Penale

Thursday 22 December 2005

E’ razzista il barista che rifiuta di servire il caffè agli extracomunitari.

E’ razzista il barista che
rifiuta di servire il caffè agli extracomunitari.

Cassazione – Sezione terza penale
(up) – sentenza 5-21 dicembre 2005, n. 46783

Presidente Papadia – Relatore
Grassi

Pm Geraci – ricorrente Zerman

Osserva

Con sentenza del Tribunale di
Verona in data 27 giugno 2002 Luca Zerman veniva
condannato alla pena di quattro mesi di reclusione quale colpevole del delitto
previsto dall’articolo 3 comma 1 lettera a) legge 654/75 come modificato
dall’articolo 1 Dl 122/93, convertito con modificazioni in legge 205/93, del
quale era chiamato a rispondere per avere commesso atti di discriminazione, per
motivi razziali ed etnici, rifiutandosi ripetutamente -dal Giugno ‘98 al 14
novembre 1999- di servire, nel bar “Giardino” che gestiva in Verona, le
consumazioni richieste da cittadini extra-comunitari e, da ultimo, da Es Salih
Ornar e Khjamlich Ahmed, dichiarando espressamente di non voler servire alcun
extra-comunitario.

Affermava, il Giudice di primo
grado, che dall’istruttoria dibattimentale era emerso come il 14 novembre 1999
i due cittadini Nord-Africani sopra indicati si fossero presentati nel bar
predetto in cui, in quel momento, intenta a servire i clienti v’era Elena
Zerman, sorella dell’imputato, la quale aveva rifiutato di preparare agli
stessi, che ne avevano fatto richiesta, due caffè,
dicendo «questa è la mia casa e do il caffè a chi voglio io».

Indi, alle insistenze dei due, la
Zerman aveva chiamato al telefono il fratello Luca, gestore del locale,
invitandolo ad intervenite e l’imputato, sopraggiunto,
aveva fatto proprio l’atteggiamento della sorella, invitato i due che frattanto
avevano chiesto l’intervento della Polizia, ad attendere fuori dal locale i
tutori dell’ordine ed, al sopraggiungere degli Agenti di Ps, aveva confermato
che non intendeva servire, nel proprio locale, gli extra-comunitari per non
avere problemi a causa loro.

Aggiungeva, il Tribunale, che nel
corso del giudizio lo Zerman aveva confermato che da tempo osservava la prassi
di non servire, nel proprio locale, gli extra-comunitari, in particolare i
Nord-Africani, a causa dei disordini che erano soliti provocare
quando abusavano nel bere e che avevano determinato la chiusura
temporanea di altri bar viciniori.

Il Giudice di primo grado
riteneva che nella previsione della citata norma incriminatrice dovessero
ritenersi compresi anche singoli atti di discriminazione razziale e che tali
dovevano considerarsi i rifiuti, reiterati nel tempo, di servire i
Nord-Africani ed, in genere, gli extra-comunitari nel presupposto,
arbitrariamente generalizzato, che tutti avessero qualità caratteriali
negative, sì da renderli pericolosi, per il solo fatto di appartenere alla loro
razza, senza tenere conto che si potessero presentare, nell’ esercizio
pubblico, extra-comunitari, come i due sopra indicati, in regola con il
permesso di soggiorno in Italia ed assolutamente pacifici, all’aspetto e per il
comportamento.

Contro tale decisione l’imputato
proponeva impugnazione per chiedere di essere assolto, dal reato ascrittogli:

– per insussistenza del fatto,
che avrebbe potuto, semmai, dar luogo ad un’ azione
civile per risarcimento di danni morali ai sensi degli articoli 43 e 44 D.Lgs
286/98;

– per inesistenza, in lui, di odio razziale, essendo stato il suo comportamento determinato
dal pericolo che nel locale si verificassero fatti di violenza o di disordine
per i quali il bar potesse essere chiuso;

– perché, comunque,
il rifiuto di servire loro il caffè era stato opposto, ai due stranieri
menzionati in rubrica, non da lui, ma dalla sorella Elena.

La Corte d’appello di Venezia
confermava, con sentenza del 3 giugno 2003, la decisione impugnata, ritenendo
ed affermando:

a) che l’articolo 3 comma 1
lettera a) legge 654/75 punisce chi commette atti di discriminazione per motivi
razziali o etnici, senza richiedere che essi siano necessariamente animati da
odio razziale;

b) che l’articolo 187 del
regolamento al Tulps prevede il mero rifiuto delle prestazioni richieste dagli
avventori all’esercente di un esercizio pubblico, mentre l’articolo 3 comma 1
lettera a) è applicabile quando detto rifiuto sia
determinato da motivi di discriminazione razziale;

c) che, nel caso in esame, tali
motivi dovevano essere ritenuti esistenti e provati,
non solo per le modalità del fatto verificatosi il 14 novembre 1999, ma anche
perché, per stessa ammissione dell’imputato, il rifiuto di servire clienti
extra- comunitari, in particolare Nord-Africani, era prassi costante, frutto di
una condotta indiscriminatamente adottata da tempo;

d) che lo Zerman, avendo fatto
proprio il diniego inizialmente opposto dalla sorella, reiterandolo nonostante
l’intervento degli Agenti di Pòlizia, aveva tenuto una condotta integrante gli
estremi del delitto ascrittogli.

Avverso la sentenza di appello l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione e
ne chiede lo annullamento per violazione di legge e difetto ed illogicità di
motivazione.

Deduce, in particolare, il
ricorrente:

I. che
l’esistenza delle norme di cui agli articoli 43 e 44 D.Lgs 286/98, le quali
prevedono l’esperibilità di azione civile per risarcimento di danno morale da
parte di stranieri vittime di atti di discriminazione, indicherebbe che non
tutti tali atti integrano gli estremi del delitto di cui all’articolo 3 legge
654/75, per la sussistenza del quale è necessaria la prova di un dolo
specifico, ravvisabile solo nell’ odio razziale;

II. che
la decisione impugnata mancherebbe di motivazione adeguata relativamente
all’elemento psicologico del reato;

III. che
nel caso in esame il rifiuto di servire il caffè sarebbe stato determinato non
da motivazioni di odio razziale, bensì dal timore del verificarsi, nel locale,
di disordini o atti violenti che avrebbero potuto determinarne la chiusura
temporanea;

IV. che,
in mancanza di elementi oggettivi di riscontro, le dichiarazioni rese da lui
avrebbero dovuto essere considerate insufficienti a provare la reiterazione nel
tempo di comportamenti asseritamente discriminatori nei confronti dei
Nord-Africani;

V. che la deposizione del
verbalizzante agente di Polizia Cinquini avrebbe dovuto
essere considerata inutilizzabile avendo, egli, riferito non fatti, ma
valutazioni ed interpretazione di quanto era accaduto in sua presenza;

VI. che
i Giudici di merito non avrebbero tenuto nel debito conto il fatto che, il
novembre 1999, il rifiuto di servire il caffè era stato opposto, ai due
stranieri, non da lui, ma dalla sorella, separatamente giudicata e condannata
per tale fatto;

VII. che
illegittimamente la testimonianza a discolpa resa da Rassas Imed, abituale
frequentatore del bar in questione, sarebbe stata obliterata.

Motivi della decisione

Il ricorso è destituito di
fondamento e, come tale, deve essere rigettato, con conseguente condanna del
ricorrente -a mente dell’articolo 616 Cpp – al pagamento delle spese
processuali.

I Giudici di merito hanno
accertato e ritenuto, attraverso le deposizioni dei cittadini extra-comunitari
Es Salih Ornar e Khjamlich Ahmed e le dichiarazioni del verbalizzante Cinquini,
che il 14 novembre 1999 nel bar Giardino, gestito dall’imputato, era stata ripetutamente rifiutata, da costui e, prima, dalla
sorella, la somministrazione di tazze di caffè ai detti stranieri, non perché
costoro avessero tenuto alcun comportamento scorretto, violento o tale da fare
ragionevolmente temere il verificarsi di disordini, ma solo perché erano
Nord-Africani.

Il Cinquini, contrariamente a
quanto sostenuto dal ricorrente, inteso quale teste, non aveva manifestato
opinioni o giudizi, ma si era limitato a riferire la condotta tenuta, in sua
presenza, dallo imputato e le parole dallo stesso
profferite a giustificazione della condotta tenuta nell’occasione.

Gli stessi Giudici hanno
accertato, attraverso la confessione -sicuramente
utilizzabile- resa dallo stesso Zerman, che simile atteggiamento e la
condotta di esclusione dal bar degli extra-comunitari ed, in particolare, dei
Nord-Africani, non costituivano un fatto occasionate o isolato, ma erano
espressione di un modo di pensare ed agire abituale del gestore del locale.

A norma dell’articolo 43 D.Lgs 286/98, costituisce discriminazione «ogni
comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione,
esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore,
l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche
religiose e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il
riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei
diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico,
sociale e culturale ed in ogni altro settore della vita pubblica».

La stessa norma, nella lettera b)
del comma 2, elencando una serie di atti di
discriminazione, inserisce fra questi il comportamento di colui il quale
«imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire ad uno straniero
beni o servizi offerti al pubblico, soltanto a causa della sua condizione di
straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o
nazionalità».

Alla luce di tali norme, deve
ritenersi che legittimamente la condotta dello Zerman è stata
ritenuta ispirata da intenti di discriminazione per motivi razziali o etnici.

Infatti, i menzionati cittadini
extra-comunitari non risulta che, quel giorno, né in
passato, avessero mai tenuto comportamenti tali da renderli pericolosi o
indesiderabili, anzi in sede di merito è stato accertato che erano muniti di
regolare permesso di soggiorno ed avevano avuto atteggiamento rispettoso.

L’articolo 3 comma 1 lettera a)
legge 654/75 -il quale punisce «chi diffonde in
qualsiasi modo idee

fondate
sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico» – nel vietare ogni tipo di
discriminazione, ravvisabile in atti, individuali o collettivi, di incitamento
all’offesa della dignità di persone di diversa razza, etnia o religione, ovvero
in comportamenti di effettiva offesa di tali persone, consistenti in parole,
gesti e forme di violenza ispirati in modo univoco da intolleranza, delinea una
figura di reato caratterizzato da dolo specifico, ossia dalla coscienza e volontà
di offendere l’altrui dignità umana in considerazione della razza, dell’etnia o
della religione dei soggetti nei cui confronti la condotta viene posta in
essere o ai quali si riferisce (v. Cassazione, Sezione terza penale, 7421/02).

Nella fattispecie in esame i
Giudici di merito hanno ritenuto esistente, nell’imputato, il dolo specifico
del delitto di cui in rubrica in considerazione delle ragioni addotte, a
giustificazione della condotta, sia dalla Elena
Zerman, la quale ad esplicazione del rifiuto di preparare il caffè richiestole
aveva detto «questa è la mia casa e do il caffè a chi voglio io», sia
dall’imputato che, sopraggiunto nel bar, non solo aveva dichiarato di
condividere, facendolo proprio, il comportamento della sorella, ma aveva
assunto, nei confronti dei due avventori, atteggiamenti minacciosi ed
ingiuriosi, anche invitandoli ad attendere l’arrivo della Polizia fuori dal
locale.

La tesi giustificativa addotta,
secondo cui il rifiuto di somministrazione di alimenti
era dettato dall’esigenza di prevenire disordini e la possibile chiusura
temporanea del locale a causa di eventuali comportamenti violenti cui a volte
gli extra-comunitari ed, in particolare, i Nord-Africani si sarebbero
abbandonati in altri bar, dopo avere bevuto, è stata disattesa, dalla Corte di
merito, con motivazione incensurabile, perché logica, fondata sul rilievo che
essa rappresentava un tentativo postumo ed inadeguato di giustificare una
condotta abituale che non aveva altre più plausibili e legittime motivazioni.

La condotta tenuta dallo Zerman,
infatti, riservata a tutti gli extra-comunitari, prescindeva da azioni o
comportamenti specifici di costoro e non ha trovato, secondo i Giudici di
merito, ragione giustificatrice diversa dalla volontà di offendere la dignità
degli stessi a causa della loro diversa razza ed etnia.

Fra le norme di cui alla legge
654/75 ed al D.Lgs 286/98, non sussiste alcun rapporto
di specialità.

Esse tutelano beni giuridici
distinti in quanto le prime -frutto di ratifica ed
esecuzione della Convenzione internazionale sul!’ eliminazione di tutte le
forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo
1966- mirano ad assicurare pari dignità sociale ai cittadini di ogni Stato ed a
reprimere penalmente i comportamenti che costituiscono espressione di
discriminazione razziale o etnica, mentre le seconde, facenti parte della
disciplina dell’immigrazione, mirano, da un canto, ad assicurare un meccanismo
giurisdizionale idoneo a far cessare, in tempi rapidi, con azione civile,
comportamenti di privati o della Pubblica Amministrazione,
tali da produrre detta discriminazione e, dall’altro, a consentire la
possibilità del risarcimento dei conseguenti danni anche non patrimoniali.

La circostanza che inizialmente
il rifiuto di servire loro il caffè fosse stato
opposto, ad Es Salih Ornar ed a Khjamlich Ahmed, dalla Elena Zerman, giudicata
e condannata per lo stesso fatto separatamente, è stata legittimamente ritenuta
inidonea a scagionare da responsabilità penale l’odierno ricorrente, essendo
stato accertato che egli, sopraggiunto nel locale, aveva fatto proprio
l’atteggiamento della sorella, si era rifiutato di far servire il caffè ai due
Nord-Africani che lo avevano richiesto ed, anzi, li aveva cacciati fuori dal
bar.

La censura con la quale è stato lamentato che la Corte d’appello non avrebbe
considerato e valutato la deposizione resa da Rassas Imed non ha pregio perché,
secondo quanto affermato in ricorso, il contenuto di essa avrebbe dovuto
indurre a ritenere provato che la condotta dell’imputato fosse stata
determinata dall’intento di proteggere il locale dal pericolo di chiusura per
disordini o comportamenti violenti di extra-comunitari ubriachi.

Orbene, i giudici di merito hanno
considerato non valida siffatta giustificazione e ritenuto, invece, che la
condotta in questione fosse stata dettata da ragioni di discriminazione
razziale sulla scorta di numerosi elementi di segno contrario, in presenza dei quali deve dedursi che hanno valutato come
non rilevante, ai fini del decidere, la testimonianza di che trattasi.

PQM

La Corte suprema di cassazione
rigetta il ricorso proposto da Luca Zerman avverso la sentenza della Corte
d’appello di Venezia in data 3 giugno2003 e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali.