Civile

Monday 14 April 2008

Gli effetti del contratto preliminare.

Gli effetti del contratto
preliminare.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 27 marzo 2008, n. 7930

Svolgimento del processo

O.E.,
con citazione del 27.4.95, conviene la
S.p.A. Ice- Snei innanzi al Tribunale di Napoli e, sulla
premessa del possesso esclusivo ed ininterrotto dal 5.1.68 d’un appartamento e
pertinente box nell’edificio alla traversa 2 della via *** in ***, catastalmente
intestato alla convenuta, chiede dichiararsi l’intervenuto suo acquisto della
proprietà dell’immobile per usucapione.

Costituendosi, la convenuta
S.p.A. Ice-Snei si oppone alla domanda, deducendo che l’attore aveva avuto la mera detenzione dell’immobile, consegnatogli
in esecuzione d’un preliminare di vendita inter partes, appunto del 5.1.68, e
chiede, in via riconvenzionale, dichiararsi la risoluzione del detto
preliminare per grave inadempimento della controparte, questa avendo
corrisposto sul prezzo di vendita soltanto un anticipo di L. 42.815, e, quindi,
condannarsi la stessa controparte alla restituzione del bene ed al risarcimento
dei danni.

Decidendo delle contrapposte
domande con sentenza del 2.3.00, il tribunale adito, in accoglimento della principale,
dichiara acquisita dall’attore la proprietà dell’immobile.

Tale decisione, impugnata dalla
S.p.A. Ice-Snei, viene riformata con sentenza del
27.1.03 dalla Corte di Appello di Napoli, che rigetta sia la domanda principale
sia quelle riconvenzionali sulla considerazione: da un lato, che l’ O., a
seguito del preliminare di vendita, avesse acquisito la sola detenzione
dell’immobile e che i successivi comportamenti tenuti dallo stesso non fossero
stati idonei a mutare detta detenzione in un possesso utile all’usucapione;
dall’altro, che non avendo la S.p.A.
Ice-Snei rivolto l’invito a stipulare l’atto definitivo di trasferimento a
termini di contratto alla controparte, a quest’ultima non fosse addebitabile un
inadempimento al preliminare neppure in relazione al mancato pagamento del
prezzo convenuto.

Avverso la sentenza di secondo
grado la S.p.A.
Ice-Snei propone ricorso per cassazione, con atto notificato il 5.4.03,
affidato a due motivi; l’ O., a sua volta, propone
ricorso per Cassazione, con atto notificato il 7.4.03, affidato anch’esso a due
motivi; al primo ricorso l’ O. resiste con controricorso del 14.5.03,
contestualmente proponendo ricorso incidentale nel quale si riporta al proprio
precedente ricorso; la S.p.A.
Ice-Snei, a sua volta, con atto del 16.5.03, propone controricorso e
contestuale ricorso incidentale, nel quale anch’essa si riporta al già proposto
ricorso.

Entrambe le parti fanno seguire
memoria.

La Seconda Sezione,
disposta ex art. 335 c.p.c. all’udienza 13.6.06 la riunione dei ricorsi
proposti in via principale ed incidentale avverso la medesima sentenza, con
ordinanza 19.7.06 evidenzia come la questione relativa alla qualificazione, in
termini di possesso piuttosto che di detenzione, della disponibilità del bene
conseguita dal promissario d’una vendita immobiliare in forza di clausola del
contratto preliminare questione ritenuta propedeutica anche rispetto a quella,
sollevata dal medesimo ricorrente con il secondo motivo, relativa al difetto
d’integrità del contraddittorio quanto alla domanda di risoluzione del
contratto, proposta in via riconvenzionale dalla controparte ed oggetto del
ricorso per cassazione di quest’ultima abbia avuto
soluzioni difformi nella giurisprudenza di legittimità, anche all’interno della
stessa Sezione, e rimette, quindi, la causa al Primo presidente, dal quale è
disposta la trattazione della questione stessa da parte di queste Sezioni Unite
per la composizione del contrasto.

Motivi della decisione

Preliminarmente, devesi
confermare che i due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza e tra loro
connessi, vanno riuniti ex art. 335 c.p.c..

Va, inoltre, del pari
preliminarmente rilevato come i ricorsi rubricati sub nn. R.G. 13911/03 ( O. c/
ICE-SNEI) e R.G. 13686/03 (ICE-SNEI c/ O.), proposti contestualmente ai
rispettivi controricorsi e con i quali, tra l’altro, le parti riprospettano le
medesime questioni fatte valere con i loro ricorsi originari, siano da
considerare inammissibili.

E’, infatti, principio acquisito
che la parte, dalla quale siasi già proposto ricorso per cassazione (sia esso
principale od incidentale) contro alcune delle
statuizioni della sentenza di merito, nel rapporto con un determinato
avversario, non possa successivamente presentare un nuovo ricorso, nell’ambito
dello stesso rapporto, nemmeno se nel frattempo abbia ricevuto notificazione
del ricorso di detto avversario, ed a prescindere dal fatto che quest’ultimo
possa suggerire un’estensione della contesa anche con riguardo ad altre
pronunzie relative a quel rapporto, atteso che l’ordinamento non consente il
reiterarsi o frazionarsi dell’iniziativa impugnatoria in atti separati (secondo
il principio della cosiddetta consumazione dell’impugnazione) e che il relativo
divieto non trova deroga nelle disposizioni di cui all’art. 334 c.p.c., le
quali operano soltanto in favore della parte che, prima dell’iniziativa
dell’altro contendente, abbia fatto una scelta di acquiescenza alla sentenza
impugnata (da ultimo, Cass. 2.2.07 n. 2309, 14.11.06 n. 24219, 27.10.05 n.
20912, 26.9.05 n. 18756, 10.2.05 n. 2704, 24.12.04 n. 23976).

Si può, quindi procedere
all’esame dei due ricorsi originar, dei quali quello previamente proposto (R.G.
n. 10084/03 ICE-SNEI c/ O.) va considerato principale e quello successivo (R.G.
10431/03 O. c/ ICE-SNEI) incidentale.

1. – RICORSO PRINCIPALE. Con il primo
motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente,
denunziando violazione del principio della domanda con riferimento agli artt.
99 e 112 c.p.c., sotto il profilo della corrispondenza
tra chiesto e pronunciato e del principio dell’onere della prova con
riferimento all’art. 2697 c.c., si duole, rispettivamente: che il giudice a quo
non abbia tenuto conto della domanda di risoluzione del preliminare, siccome
formulata per inadempimento della controparte non all’obbligazione di stipulare
il definitivo, unica presa in considerazione nell’impugnata sentenza pur senza
domanda in tal senso, bensì alla diversa obbligazione di pagamento del prezzo,
posta con l’art. 4 del contratto, laddove le parti avevano espressamente
previsto che il ritardo nel pagamento o il mancato pagamento anche di una sola
rata di mutuo avrebbe comportato la facoltà per la venditrice di risolvere il
contratto, obbligazione della quale nella sentenza stessa non è stato tenuto
alcun conto;

che il
giudice a quo abbia escluso l’inadempimento della controparte in relazione al
pagamento del prezzo convenuto nonostante questa non a-vesse fornito
dimostrazione alcuna di tale pagamento.

Con il secondo motivo, ex art.
360 c.p.c., n. 5, la ricorrente denunzia vizi di
motivazione sulle questioni sollevate con il motivo precedente.

Le riportate censure – che, per
connessione, possono essere trattate congiuntamente – non meritano accoglimento
sotto alcuno dei prospettati profili d’omessa
pronunzia e d’extrapetizione.

Quanto al primo profilo, per
inammissibilità: dacchè, come ripetutamente evidenziato da questa Corte,
l’omessa pronunzia, quale vizio della sentenza, dev’essere, anzi tutto, fatta valere dal ricorrente per cassazione
esclusivamente attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della
violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 e non
già in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Ciò che la ricorrente non ha
fatto.

Può aggiungersi che, onde possa
utilmente dedursi il detto vizio, è necessario, da un lato, che al giudice del
merito fossero state rivolte una domanda od
un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente
formulate, per le quali quella pronunzia si rendesse necessaria ed ineludibile,
e, dall’altro, che tali domanda od eccezione siano riportate puntualmente, nei
loro esatti termini e non genericamente e/o per riassunto del loro contenuto,
nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto
difensivo del giudizio di secondo grado nel quale l’una o l’altra erano state
proposte o riproposte, onde consentire al giudice di legittimità di
verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività della proposizione nel
giudizio a quo ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni
prospettatevi; ove, infatti, si deduca la violazione, nel giudizio di merito,
dell’art. 112 c.p.c., ciò che configura un’ipotesi di error in procedendo per
il quale questa Corte è giudice anche del "fatto processuale", detto
vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-
dovere del giudice di legittimità d’esaminare direttamente gli atti processuali
sia condizionato all’adempimento da parte del ricorrente, per il principio
d’autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il
rinvio per relationem agli atti della fase di merito, dell’onere d’indicarli
compiutamente, non essendo consentita al giudice stesso una loro autonoma
ricerca ma solo una loro verifica (Cass. 19.3.07 n. 6361, 28.7.05 n. 15781
SS.UU., 23.9.02 n. 13833, 11.1.02 n. 317, 10.5.01 n.
6502).

Anche rispetto a tali oneri la
ricorrente risulta inadempiente, donde un’ulteriore ragione d’inammissibilità
della censura.

Quanto al secondo profilo, per
infondatezza, dacchè, almeno nei termini in cui sono state prospettate, le
censure d’extrapetizione e di connesso vizio di motivazione non trovano
rispondenza all’esame della sentenza impugnata.

Con la quale la causa petendi
della riconvenzionale in risoluzione proposta dall’odierna ricorrente è stata
correttamente individuata, nel fatto che " O.E. con detto preliminare si
era impegnato al pagamento della complessiva somma di L. 8.337.360, ma non
aveva provveduto al pagamento delle rate in cui era stato dilazionato il prezzo
nè al pagamento delle rate del mutuo accollato", ma
ne è stato escluso il fondamento, in quanto vi si è ritenuto che, risultando
contrattualmente pattuita la stipulazione del definitivo nei dieci giorni
dall’invito rivolto per lettera raccomandata dalla promittente venditrice al
promissario acquirente e la prima non avendo mai provveduto al riguardo, nessun
inadempimento fosse imputabile al secondo "neanche in relazione al
pagamento del prezzo convenuto".

In siffatto se pur sintetico iter
logico-argomentativo – evidentemente ispirato al principio per
cui un inadempimento del promissario acquirente all’obbligazione di
pagamento del prezzo non può ravvisarsi ove non siano stati contrattualmente
stabiliti versamenti a scadenze determinate anteriori alla stipulazione del
definitivo – sarebbero stati eventualmente ravvisabili e denunziabili errori
d’interpretazione del contratto preliminare e/o d’inappropriata applicazione
del richiamato principio al caso di specie, peraltro neppure accennati con i
motivi in esame, ma non sono ravvisabili i dedotti vizi d’extrapetizione e di
connesso difetto di motivazione.

D’altra parte, la censura neppure
presenta il requisito dell’autosufficienza, ed è pertanto inammissibile, dacchè
non vi è riportato il testo del contratto o, quanto meno, delle clausole tutte
pertinenti alla prospettata questione, di guisa che il giudice di legittimità,
cui non è consentito l’esame diretto dell’incarto processuale se non nelle
ipotesi di denunziati errores in procedendo, non è posto in condizione di
valutare la dedotta erronea applicazione del regolamento pattizio.

2. – RICORSO INCIDENTALE. L’ O. –
denunziando con il primo motivo del ricorso n. 10431/03 la violazione dell’art.
1158 c.c. e art. 116 c.p.c., nonchè omessa o
insufficiente e contraddittoria motivazione – oltre a dolersi dell’inadeguatezza
delle argomentazioni svolte dalla corte territoriale, laddove ha escluso
l’interversione della sua detenzione sull’immobile de quo in un possesso utile
all’usucapione, contesta, anzi tutto, la stessa qualificazione come detenzione,
anzichè come possesso, data da quel giudice alla materiale disponibilità del
bene quale da lui conseguita in esecuzione di specifica clausola del contratto
preliminare; assume, al riguardo, che, tale pattuizione avendo avuto la
funzione di anticipare gli effetti del trasferimento del diritto di proprietà,
oggetto del contratto cui era intesa la volontà delle parti, e, quindi, anche
l’effetto dell’immissione nel possesso e non nella detenzione dell’immobile,
non fosse conseguentemente necessario alcun atto d’interversione perchè ne
avesse luogo l’usucapione con il decorso del termine ventennale di prescrizione
acquisitiva dall’immissione nel godimento dello stesso.

In tal senso svolgendo le proprie
tesi, l’ O. contrappone alla soluzione adottata dal
giudice a quo – che, come ricordato nell’ordinanza di rimessione, si è
conformato alla giurisprudenza di legittimità prevalente – la difforme
soluzione adottata da un indirizzo giurisprudenziale minoritario e, tuttavia, a
tratti riemergente in alcune pronunzie, anche relativamente recenti, di questa
Corte.

La motivazione della maggior
parte delle quali si traduce in affermazioni apodittiche, riproduttive di
massime tralaticie, mentre, nelle poche obiettivamente argomentate, l’iter
logico dell’adottata soluzione prende le mosse dalla considerazione per cui il possesso non è escluso dalla conoscenza del
diritto altrui, nè è subordinato all’esistenza della correlativa situazione
giuridica,dacchè esso è ricollegato, sia sotto il profilo materiale (corpus)
sia sotto quello psicologico (animus), ad una situazione di fatto, che si
concretizza nell’esercizio di un potere oggettivo sulla cosa manifestantesi in
un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà o di altro
diritto reale e distinguentesi dalla detenzione solo per l’atteggiamento
psicologico del soggetto che lo esercita, caratterizzato, nel possesso, dal cd.
animus rem sibi habendi (ossia, l’intenzione o il volere di esercitare la
signoria che è propria del proprietario o del titolare del diritto reale) e,
nella detenzione, dal cd. animus detinendi (che implica il riconoscimento della
signoria altrui).

Soggiungendosi, poi, che tale
principio di carattere generale non soffre deroga nei casi in cui il soggetto
che assume d’essere possessore abbia ricevuto il godimento dell’immobile per
effetto d’una convenzione negoziale, con la precisazione che, se la convenzione
ha effetti obbligatori, perchè diretta ad assicurare il mero godimento della
cosa, senza alcun trasferimento immediato o differito del bene, colui che,
avendo ricevuto la consegna per questo solo scopo, si è immesso, nomine alieno, nel godimento del bene, necessariamente
stabilisce con la cosa un rapporto di mera detenzione che gli consente di
mutare il titolo originario di questo rapporto con la cosa solo attraverso un
atto di interversione del possesso, ai sensi dell’art. 1141 c.c., comma 2.

Vi si evidenzia, quindi, che ciò
spiega la ragione del principio, ripetutamente affermato da questa Corte,
secondo il quale "per stabilire se in conseguenza di una convenzione con
la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile si abbia un
possesso idoneo alla usucapione o una mera detenzione, occorre fare riferimento
all’elemento psicologico del soggetto stesso ed a tal fine stabilire se la
convenzione sia un contratto ad effetti reali o un contratto ad effetti
obbligatori, dato che solo nel primo caso il contratto è idoneo a determinare
nel predetto soggetto l’animus possidendi (sent. n.
4819 del 1981; sent. n. 4698 del 1987; sent. n. 741 del 1983)"; che, tuttavia, proprio la ragione
del principio di diritto ora enunciato ne fissa anche il limite, escludendone
l’applicazione alle convenzioni con le quali, per quanto con effetti solo
obbligatori, le parti tendano a realizzare il trasferimento della proprietà del
bene o di un diritto reale su di esso quando ad esse si aggiunga un patto
accessorio d’immediato effetto traslativo del possesso, sostanzialmente
anticipatore degli effetti traslativi del diritto che, con la convenzione, le
parti stesse si sono ripromesse di realizzare.

Vi si perviene, così, alla
conclusione per cui nelle ipotesi predette, tra le
quali rientra quella più diffusa del contratto preliminare di compravendita, la
convenzione non tende solo ad attribuire il godimento del bene (che si
realizza, appunto, attraverso il trasferimento della mera detenzione,
caratterizzando coerentemen-te la consegna della cosa) ma è in funzione di un
comune proposito di trasferimento della proprietà o di un diritto reale, alla
quale è coerente il passaggio immediato del possesso, che costituisce solo
un’anticipazione dell’effetto giuridico finale perseguito; onde il patto di
immediato trasferimento del possesso che eventualmente acceda a queste
convenzioni, con le quali è perfettamente compatibile, caratterizza, dunque,
anche la consegna che ad esso faccia seguito, conferendole effetti attributivi
della disponibilità possessoria e non della mera detenzione, anche in mancanza
dell’immediato effetto reale del contratto cui il patto accede, tenuto anche
conto che la consegna, essendo il possesso un fenomeno che prescinde dal
fondamento giustificativo, è atto neutro, o negozio astratto, per il quale non
si richiede affatto il requisito del fondamento causale.

Tali essendo le ragioni
giustificative delle esaminate decisioni, devesi considerare che, sfrondate dei
superflui richiami ai principi generali, che si dichiarano condivisi, esse si
riducono, in buona sostanza, alla sola affermazione per cui,
nonostante la natura esclusivamente obbligatoria del preliminare, con il
prevedervi anche l’immediata consegna del bene verso la contestuale
corresponsione, in tutto od in parte, del prezzo, i contraenti intendono
anticipare "l’effetto traslativo del diritto" proprio del definitivo.

Tesi siffatta non può trovare
adesione, sia che della fattispecie in esame si consideri l’aspetto
possessorio, in quanto il possesso non è suscettibile di trasferimento
disgiuntamente dal diritto reale del quale costituisce l’esercizio, sia che se
ne consideri quello contrattuale, in quanto la disponibilità della res conseguita
dal promissario acquirente deriva da un contratto di comodato collegato al
preliminare per il quale al comodatario è attribuita la detenzione e non il
possesso; ciò per le ragioni che di seguito si espongono.

In primis, è lo stesso invocato
intento delle parti ad esservi erroneamente individuato e/o travisato, in
quanto, con lo stipulare un preliminare, sono per l’appunto gli effetti reali
traslativi, propri del definitivo, che le parti non vogliono si verifichino per
effetto immediato e diretto della conclusa convenzione.

La situazione giuridica in esame,
come evidenziato anche in dottrina, è, in vero, il portato d’una prassi
contrattuale sviluppatasi, essenzialmente nel settore immobiliare, in ragione
della sua attitudine a fornire uno strumento idoneo a soddisfare sollecitamente
determinate esigenze delle parti, principalmente la disponibilità del bene per
l’una e del denaro per l’altra ma ulteriori se ne possono agevolmente
ipotizzare, pur contestualmente garantendone i rispettivi diritti sui beni
oggetto delle reciproche attribuzioni, indipendentemente dalla sorte della
convenzione, per il tempo necessario a che si realizzino
quelle condizioni oggettive e/o soggettive, agevolmente ipotizzabili anch’esse
nella loro molteplicità, in ragione delle quali – tanto che siano rimaste del
tutto estranee alla convenzione, eppertanto giuridicamente irrilevati anche a
solo livello di presupposizione, quanto che, invece, sianvi espressamente
previste come condizioni sospensive o risolutive – le parti stesse non hanno
voluto o potuto addivenire ad un contratto definitivo.

Sono usuali, al riguardo,
particolarmente nella materia delle compravendite immobiliari – che è quella
più interessata dal fenomeno – le ipotesi in cui il promittente venditore debba portare a termine procedimenti amministrativi di
regolarizzazione dell’edificio od opere di completamento dell’edificio stesso o
delle infrastrut- ture accessorie od estinguere ipoteche o mutui, in difetto di
che non sussiste l’interesse e conseguentemente la volontà di perfezionare
l’acquisto da parte del promissario acquirente; o quelle in cui quest’ultimo
debba, a sua volta, procurarsi, anche in più riprese, le disponibilità
necessarie alla corresponsione integrale del prezzo, il conseguimento del quale
condiziona parimenti interesse e volontà del promittente venditore alla
realizzazione della vendita.

Dottrina e giurisprudenza, quando
– sulla considerazione per cui la terminologia
"promette di vendere o di acquistare" non è automaticamente
indicativa d’una semplice promessa e la cosiddetta anticipazione degli effetti
della vendita può essere indice dell’intento di porre in essere un contratto
definitivo se il differimento della manifestazione di volontà non risulti
chiaramente dal contratto – affermano che, al fine di attribuire ad una
stipulazione il contenuto del contratto di compravendita o piuttosto quello del
preliminare di compravendita, è determinante l’identificazione del comune
intento delle parti – diretto, nel primo caso, al trasferimento della proprietà
della res verso la corresponsione di un certo prezzo, conformemente alla causa
negoziale dell’art. 1470 c.c., e, nel secondo caso, all’insorgenza di un
particolare rapporto obbligatorio che impegni ad un’ulteriore manifestazione di
volontà, alla quale sono rimessi il trasferimento del diritto dominicale sulla
res e l’adempimento dell’obbligazione del pagamento del prezzo – onde il
giudice del merito deve esaminare la stipulazione nel suo complesso al fine di
accertare la comune volontà delle parti nell’un senso piuttosto che nell’altro,
compiono, in verità, solo un primo approccio alla questione in esame, che,
evidentemente, più non si porrebbe ove l’accertamento demandato al giudice si
risolvesse nel senso del contratto ad effetti reali, dacchè, in tal caso, non
vi sarebbe, evidentemente, luogo a parlare di preliminare, dacchè le
prestazioni rese avrebbero già realizzato gli effetti del definitivo.

Viceversa, se l’accertamento
compiuto dal giudice dovesse approdare al preliminare, è da escludere in re ipsa,
come si è già sottolineato, che le parti intendessero
realizzare qualsiasi effetto del definitivo, eppertanto, ai fini della
soluzione della questione in esame, si rende necessaria un’indagine ulteriore e
diversa in ordine alla volontà delle parti, onde identificare quali effetti,
differenti da quelli propri del definitivo ma aggiuntivi rispetto a quelli
ordinari del preliminare, le parti stesse avessero inteso far derivare dalla
convenzione, in attuazione della quale ed in particolare delle pattuizioni
aggiuntive hanno, di seguito, operato alcune prestazioni corrispondenti a
quelle proprie del definitivo.

Al fine della qual ulteriore
indagine, devesi preliminarmente considerare come la previsione e l’esecuzione
della traditio della res e/o del pagamento, anche totale, del prezzo non siano
affatto, di per se stessi, incompatibili con l’intento
di stipulare un contratto solo preliminare di compravendita, dacchè, in tal
guisa operando, le parti manifestano e concretamente realizzano esclusivamente
l’intento d’anticipare non gli effetti del contratto di compravendita –
l’impegno alla cui futura stipulazione costituisce l’oggetto delle obbligazioni
assunte con la convenzione stipulata nella prescelta forma del preliminare,
mentre tali effetti rappresentano, per contro, proprio quel risultato cui le
parti stesse non hanno inteso, al momento, pervenire – ma solo quelle
prestazioni che delle obbligazioni nascenti dalla compravendita costituiscono
l’oggetto, id est la consegna della res ed il pagamento del prezzo, quali, ex
artt. 1476 e 1498 c.c., sono poste a carico,
rispettivamente, del venditore e del compratore (nel tempo, Cass. 19.4.00 n.
5132, 7.4.90 n. 2916, 3.11.88 n. 5962, ma già 1.12.62 n. 3250).

Escluso che con la stipulazione
del preliminare, sia pure con previsione, ed esecuzione, della consegna della
res e/o del pagamento del prezzo, le parti debbano avere necessariamente inteso
che si verificassero gli effetti della compravendita – nel qual caso,
d’altronde, come si è già evidenziato, si sarebbe in presenza d’un definitivo e
non d’un preliminare – devesi anche escludere che, in virtù di tale esecuzione,
possa essersi trasmesso dal promittente venditore al promissario acquirente il
possesso della res.

In vero, come questa Corte ha già
avuto occasione d’evidenziare – richiamando anche accreditata dottrina, per la
quale "ciò che si trasferisce è solo l’oggetto del possesso, il quale,
invece, non si compra e non si vende, non si cede e non si riceve per l’effetto
di un negozio", e, perciò, "l’acquisto a titolo derivativo del
possesso è un’espressione da usarsi solo in senso empirico e traslato" –
dalla stessa nozione del possesso, definito dall’art. 1140 cod. civ. come "il potere sulla cosa che si manifesta in
un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto
reale", si evince ch’esso non può essere trasferito per contratto
separatamente dal diritto del quale esso costituisca l’esercizio, considerato
che un’attività non è mai trasmissibile, ma può solo essere intrapresa, e l’intrasmissibilità
è maggiormente evidente in ordine al possesso, in quanto l’attività che lo
contraddistingue deve essere accompagnata dall’animus possidendi (volontà di
esercitare sulla cosa una signoria corrispondente alla proprietà o ad altro
diritto reale), cioè da un elemento che, per la sua soggettività, può essere
proprio soltanto di colui che attualmente possiede e non di chi ha posseduto in
precedenza. (Cass. 27.9.96 n. 8528).

Quindi esattamente si è affermato
in dottrina che, essendo il possesso uno stato di fatto, l’acquisto ne è in
ogni caso originario, sì che anche chi propende per la tesi contraria riconosce
che di acquisto derivativo possa parlarsi "soltanto per sottolineare che
l’acquisto del possesso ha luogo con l’assenso e la partecipazione del
precedente possessore e non con il solo contegno di colui che acquista il
possesso, come accade nell’apprensione".

L’unica eccezione a questa regola
si ha nella successione universale, ma è un’eccezione espressamente prevista e
regolata dal legislatore che, in forza dell’elaborata fictio legis, ha
consentito la continuazione nell’erede del possesso esercitato dal de cuius,
con effetto dall’apertura della successione, indipendentemente dalla
verificazione dei suoi presupposti di fatto, ma, appunto perchè di diritto
singolare ed eccezionale, l’istituto non può essere utilizzato onde pervenire
ad una soluzione diversa da quella indicata con la richiamata regola generale.

Nè, a sostegno della tesi della
possibilità d’una trasmissione contrattuale del possesso, può richiamarsi
l’art. 1146 c.c., comma 2, perchè per tale norma
l’accessio possessionis, da essa prevista, ha, per presupposto indispensabile,
l’esistenza di un titolo, anche viziato, idoneo in astratto, alla cessione del
diritto di proprietà (o di altro diritto reale) del bene formante oggetto del
possesso (Cass. 6552/81, 3876/76, 3369/72, 936/70, 1378/64, 1044/62); inoltre,
la norma non prevede affatto la trasmissione del possesso da un soggetto
all’altro, ma soltanto la possibilità per il successore a titolo particolare
(acquirente o legatario) di unire al proprio possesso quello distinto e diverso
del dante causa per goderne gli effetti sostanziali e processuali.

Per altro verso, devesi
considerare che il preliminare di compravendita con il quale
siano contestualmente pattuite anche la consegna anticipata della res e la
corresponsione del pari anticipata del prezzo in una o più soluzioni non è un
contratto atipico, almeno se con tale termine s’intende definire un contratto
caratterizzato da una funzione economico-sociale non riconducibile agli schemi
normativamente predeterminati e tuttavia suscettibile di riconoscimento e di
tutela, sul presupposto dell’autonomia contrattuale che l’ordinamento riconosce
ai privati, in ragione dellasua liceità e della sua meritevolezza.

Nella fattispecie in esame va
ravvisata, infatti, la convergenza, in un’unica convenzione, degli elementi
costitutivi di più contratti tipici, nel qual caso resta escluso che la
convenzione stessa possa essere qualificata come
atipica, dal momento che, sia pure considerata nelle sue plurime articolazioni,
non è intesa a realizzare una funzione economico-sociale nuova e diversa
rispetto a quelle dei singoli contratti tipici che in essa sono confluiti.

Pertanto, considerato che le
parti, nell’esplicazione della loro autonomia negoziale, possono, con
manifestazioni di volontà espresse in un unico contesto, dar vita a più negozi
tra loro del tutto distinti ed indipendenti, come pure
a più negozi variamente interconnessi, la qualificazione della fattispecie va,
piuttosto, effettuata con riguardo alla sua riconducibilità nell’ambito d’una
delle categorie, elaborate da dottrina e giurisprudenza nell’esame delle
fattispecie congeneri, dei contratti misti o complessi, o dei contratti
collegati.

I contratti misti o complessi
sono quelli maggiormente assimilabili al contratto atipico, se pur se ne
differenziano per non essere intesi alla realizzazione d’una funzione economico-sociale
nuova e diversa rispetto a quelle dei contratti tipici che vi confluiscono,
dacchè in essi la pluralità degli schemi contrattuali
tipici u- tilizzati si combina in guisa che, per la fusione delle cause, gli
elementi costitutivi di ciascun negozio vengono assunti quali elementi
costitutivi di un negozio rispetto a ciascun d’essi autonomo e distinto
caratterizzato dall’unicità della causa; con la precisazione, evidenziata da
alcuna parte della dottrina, per cui, nei contratti misti, si ha un solo schema
negoziale, al quale vengono apportate alcune variazioni mediante l’inserimento
di clausole assunte da uno o più diversi schemi, mentre, in quelli complessi,
si ha la convergenza di tutti gli elementi costitutivi tratti da più schemi
negoziali tipici nella regolamentazione dell’unico negozio risultantene.

Nell’una ipotesi
come nell’altra, la disciplina del contratto è unitaria, come unitaria ne è la
causa, e va ravvisata in quella del negozio di maggior rilievo, questo da
individuarsi, quanto al contratto misto, nell’unico contratto cui sono stati
aggiunti singoli elementi tratti da altri e che in esso si fondono (teoria
dell’assorbimento), e, quanto al contratto complesso, in quello, tra i più
contratti integralmente confluiti nell’unica convenzione, cui, all’esame della
volontà quale in concreto manifestata dalle parti, risulti essere stato
conferito rispetto agli altri il maggior rilievo in considerazione della
finalità perseguita (teoria della prevalenza).

Minor seguito ha, in dottrina, la
tesi per cui, nell’ipotesi del contratto complesso, i
vari profili della convenzione andrebbero singolarmente disciplinati con
riferimento allo schema contrattuale corrispondente (teoria della
combinazione); ed, in effetti, tesi siffatta non consente, poi, a differenza
dalla teoria della prevalenza, un’adeguata differenziazione di disciplina tra
la fattispecie del contratto complesso e quella dei contratti collegati.

La quale ricorre ove più
contratti autonomi, ciascuno caratterizzato dalla propria causa, formino oggetto
di stipulazioni coordinate, nell’intenzione delle parti, alla realizzazione di
uno scopo pratico unitario, costituito, di norma, dall’agevolare la
realizzazione della funzione economico-sociale dell’un d’essi.

Il collegamento contrattuale,
come è stato ripetutamente evidenziato dalla dottrina e dalla giurisprudenza
prevalenti, nei suoi aspetti generali non da luogo ad un autonomo e nuovo
contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un
risultato economico unitario e complesso, che viene
realizzato non per mezzo di un singolo contratto, bensì attraverso una
pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma,
anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci
interessi.

Ond’è che il criterio distintivo
fra contratto unico, se pur misto o complesso, e contratto collegato non va
ravvisato in elementi formali – quali l’unità o la pluralità dei documenti
contrattuali (un contratto può essere unico anche se
ricavabile da più testi, mentre un unico testo può riunire più contratti) o la
mera contestualità delle stipulazioni (i contratti posso essere stipulati anche
in momenti diversi in relazione ad esigenze sopravvenute) – ma nell’elemento
sostanziale dell’unicità o pluralità degli interessi perseguiti, dacchè il
"contratto collegato" non è un tipo particolare di contratto, ma uno
strumento di regolamentazione degli interessi economici delle parti
caratterizzato dal fatto che le vicende che investono un contratto (invalidità,
inefficacia, risoluzione, ecc.) possono ripercuotersi sull’altro, seppure non
in funzione di condizionamento reciproco (ben potendo accadere che uno soltanto
dei contratti sia subordinato all’altro, e non anche viceversa) e non
necessariamente in rapporto di principale ad accessorio.

Pertanto, affinchè possa
configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la
considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorrano sia il
requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla
regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una
finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia
il requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di
volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in
concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la
realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che
assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale.

Tanto considerato, risulta
evidente come la fattispecie in discussione debba essere ricondotta alla
categoria dei contratti collegati.

In essa,
infatti, le parti, onde agevolare, per le plurime ragioni quali in precedenza
accennate, la realizzazione delle finalità perseguite con la stipulazione del
preliminare di compravendita, stipulano altresì – e, come del pari si è già
evidenziato, ciò può aver luogo contemporaneamente e contestualmente al
preliminare ma anche in tempi e con atti diversi, a seconda che le circostanze
lo richiedano – dei contratti accessori, al preliminare necessariamente perchè
funzionalmente connessi e, tuttavia, autonomi rispetto ad esso, rispondendo
ciascuno ad una precisa tipica funzione economico- sociale eppertanto
disciplinati ciascuno dalla pertinente normativa sostanziale.

Contratti con i quali le parti
pervengono ad una regolamentazione, se pur provvisoria tuttavia ben definita,
dei rapporti accessori funzionalmente collegati al principale e nei quali,
secondo un’autorevole opinione dottrinaria meritevole d’esser condivisa, vanno
ravvisati, quanto alla concessione dell’utilizzazione della res da parte del
promittente venditore al promissario acquirente, un comodato e, quanto alla
corresponsione di somme da parte del promissario acquirente al promittente
venditore, un mutuo gratuito.

Ne consegue, con riferimento al
primo dei considerati contratti, che la materiale disponibilità della res nella
quale il promissario acquirente viene immesso, in
esecuzione del contratto di comodato, ha natura di detenzione qualificata
esercitata nel proprio interesse ma alieno nomine e non di possesso.

Possesso che il promissario
acquirente può, dunque, opporre al promittente venditore solo nei modi previsti
dall’art. 1141 c.c., in particolare assumendo e
dimostrando un’intervenuta interversio possessionis.

Questa, come ha correttamente
ricordato il giudice a quo, non può aver luogo mediante un semplice atto di
volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla
quale sia consentito desumere che il detentore ha
cessato d’esercitare il potere di fatto sulla cosa nomine alieno ed ha iniziato
ad esercitarlo esclusivamente nomine proprio ed, inoltre, manifestazione
siffatta dev’essere non solo tale da palesare inequivocabilmente l’intenzione
del soggetto di sostituire al precedente animus detinendi un nuovo animus rem
sibi habendi, ma anche essere specificamente rivolta contro il possessore, in
guisa che questi sia posto in condizione di rendersi conto dell’avvenuto
mutamento, quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere
della concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte del possessore
stesso; tra tali atti, ove non accompagnati da altra manifestazione dotata
degli indicati connotati dell’opposizione, non possono ricomprendersi nè quelli
che si traducano in una inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la
detenzione era stata costituita, verificandosi in tal caso un’ordinaria ipotesi
d’inadempimento contrattuale, nè quelli che si traducano in ordinari atti
d’esercizio del possesso, verificandosi in tal caso una mera ipotesi di abuso
della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del
bene.

Al qual riguardo l’ O. addebita al giudice a quo, denunziando vizi di
motivazione, di non aver desunto dalle emergenze istruttorie quegli evidenti
elementi costitutivi della fattispecie ch’egli ritiene vi fossero adeguatamente
rappresentati.

La censura non merita
accoglimento.

Per costante insegnamento di
questa Corte, in vero, il motivo di ricorso per Cassazione con il quale alla
sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di
motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 dev’essere inteso a far valere, a pena
d’inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 4, in difetto di loro
specifica indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità
nell’attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori
dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni
esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile
contrasto tra gli stessi; non può, invece, essere inteso a far valere la non
rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al
diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare, non vi si può
proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati
acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della
discrezionalità di valutazione degli e-lementi di prova e dell’apprezzamento
dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili
vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma
in esame; diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe –
com’è, appunto, per quello di cui trattasi – in un’inammissibile istanza di
revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est
di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del
giudizio di legittimità.

Nè, com’è del pari da tralaticio
insegnamento di questa Corte, può imputarsi al detto giudice d’aver omesse
l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata
disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè
l’una nè l’altra gli sono richieste, rientrando nel suo potere discrezionale, a
norma dell’art. 116 c.p.c., individuare le fonti del
proprio convincimento, mentre soddisfa all’esigenza d’adeguata motivazione che
questo, una volta raggiunto, risulti da un esame logico e coerente di quelle,
tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state
ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo; in altri termini,
perchè sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto
dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c.,
non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto
esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi
prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata
decisione evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla
ovvero la carenza di esse.

Nella specie, non solo il motivo,
già non inteso a censurare la rado decidendi ma a
prospettare una diversa interpretazione degli accertamenti in fatto, estranea
alle valutazioni consentite al giudice di legittimità, è per ciò solo
inammissibile, ma la motivazione fornita dal giudice a quo all’assunta
decisione risulta logica e sufficiente, basata com’è su argomentazioni adeguate
in ordine alla valenza oggettiva dei plurimi e pertinenti elementi di giudizio
presi in considerazione e su razionali valutazioni di essi;

un
giudizio operato, pertanto, nell’ambito dei poteri discrezionali del giudice
del merito a fronte del quale, in quanto obiettivamente immune dalle censure
ipotizzabili in forza dell’art. 360 c.p.c., n. 5 la diversa opinione soggettiva
di parte ricorrente è inidonea a determinare le conseguenze previste dalla
norma stessa.

Con il secondo motivo, il
ricorrente – denunziando violazione dell’art. 102 c.p.c. – si duole che il
giudizio di merito promosso dalla controparte per la risoluzione del
preliminare si sia svolto a contraddittorio non integro, in quanto il contratto
in discussione era stato stipulato anche da suo fratello Ettore, rimasto
estraneo al giudizio, e che tale nullità non sia stata rilevata d’ufficio dal
giudice a quo.

La doglianza va disattesa, in
quanto l’ O., totalmente vittorioso sul punto essendo
stata respinta l’avversa domanda di risoluzione tanto in primo grado quanto in
appello, difetta d’interesse ad impugnare per cassazione al riguardo se non
condizionatamente all’accoglimento del ricorso di controparte, condizione che,
come da reiezione del ricorso principale, non si è avverata.

3. – CONCLUSIONI. Nessuno degli
esaminati motivi meritando accoglimento, entrambi i
ricorsi vanno, dunque, respinti.

Tale esito del giudizio di
legittimità giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del
giudizio stesso.

P.Q.M.

LA CORTE

Decidendo a
Sezioni Unite, dichiara inammissibili i ricorsi iscrittial R.G. con i numeri
13911/03 e 13686/03; respinge i ricorsi iscritti al R.G. 10084/03 e 10431/03;
compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera
di Consiglio, il 8 maggio 2007.

Depositato in Cancelleria il 27
marzo 2008.