Penale

Friday 29 October 2004

I poteri del giudice civile in presenza di giudicato penale. Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 28 settembre 2004, n. 19387

I poteri del giudice civile in presenza di
giudicato penale

Corte di cassazione – Sezione III
civile – Sentenza 28 settembre 2004, n. 19387

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 4 febbraio 1993 B.
Gina conveniva

dinanzi al Tribunale di Forlì F. Vanna, F. Silvano
e la S.p.a. Fondiaria, nella rispettiva qualità di conducente,
proprietario ed assicuratrice dell’auto che l’aveva investita, chiedendone la
condanna in solido al risarcimento dei danni derivanti a seguito del sinistro
stradale dell’8 novembre 1991 per responsabilità esclusiva della conducente
dell’auto. A sostegno della domanda deduceva:

1) il giorno 8 novembre 1991, verso
le ore 23, mentre percorreva, in Meldola, a piedi via Gorizia, con direzione di marcia via Trieste, che forma
un incrocio T con la predetta strada, dopo aver ispezionato il crocevia per
raggiungere il cancello del cantiere edile di proprietà del marito ed aver
afferrato la maniglia per aprirlo, era stata investita dalla vettura condotta
da F. Vanna che percorreva via Trieste in direzione
centro città, a velocità sostenuta;

2) sospinta in avanti per vari metri,
era caduta battendo la testa e riportando gravi lesioni, da cui erano residuati
postumi permanenti.

La
S.p.a. Fondiaria contestava la dinamica del sinistro perché la F., mentre procedeva a
velocità moderata, si era vista attraversare, improvvisamente e di corsa, la
strada da sinistra a destra, essendo la
B. sbucata dalla recinzione della casa all’angolo tra via
Trieste e via Gorizia e quindi, non avendo potuto avvistarla tempestivamente,
malgrado la manovra di emergenza, l’urto sulla semicarreggiata di destra era
stato inevitabile. Aggiungeva che su via Trieste non
vi erano né banchine né marciapiedi e che il cancello a cui la B. era diretta affacciava
direttamente sulla carreggiata. Sul quantum richiesto ne contestava
l’eccessività e concludeva per il rigetto della
domanda.

Il Tribunale di Forlì, con sentenza
del 12 marzo 1998, accoglieva la domanda e condannava i convenuti, in solido, a
pagare all’attrice lire 189.140.650, oltre rivalutazione monetaria secondo gli
indici Istat, ed interessi legali.

Interponevano appello i soccombenti
contestando la responsabilità esclusiva della F., ritenuta sulla base della
sentenza penale del Pretore di Forlì, fondata sull’eccessiva velocità dalla
stessa tenuta, senza valutare la colpa della B., che aveva dichiarato di aver
avvistato la macchina in lontananza e tuttavia aveva scelto di rischiare ad
attraversare malgrado l’ora notturna, e la testimonianza della Moroni, trasportata sulla vettura, che aveva rettificato in
sede civile la testimonianza resa in sede penale – nella quale aveva affermato
che la macchina si era fermata a 50-100 metri dal punto d’urto, ragion per cui
il giudice penale aveva ritenuto l’eccessiva velocità della F.
– ed aveva confermato la dichiarazione di quest’ultima,
secondo la quale la velocità non superava i 30/40 Km orari, come era desumibile
dallo schizzo planimetrico redatto dai verbalizzanti. Pertanto gli appellanti concludevano per il rigetto della domanda attrice ed in
subordine per la declaratoria di colpa grave della B.. riconoscendo la
responsabilità della F. soltanto ai sensi dell’art.
2054, comma 1, c.c.

L’appellata eccepiva la carenza di legittimazione processuale del procuratore della S.p.a. La
Fondiaria, Angelo Bennici, in
quanto in primo grado si era costituito Fausto Poli, sì che gli appellanti
dovevano provare la revoca della procura a costui ed il conferimento del nuovo
mandato al difensore da parte del Bennici nella
qualità di legale rappresentante della società, altrimenti la citazione in
appello era nulla. Rilevava altresì la mancanza di autentica
della firma del Bennici e concludeva per
l’inammissibilità ed il rigetto dell’appello.

Interponeva appello incidentale la
B..

Con sentenza del 13 marzo 2001 la Corte di appello
di Bologna accoglieva parzialmente l’appello principale premettendo:

1) dall’atto notarile del 22 aprile
1998 risultava che il consiglio di amministrazione
della S.p.a. La Fondiaria, in data 16 settembre 1997, aveva
conferito a Bennici Angelo il potere di rilasciare la
procura alle liti e quindi l’atto di appello era valido;

2) la mancanza di autentica
della firma di questi non determinava la nullità dell’atto;

3) il giudice di primo grado, traendo
spunto da un’erronea dichiarazione della teste Moroni
in sede penale, dalla stessa peraltro precisata in sede civile, sì che si imponeva il confronto tra quella dichiarazione e lo
schizzo planimetrico redatto dai verbalizzanti, da cui si evinceva la velocità
moderata tenuta dalla F. aveva addebitato a costei
l’esclusiva responsabilità dell’incidente, non tenendo conto del comportamento
della B. e che alla conducente predetta non era stata contestata la violazione
dell’art. 102 c.d.s.;

4) peraltro la condotta della F. era stata imperita o distratta perché la recinzione
della casa d’angolo da cui era apparsa la
B. non era di altezza tale da
occultarne completamente la sagoma e quindi, proprio perché non procedeva a
velocità eccessiva, avrebbe dovuto avvistarla, atteso che la strada era illuminata
e che l’attraversamento era avvenuto da sinistra a destra rispetto alla sua
direzione di marcia; pertanto la corresponsabilità di entrambe era da ritenere
nella misura del 50%;

5) infatti
anche la condotta della B. era stata imprudente, in quanto dal rapporto e dalla
deposizione dei verbalizzanti risultava che era stata scaraventata sul ciglio
erboso a causa dell’urto, e quindi non vi si trovava già al momento
dell’investimento, né perciò aveva completato l’attraversamento della strada,
come aveva sostenuto, mentre d’altro canto la stessa aveva dichiarato di aver
avvistato l’autovettura, sì che aveva erroneamente calcolato la distanza di
questa ed aveva attraversato a suo rischio e pericolo, senza concedere la
precedenza all’auto, in violazione dell’art. 134, comma 6, previgente
c.d.s., e 190, comma 5, vigente c.d.s.;

6) la liquidazione del danno
biologico per invalidità temporanea e permanente era congrua, essendo anche
superiore alle tabelle in uso al Tribunale di Bologna, mentre il c.t.u. aveva precisato che non vi era stata una
compromissione della capacità reddituale di
casalinga, bensì una maggior usura e disagio nell’espletamento della relativa
attività, e per questo il danno biologico era stato liquidato in detta misura.

Avverso questa sentenza ricorre per Cassazione B. Gina con
nove motivi di ricorso, cui resistono F. Vanna,
Silvano e la S.p.a. La
Fondiaria. La ricorrente ha altresì depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la B., deduce: "Violazione dell’art. 75 c.p.c.
e contraddittoria ed insufficiente statuizione e motivazione sul punto ex art.
360, nn. 3 e 5, c.p.c.".

Gli appellanti dovevano provare le
ragioni della revoca della rappresentanza della
Fondiaria a Fausto Poli, conferitagli in primo grado, e che Angelo Bennici era realmente il legale rappresentante della
società, così avendo potuto conferire valido mandato al difensore. In mancanza
sussisteva la carenza di legittimazione processuale e
la nullità insanabile dell’appello della Fondiaria, con conseguente passaggio
in giudicato della sentenza di primo grado. La procura notarile al Bennici in data 16 settembre 1997 era stata rilasciata non
da un funzionario della Fondiaria, bensì della Milano assicurazioni, impresa
diversa, e quindi era invalida per il conferimento del mandato al difensore ad
appellare. Soltanto all’udienza del 17 febbraio 1999 la controparte aveva
prodotto copia dell’atto notarile Rogantini, ma tale produzione è irrilevante perché il termine breve
per impugnare la sentenza di primo grado, notificata il 4 maggio 1998, era
scaduto, mentre d’altro canto tale produzione provava che il Bennici al momento dell’appello non aveva i poteri per
rappresentare la Fondiaria
essendo un semplice direttore il quale, in ogni caso, poteva concludere
transazioni e conferire procura alle liti non oltre trecento milioni di lire,
mentre l’importo liquidato dal giudice di primo grado superava lire
433.000.000, come desumibile dal precetto intimato. Anche le deleghe ed i
mandati dei F. sono state
rilasciate in modo irrituale e viziante la procura.

Il motivo è infondato.

1.1. La denuncia di un vizio
attinente al presupposto della valida instaurazione del rapporto processuale
determina l’esame degli atti.

Preliminarmente è da respingere
l’eccezione di decadenza della Fondiaria dalla facoltà di provare la sua
legittimazione processuale dopo che le era stata
contestata dalla B., in base al principio secondo il quale si deve presumere
che la persona che agisce in nome e per conto di un altro soggetto sia
investita del relativo potere – e perciò se il giudice, non sollecitato da
apposita contestazione di parte, non ha ritenuto di dover richiedere alla
controparte di dare dimostrazione dei poteri che la persona, che ha agito per
la società, ha dichiarato di poter esercitare, la sentenza all’esito emessa non
è viziata da violazione di norme sul procedimento – con la conseguenza che la
relativa prova documentale non solo non è assoggettata alle preclusioni di
ordine cronologico riguardanti l’espletamento delle prove costituende, ma può
esser fornita in ogni stato e grado del giudizio, con il solo limite della
formazione del giudicato sulla relativa questione.

1.2. Dalla procura notarile del 22
aprile 1998 conferita dal dott. Gavazzi, nella qualità di
amministratore delegato e rappresentante legale della società Fondiaria
assicurazioni S.p.a., al dott. Bennici,
funzionario per la Direzione
legale sinistri, risulta – come correttamente rilevato dai giudici di appello –
la legitimatio ad processum
di costui in quanto titolare, per effetto della delibera del consiglio di
amministrazione di detta società del 16 settembre 1997 – menzionata nella
procura – dei poteri (punto 11) di rappresentanza processuale attiva e passiva
e di conferimento di procura alle liti (punto 11-bis).

1.3. Circa poi il limite oggettivo
entro il quale era stata conferita al Bennici la rappresentanza processuale della Fondiaria – e
cioè fino a lire 300.000.000 – a fronte della somma per la quale le era stato
intimato il pagamento (lire 433.000.000), da un lato è da rilevare che
l’indicato precetto, contenente il calcolo del capitale e degli accessori al
cui pagamento era stata condannata, le è stato notificato in data 19 maggio
1998, dopo l’appello della medesima Fondiaria, e prodotto all’udienza del 12
aprile 2000; dall’altro che, in applicazione del principio surrichiamato,
tale contestazione doveva esser formulata non oltre la udienza successiva a
quella in cui la predetta aveva prodotto la procura, in difetto dovendosi
ritenere sanata per acquiescenza ai sensi dell’art 157 c.p.c.,
e perciò detto profilo di contestazione è ora inammissibile.

1.4. Altrettanto è
a dirsi per le generiche doglianze concernenti pretesi vizi della
procura al difensore conferita dai F. in secondo
grado.

2. Con il secondo motivo
la ricorrente deduce: "Violazione dell’art. 83 c.p.c. ex artt. 360, n. 3 e 5, c.p.c. per vulnerazione
della norma e contraddittoria motivazione".

La procura era nulla anche per
mancanza di certificazione dell’autenticità della
firma del preteso rappresentante legale da parte del suo difensore (art. 83
c.p.c.), facente prova fino a querela di falso, ed insostituibile.

Il motivo è infondato.

Risulta per tabulas
che l’avvocato Giuseppe Vaccari ha apposto la sua
firma a margine dell’atto di appello sotto quella del dott. Bennici,
che gli ha conferito il mandato nella qualità di rappresentante della
Fondiaria. Pertanto è pienamente soddisfatto il
requisito della certificazione dell’autografia della sottoscrizione della
parte, stabilito dagli artt. 83 e 125 c.p.c., pur in mancanza della dicitura "per autentica",
non potendo avere altro significato la sottoscrizione del difensore
immediatamente sottostante a quella della parte conferentegli
il mandato.

3. Con il terzo motivo
la ricorrente deduce: "Violazione dell’art. 651 c.p.p. che, se
rettamente applicato, avrebbe dovuto condurre a riconoscere integralmente
responsabile del sinistro de quo F. Vanna, con
conseguente condanna della predetta, del responsabile F.
Silvano e dell’istituto assicuratore al risarcimento
integrale dei danni patiti da B. Cina e vulnerazione
dell’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. per
contraddittorietà della motivazione".

Malgrado tutti i
giudici penali abbiano ritenuto incensurabile la condotta della B., la sentenza impugnata è stata di
diverso avviso, violando in tal modo manifestamente l’art. 651 c.p.p. a norma
del quale la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata a seguito di
dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per
il risarcimento del danno quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità
penale, ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Il Pretore penale
aveva ben evidenziato la colpa esclusiva della F. e
la sua imperizia ed imprudenza nella guida, causa dell’investimento della B.,
avvenuto allorché costei aveva quasi terminato l’attraversamento della
carreggiata. La
Corte felsinea, dinanzi alla quale
l’appellante F. aveva impugnato la sentenza di primo
grado chiedendo di accertare la prevalente colpa della B., aveva
ribadito la responsabilità esclusiva dell’appellante desumendola dal punto
d’urto – poche decine di centimetri dal lato destro della strada – e dalla
mancanza di tracce di frenata sulla stessa, il che significava che la F.
non si era accorta dell’attraversamento della B. – quasi sessantenne all’epoca
del sinistro, ragion per cui non poteva procedere di corsa – né era stata in
grado di attuare una manovra di emergenza spostandosi sul lato sinistro,
malgrado la carreggiata fosse libera da veicoli in senso contrario, ovvero di
fermarsi, il che significava che la velocità non poteva esser moderata. Il
ricorso per Cassazione avverso questa sentenza penale era stato respinto.
Quindi la sentenza di appello civile aveva violato il
giudicato penale.

4. Con il quarto motivo di ricorso la ricorrente deduce: "Violazione dell’art. 651
c.p.p. in relazione quantomeno alla posizione dell’imputata e condannata F. Vanna in relazione all’art. 360, nn.
3 e 5, c.p.c. essendovi vulnerazione
di legge e contraddittorietà della motivazione".

A norma dell’art. 651 c.p.p. almeno la F.
doveva esser condannata all’integrale risarcimento dei danni civili perché la
sentenza penale aveva accertato la sua responsabilità esclusiva nella
causazione dello incidente e perciò la Corte di appello di Bologna
non poteva riesaminare il merito al fine di distribuire la colpa tra
danneggiante e danneggiata.

I motivi, che possono trattarsi
congiuntamente, sono fondati nei limiti di seguito indicati.

4.1. L’art. 651 c.p.p., norma che disciplina l’efficacia della sentenza penale di
condanna nel giudizio civile per il risarcimento del danno, dispone che la
sentenza irrevocabile di condanna, pronunciata in dibattimento, ha efficacia di
giudicato nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato
citato ovvero sia intervenuto nel processo penale "quanto all’accertamento
della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale ed all’affermazione che
l’imputato lo ha commesso".

Per "fatto" accertato dal
giudice penale deve intendersi il nucleo oggettivo del reato nella sua
materialità fenomenica, costituita dall’accadimento oggettivo, accertato dal
giudice penale, configurato dalla condotta, evento e nesso di causalità
materiale tra l’una e l’altro (fatto principale), e le circostanze di tempo,
luogo e modi di svolgimento di esso. Ne consegue che,
mentre nessun’efficacia vincolante esplica
nel giudizio civile il giudizio penale – e cioè l’apprezzamento e la
valutazione di tali elementi – la ricostruzione storico-dinamica di essi è
invece preclusiva di un nuovo accertamento da parte del giudice civile, che non
può procedere ad una diversa ed autonoma ricostruzione dell’episodio. Egli può
invece indagare su altre modalità del fatto non considerate dal giudice penale
ai fini del giudizio a lui demandato, come ad esempio il comportamento della
parte lesa, negli aspetti non esaminati dal giudice penale, ed incidenti
sull’apporto causale nella produzione dell’evento. Altresì rimesso
all’accertamento ed alla valutazione del giudice civile è l’elemento soggettivo
del fatto, escluso dalla nozione obbiettiva di esso, e
non comprensibile nella nozione di "illiceità penale" di cui all’art.
651 c.p.p.

4.2. I giudici di appello,
nel valutare il grado della colpa e la misura dell’attribuzione dell’evento
alla condotta della conducente F. Vanna, non si sono
attenuti a tali principi.

Gli elementi di fatto vincolanti
accertati dal giudice penale di primo grado – emergenti dal terzo motivo di
ricorso, in cui è trascritta la sentenza del Pretore penale di Forlì (1012/95)
– sono i seguenti:

1) l’attraversamento della
carreggiata quasi terminato dalla B. quando fu investita;

2) l’arresto del veicolo condotto
dalla F. a 50-100 mt. dal
punto d’urto, senza tracce di frenata;

3) il luogo –
centro urbano – ed il tempo – orario notturno (ore 23) – dell’incidente;

4) la condotta di guida veloce, in
relazione anche alle circostanze di tempo e luogo, che aveva impedito alla F. di avvistare la
B. e di compiere una manovra di emergenza
e che perciò era stata causa dell’investimento.

La
Corte di appello penale (sentenza 1831/1998), nel confermare la
sentenza di primo grado, ha aggiunto come ulteriori elementi:

1) la strada era larga e non
sopravvenivano veicoli in senso contrario;

2) la B., al momento dell’investimento, era a poche
decine di centimetri di distanza dal ciglio di destra della strada;

3) il punto di collisione avvenne con
la parte anteriore destra (frammenti dei fari) dell’auto. Questo il quadro costituente il fatto, passato in giudicato.

4.3. I giudici di appello,
nel valutare la condotta della F. ai fini
dell’accertamento del suo apporto causale nella determinazione dell’incidente e
quindi della misura della sua colpa, l’hanno disancorata da alcuni di tali dati
di fatto obbiettivi. Infatti hanno accertato una
condotta di guida della stessa non veloce attraverso una diversa ricostruzione
del dato costituito dalla distanza tra il punto d’urto e quello di arresto
dell’auto (valorizzando a tal fine lo schizzo planimetrico dei verbalizzanti,
redatto sul presupposto del non spostamento dell’auto dopo l’incidente,
circostanza riferita dalla Moroni, cugina trasportata
sull’auto della F., e la testimonianza resa in sede civile dalla medesima, non
coincidente con quella resa in sede penale sulla predetta circostanza e ritenendo
inverosimile la circostanza che la
B. avesse quasi completamente terminato l’attraversamento
della strada allorché fu investita).

4.4. Sussiste pertanto la violazione
dell’art. 651 c.p.p. per quanto attiene alla F., condannata nel processo penale,
e pertanto la sentenza della Corte di appello di Bologna va cassata in
relazione alla misura della corresponsabilità della medesima, che dovrà esser
riesaminata alla luce del seguente principio di diritto: "nel giudizio
civile per il risarcimento del danno il fatto accertato dal giudice penale con
sentenza irrevocabile di condanna ha efficacia vincolante nei confronti
dell’imputato-danneggiante per quanto attiene alla sua realtà fenomenica e
pertanto la ricostruzione della dinamica di un incidente, in relazione alle
modalità obbiettive della condotta (commissiva od
omissiva) del medesimo, nonché alle circostanze di tempo e luogo accertate dal
giudice penale, non può esser diversamente ricostruita, ma soltanto
valutata".

4.5. Per quanto attiene invece ai corresponsabili
civili – F. Silvano, proprietario dell’auto (comma 3
dell’art. 2054 c.c.), e la S.p.a. La Fondiaria assicurazioni
(art. 18 della l. 990/1969), essi non hanno partecipato al giudizio penale e
pertanto il giudice civile non aveva vincoli, per effetto
dell’inequivocabile disposizione letterale dello stesso art. 651 c.p.p. –
"nei confronti del responsabile civile che sia stato citato o che sia
intervenuto nel processo penale" – nella valutazione critica delle
risultanze emerse in sede penale. Ed infatti, mentre
per il previgente art. 27 c.p.p. (omologo del vigente
art. 651 c.p.p.), dopo la sentenza della Corte costituzionale 99/1973, era
sufficiente, per il riconoscimento dell’autorità di giudicato della sentenza
penale anche nei confronti del responsabile civile rimasto estraneo al relativo
processo, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni od il
risarcimento del danno, che egli fosse stato posto in condizione giuridica e di
fatto di parteciparvi – e cioè, in base alle sentenze della Corte
costituzionale 55/1971 e 165/1975, bastava che egli avesse ricevuto le
comunicazioni previste dall’art. 304 c.p.p. nel testo modificato dall’art. 8 l. 932/1969: Cassazione
8409/1996) – per il legislatore del nuovo c.p.p. del 1988 il responsabile civile
che non sia stato citato o non sia intervenuto nel processo penale non può
subire alcun pregiudizio giuridico dalla sentenza penale di condanna del
soggetto del cui fatto illecito egli debba civilmente rispondere. Ne deriva che
nei loro confronti gli accertamenti di fatto effettuati dal giudice penale
possono esser autonomamente valutati.

Nei suesposti termini vanno quindi
accolti i motivi esaminati.

5. Con il quinto motivo
la ricorrente deduce: "Violazione dell’art. 102 c.d.s.
(del 1959) e manifesta contraddittorietà della motivazione sul punto in quanto
insufficiente e contraddittoria ex art. 360, nn. 3 e
5, c.p.c.".

La motivazione è insufficiente e
contraddittoria là dove sminuisce la deposizione resa dalla teste Moroni, cugina dell’imputata, non prestando fede alla
circostanza da essa riferita della distanza tra
l’arresto della macchina ed il punto d’urto – 50-100 metri – e al contempo
nel prestar fede alla sua testimonianza nell’aver dichiarato che l’auto dopo
l’urto non era stata spostata, né tale vizio di motivazione è superato dallo
schizzo planimetrico dei verbalizzanti perché redatto proprio su questo
presupposto. La contraddizione della sentenza impugnata è ancor più evidente
perché nessuna teste può scambiare la distanza di 7-8 metri, quale ritenuta dai
giudici di appello, con 50-100 metri, come
dichiarato in sede penale dalla Moroni. Dunque la ritenuta velocità di 30-40 Km/h, in accoglimento
delle affermazioni della F., disattese dal giudice penale, senza tener conto
che la B.
ha dichiarato che l’auto era lontana allorché iniziò ad attraversare, è erronea
ed illogica perché invece era da inferire la velocità non moderata della guida.

6. Con il sesto motivo la ricorrente
deduce: "Falsa applicazione degli art. 134/6 c.d.s.
del 1959 e dell’art. 190/5 c.d.s. del 1992 nonché insufficiente e contraddittoria motivazione circa un
punto decisivo della controversia: art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.".

Il travisamento dei fatti da parte
dei giudici di appello emerge non solo dal non aver
considerato che la B.
aveva quasi completato l’attraversamento allorché fu investita, ma anche
dall’aver considerato che alla F. non fu contestato
l’eccesso di velocità, senza al contempo considerare che nemmeno alla B. fu
contestata alcuna violazione del codice della strada e dunque la
corresponsabilità di quest’ultima è illogica e
contraddittoria perché la stessa circostanza – non elevazione di
contravvenzione – viene considerata diversamente per la danneggiante e per la
danneggiata. Sia dal rapporto che dalla testimonianza confermativa di esso resa dai verbalizzanti risultava che la B. si trovava sul ciglio
erboso, distante 50
centimetri dal cancello ove la stessa era diretta.
Perciò il punto di investimento era dopo
l’attraversamento della carreggiata, avviato allorché l’auto era lontana e
senza che la B.
potesse prevedere che la F. non l’avvistasse e non frenasse, e
quindi non sussisteva alcuna violazione dell’art. 134 c.d.s.,
come invece erroneamente ritenuto dalla Corte di appello.

I motivi, da trattare congiuntamente
perché connessi, sono assorbiti dalle considerazioni espresse nell’accoglimento
di quelli che precedono perché il nuovo accertamento della responsabilità della
F., tenendo fermi i dati di fatto accertati dal giudice penale, comporterà
comunque una nuova valutazione critica del complessivo materiale probatorio.

7. Con il settimo motivo
la ricorrente deduce: "Violazione degli artt. 2043-2056-2057 c.c. nonché 32 Cost. e vulnerazione
dell’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. essendo anche
contraddittoria la motivazione".

Per lesioni di particolare rilevanza
le tabelle non sono utilizzabili perché non personalizzano il pregiudizio
derivante dal danno biologico.

Il motivo va respinto.

La censura, per quanto attiene alla
liquidazione – equitativa – del danno alla salute, anche grave, calcolato sul
punto di invalidità, ottenuto dalla media dei
precedenti giudiziari, è infondata, essendo invece tale criterio senz’altro
adottabile dal giudice di merito e pertanto in sé non censurabile in sede di
legittimità (tra le più recenti, Cassazione 8169/2003). Per quanto attiene
invece all’omessa personalizzazione del predetto danno
la censura è inammissibile perché si limita a richiamare la necessità di tale
adattamento al caso concreto, senza neppure indicare quale aspetto, censurato in
appello, non sia stato considerato o lo sia stato inadeguatamente e con quale
incidenza sul risarcimento totale riconosciuto.

8. Con l’ottavo motivo
la B. deduce:
"Violazione degli artt. 1223-1226-2043-2056-2057 c.c. nonché
dell’art. 4 l.
39/1977 e dei principi giurisprudenziali dettati dalla Suprema Corte di piena
risarcibilità del danno patrimoniale da incapacità temporanea e permanente
della casalinga: il lucro cessante ex art. 360, nn. 3
e 5, c.p.c.".

Il marito ed il figlio avevano
dichiarato che l’infortunata non riusciva più a svolgere le faccende domestiche
e tale danno, da rapportare all’inabilità temporanea assoluta (190 giorni) e
parziale (40 giorni), nonché ai postumi permanenti,
poteva esser quantificato o con riferimento al triplo della pensione sociale o
nella somma da corrispondere ad una collaboratrice domestica. Anche il c.t.u., contrariamente a quanto
assume la sentenza, aveva riconosciuto che il danno permanente incideva
sull’espletamento dell’attività di casalinga anche se poi aveva indicato, come
criterio per liquidare la maggiore usura e disagio per la B., priva di reddito
reale, il cosiddetto punto pesante – 2/3 del valore indicato per danno
biologico – il che, se fosse stato applicato, avrebbe comportato il
riconoscimento della somma non inferiore a lire 120.000.000, necessaria anche
per sopperire alle necessità di assistenza in futuro per la predetta. Quindi,
applicando soltanto il punto tabellare, non era stato
considerato il lucro cessante per la necessità di assistenza,
e perciò il danno patrimoniale non era stato liquidato.

Il motivo è fondato.

Il pregiudizio economico che subisce
una casalinga menomata nell’espletamento della sua attività in conseguenza
delle lesioni è pecuniariamente valutabile come danno
emergente (art. 1223 c.c., richiamato dall’art. 2056
c.c.), e può esser liquidato, anche in via equitativa, e pur nell’ipotesi in
cui la stessa fosse già solita avvalersi di collaboratori domestici, perché
comunque i compiti della medesima sono più ampi e più intensi, e con maggiori
responsabilità di quelli espletabili da un prestatore d’opera dipendente
(Cassazione 10923/1997), e quindi il riferimento, nel relativo procedimento di
liquidazione, al reddito di una collaboratrice familiare, deve tener conto di
tutte le peculiarità del caso concreto raffrontando la globale situazione
domestica prima e dopo il danno subito.

Pertanto i giudici di
appello, che hanno ritenuto che tale danno, riconosciuto per la maggior
usura e disagio nell’espletamento delle mansioni domestiche da parte della B.,
sia stato liquidato nell’aver il giudice di primo grado applicato per il
risarcimento per il danno biologico una tabella superiore a quella in uso
presso la medesima Corte, non hanno tenuto conto dei principi innanzi
richiamati per la liquidazione del danno patrimoniale della casalinga riportato
a seguito delle lesioni subite ed hanno perciò violato gli artt. 1223 e 2056
c.c. Quindi anche questo capo di sentenza deve esser cassato per una nuova
valutazione del predetto danno patrimoniale alla luce del surrichiamati principi.

9. Con il nono motivo di ricorso la ricorrente deduce: "Violazione degli artt.
1223-1226-2043-2056-2057 c.c.:
omessa motivazione sul punto della mancata liquidazione di costi e di spese
necessarie".

La
Corte di appello non ha liquidato neppure il danno al vestiario,
né la perdita di monili, conseguenze dell’incidente, benché le circostanze
fossero state dimostrate. Il gravame incidentale di fatto
non era stato considerato dalla Corte di appello. Le spese di tutti i gradi devono
esser distratte a favore del difensore, antistatario.

Il motivo è inammissibile.

Il vizio di omessa
pronuncia sui motivi di appello – che si traduce nella violazione del principio
di corrispondenza tra chiesto e pronunciato – è deducibile con ricorso per
cassazione esclusivamente ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c. (nullità della
sentenza e del procedimento), e perciò non può esser fatto valere come
violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, n. 3, c.p.c.),
né, tanto meno, come vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.) (Cassazione
604/2003).

10. Concludendo
la sentenza della Corte di appello va cassata in relazione ai capi di
accertamento del grado di corresponsabilità della F.
e di risarcimento del danno complessivo a quest’ultima
riconosciuto dovendo esser valutato il danno patrimoniale per la menomazione
dell’attività di casalinga conseguente alle lesioni subite, non calcolato dai
giudici di merito.

Il giudice di rinvio si adeguerà ai
principi di diritto innanzi esposti e provvederà altresì a liquidare le spese
anche del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte di cassazione accoglie il
ricorso per quanto di ragione; cassa in relazione e rinvia ad altra Sezione
della Corte di appello di Bologna anche per le spese
del giudizio di Cassazione.