Penale

Monday 30 May 2005

Delocalizzazione dei processi produttivi e indicazione del luogo di produzione della merce. Il punto della Cassazione. Cassazione Sezione Terza Penale Sentenza n. 13712 del 14/04/2005

Delocalizzazione dei processi produttivi e indicazione del luogo di
produzione della merce
. Il punto della Cassazione.

Cassazione Sezione Terza Penale Sentenza
n. 13712 del 14/04/2005 (Presidente: A. Zumbo –
Relatore: P.Onorato)

Svolgimento del processo

1 – Su opposizione dell’interessato
proposta ai sensi dell’art. 263, comma 5, c.p.p., il giudice per le indagini preliminari del tribunale di
Napoli, con ordinanza del 16.4.2004, ha disposto la restituzione all’avente
diritto di numerosi capi d’abbigliamento sportivo della (omissis) s.r.l., sottoposti a sequestro probatorio in data 10.2.2004
dalla polizia giudiziaria del Servizio Vigilanza Antifrode Doganale (S.V.A.D.) di Napoli, perché ritenuti commercializzati in
violazione dell’art. 4, comma 49, della Legge Finanziaria 2004 (n. 350 del
12.4.2003).

Sui capi d’abbigliamento, prodotti in
Cina e successivamente importati in Italia, era
apposta un’etichetta recante la indicazione della composizione del tessuto e la
dicitura “(omissis) – ITALY” oppure un cartellino con la scritta “(omissis)” e
con una striscia sottostante recante i colori della bandiera della bandiera
italiana e un riquadro con la dicitura “ITALY”.

Il giudice ha ritenuto che nel caso
di specie le diciture non fossero idonee a indicare il
luogo di fabbricazione della merce, ma indicassero semplicemente il nome e la
nazionalità del produttore (la s.r.l. (omissis), che è il soggetto garante e
responsabile del prodotto finale: sicchè non si
verificava alcuna lesione del bene tutelato dalla norma incriminatrice, che
coincide con l’interesse del consumatore a non essere ingannato sulla qualità e
provenienza della merce.

2 – Il Procuratore della Repubblica
di Napoli ha proposto ricorso per erronea applicazione dell’art.
4, comma 49, della legge n.350/2003.

Sostiene che il delitto previsto da
questa norma, che fa rinvio all’art. 517 c.p. (vendita di prodotti industriali
con segni mendaci) solo quoad poenam,
non ha lo stesso oggetto giuridico del delitto codicistico,
e prevede una condotta materiale più ampia e precisa, soprattutto laddove
configura come falsa indicazione la dicitura Made in Italy su prodotti non originari dell’Italia, e come fallace
indicazione l’uso di segni, figure o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia
di origine italiana, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza
estera del prodotto.

Motivi della decisione

3 – Secondo l’art. 517 c.p. (vendita
di prodotti industriali con segni mendaci) è punito con la reclusione fino ad
un anno o con la multa fino a euro 1.032, se il fatto
non è previsto come reato da altra disposizione di legge, chiunque pone in
vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti
industriali con nomi, marchi, o segni distintivi nazionali od esteri atti a
trarre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera
o del prodotto.

Per “origine” deve intendersi il
luogo o il soggetto di produzione, fabbricazione o coltivazione della merce;
mentre per “provenienza” deve intendersi il luogo o il soggetto che funge da
intermediario tra il produttore e gli acquirenti.

L’oggetto giuridico della norma è la
tutela dell’ordine economico, comprensivo sia della libertà e buona fede del
consumatore, sia della protezione del produttore dalla illecita
concorrenza.

Giova precisare – anche per le
considerazioni che si svolgeranno in seguito – che tale reato è sussidiario
rispetto a quello previsto dall’art. 474 c.p.
(introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi); e si distingue
da questo perché il secondo, tutelando la fede pubblica, richiede la
contraffazione o l’alterazione di un marchio o segno distintivo della merce che
sia giuridicamente protetto e riconosciuto, mentre il primo, tutelando solo
l’ordine economico, richiede la semplice imitazione del marchio o del segno
distintivo, non necessariamente registrato o riconosciuto, purchè
essa sia idonea a trarre in inganno l’acquirente (cfr. da
ultimo, Cass., Sez. V. n.
3940 del 13.3.1987, Canfora, rv. 175321; nonché Cass. Sez.V, n. 4534 del
13.4.198, Minichetti, rv.
178128; Cass. Sez. V. n. 5427 del 12.5.1995, Parisi, rv. 201326).

3.1. – Anche in ragione della
specifica oggettività giuridica del reato di cui all’art. 517 c.p., la giurisprudenza di
legittimità è costante nel ritenere che la garanzia assicurata dalla norma
riguarda l’origine e la provenienza della merce, non già da un determinato
luogo bensì da un determinato produttore, cioè da un imprenditore che ha la
responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione. (Cass.
Sez.
III, n. 2550 del
26.8.1999, P.M. in proc. Thum, rv.
214438; Cass. Sez. III,
n. 1263 del 2.2.2..5, ud. 21.10.2004, ric. Fro s.r.l.).

Infatti ciò che è generalmente rilevante per
l’ordine economico come sopra specificato non è l’origine o la provenienza
geografica, bensì la fabbricazione, da parte di un determinato imprenditore, il
quale, coordinando giuridicamente, economicamente e tecnicamente il processo
produttivo, assicura la qualità del prodotto. Come sottolinea
la sentenza Thum “la induzione in inganno di cui
all’art. 517 c.p. riguarda l’origine, la provenienza o la qualità dell’opera o
prodotto, ma i primi due elementi sono funzionali al terzo, che è in realtà il
solo fondamentale, posto che il luogo o lo stabilimento in cui il prodotto è
confezionato è indifferente alla qualità del prodotto stesso”.

Lo strumento che rassicura il mercato
sulla qualità del prodotto è il marchio, registrato o
no, che si configura come segno distintivo del prodotto medesimo, nella forma
di un emblema o di una denominazione. Com’è noto, la funzione tradizionale del
marchio è triplice, perché indica la provenienza imprenditoriale, assicura la
qualità del prodotto e agisce come richiamo per la clientela ovverosia come
suggestione pubblicitaria.

Orbene questa triplice funzione del
marchio non è modificata neppure nella realtà economica contemporanea, nella
quale numerose imprese si avvalgono legittimamente di imprese
situate in altri paesi per fabbricare i propri prodotti contrassegnati da un proprio
marchio distintivo.

Si pensi al fenomeno tipico delle
imprese multinazionali o alla pratica della c.d. delocalizzazione,
in cui il processo produttivo, per ragioni economiche o fiscali, viene dislocato in tutto o in parte presso aziende straniere
secondo tecniche di produzione che sono tuttavia imposte e controllate dalla
impresa madre.

3.2 – Diverso è invece il caso dei prodotti agroalimentari la cui qualità è connessa in modo rilevante
all’ambiente geografico nel quale sono coltivati, trasformati o elaborati.

Il diritto comunitario ha
disciplinato questa materia con il Regolamento del Consiglio n. 2081 del
14.7.1992, che ha previsto la possibilità di registrare:

a) la “denominazione di origine protetta” (DOP) per i prodotti agricoli o a
alimentari originari di un determinato territorio la cui qualità o le cui
caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all’ambiente
geografico, comprensivo dei fattori naturali ed umani, e la cui produzione,
trasformazione ed elaborazione avvengano nell’area geografica d’origine;

b) la “indicazione geografica
protetta” (IGP) per i prodotti agricoli o alimentari originari di un
determinato territorio, di cui una qualità o caratteristica possa essere
attribuita all’origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o
elaborazione avvengano nell’area geografica determinata (art. 2 Reg. CEE 2081/92).

La registrazione avviene purchè, in entrambi i casi, sia rispettato un determinato
“disciplinare”, che indica soprattutto le materie prime o le principali
caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologichee7o organolettiche del
prodotto, nonché il metodo di ottenimento del prodotto
stesso(art. 4 reg. CEE 2081/92).

Per siffatti prodotti agroalimentari, come è evidente,
anche quando non si arrivi a registrare un marchio di denominazione o
indicazione geografica, ciò che rileva per l’ordine economico, inteso come
protezione dei consumatori e dei produttori, è proprio l’origine territoriale.
Si pensi per i prodotti agricoli alle arance di Sicilia, o per i prodotti
alimentari al parmigiano reggiano.

Ne deriva che per simili prodotti agroalimentari, o più esattamente per i prodotti
industriali di natura alimentare aventi una tipicità territoriale, la origine a cui si riferisce la norma dell’art. 517 c.p.
non è soltanto quella imprenditoriale ma anche e soprattutto quella geografica.
In tal senso deve essere quindi precisata ed integrata la giurisprudenza di
legittimità sopra richiamata.

4 – In questa materia, peraltro, è
recentemente intervenuta la legge 24.12.2003 n. 350 (finanziaria 2004) che
nell’art. 4 (finanziamento agli investimenti) ha inteso proteggere e promuovere
il prodotto made in Italy
“anche attraverso la regolamentazione dell’indicazione di origine
o l’istituzione di un apposito marchio a tutela delle merci integralmente
prodotte nel territorio italiano o assimilate ai sensi della normativa europea
in materia di origine” (comma 61), stabilendo al riguardo la necessità di un
apposito regolamento governativo (comma 63), che non risulta ancora emanato.

Nell’ambito di questa finalità l’art.
4 ha
anche previsto strumenti di tutela penale dell’ordine economico, sempre
comprensivo degli interessi dei produttori e di quelli dei consumatori. Il
comma 49, infatti, con una tecnica normativa che lascia a desiderare e con una
sintassi non sempre perspicua, stabilisce che:

“L’importazione e l’esportazione a
fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione di prodotti recanti
false o fallaci indicazioni di provenienza costituisce reato ed è punita ai
sensi dell’art. 517 c.p..
Costituisce falsa indicazione la stampigliatura “made
in Italy” su prodotti e merci non originari
dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine; costituisce fallace
indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei
prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure o quant’altro
possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di
origine italiana. Le fattispecie sono commesse fin dalla presentazione dei
prodotti o delle merci in dogana per l’immissione in consumo o in libera preatica e sino alla vendita al dettaglio”.

Giurisprudenza e dottrina si sono già
affiancate nel compito di chiarire la portata normativa della disposizione. Al
riguardo questa Corte ritiene che la voluntas legis che ne risulta debba essere
precisata nel modo seguente:

a) viene
esplicitamente paralizzata ai sensi dell’art. 517 c.p. non soltanto la messa in
vendita o in circolazione ma anche la importazione e la esportazione ai fini di
commercializzazione di prodotti con segni mendaci. In tal modo non si realizza una estensione della fattispecie penale codicistica, atteso
che nel concetto di “porre in vendita o mettere altrimenti in circolazione” di
cui all’art. 517 c.p. era già implicito in quella di “importare o esportare a
fini di commercializzazione”. Peraltro, col nuovo intervento legislativo si può
dire risolto il contrasto giurisprudenziale esistente sul momento consumativo del reato previsto dallo stesso art. 517.

Infatti la nuova norma stabilisce
positivamente che il reato si perfeziona sin dal momento in cui i prodotti sono
presentati in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica; sicchè altrettanto deve ritenersi per l’analogo reato di
cui all’art. 517 (così, in sostanza, la sentenza Fro
succitata);

b) per altro verso viene
estesa la fattispecie penale di cui all’art. 517, includendovi oltre ai
prodotti “industriali” anche quelli “agricoli”, attesa la innegabile
distinzione tra i due tipi di prodotti e la crescente importanza che hanno
assunto i prodotti agricoli per la coscienza ecologica e alimentare della
popolazione. Infatti nell’art. 517 si menzionano solo
i prodotti industriali (oltre che le opere dell’ingegno), mentre nel suddetto
comma 49 si fa riferimento ai prodotti tout court. Applicare l’art. 517 c.p. ai
prodotti tipici agricoli prima dell’entrata in vigore della norma in esame
avrebbe configurato una violazione del principio di legalità e tassatività del diritto penale;

c) oltre che l’oggetto materiale,
viene anche dilatata la condotta del reato, giacchè
se l’art. 517 incrimina la commercializzazione di prodotti con segni atti a indurre in inganno il compratore, il ripetuto comma 49
penalizza la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci
indicazioni di provenienza. Orbene, secondo il significato proprio delle
parole, “falsa” è quella indicazione di origine o
provenienza che non corrisponde alla realtà; mentre “fallace” è un’indicazione
che, pur non essendo propriamente falsa, trae o può trarre in inganno i
soggetti che agiscono nel mercato circa la origine o provenienza del prodotto.
Ne deriva che la condotta del reato previsto dalla norma codicistica coincide
con una fallace indicazione della origine o
provenienza del prodotto, mentre la condotta del nuovo reato comprende non solo
la fallace ma anche la falsa indicazione della origine o provenienza.

Per quest’ultimo
aspetto la nuova fattispecie è assimilabile al reato di cui all’art. 474 c.p., da cui peraltro si
differenzia perché in questo la falsità è per così dire specifica,
perfezionandosi attraverso una contraffazione o alterazione del marchio . Si
può coerentemente concludere che il reato introdotto
dalla legge finanziaria 2004
ha una duplice oggettività giuridica perché tutela non
solo l’ordine economico, ma anche la fede pubblica.

In linea con questa concettualizzazione, il legislatore del 2003, che, come si
è già notato, era mosso soprattutto dall’intenzione di tutelare il made in Italy rispetto ai
prodotti stranieri, ha cura di precisare, peraltro, si badi
bene, a mo’ di semplice esemplificazione, che costituisce falsa indicazione la
stampigliatura “made in Italy”
su prodotti non originari dell’Italia ai sensi della normativa europea
sull’origine; mentre costituisce fallace indicazione l’uso di segnali atti a
far ritenere che l’origine del prodotto è italiana, anche quando sia indicata
l’origine italiana del medesimo (in tal caso l’indicazione complessiva non è
falsa, perché attesta la derivazione estera, ma è appunto fallace, ossia
ingannevole, perché può far ritenere che il prodotto abbia origine o
provenienza dall’Italia).

5- A questo punto occorre
però precisare qual è la normativa europea sull’origine a cui si
riferiscono i citati commi 49 e 61 dell’art. 4 della legge finanziaria e come
essa definisce la nozione di origine.

Si deve considerare al riguardo il Regolamento CEE n. 2913 del 12.10.1992, che ha istituito
il codice doganale comunitario e ha definito negli artt. 22-26 l’origine delle
merci ai fini doganali.

Orbene, nell’art. 23 si definiscono
originarie di un paese le merci interamente ottenute in tale paese, precisando
che per tale devono intendersi: a) i prodotti minerali estratti nel suo
territorio; b) i prodotti del regno vegetale ivi raccolti; c) gli animali vivi,
nati e allevati in detto paese; d) i prodotti che provengono da animali vivi
che ivi sono allevati; e) i prodotti della caccia e della pesca ivi praticate;
f) i prodotti della pesca marittima e gli altri prodotti estratti dal mare da
navi immatricolate o registrate in tale paese e battenti
bandiera del medesimo; g) le merci ottenute a bordo di navi-officina
utilizzando i prodotti di cui alla lettera f); h) i prodotti estratti dal suolo
o dal sottosuolo marino situato al di fuori delle acque territoriali, semprechè tale paese eserciti diritti esclusivi per lo
sfruttamento di tale suolo o sottosuolo; i) i rottami e i residui risultanti da
operazioni manifatturiere e gli articolo fuori uso, semprechè
siano stati ivi raccolti e possano servire unicamente al recupero di materie prime;
j) le merci ottenute esclusivamente dalle merci di cui alle lettere da a) a i)
e i loro derivati, in qualunque stadio essi si trovino.

Come è evidente si tratta sempre di merci
la cui qualità è in qualche modo identificabile in relazione alla loro origine
geografica, così come per i prodotti agricoli e alimentari di cui al Reg. CEE n. 2801/1992. Sembra logico dedurne che il
legislatore nazionale del 2003 nel riferirsi alla nozione europea di origine abbia inteso richiamare la categoria di
derivazione geografica (solo) per quei prodotti di tipo agricolo, minerario o
animale, le cui caratteristiche siano in qualche modo collegate al loro
ambiente territoriale.

E’ ben vero che quando alla
produzione delle merci contribuiscono due o più paesi l’art. 24 del Reg. CEE n. 2913/92 definisce come
paese d’origine quello in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione
sostanziale, atteso che per le esigenze del commercio internazionale l’origine
della merce deve essere sempre radicata in un solo paese. Ma ritratta appunto
di una nozione di origine che è stabilita per il
funzionamento del codice doganale comunitario, non già per la tutela dei
consumatori dalle frodi e dei produttori dalla illecita concorrenza.

Si può quindi concludere
che, richiamando la nozione europea di origine l’art. 4, comma 49, della legge
350/2003 non ha modificato la corretta interpretazione che si deve dare della
origine o provenienza di un prodotto ai fini della tutela penale dell’ordine
economico o della fede pubblica. Posto che a tali fini
origine e provenienza sono funzionali alla qualità del prodotto,
rileverà la derivazione territoriale o quella imprenditoriale secondo che la
qualità del prodotto dipenda dall’ambito geografico o dalla tecnica produttiva
in cui la merce nasce.

6 – Così precisata la portata
normativa della nuova disposizione, sembra doversi concludere
che essa configura una nuova fattispecie di reato, che rinvia quoad poenam all’art. 517 c.p., ma che si distingue sia dalla vendita dei prodotti
industriali con segni “mendaci” (rectius ingannevoli)
di cui all’art. 517 c.p., sia dalla importazione e
commercio di prodotti industriali con segni “falsi” (rectius
contraffatti o alterati) di cui all’art. 474 c.p.. In
sintesi, la propensione casistica del nostro legislatore penale ha elaborato
nella soggetta materia tre fattispecie penali, le quali non possono
distinguersi tra loro che nel modo seguente:

a) il reato di cui all’art. 474 c.p.
punisce la commercializzazione di prodotti industriali (oltre che di opere dell’ingegno) con marchi o segni distintivi
contraffatti o alterati, e tutela propriamente la fede pubblica: la rubrica
dell’articolo non è esatta laddove menziona i segni “falsi”, giacchè vi possono essere segni distintivi falsi, in quanto
non rispondenti alla realtà (per esempio una bottiglia di vino indica
falsamente la sua provenienza toscana), senza che costituiscano contraffazione
o alterazione di marchi preesistenti;

b) il reato di cui all’art. 517 c.p.
punisce la commercializzazione di prodotti industriali (oltre che di opere dell’ingegno) con marchi o segni distintivi
fallaci, cioè atti a trarre in inganno sulla origine, provenienza o qualità del
prodotto, anche se i marchi non sono registrati o giuridicamente protetti come
tali;

c) il reato di cui al comma 49
dell’art. 4 della legge 350/2003 punisce la commercializzazione di di prodotti industriali ed
agricoli con indicazione di origine o provenienza falsa, cioè non
corrispondente alla realtà, oppure fallace, cioè atta a trarre in inganno sulla
origine o provenienza medesima; e ciò anche se si tratta di indicazioni
consistenti in segni distintivi, emblemi o denominazioni non registrati né
giuridicamente riconosciuti.

Poiché la fattispecie di cui all’art.
517 ha
carattere sussidiario, applicandosi espressamente solo se il fatto non è
previsto come reato da altra disposizione di legge, bisognerebbe concludere che
il suo specifico ambito di operatività è limitato alla commercializzazione con
segni ingannevoli di opere dell’ingegno (letterarie, musicali, etc.). Per il
resto è stata assorbita dalla nuova figura criminosa, che ha un’estensione più
ampia sia per l’oggetto materiale (prodotti non sol industriali, ma anche
agricoli) sia per la condotta (indicazione di segni
distintivi falsi e non solo fallaci).

Com’è evidente, solo negli ultimi due
reati assume rilevanza la provenienza, l’origine o la qualità del prodotto,
trattandosi di reati contro l’ordine economico: Ma, come già osservato, dei tre
elementi menzionati, quello che ha rilievo decisivo è la qualità, giacchè provenienza e origine sono sempre in funzione della
qualità.

In conclusione si può a questo punto
osservare quanto segue, in linea con le considerazioni già svolte nei seguenti
paragrafi:

in genere, relativamente ai prodotti
industriali la cui qualità dipende dalla affidabilità tecnica del produttore,
per origine del prodotto deve intendersi la sua origine imprenditoriale, cioè
la sua fabbricazione da parte di un imprenditore che assume la responsabilità
giuridica, economica e tecnica del processo produttivo;

invece, relativamente ai prodotti agricoli
o alimentari che sono identificabili in relazione all’origine geografica, la
cui qualità dipende essenzialmente dall’ambiente naturale e umano in cui sono
coltivati, trasformati e prodotti, per origine del prodotto deve intendersi
propriamente la sua origine geografica o territoriale.

7 – Questa lunga
analisi è stata
necessaria per dipanare la matassa di una normativa eccessivamente casistica;
ma consente ora di affrontare molto più agevolmente la fattispecie oggetto del
ricorso.

La società italiana (omissis),
produttrice di capi d’abbigliamento sportivo, si è avvalsa della delocalizzazione del processo produttivo, facendo
fabbricare in Cina i capi d’abbigliamento, verosimilmente per lucrare il minor
costo del lavoro sempre conservando per sé un qualche controllo sulla tecnica
di fabbricazione, e successivamente ha importato in
Italia i prodotti finiti. Le confezioni importate recavano un’etichetta con la
composizione del tessuto e con la dicitura (omissis)- ITALY, oppure un
cartellino con la scritta (omissis) e un riquadro sottostante con la dicitura
ITALY e i colori della bandiera italiana.

All’evidenza si tratta di prodotti la
cui qualità dipende dalla identità del produttore e
non dall’ambiente geografico di fabbricazione.

Perciò il comportamento della s.r.l.
(omissis) non integrava il reato di cui al comma 49 dell’art. 4 legge 350/2003,
giacchè i prodotti tessili così importati non
recavano alcuna falsa o fallace indicazione sulla origine
imprenditoriale, l’unica rilevante per la qualità dei prodotti. Al contrario le
etichette e i cartellini contenevano l’indicazione veritiera sulla
identità del produttore (omissis) e sulla nazionalità del medesimo
(italiana), a nulla rilevando che non fosse indicato anche il luogo di
fabbricazione (cinese), giacchè i capi
d’abbigliamento sportivo e in genere i prodotti tessili non sono identificabili
in relazione alla origine geografica, atteso che la loro qualità è assicurata
dalla materia prima usata e dalla tecnica produttiva e non certo dall’ambiente
territoriale dove il processo produttivo si svolge.

Vero è che ilo marchio
nazionale made in Italy è
stato pensato per tutelare le “merci integralmente prodotte sul territorio
italiano o assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine
(comma 61 del ripetuto art. 4). Ma è anche vero che
tale marchio non è stato istituito e che i capi d’abbigliamento sportivo
fabbricati in Cina dalla società (omissis) non recavano alcuna stampigliatura con
la scritta made in Italy.

Correttamente quindi il giudice per
le indagini preliminari ha ritenuto mancante il fumus
del reato ipotizzato e insussistente il presupposto legale del sequestro
probatorio disposto sui capi d’abbigliamento importati dalla società. Il
ricorso del Pubblico Ministero contro la ordinanza di
dissequestro è pertanto destituito di fondamento giuridico.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma il 17.2.2005.