regolare. Il Serafino, di anni 46 era stato ricoverato a

seguito dì un infortunio domestico nel quale riportò ustioni estese a circa li 50% della superficie corporea e

sottoposto in data 4 ottobre 1995 ad un primo intervento chirurgico, e ad un secondo, quello in esame, il 6 novembre 1995; a tale secondo intervento era giunto in condizioni sostanzialmente buone tanto che l’anestesista che lo visitò giudicò che lintervento avesse un grado di rischio inferiore a quello precedente. L’operazione ebbe luogo nel pomeriggio, con inizio alle 17.15 e fine alle 20.20 (ora della estubazione); tutto si svolse regolarmente ed all’esito l’anestesista ordino di eseguire un controllo radiografico del torace e gli esami urgenti post operatori

allarrivo in reparto:  controllo ed esami che non vnnero prontamente eseguiti. Il Di Lo nardo prescrivette un terapia farmacologia, tramite flebo, che non venne compiutamente somministrata (solo una flebo risulta essere stata effettuata e neanche completata); non venne effettuato alcun controllo del polso, pressione e temperatura.

Nel corso della notte le due donne più volte sollecitarono il personale paramedico, dapprima segnalando che il gocciolamento della flebo era lento, che dopo il precedente intervento era stata fatta una trasfusione ematica ed erano stati somministrati più liquidi per via venosa ed albumina, poi richiamando lattenzione sul fatto che il paziente accusava brividi, sudorazione e conati di vomito nonché sulla scarsezza di urine contenute nella sacca, rimasta immutata dal momento in cui il paziente era stato riportato in reparto; esse sollecitavano anche l’intervento di un medico, ma sempre ricevendo risposte volte ad assicurare la regolarità del decorso post operatorio e il suggerimento di aumentare le coperte (fino a giungere a otto) e di  inumidire le labbra del paziente. Verso le sei del mattino la moglie del Serafino misurava la temperatura corporea del marito, che ad una prima misurazione risultava dì 36 gradi e poco dopo di 35. Nel frattempo era giunta la Loiacono (medico tirocinante) che controllò il ritmo cardiaco del Serafino e cercò di tranquillizzare la donna, ma il paziente continuava a peggiorare fino a che verso le sette le infermiere del nuovo turno trasferirono il paziente nel reparto rianimazione; solo allora sopraggiunse il medico di_guardia interdivisionale, dott. Giudice. Dalla cartella del reparto rianimazione risulta che il paziente vi giunse collassato, cute pallida e sudata, polsi periferici e centrali non appezzabili, diuresi contratta, in coma, non  risponde agli stimoli verbali, risponde in maniera incoordinata agli stimoli nocicettive. Alle otto del mattino, nonostante i tentativi per rianimarlo, avveniva l’exitus del paziente per collasso cardiocircolatorio irreversibile.

La Corte dava atto di aver effettuato tale ricostruzione sulla base delle dichiarazioni della moglie del Serafino, che durante la notte era stata costantemente al suo fianco, e della teste Tarantini Rosetta, infermiera professionale, amica dì famiglia, che delle 21.30 del 6 novembre alle 5.45 circa della mattina successiva si era unita alla moglie nell’assistenza del Serafino, dichiarazioni ritenute pienamente attendibili sia per la loro precisione e concordanza, sia perchè confermate dalle annotazioni della cartella clinica redatta al momento del rícovero del Serafino in rianimazione, in assenza di un diario infermieristico, mai acquisito od esibito, nonostante l’espressa autorizzazione ottenuta dai periti non poteva dunque darsi credito a diverse allegazioni difensive.

I ricorsi

Antonio Di Lonardo denuncia vizio di motivazione in ordine alla affermazione di responsabilità basata solo

sul fatto di non aver impartito ferree disposizioni scritte o orale al personale medico o paramedico cui il paziente veniva affidato, in ordine alla gestione post operatoria. La stessa sentenza da atto che egli ha bene  adempiuto lintervento operatorio; di quanto avvenuto successivamente del deserto assistenziale riscontrato dalla sentenza egli non può e non deve essere chiamato a rispondere; la situazione critica per il paziente nasce nel reparto di terapia intensiva, dopo che il Di Lo nardo ha esaurito il suo compito e pertanto ladempimento del proprio obbligo di protezione; tutte le (eventuali) macroscopiche, a dire della corte, inadempienze verificatesi in quel reparto sono assolutamente autonome e da valutare autonomamente in quanto facenti capo a soggetti cui lobbligo di garanzia era stato trasferito, interrompendo il nesso di causalità rispetto a quanto verificatosi (correttamente) sino a quel momento; non vi è prova che le disposizioni sarebbero state osservate; la stessa Corte avrebbe riconosciuto che altri erano i soggetti che avevano il dovere di protezione e sorveglianza del paziente e cioè il personale del reparto di terapia intensiva dove il paziente era stato trasferito allesito dellintervento operatorio, reparto dove la sorveglianza avrebbe dovuto essere adeguata per definizione. Non sussiste dunque nesso causale tra il comportamento del Di Lo nardo e levento, atteso che se colpa vi fu questa è solo del personale del reparto. Peraltro nessun rapporto di causalità poteva dirsi regolarmente accertato in assenza di certezza sulla causa di morte.

Giudice Giuseppe denuncia violazione dì legge e manifesta illogicità di motivazione in quanto la Corte di appello – trascurando le conclusione dei periti che avevano ritenuto impossibile porre una affidabile diagnosi quanto a causa della morte, formulando al riguardo solo ipotesi ‑ ha ritenuto di poter addivenire ad una ricostruzione certa sulla sola base delle dichiarazioni della parte offesa, in particolare formulando nei confronti del Giudice un addebito colposo (omesso di controllare i parametri vitali del paziente e pertanto di intervenire tempestivamente rendendo pertanto irreversibile la sindrome in atto che conduceva il paziente a morte) che non teneva conto, da un lato, delle conclusioni della perizia secondo cui il Serafino al termine dellintervento operatorio non necessitava di un controllo continuo dei parametri vitali e, dall’altro, dei compiti del medico di guardia interdivisionale, quali specificati in un documento che la stesso Corte di appello aveva richiesto ma di cui non aveva fatto utilizzazione, compiti che sono soltanto dì intervento su richiesta; è pacifico viceversa che egli non venne mai chiamato dalle infermiere.

Damiana Catino denuncia illogicità o mancanza di motivazione per travisamento del fatto.

Elevata al rango di prova una mera ipotesi formulata dai periti (shock ipovolemico a seguito di un sanguinamento massivo da ulcera gastrica o intestinale) prendendo a riferimento solo i sintomi riferiti dalla parte civile Marinuzzi e dalla teste Tarantini; tuttavia le due testi non avrebbero dichiarato al dibattimento quello che la Corte di appello ritiene, ed in particolare che il Serafino presentava nausea, sudorazione, ingravescente astenia e conati di vomito, per cui macroscopico sarebbe il travisamento atteso che il secondo giudice ricostruisce le cause della morte solo sulla base di tali sintomi, sintomi che però potrebbero desumersi solo dall’esposto presentato dalla Marinuzzi e dalle sommarie informazioni rese dalla Tarantini, atti inutilizzabili al fini della prova. Anche l’accertamento relativo al quantitativo di urine e alle flebo effettuate sarebbe frutto di travisamento. In realtà, come gli stessi periti hanno riconosciuto, la causa della morte è rimasta ignota e da ciò deriva la impossibilità di effettuare il giudizio controfattuale; neppure è stato chiarito quale ulteriore intervento medico sarebbe stato idoneo ad impedire l’evento: laccertamento del nesso causale non soddisfa dunque quei requisiti di certezza posti in  luce dalla piú recente giurisprudenza.

Dora Poto denuncia difetto ed illogicità della motivazione

Le affermazioni secondo le quali il Serafino è stato abbandonato a sé stesso e le infermiere di turno si limitarono a tranquillizzare le due donne che lo assistevano, non facendo niente per verificare se le loro preoccupazioni avessero fondamento sarebbero smentite dalle risultanze processuali ed in particolare dal foglio termografico da cui risulta che la temperatura è stata misurata due volte e che la quantità di urina era di 300 mt; l’affermazione di essere in presenza dì una diuresi contratta stante l’alterazione della cifra 1 in 3 era solo una mera congettura dell’estensore della sentenza; la sentenza sarebbe illogica anche nel ritenere che il personale paramedico potesse riconoscere quei sintomi che debbono essere riconosciuti dal medico. Impossibilità di ritenere accertato il nesso di causalità non conoscendosi la causa della morte.

Al dibattimento sono state depositate conclusioni dell’Avv. Prof. Fabrizio Lemme per Di Lonardo, e conclusioni e nota spese delle parti civili costituite.

Motivi della decisione

I ricorsi, pur ritualmente proposti, sono infondati.

In via preliminare mette conto escludere la intervenuta prescrizione del reato per le sospensioni intervenute nelle more del giudizio, già computate alla decorsa udienza del 2 aprile 2004, innanzi a questa Suprema Corte, con provvedimento di sospensione, in detta udienza, del termine di prescrizione, infatti dette sospensioni, come quella determinata alla citata udienza del 2 aprile 2004, sono tutte imputabili alla difesa degli imputati, e determinano il non utile decorso del tempo – nella specifica  ottica della prescrizione secondo l’indirizzo di queste SS.UU. 1021/01, Cremonese.

Nel merito.

Sul ricorso del Di Leonardo Antonio, va innanzi tutto precisato che egli, nella qualità di capo della equipe operatoria, fu titolare di una posizione dì garanzia nell’ambito della quale, secondo quanto accertato dalle precedenti sentenze di merito, risolse imprudentemente di effettuare un intervento altamente specialistico (quale quello praticato al paziente Serafino Michele) nell’ultimo turno pomeridiano, e così nell’approssimarsi della notte:  tempo nel quale, secondo regola di comune esperienza, il presidio medico e paramedico, nei reparti ospedalieri (anche in quelli organizzati, a differenza di quello dì cui qui si discute, secondo criteri accettabili), è notevolmente meno allertabile alle emergenze che non nelle ore dei giorno.

Inoltre egli, concluso l’intervento, nel trasferire la sua posizione di garanzia all’unico medico di guardia che aveva sotto il proprio controllo il reparto di terapia intensiva, unitamente ad altri due reparti facenti capo allistituto policattedra che li raggruppava, non curò di fornire le necessarie indicazioni terapeutiche e dei controlli dei parametri vitali del paziente appena operato, né si preoccupò di seguire direttamente anche per interposta persona ‑ il decorso post operatorio‑ Si che il Serafino, abbandonato a sé stesso anche per il disinteresse sia dell’unico medico di guardia notturno, sia del personale paramedico del tutto professionalmente incapace ed assente, e sia persino della medico tirocinante dello specifico reparto ove il paziente era stato sottoposto ad intervento chirurgico, sì spense rapidamente a causa di un certo  shock ipovelmico seguito a sanguinamento massivo da ulcera gastrica o intestinale, e del probabile e conseguente instaurarsi di unulcera sanguinante forse anche seguita da perforazione.

Il ricorrente ha denunciato ladozione di un criterio probabilistico nella individuazione della causa dell’evento, e dunque una violazione dei canoni della più recente giurisprudenza dì questa Corte a SS.UU. (la pronuncia Franzese dei 30328/02). Per contro deve invece farsi rilevare che la Corte si è espressa nei seguenti termini: ≤ cause della morte sono state indicate. con apprezzabile grado di assoluta verosimiglianza, scientificamente ancorato ai dati clinici desunti dalla documentazione sanitaria acquisita. In uno shock ipovolemico a seguito di sanguinamento massivo da ulcera gastrica o intestinale”; ed ha anche indicato i dati oggettivi sui quali la detta ipotesi, formulata dai periti , è stata ritenuta fondata (quali le possibili cause dellinstaurarsi di tale ulcera). Gli stessi giudici hanno indicato il versamento endocavitario ed il conseguente shock ipovolemico, dato caratterizzato da assoluta fondatezza, partendo, tra l’altro, dai precedenti valori ottimali di ematocrito (35% prima dellintervento).

La mancata pratica della terapia indicata dall’operatore, consistente in 1500 cc di liquidi nel corso della notte, della terapia farmacologia prescritta, e degli altri presidi tempestivamente praticabili, solo che fossero stati svolti gli accertamenti urgenti” prescritti dall’anestesista, o ritenuti necessari dal controllo medico che in alcun modo può mancare nella fase post operatoria di un intervento talmente delicato, sarebbero stati tali da certamente evitare l’evento al quale si è pervenuti attraverso un iter che la Corte di merito ha descritto e qualificato come di totale abbandono. E ciò solo che limputato avesse eletto, al fine di trasferire la propria posizione di garanzia, in maniera adeguatamente oculata i soggetti che avrebbero dovuto seguire poi il decorso post operatorio del paziente, nella immediatezza del suo ritorno in reparto, e nelle seguenti ore della notte.

Può dunque affermarsi che, nel caso del dottor Di Lonardo il rimprovero di non aver usato il comportamento conseguente alla delicatissima posizione di garanzia che gli era propria, in vista della fase post operatoria, trasferendo tale posizione ad un reparto che egli sapeva (o avrebbe dovuto sapere) affidato solo a personale paramedico (indipendentemente dalla competenza diligenza e scrupolo che costoro possedessero) certamente non in grado di far fronte all’assistenza dì pazienti appena sottoposti ad interventi  di alta chirurgia, ed ad un medico di guardia per contratto disponibile solo dietro chiamata o a richiesta, è stato ineccepibilmente motivato.

Infatti, in tali condizioni, si può dire che egli ha abbandonato il paziente a sé stesso, avendo la piena consapevolezza di tale abbandono.

Che poi, da tale situazione di abbandono sia derivata la incredibile mancata pratica delle cure e somministrazioni di liquidi che lo stesso primario aveva ordinato, e che da questa sia derivato il progressivo deterioramento delle funzioni vitali del paziente che, avendo perduto già plasma durante l’intervento (1000 mi), ne continuava a perdere per sanguinamento da ulcera, sino a pervenire allo shock ipovolemico, è fatto che risulta chiaramente attraverso la ricostruzione della dinamica degli eventi caratterizzata dalla totale assenza di assistenza e controllo del malato, pur in presenza di numerose segnalazioni di dati allarmanti sul decorso post operatorio, da parte della moglie e dell’amica di famiglia che ne seguirono impotenti il percorso verso l’irreparabile. Ma di tali successive e gravi omissioni il ricorrente non può valersi quale scusante della propria condotta omissiva, in quanto vale qui la regola sempre affermato da questa Suprema Corte e secondo la quale chi versa in colpa non può invocare a propria scusante la condotta colposa altrui.

In materia, per altro, il condiviso orientamento di questa Suprema Corte è nel senso che gli operatori di una struttura sanitaria, medici e paramedici, sono tutti “ex lege portatori dì una posizione dì garanzia, espressione dell’obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex articolo 2 e 32 Costituzione nei confronti dei pazienti, la cui salute essi devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci lintegritá; e  l’obbligo di protezione perdura per l’intero tempo del turno di lavoro. (Cassazione penale, Sezione quarta, 9638/0, Troiano). Sì che correttamente la Corte di merito ha ritenuto che il ricorrente non abbia adempiuto al proprio obbligo nei termini di cui innanzi.

Sul nesso eziologico, ritiene questa Corte integrare sufficientemente l’obbligo della motivazione imposto al Giudice di merito la sua individuazione nella mancata esecuzione della radiografia del torace e degli accertamenti prescritti dall’anestesista, nella mancata indicazione delle necessarie disposizioni “scritte ed orali” al personale medico e paramedico cui il paziente veniva affidato nella fase post -operatoria, tanto che nulla di tutto ciò fu praticato al Serafino né nell’immediato e nemmeno nel corso di tutta la notte.

Da tali omessi controlli e terapie, conseguirono le insorgenze che condussero a morte il paziente. Omissioni imputabili innanzi di ogni altro al Dì Lonardo, a titolo di colpa integrata dal connotato della imprudenza e della negligenza. Ove tutto ciò non fosse stato omesso, deduce la impugnata sentenza, l’evento si sarebbe evitato.

La sentenza de qua ha inoltre bene evidenziato che, per altro, egli sapeva bene che – come prima già indicato – la sua posizione di garanzia non veniva trasmessa a personale sanitario idoneo a riceverla (e pertanto con culpa in eligendo), ed anzi che veniva trasferita praticamente a nessuno.

Tale condotta è stata ritenuta idonea a determinare nel paziente quella ulteriore perdita di liquido ematico che, sommata alla perdita subita durante lintervento, ed in assenza di reintegrazione di liquidi, di terapia alcuna e di controllo medico, ha determinato il progressivo scadimento delle complessive condizioni vitali del Serafino che, solo dopo un tempo individuato attorno alle sei e trenta del mattino (ora fino alla quale è stata ritenuta la possibilità di un intervento idoneo a salvare la vita del paziente) è divenuto irreversibile. Da qui la corretta contestazione della cooperazione colposa con il medico di guardia e con il personale infermieristico, i quali tutti hanno inserito una condotta parte, utile elemento ai fini della determinazione dell’evento; né sembra del tutto peregrina la critica alla sentenza, di qualche difensore, in sede di discussione, secondo cui non riesce comprensibile come sia stata assolta la specializzanda dott Loíacono, rimasta nel turno notturno a presidiare il reparto in relazione proprio ai compiti specifici del dott. Di Lonardo, presso il cui reparto la stessa svolgeva la sua attività, la quale, informata dalla moglie del paziente del peggioramento delle condizioni del marito, non si attivò personalmente con adeguate iniziative, nella sua qualità di medico, non chiamò il medico dì guardia, e nemmeno controllò il (non) normale funzionamento della flebo e la (mancata) assunzione delle cure anche farmacologiche prescritte dall’anestesista e dal suo stesso direttore al momento di rinviare il Serafino al reparto di terapia intensiva.

Quanto alla impugnazione proposta dal Di Lonardo, pertanto- assorbita in quanto precedentemente osservato ogni ulteriore considerazione critica formulata nell’interesse del ricorrente – il ricorso dove essere ritenuto infondato in ogni sua parte, al limite della inammissibilità, e deve essere pertanto integralmente rigettato.

Non diversa sorte può avere il ricorso del dottor Giudice.

Deve infatti qui ricordarsi l’insegnamento di questa Corte, riferito innanzi in ordine alla posizione del Dottor Di La nardo, secondo il quale (vale la pena ricordarlo) gli operatori di una struttura sanitaria, medici e paramedici, sono tutti “ex lege” portatori di una posizione di garanzia, espressione dell’obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex articolo 2 e 32 Costituzione, nei confronti dei pazienti, la cui salute devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci lintegrità – l’obbligo di protezione perdura per l’intero tempo del turno di lavoro. (Cassazione penale, Sezione quarta, 9638/00, Troiano)

Egli ritorna a porre in discussione, con il suo ricorso, la causa martis , a suo parere imperscrutabile per la (certo assai colpevole) mancata esecuzione dei dovuto esame autoptico sul cadavere‑

E tuttavia, come detto qui prima, in relazione alla posízìone dei Dottor Di Lonardo, tale causa della morte è stata indìviduata dalla Corte di merito in manìera dei tutto ìnequivoca e categoricamente addossata alla responsabilità degli imputati, fra i quali spicca il ricorrente per la totale sua assenza dì controllo ‑dovuto, a giudizio di questa Corte, nei termini e per le previsioni normatIve indìcate nella prima riferita pronuncia‑ ad inizio di turno e poi durante tutto il corso della notte. E ciò, indipendentemente dai suoi obblighi contrattuali.

Senza ritornare a valutate gli esiti peritalì poichè questa Corte non deve effettuare incursioni negli atti probatori, limitandosi solo ad esaminare gli atti impugnati e gli atti d’impugnazione onde valutare la coerenza logica dei primi, e la capacìtà di questi a resistere alla critiche di ricorso (Sezione Prima, 10 febbraio 2000, n. 94). basta osservare che, proprio in applicazìone dei principi costituzíonali indicati dalla pronuncia n. 963812000 di questa Corte, ed in considerazione, dunque, della tenutezza dei medico, cui era affidato fl reparto, di previamente informarsi quanto meno delle situazioni di ernergenza esistenti al momento della sua assunzione di responsabilità e di garanzia (e certamente tale era quella della persona offesa per le ripetute ragioni connesse alla delicatezza dei subito intervento ed alla necessità di ~re seguito con attenzione particolare nella delicafissima fase post‑operatona), il ricorso alla clausola contrattuale che avrebbe configurato il suo obbligo di ìntervento su chìamata (e poi, chiamata da parte di chi, nel caso di specìe?) è dei tutto privo dì rilievo, come la corte di merito ha ritenuto, pronunciando nei confronti di costui sentenza di condanna per le ragioni ivi spiegate secondo convincente, ragionevole e condivise motivazìone. n~j A pag. 21 di sentenza, infatti, la Corte di mefflo evidenzia come fu proprio a causa’ … dei notevole intervallo di tempo trascorso fra la comparsa di quei sintomi che avrebbero Imposto, se doverosamente rilevati, l’instaurazione dì una idonea terapia, ed il momento dell’írreversibile aggravornento verfflcatosi dopo le ore 6,30‑..” che ebbe a verificarsi l’evento, specie In considerazione dei fatto che l’essere il paziente affidato ad una struttura “dì altissimo livello operativo (istitulwpq!lcattedra di terapìa di urgenza dei Policlinico di Ban)” avrebbe dovuto consentire che, praticati nei tempi congruì gli interventi fármacologicì e chírurgìci appropriati, fosse evitato [’evento. E conclude: “non ricorre nel caso di specie. in base all’eAdenza disponibile, alcuna ìnce~a, alcun ragionevole dubbio sulla reale efficacía condizionante dell’offlissíone degli ímputati…

Nel suddetto modo appare dunque integrata, e in termini di ìpotesi controfattuale, e in termini di 1ormula logica” (SSUU Franzese, 2002), la responsabiNtà, fra gli albi, anche dei dottor Giudice.

Né vele il ricorso agli obblighi contrattuali, attesa I di rinmn7ín _nnw             medico (o

paramedico) ha ne!i‑CDnftob. dei pazienti a luì affidati, e che deve espletare nel rispetto dei princípì

costituzionali di cui agli artt 2 e 32, così come già più volte affermato da questa Suprema Corte (una

posizione di garanzia, espressione dell’obblìgo di solidarietà costituzionalmente ìmposto ex art 2 e 32 Cost.,

nei confronti deì pazientì, la cui saluta devono tutelare contro quaisívoglia pericolo che ne mìnaccí 11ntegrità;

l’obblígio di protezione perdura ‑come gìà precisato‑per l’intero tempo dei turno di lavoro. [Cassazione

penale, sez. IV, 2 marzo 2000, n. 9638, Troiano).

“Ui’ dunq e, non è questione di obbligo contrattuale di natura privatistica (a amministrafivistica), ma dell‑essem:venuto menojl dottor Giudice, al pari degli altri, alliesatto adempimento dei debito di garanzia dovuto nei confronti del Serafino, mediante la condotta che gli è stata contestata, e che è stata dì poi

1‑accertata nei termini di cui in sentenzo, esenti da qualsiasi vizio logico, oltre che anche genericamente giuridico, in funzione dì un iter argomentativo dei tutto ragionevole e convincente‑

InammissibUì sono poi le censure all’accertamento di fatto che i secondo Giudici hanno ritenuto, a segulto della considerazione degli esiti peritalí; e questo per le ragioni di cui aiNnsegnamento costante e condíviso di questa s~ Corte, a mente dei quale nel giudizio di legittimità non è deducíbíie il vizio di travisamento dei fatto inteso come Ipotesi di contrasto fra le argomentazioni dei contesto nmtìvazíonale e gli atti pnx:essuali, sicchè il controllo demandato alla Corte di Cassazione … non può esplicarsi in indagini extrate~íi dirette a verificare se i risultatI dellinterpretazione delle prove, costkmntí i dati fiandanti della decisione, siano effettivamente corríspondend alle acquisizionì probatorle risultanti dagli atti dei processo (Sezìone Prima, 10 febbraío 2000, n. 94JNé scusante è che gli Infermieri non abbìano mai richi~, durante la notte, il suo Intervento, essendo dovere e scrupolo di un medico, cui è affidato un reparto (specialmente quando si tratti di una unità dai compltì evidentemente di speciale deikatezza, quale quella di terapia Intensiva in questione)

rquello di prendere immediata visione, raccogliendo la posizione di garanzia che gli viene trWerIta al momento della sua presa in carico dei reparto, delle specifiche situazìoni degil ammalati, a partire dalle situazIoni più delicate (e non se ne Immagina una più crítca di quella presenUM dal Serafino, In fase immediatamente post operatoria a seguito della storia chìrurgìCa dì cui In sentenza), e dunque assícuran~ della corretta Instaurazione delle terapie prescritte o ritenuta necessarie, seguendo di persona l’evolversi della situazione fino al cessare della condizione di rischio.

Obbligo e scrupolo cui il dottor Gludìce ‑come affermatn ìn sentenza‑ è stato ben lontano dai coffispondere‑

Per quanto detto, ed assorbita ogni aRTa considerazione, la infondatezza dei ricorso conduce alla deciaratorta dì rigetto dello stesso.

A non diversa soluzione deve pervenirsi a seguito dell’esarne dei m~ presentati dalle infermiere P*M e Catiino.

Anche costoro hanno Contestato l’addebitabilìtà di ogni responSabillItà a loro, attesa la incertezza ìn ordine alla cauw mortis dei paziente, per la mancata perizia autoptica.

Tuttavia, l’accertamento svolto In sentenza sulla base delle perizIe fondate sulla ricostruzione storica dei fátto, non consente alcuna rivisitaMne: del gìudizìo di fatto che, per le ragioni qui prima dette e ripetute, non sì presta a censure in ordine all’ordito argomentativo dello specifico dedsum.

Certo è che Il Serafino è morto perché non solo ’non tempestívamente« ma mai, durante l’intero arco della notte (quasi dodici ore dal suo rientro In reparto dopo l’intervento chirurgico, e fino al momento In cui le sue

owndizioni fisiche sono lrrímedíabílmente precipitate) costoro raccolsero, come era loro 2Tqilso dovere, le

preoccupazioni reiteratamente ed In manìera allarmata prospettate dalla moglie dei pazíente e

d’all’infermiera,amica di famiglia, che insieme a ~1 trascorse quelle ore attendendo inutilmente che

[qualcuno comprendesse ciò che a loro appariva ‑e non vi era certo necessità di spedflca competenza‑ il gravissimo evolversi della situazione.

La Corte ha sottolineato, attraverso il‑ riferimento alle pa :íle_~storo (ínnanzì alla esposizione dei sintomi su cui è inutile tomare, tanto essi sono chiari anche al di là di qualunque più elernentare nozione di esperienza medica o paramedica) quale sia stata la condizione di totale assenza di qualsiasi apporto venuto da detto personale, se non l’aver fornito otto coperte per fár fronte alla crisi di iPoterm(a di una persona, il Serafino. che si stava tDWImente dissanguando e disidratando, Nemmeno hanno avvertito lo scrupolo di chiamare il dottor Giuffice che intanto stazionava nella propria stanza, secondo contratto.

In particolare la Poto, con il suo ricorso, percorre criticamente la ricostruzione  degli eventi delle ore notturne, in chiave alternativa rispetto a quella di cui in sentenza. Ma ciò non è consentito nella presente sede dì legittimità, per la ben nota preclusione rispetto ad ogni rivisitazione del merito (già qui prima evidenziata) a condizione che l’apparato argomentativo non presenti incongruità, così come non ne presenta la sentenza sottoposta dunque a non puntuale ed utile critica,  per quanto fin qui evidenziato.

Altrettanto fa la Catino, sempre prendendo lo spunto dalla incertezza sulle cause della morte del paziente (incertezza che la sentenza non manifesta), per denunciare quindi mancanza di nesso causale, difetto di prova in ordine alla responsabilità, vizio di motivazione e travisamento del fatto.

Ma, posto che sul nesso di causalità – anche con specifico riferimento alla posizione di costei –  la Corte di merito ha detto in maniera ineccepibile (e la “anonima correzione meglio sarebbe parlare di falsificazione della cifra relativa alla quantità di urine contenute nella sacca al momento del precipitoso ed inutile trasferimento del paziente al reparto rianimazione, praticamente già privo di vita, è ulteriore prova della grave omissione posta in essere dal personale infermieristico e del tentativo di “ripararvi” in chiave difensiva), ogni altra alternativa lettura degli elementi probatori valutati (o anche non valutati perché implicitamente ritenuti inconducenti) non può costituire argomento dimpugnazione in sede di legittimità.

Anche tale ricorso, prevalentemente in fatto, non può trovare latteso riscontro censorio, e deve rigettato anche a ragione della sua pressoché manifesta infondatezza.

Al rigetto dei ricorsi di tutti gli imputati segue la condanna di costoro, in solido, alle spese.

PQM

Visti gli articoli  615 e 616 Cpp, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali. Li condanna altresì al pagamento in solido delle spese civili del giudizio di Cassazione in favore delle parti civili Marinazzi Anna Maria, Serafino Pierpaolo e Serafino Caterina, liquidandole in complessivi euro 6.000,00 (comprese le spese).