Penale

Thursday 13 March 2003

Custodia cautelare in carcere. Il pericolo di reiterazione dei reati deve assumere caratteri di concretezza e non meramente ipotetici Cassazione – Sezione Quinta Penale – Sentenza 25 febbraio 2003 n. 9008

Custodia cautelare in carcere. Il pericolo di reiterazione dei reati deve assumere caratteri di concretezza e non meramente ipotetici

Cassazione – Sezione Quinta Penale

Sentenza 25 febbraio 2003

9008/2003

Sentenza.

Presidente G. Ietti

Relatore P. Marini

La Corte osserva

Il mattino del 30.1.2002, all’interno della propria abitazione familiare sita in frazione Montroz del Comune di Cogne, trovava la morte il piccolo (omissis) di anni tre.Verso le ore 8,51/8,52, l’abitazione era stata raggiunta da un elicottero del servizio di emergenza sanitaria (il 118) allertato dalla chiamata telefonica di A. F., madre di (omissis) – avendo costei informato l’operatrice che il bambino trovavasi in gravi condizioni, vomitando sangue dalla bocca – ma i primi soccorsi prestati al piccolo -presentante una profonda ferita al capo con fuoriuscita di materia cerebrale e subito apparso in stato comatoso-terminale – non avevano potuto comunque scongiurare il decesso, constatato alle ore 9,55 presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Aosta.

Le indagini, immediatamente avviate su un fatto fortemente qualificabile come omicidiario in ragione della vastità delle lesioni e delle modalità di tempo e luogo in cui queste erano state assai verosimilmente provocate, muovevano, in particolare, dalle dichiarazioni della F..

Costei riferiva, dunque, di avere rinvenuto (omissis) “in una pozza di sangue” sul letto matrimoniale nella camera posta al piano seminterrato della villetta, alle ore 8,24 circa, allorché ella aveva fatto rientro nella casa – dalla quale era uscita alle ore 8,15 per accompagnare il figlio maggiore (omissis) alla fermata dello scuolabus posto alla distanza di circa 250 metri – e di avere immediatamente invocato aiuto a voce dalla vicina D. F. e, a mezzo telefono ed in sequenza, dal servizio del 118, e dalla Dott.ssa A. S.; quest’ultima, giunta nell’abitazione verso le ore 8,31/8,32, aveva prestato le prime cure al piccolo, detergendo le ferite e praticando una iniezione di cortisone e, quindi, l’aveva condotto all’esterno onde accelerare al massimo le operazioni di prelievo e trasporto in ospedale.

Secondo la narrazione della F., ella, dopo avere preparato la colazione per (omissis) ed essersi vestita abbandonando il pigiama sul letto matrimoniale, aveva definitivamente accudito il figlio maggiore, avviandolo quindi all’uscita di casa: prima di seguire (omissis), tuttavia, ella si era dovuta trattenere ancora un poco all’interno dell’abitazione perché, richiamata dal pianto di (omissis), aveva trasferito il piccolo nel letto matrimoniale, al fine di tranquillizzarlo e, quindi, scalzatasi degli zoccoli – che aveva riposto nella zona antistante il bagno al piano superiore – ed indossati un paio di stivaletti, aveva raggiunto il figlio maggiore, accompagnandolo sino alla fermata del servizio di scuolabus (aggregandosi in itinere la piccola omissis). Già nell’ambito delle prime indagini, dunque, una consulenza tecnica (prof. V.) disposta dal pubblico ministero, confermava, in esito agli esami autoptici, la riconducibilità della morte ad un evento traumatico esterno di assoluta violenza – inducente plurime ferite (almeno diciassette) di verosimile natura da punta e taglio, con l’esito finale di un trauma cranico aperto con edema cerebrale acuto – ed autorizzava a collocare la morte c.d. relativa o clinica “tempuscolo più tempuscolo meno, intorno ai 10-12 minuti dall’aggressione”, successivamente corretti, per approssimazione ragionevole di stima, di ulteriori cinque minuti; le lesioni mortali, peraltro, risultavano imputabili ad una aggressione sicuramente consumata all’interno della camera coniugale – nella quale erano state repertate numerose macchie di sangue – e temporalmente collocabile prima delle 8,29 – ora di ingresso della F. nell’abitazione dei L. – nonché attendibilmente scaricata sulla persona del piccolo ancora sdraiato sul letto matrimoniale ed in grado di vedere in viso, sia pure per un attimo, il proprio assassino.In data 13.3.2002, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Aosta, in accoglimento della richiesta del Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale -sostenuta, in particolare, da una consulenza dei RACIS di Parma in ordine alle tracce ematiche repertate segnatamente sul pigiama e sugli zoccoli della F. – emetteva ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti della F. per il delitto di omicidio volontario aggravato, ravvisando a suo carico i gravi indizi di colpevolezza ed il concreto pericolo di reiterazione criminosa.

L’ordinanza, invero, apprezzava in senso indiziante anzitutto il fatto che la F. avesse mentito su diverse circostanze di assoluto rilievo, sia affermando, ed in ciò contraddicendo l’iniziale sua narrazione, di non avere chiuso a chiave la porta di ingresso al momento in cui si era allontanata dall’abitazione per accompagnare il figlio maggiore (omissis) alla fermata dello scuolabus, sia sostenendo di avere calzato gli zoccoli – sui quali erano state rinvenute tracce ematiche – all’arrivo nella villetta della F. e della Dott.ssa A. S., e infine, di avere operato il cambio delle calzature solo in tal frangente, su invito di essa S., riponendo gli zoccoli nella zona di disimpegno di accesso al bagno al piano superiore e reinfilandosi gli stivaletti, per poi correre all’ospedale unitamente al coniuge, nel frattempo sopraggiunto; considerava altresì sufficiente alla commissione del delitto da parte dell’indagata, pur tenendo conto delle di lei dichiarazioni, il tempo a disposizione precedente il momentaneo allontanamento dall’abitazione, nonché credibile che l’aggressione fosse stata operata nella frazione temporale immediatamente precedente l’uscita di casa della indagata e da persona sicuramente indossante il pigiama e gli zoccoli, atteso che sia sull’indumento (rinvenuto sul letto, in posizione diversificata nei due elementi) sia sulle calzature (rinvenute ordinatamente nella zona di disimpegno attiguo al bagno al piano superiore), erano state rilevate macchie di sangue umano riferibili alla piccola vittima.

Pur non raggiunta certezza dell’ora esatta del decesso e, conseguentemente, del compimento dell’azione omicidiaria, e neppure mai ritrovata l’arma del delitto né individuato il movente del medesimo, infine, non ad altri soggetti pur genericamente sospettati (ma portatori di alibi attentamente verificati), ovvero ad un qualsiasi terzo estraneo al contesto familiare in cui si era mossa l’indagata quel mattino, poteva attribuirsi la paternità dell’omicidio, attesene le peculiari modalità di esecuzione spazio temporali, quali inconciliabili con l’ipotesi di ingresso di un extraneus nell’abitazione, peraltro questa stessa verosimilmente inaccessibile per avere la F. chiuso a chiave la porta di casa, e di una condotta omicidiaria tenuta nell’immediatezza. Investito con istanza di riesame dell’indagata – che in sede di interrogatorio di garanzia aveva decisamente negato l’addebito – il Tribunale di Torino, con ordinanza 30.3.2002, annullava il provvedimento coercitivo, restituendo quindi la F. alla condizione di piena libertà, sul rilievo che gli elementi apprezzati dal Gip in realtà non presentavano, né ad una verifica della loro consistenza individuale, né ad una congiunta valutazione, connotazione di precisione, univocità e convergenza, tale da accreditarli di capacità gravemente indiziante nel senso inteso dall’art. 273 comma 1 codice di rito.

In particolare, il giudice del riesame considerava:

non conducente, nel limitato contesto temporale in cui la vicenda si era sviluppata, il fatto che (omissis) avesse potuto “conoscere” il proprio assassino;

insufficiente alla commissione del delitto l’arco temporale – calcolabile fra le 8,24 (ora del presumibile rientro in casa) e le 8.,27 e 30 minuti secondi, allorché la F. aveva effettuato le plurime telefonate di aiuto (attestate dai tabulati), ovvero le ore 8,29 coincidenti con l’arrivo della F. -nel quale l’indagata era rimasta sola con (omissis);

difficilmente conciliabile con i risultati degli accertamenti medico-legali, eseguiti dal consulente del PM, l’ipotesi di una aggressione compiuta tra le 8,14 e le 8,15, e cioè immediatamente a ridosso del momento dell’uscita di casa della donna, in ragione della pluralità di incombenti ipotizzati come necessariamente assolti dall’omicida (le sostituzioni dell’abito e delle calzature, il trasferimento degli zoccoli al piano superiore, l’eliminazione delle tracce di sangue dalla propria persona, l’occultamento dell’arma);

autorizzata, dal mancato rinvenimento di tracce ematiche di strofinio o da contatto sul pigiama, la conclusione che l’indumento non fosse indossato dall’omicida nell’atto di sferrare i colpi mortali, sicché le macchie potevano derivare dalla stessa esposizione dell’indumento sul letto su cui si era consumato il delitto;

e) non probanti del fatto che gli zoccoli fossero stati calzati dall’assassino, né la macroscopica traccia ematica rinvenuta sul plantare di quello sinistro, né le microtracce ematiche repertate allo interno dei medesimi;

non escludibile che l’indagata avesse omesso imprudentemente di chiudere a chiave dietro di sé la porta dell’abitazione, così da consentire l’ingresso di un terzo estraneo all’ambiente familiare, in un quadro probatorio difettante dell’alibi per una parte dei componenti la famiglia dei vicini G.- F., nonché di riferibilità alla D. F. di una sufficiente conoscenza delle abitudini della F. e della disposizione degli ambienti della casa;

non incompatibile con l’ipotesi di preordinata aggressione da parte di un terzo l’impiego di un’arma impropria (peraltro mai ritrovata);

significativo, in senso favorevole all’indagata, il fatto che a carico di costei non fosse in alcun modo emersa una qualche situazione di stress o di tipo psicotico o nevrotico, tale da indurre una azione tanto violenta quale quella posta in essere sulla persona del figlio.

Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Aosta proponeva ricorso per cassazione e la Suprema Corte, con sentenza 10.6.2002, annullava l’ordinanza impugnata, rinviando per nuovo esame al Tribunale di Torino.

Il giudice di legittimità, invero, giudicava manifestamente illogico il metodo di valutazione degli indizi adottato dal tribunale del riesame; a tal giudice rimproverava, infatti, di avere operato un apprezzamento degli indizi separato ed atomizzato, oltre che “in una direzione specifica e preconcetta” e, in particolare, di avere escluso la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagata non già rendendo conto della valenza indiziante degli elementi probatori nel loro insieme e nella loro unitaria coordinazione, bensì ipotizzando, arbitrariamente ed aprioristicamente, l’ingresso di un terzo nell’abitazione sulla base di alternative spiegazioni non agganciate a dati reali significativi: fissava al giudice di rinvio, pertanto, il principio che si dovesse procedere a nuova e puntuale verifica dei dati probatori posti a fondamento dell’ordinanza cautelare, prescindendo da non autorizzati condizionamenti preventivi, nonché evitando il ricorso a spiegazioni alternative dei singoli indizi “come altrettanti anelli di una catena probatoria finalisticamente orientata verso una soluzione che appare scopertamente il frutto di una congettura personale disancorata dalla realtà, svilendo in modo aprioristico e fantasioso una ricostruzione logica e sintomaticamente convergente per sostituirla con un’altra non altrettanto logica e sintomaticamente convergente”.

In sede di rinvio, il Tribunale di Torino – acquisiti, nelle more, una perizia,psichiatrica, espletata nelle forme dell’incidente probatorio ed attestativa della piena capacità di intendere e di volere dell’indagata al momento del fatto, una consulenza tecnica sulle cause della morte di (omissis), segnalaziani dei GC del RACIS di Parma ed una relazione integrativa degli stessi militari, accertamenti del reparto operativo dei CC di Aosta, la trascrizione integrale dell’interrogatorio di garanzia, le ritrascrizioni integrali di registrazioni ambientali già presenti in atti – in esito all’udienza 19.9.2002, nel corso della quale il difensore dell’indagata ha altresì depositato il fascicolo delle investigazioni difensive (comprensive dell’esame di (omissis) ex art.391 bis cod.proc.pen.), ha emesso ordinanza reiettiva della richiesta di riesame.

Il Tribunale torinese, invero, ribadita la riconducibilità della morte di (omissis) ad un “trauma cranico di vaste proporzioni con sfacelo traumatico fratturativo del neurocranio, perdita di sostanza cerebrale imponente e rapida anemia metaemorragica, schock ipovolemico, edema cerebrale maligno provocato da una pluralità di ferite inferte al capo”, ha anzitutto confermato l’assoluta indeterminabilità dell’ora precisa del decesso, risultando possibile unicamente affermare, in base ad accertamenti univoci – gli elementi clinici, diagnostici e testimoniali – che (omissis) era certamente morto al momento di intervento dei primi soccorsi “qualificati” (ore 8,31/8,32).

Ha ritenuto poi, quanto al tempus commissi delicti, che proprio l’impossibilità di ipotizzare un’ora precisa della morte “pur con ampia forbice probabilistica”, come infine dichiarata dal consulente Dott.V. (e spiegata per la carenza di immediati rilievi e di ritardato accesso alla salma), non consente di individuare il momento preciso dell’aggressione, difettando il necessario termine ad quem per operazioni di retrodatazione che pur volessero considerare il probabile tempo di sopravvivenza (già calcolato dallo stesso consulente in 10/12 minuti, aumentabili di 5 minuti con “ragionevole approssimazione”), reso da fenomeni di c.d. reviviscenza equivoci e verosimilmente ricollegabili all’attività rianimatoria tentata sul cadavere.

Ha ritenuto, ancora, perfettamente provato l’alibi dell’indagata per il lasso di tempo intercorso fra le ore 8,16 e le ore 8,24 (pienamente coperto dal trasferimento sino alla fermata dello scuolabus e dal ritorno all’abitazione, quale riscontrato sulla base delle dichiarazioni testimoniali e dall’esito di un esperimento in loco), nonché sicuramente condivisibile il giudizio di insufficienza della fascia temporale immediatamente successiva – ed arrestatasi alle ore 8,27 e 30 secondi, coincidenti con la prima chiamata telefonica di soccorso – a consentire l’omicidio e le susseguenti operazioni di sostituzione degli indumenti e delle calzature, recupero del pigiama e degli zoccoli, nuovo ed integrale cambio dell’abbigliamento (alla F. ed alla S. l’indagata era apparsa vestita ed in stivaletti), lavaggio della persona, occultamento dell’arma, incombenti tutti impegnativi di un tempo decisamente superiore ai poco più dei tre minuti rimasti “scoperti”.

E, tuttavia, ha considerato come collocabile, a livello probatorio, la commissione dell’omicidio nella. fascia oraria antecedente le ore 8,15/8,16 – allorché l’indagata era rimasta in casa con (omissis) – fermo che in alcun modo è risultato il momento in cui il piccolo venne visto per l’ultima volta in vita da persone diversa dall’indagata medesima.

Movendo da tale valutazione, sulla premessa che le risultanze dell’attività investigativa – il rinvenimento di una estesa chiazza ematica, con frammenti ossei e materia cerebrale, proprio sul cuscino e sulla zona sottostante del materasso, nonché di altre vistose macchie sul lenzuolo e sul piumone, e di ulteriori e plurime sulla spalliera del letto e sulla parete di fondo della stanza – autorizzano a ritenere che l’omicidio sia stato commesso all’interno della camera da letto dei coniugi L. e proprio sul letto matrimoniale e, inoltre, che il piccolo sia stato mortalmente attinto trovandosi in posizione supina (così come presentatasi alla F. ed alla Dott.ssa S.), il Tribunale ha attribuito valenza gravemente indiziante, nei confronti dell’indagata, a plurimi elementi desunti dalle indagini quali:

la fisica collocabilità dell’aggressore, nel momento in cui vennero sferrati i colpi, proprio sul letto ed in ginocchio, in corrispondenza del fianco sinistro della vittima, salvo che per un colpo, inferto stando in piedi accanto al comodino ed al lato sinistro del letto visto dal fondo, brandendo con il braccio destro un oggetto di media pesantezza, provvisto di manico;

la presenza di tracce ematiche, riferibili alla vittima e giudicate “da impatto”, sui due elementi del pigiama (casacca e pantaloni), tracce tali, per loro orientamento, consistenza e localizzazione, da non rendere credibile un accidentale imbrattamento dell’indumento offerentesi, nelle due componenti, soltanto indirettamente agli schizzi, ma sì, invece, da rendere compatibile .una esposizione dei capi diretta ed assai prossima all’azione di brandeggio dell’arma, coinvolta nell’azione medesima;

il rinvenimento della casacca del pigiama (al rovescio) nella parte bassa del letto, tra il lenzuolo copri-materasso ed il lenzuolo superiore, e dei pantaloni, invece, sopra il copriletto, sì da negar credito alla narrazione dell’indagata di avere disordinatamente gettato i due capi sul letto, ed alla conseguente tesi difensiva di un comune e generale imbrattamento provocato dallo spostamento del piumone operato dall’indagata per scoprire il bambino (non essendo risultato, poi, che il pigiama fosse stato spostato né dalla S. né dall’equipe sanitaria del 118 che aveva operato i soccorsi all’esterno dell’abitazione, laddove il piccolo era stato trasferito in un approssimativo giaciglio);

la presenza di tracce ematiche, riconducibili alla vittima, sulle suole degli zoccoli dell’indagata, qualificabili anch’esse, per loro conformazione, “da impatto” e, dunque, non ricollegabili ad un fatto di imbrattamento da mero calpestio del pavimento della stanza nella fase di primo soccorso;

la falsità della narrazione dell’indagata circa l’uso degli zoccoli in tale fase, quale denunciata dalle confliggenti dichiarazioni dei testi immediatamente intervenuti sulla scena del delitto (e, in particolare, della S.), concordi tutti nel ricordare che la F. calzasse viceversa un paio di stivaletti (e “riscontrati” dal rinvenimento di una macchia di sangue della vittima proprio su uno di questi);

la natura attendibilmente “impropria” dell’arma usata dall’omicida (pur mai ritrovata), descritta, dal consulente medico legale del pubblico ministero, in termini rappresentativi di un oggetto non prettamente finalizzato all’offesa, e tale, pertanto, da non conciliarsi con l’ipotesi difensiva di riconducibilità del fatto ad un terzo estraneo al nucleo familiare che avesse progettato il delitto e si fosse quindi introdotto nell’abitazione profittando del temporaneo allontanamento della F., perché tale ipotetico soggetto non avrebbe esitato – attesi i ridotti margini temporali in cui avesse prescelto di intervenire ed a rischio di essere sorpreso dal rientro della donna – a munirsi di un mezzo d’offesa maggiormente idoneo ad assicurargli il più rapidamente possibile il risultato prefissatosi, e tale piuttosto, da rendersi decisamente compatibile con una condotta aggressiva d’impeto, assai meglio riferibile a soggetto non così temporalmente condizionato. Il Tribunale, ancora, ha affrontato il tema della valenza probatoria delle dichiarazioni di (omissis), assunte dalla difesa ex art.391 bis cod.proc.pen. – a mente delle quali questi avrebbe salutato (omissis) non solo nel momento in cui egli e la madre si accingevano ad uscire, ma anche in quello immediatamente successivo nel quale (omissis) era stato trasferito nel “lettone” – attribuendo alle stesse un tasso di affidabilità decisamente inferiore rispetto a quello assegnabile alle dichiarazioni già rese nella primissima fase di indagine – connotate da un minore coinvolgimento emotivo del bambino, per non avere egli verosimilmente preso ancora coscienza della perdita del fratellino – nonché in qualche misura “anomale” o, addirittura, contraddette dalla stessa narrazione dell’indagata (la circostanza del “saluto” al fratellino); e, infine, ha evidenziato la carenza di qualsiasi elemento oggettivo che possa ricondurre il delitto ad un extraneus che si fosse introdotto nella casa profittando dell’imprevista disponibilità di una porta d’accesso non richiusa a chiave (tesi, peraltro, non creduta dal Tribunale), si fosse, quindi, vestito del pigiama dell’indagata e ne avesse indossato gli zoccoli e, commesso il delitto e sostituito l’indumento, fosse poi fuggito senza essere notato da alcuno (pure essendo risultato che taluni vicini di casa erano transitati nella zona tra le 7,55 e le 8,30 circa).

Ravvisato, per tali considerazioni, il grave quadro indiziario ex comma 1 dell’art. 273 cod.proc.pen., il Tribunale – preso atto della perizia psichiatrica, che ha dichiarato l’indagata capace di intendere e di volere al momento del fatto, nonché dotata di un “ipercontrollo rigido dell’aggressività”, ed altresì ritenuto il delitto, per le modalità di sua commissione, come connotato da un tipico dolo d’impeto presupponente un fattore scatenante o dirompente, peraltro rimasto assolutamente insondato – ha giudicato la custodia in carcere unica misura adeguata ad ovviare al concreto ed elevato pericolo di reiterazione criminosa specifica, quale desumibile sia dalle modalità del fatto, rappresentative di una aggressività inibita ma latente ed imprevedibile e, pertanto, di una possibile ripetizione di analoga condotta delittuosa pur dopo il trascorrere di un certo lasso temporale dall’epoca dei fatti – “posto che il quotidiano svolgersi della vita di relazione e, quindi, gli eventi più insignificanti, possono fornire infinite occasioni alla prevenuta per fare esplodere, nuovamente, quell’aggressività repressa di cui è portatrice (e che l’indagata ha già dimostrato di non saper dominare, neppure contro il figlio minore)” – sia dalla condotta estremamente reattiva e lucida tenuta nell’immediatezza del delitto nonché medio tempore attestativa di speciale capacità manipolatoria, insospettabile tenuta psicologica, sorprendente capacità elaborativa di una strategia difensiva, ed infine sintomatica, anche per l’assoluto rifiuto collaborativo, di una non maturata presa di coscienza della gravità del fatto, profili tutti giustificativi della prognosi di una reale condizione di pericolosità sub specie di ragionevolmente prevedibile incapacità di controllo dei freni inibitori

La F., a mezzo del difensore, propone ricorso per cassazione. Con un primo motivo, la ricorrente denuncia difetto di motivazione quanto alla gravità del quadro indiziario, sotto il profilo della illogicità del percorso argomentativo e del travisamento delle risultanze delle indagini, rilevando che l’ordinanza impugnata avrebbe operato una ricostruzione del fatto per più versi difforme da quella resa nella prima ordinanza del giudice del riesame, nonché avrebbe fornito insufficiente risposta alle osservazioni difensive, pur sorrette da accertamenti dei consulenti tecnici, sì da tradursi in un giudizio possibilistico, quando non apodittico, per ciascuna delle circostanze elevate a dignità di indizio.

Ed invero:

quanto all’ora della morte, sarebbe stato pretermesso ovvero equivocato il tema pur prospettato della sopravvivenza, argomento tale, ad avviso della difesa, da giustificare la collocazione di detta ora, mediante aritmetico calcolo a ritroso, nella fascia temporale ricompresa nell’approvato alibi dell’indagata (il periodo di sua momentanea assenza dall’abitazione);

la posizione dell’aggressore – neppure considerata nel primo provvedimento di riesame – sarebbe stata unicamente supposta nelle due diverse collocazioni, e, comunque, illogicamente sarebbe stata ritenuta irriferibile a soggetto diverso dall’indagata;

la presenza delle tracce ematiche rinvenute sulla parete – comò, ritenuta dimostrativa di un colpo (almeno) inferto dall’aggressore “posto in piedi accanto al comodino ed al lato sinistro del letto”, sarebbe stata illogicamente considerata compatibile con l’ipotesi di una azione omicidiaria principalmente posta in essere da un soggetto salito sul letto;

la proiezione delle tracce ematiche sul pigiama dell’ indagata sarebbe stata illogicamente considerata come prodotta su abito contestualmente indossato e, comunque, la rilevata assenza di tracce di strofino o spalmatura sull’indumento sarebbe stata spiegata per possibile assorbimento del tessuto sulla base di un ragionamento ascientifico e non sorretto da un qualsiasi riferimento alla natura del tessuto medesimo, ovvero meramente ipotizzando, ed ancora in termini illogici, che l’aggressore, ancor prima di spogliarsi, avrebbe avuto cura di lavarsi le mani lordate del sangue;

privo di logica risulterebbe poi il rifiuto di un fatto di imbrattamento del pigiama (pur rivenuta la casacca, al rovescio, tra le lenzuola ed il materasso e separata dai pantaloni viceversa ritrovati sopra il copriletto) provocato da un inavvertito spostamento dell’indumento durante la fase dei primi soccorsi che avevano coinvolto il letto e, segnatamente, il piumone, ed altrettanto illogicamente sarebbe stata ratificata l’ipotesi di un aggressore che, post delictum, si sarebbe liberato del pigiama, diversificando la collocazione dei due elementi:

per mera acritica adesione al giudizio degli esperti del RIS, poi, il giudice di rinvio avrebbe imputato le tracce ematiche, repertate sulle suole degli zoccoli, ad un fatto di impatto, così negando credito all’ipotesi dell’imbrattamento da calpestio nella fase dei primi soccorsi, ed illogicamente, sul punto, sarebbero state valorizzate le dichiarazioni S., F. e M. S. – nel senso che l’indagata in tale fase avrebbe calzato gli stivaletti – poiché la S. sarebbe stata accreditata irragionevolmente di un pieno recupero mnemonico dopo una originaria deposizione connotata da irrimediabile incertezza, mentre la F. ed il S. si sarebbero in realtà entrambi espressi in termini fortemente dubitativi, ed infine non sfuggirebbe a censura di illogicità l’introduzione, e valorizzazione in senso accusatorio, dell’ipotesi secondo cui l’indagata avrebbe immediatamente tentato di dirottare immediatamente l’inquirente verso un fatto di accidentalità, non avendo il giudice del riesame considerato che gli zoccoli non erano stati ancora sequestrati e le tracce ematiche sugli stessi non erano state cancellate (come non avrebbe mancato di fare chi, attuando una seria strategia difensiva, avesse voluto recidere ab origine ogni ipotizzabile collegamento fra le medesime e l’omicidio);

il giudizio di improprietà dell’arma, come sintomatica di un delitto di impeto riconducibile unicamente all’indagata, sarebbe il frutto della apodittica affermazione che altro soggetto non potesse parimenti agire nelle condizioni di tempo e luogo in cui il delitto si è consumato;

il deprezzamento delle dichiarazioni di (omissis) acquisite in sede di indagini difensive – a mente delle quali sarebbe ricavabile che (omissis) era ancora vivo “a ridosso” delle ore 8,15 (essendo stato, in tal momento, visto e salutato dal fratello sulla soglia di casa) – trarrebbe da immotivata ovvero illogica prescelta delle prime dichiarazioni del minore, rese nell’immediatezza del fatto ma non sottoposte a compiuto raffronto, tanto più necessario in quanto trasfuse in nastro magnetico la cui materiale trascrizione, nelle versioni risultate all’accusa ed alla difesa, aveva fornito plurime discordanti risultanze.

Con un secondo motivo, poi, la ricorrente denuncia il vizio della motivazione, quale meramente apparente ovvero resa attraverso affermazioni manifestamente illogiche, in punto di ritenuta esigenza cautelare ex art. 274 lett. c) cod.proc.pen. laddove, individuato un dolo d’impeto, ed altresì ammesso che è rimasta ignota la ragione per cui la ricorrente, peraltro non affetta da patologia psichiatrica alcuna, si è trasformata in “lucida assassina”, sarebbe approdata ad un giudizio di pericolosità confliggente nonché incoerente rispetto all’acquisizione del dato certo di una vita anteatta assolutamente indenne da episodi in tal senso minimamente significativi oltre che di una condotta susseguente sotto ogni profilo irreprensibile. Il difensore ha quindi depositato, in data 15.1.2003, atto intestato come “motivi nuovi di ricorso”, con il quale:

denuncia la violazione di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, con riferimento agli artt.191, 359 e 360 cod.proc.pen., rimproverando all’ordinanza impugnata di non avere colto l’inutilizzabilità degli accertamenti tecnici non ripetibili effettuati dal RIS di Parma; a tale organo di polizia giudiziaria deputata ad atti tipici di indagine, sarebbe invero preclusa, quand’anche espressamente delegata, l’attività di consulenza in favore del pubblico ministero mediante accertamenti a contenuto valutativo, estendendoglisi, al pari di quanto è previsto per il giudice ed il pubblico ministero, ove ravvisata la necessità di indagini esigenti un approfondimento specialistico, il divieto di ricorrere alla propria scienza privata (come attesterebbe la previsione di cui all’art. 348 n. 4 codice di rito), tanto che sarebbe addirittura nella specie ravvisabile una carenza di potere produttiva di inesistenza dell’atto;

ulteriormente illustra il vizio motivazionale in punto di ritenuta esigenza cautelare del pericolo di reiterazione criminosa, sul rilievo che, quanto alla sintomaticità della gravità del fatto, la riconosciuta rilevante intensità del dolo confliggerebbe con l’individuazione di un dolo d’impeto, mentre poi sarebbe apodittica l’esclusione della eccezionalità ed irripetibilità della condotta a fronte della carenza di manifestazioni aggressive pregresse ricollegabili ad una qualsiasi patologia e, da ultimo, sarebbe censurabile, nel deprezzamento del dato di irreprensibilità della susseguente condotta, l’ipotesi di una finalizzazione della stessa ad ottenere, dopo il periodo di presofferta carcerazione, benefici incidenti sullo status libertatis senza invece considerarne la oggettiva capacità dimostrativa di una condizione di assoluto equilibrio e normalità, tale, pertanto, da contraddire la prognosi negativa.

Esige prioritario esame il motivo sub 1) di cui all’atto depositato in data 15.1.2003, ivi formulandosi una censura che, ove fondata, condurrebbe all’estromissione dal quadro indiziario di elementi ritenuti, dall’impugnata ordinanza, capaci di sorreggere il giudizio di elevata probabilità che il delitto sia attribuibile all’indagata e, pertanto, alla necessità di nuova motivazione che, in punto di gravità del quadro probatorio, considerasse soltanto i residui elementi non toccati dalla sanzione di inutilizzabilità.

Va anzitutto osservato che al motivo non sono totalmente estranei profili di inammissibilità laddove, nell’assumere, per ragione di incompatibilità o carenza di potere, l’inutilizzabilità dei risultati della consulenza del RIS di Parma “sul sequestrato”, la ricorrente non indica l’oggetto del sequestro operato da tale organo di P.G. (rivelandosi inidoneo allo scopo il richiamo al verbale di conferimento dell’incarico, che fa riferimento anche a “reperti in giudiziale sequestro”, pertanto già acquisiti ed identificabili, secondo pagg. 8/9 dell’ordinanza, quanto meno, nel pigiama e negli zoccoli dell’indagata), e tanto meno la persona che avrebbe materialmente assolto al duplice incombente (non risultando ovvero non risultando allegato che tutti i consulenti abbiano provveduto essi stessi all’acquisizione dei nuovi reperti), sì da non consentire alla Corte di esercitare il sollecitato sindacato sul punto. E, peraltro, il motivo è sicuramente destituito di fondamento.

Ed invero, sul presupposto incontestato che l’organo di polizia ha eseguito accertamenti tecnici non ripetibili (si trattava, infatti, di svolgere una approfondita indagine su tracce ematiche variamente localizzate e soggette, per loro natura, a modificazione, di tal che l’accertamento, che per di più avrebbe alterato lo stato dei luoghi e delle cose, non sarebbe stato utilmente rinviabile o riproducibile in un secondo momento), la regola di inutilizzabilità delle prove fissata al comma 1 dell’art. 191 cod.proc.pen., sia pure invocabile anche per la fase degli atti di indagine del pubblico ministero, trova applicazione, secondo jus receptum nelle pronunce dei giudici di legittimità, unicamente nelle ipotesi in cui le prove siano state acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge: sicché deve ritenersi che detta inutilizzabilità può discendere, in difetto di espressa e specifica previsione, soltanto dalla illegittimità in sé della prova stessa, desumibile dalla norma o dal complesso di norme che la disciplinano, e non invece soltanto dal fatto che la prova, in sé e per sé legittima, sia stata acquisita irritualmente.

Orbene, nella specie, la prova come assunta non incontra alcun espresso o implicito divieto di legge. Il pubblico ministero – cui è consentito, nell’ipotesi prevista all’art. 359 cod.proc.pen. quale riprodottasi nel caso in esame, nominare consulenti tecnici non necessariamente scegliendo persona iscritta nell’albo dei periti (art. 73 disp.att. al codice di rito) – ha accorpato in unico provvedimento del 2.3.2002 l’affidamento dell’incarico e la delega al sequestro di quanto rappresentativo della “appartenenza delle tracce di sangue e di altra sostanza biologica al minore (omissis) o a persona diversa”, come funzionale all’accertamento richiesto, ed è evidente che la materiale attività esecutiva del sequestro, operata dall’organo di polizia giudiziaria quale strumento dell’organo delegante cui l’atto resta soggettivamente riferibile, non si pone in alcun modo “in conflitto” con quella di consulenza su quanto legittimamente sequestrato. Il divieto di scienza privata, la cui violazione non è peraltro neppure presidiata da sanzione, non è, del resto, automaticamente trasferibile dal giudice e dal pubblico ministero all’organo di polizia giudiziaria – risiedendo la ratio di siffatto divieto nella necessità di escludere l’introduzione nel processo di elementi ignoti alle parti e da queste incontrollabili – e, non rinvenibile in alcuna norma dell’ordinamento processuale, certamente non è desumibile dalla richiamata previsione di cui al comma 4 dell’art. 348 cod.proc.pen., poiché tale norma è eccentrica rispetto al tema sollevato e, in realtà, unicamente autorizza la polizia giudiziaria, che agisca di propria iniziativa o su delega, a servirsi di persone idonee nel compimento di “atti” ed “operazioni”, esigenti specifiche competenze tecniche, non identificabili negli accertamenti (consistenti in elaborazione critica degli eseguiti rilievi) propri del consulente tecnico; mentre, e piuttosto, è di segno contrario la previsione di cui all’art. 354 comma 2 stesso codice, che autorizza la polizia giudiziaria – nel rischio di alterazione, dispersione o modificazione di cose, tracce e luoghi in uno alla impossibilità del pubblico ministero di intervenire tempestivamente – al compimento di accertamenti urgenti nonché al sequestro del corpo del reato e delle cose a questo pertinenti “se del caso” e, quindi, disegna una attività positiva di intervento che non può non riguardare anche gli accertamenti tecnici su quanto sequestrato, in difetto di limitazione testuale ed in presenza della specificità della ipotesi di cui al comma 4 dell’art. 348; una tale attività tecnica, consentita in via di urgenza, non potrebbe dunque essere negata alla polizia giudiziaria allorché, come nella fattispecie, proprio il pubblico ministero, tempestivamente intervenuto “in un caso di urgenza”, la ritenga necessaria sì da giustificare il conferimento dell’incarico a quelle stesse persone delegate alla acquisizione di quanto “contestualmente” giudicato assolutamente pertinente all’accertamento.

Né, sotto diverso profilo, peraltro non dedotto, potrebbe apprezzarsi una ragione di incapacità o incompatibilità ex combinato disposto degli artt. 225 comma 3 e 222 comma 1 cod.proc.pen., prevedendo tali norme un elenco tassativo e perciò inestensibile di situazioni ostative.

Mentre è evidente, infine, l’infondatezza dell’assunto “estremo” di inesistenza dell’atto, dovendosi escludere -per quanto osservato, ed altresì richiamato il concetto di inesistenza quale notoriamente elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza – che tale atto sia stato compiuto da organo privo del potere di emetterlo ovvero sia affetto da una qualsiasi radicale nullità non tassativamente prevista.Tornando, ora, agli originari motivi di impugnazione, la denuncia di vizio motivazionale, nella previsione di cui all’art. 606 lett. e) cod.proc.pen., in punto di apprezzamento della gravità degli indizi di colpevolezza giustificativi I dell’adozione della misura cautelare secondo la regola di cui al comma 1 dell’art. 273 stesso codice (primo motivo), richiede a questa Corte (nuovamente) il controllo sui contenuti minimi della motivazione, nel rispetto del consolidato insegnamento del giudice di legittimità secondo cui in tale sede – non consentita la valutazione della sussistenza, in concreto, degli indizi e delle esigenze cautelare – deve invece verificarsi che non ricorra l’ipotesi di mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione, sotto il profilo della congruità e completezza della valenza sintomatica attribuita alle premesse costituite dagli indizi ed alla coerenza intrinseca delle conseguenze che se ne traggono in ordine alla prognosi di probabilità della colpevolezza dell’indagato.

Il compito di verifica del giudice di legittimità, più precisamente, si traduce nel controllo della congruenza motivazionale nella valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica ed ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie, sì che la motivazione, in definitiva, risulti conformata, dal punto di vista strutturale, al modello delineato nell’art. 292 cod.proc.pen., con gli adattamenti resi necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove, ma su indizi e tendente all’accertamento non della responsabilità, bensì di una qualificata probabilità di colpevolezza (Cass. Sez. Un. 22.3.2000 n. 11, Audino); poiché, infatti, gravi indizi di colpevolezza sono ritenuti gli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, che – contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova – non valgono, di per sé, a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell’indagato e tuttavia, consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo tale qualificata probabilità (Cass. Sez. Un. 21.4.1995 n. 11, Costantino e altro).

E con il limite, proprio al sindacato di legittimità, secondo jus receptum, di un controllo di logicità del discorso motivazionale quale svolto nel provvedimento, non minimamente estensibile alla possibilità di una diversa valutazione dello spessore degli indizi e delle esigenze cautelari ma, piuttosto, contenuto all’interno del provvedimento stesso e nelle varie proposizioni in cui si articola (Cass. Sez. I, 2.2.1998 n. 1083, Martorana; Cass. Sez.VI, 1.4.1996 n.1 434, Martucci; Cass. Sez. I, 23.3.1995 n. 1769, Ciraolo; Cass. Sez. I, 3.12.1991/23.1.1992 n. 4641, Andricciola ed altri). Orbene, fermi tali consolidati principi, occorre anzitutto rilevare che il motivo è in non marginale misura “attraversato” da una erronea impostazione concettuale, quale quella secondo cui il giudice di rinvio avrebbe dovuto apprezzare il quadro indiziario “confrontandosi” con la ricostruzione e le considerazioni sviluppate nell’ordinanza del giudice del riesame messa nel nulla dalla pronuncia della Suprema Corte.

Errore evidente, questo, perché, procedendo l’annullamento dal vizio motivazionale circa la esatta verifica dei dati probatori e la loro concreta significatività ai fini del giudizio di colpevolezza che sostiene la misura cautelare, sono rimasti conseguentemente travolti gli accertamenti e le valutazioni già operate, sicché il giudice di rinvio è stato perfettamente autorizzato, nella pienezza dei poteri coincidenti con quelli del giudice il cui provvedimento fu annullato, ed in assoluta autonomia di giudizio, ad un nuovo esame dei fatti (Cass. Sez.VI, 1.2.1995/14.3.1995, n. 427, Bianco), altresì arricchiti degli elementi successivamente acquisiti dalle parti ed a tale nuovo esame ammessi (Cass. Sez. V, 31.3.1999 n. 1530, Alongi G.; Cass. Sez.VI, 27.6.1995 n. 2573, Di Gennaro G.; Cass. Sez. I. 13.12.1994/6.2.1995 n. 6020, PM in proc. Bobbio), con il solo limite di doversi uniformare al principio di diritto enunciato dal giudice di legittimità. Sono privi di pregio, pertanto, i rilievi circa taluni profili di dissonanza o, anche, di preteso contrasto, fra le ricostruzioni del quadro probatorio operate nelle due ordinanze di riesame, poiché quella annullata, censurata appunto per illogicità motivazionale, sia nel metodo di valutazione degli indizi, sia nella individuazione dei medesimi (per avere frettolosamente liquidato quali mere ipotesi di lavoro “i precisi riferimenti e le corrispondenti argomentazioni sviluppate nell’ordinanza custodiate”, elevate dal Gip a dignità di indizi “di non trascurabile spessore”), non funziona minimamente quale termine di raffronto imposto al giudice di rinvio; e, anzi, riconosciuto dalla Suprema Corte che la stessa è pervenuta ad soluzione “disancorata dalla realtà” e “non altrettanto logica e sintomaticamente convergente” con quella propria del provvedimento impositivo della misura, risulta restituito al nuovo organo del riesame, come è naturale, unicamente il compito di controllo del provvedimento coercitivo.

E, ancora, è ravvisabile nel ricorso un ulteriore errore di approccio al thema decidendum, laddove la capacità dei singoli indizi di fornire spiegazioni alternative del fatto viene intesa come ex se rappresentativa di illogicità di quella accolta; tale capacità, invero, non confligge affatto con la natura gravemente indiziante degli elementi ma, piuttosto, essa stessa è argomento idoneo a dimostrare il fatto e la sua paternità se la distinta circostanza ragionevolmente rappresentata sia allo stesso collegabile e si coordini organicamente con ogni altra sino a convergere verso il giudizio di qualificata probabilità di commissione del fatto e di riconducibilità del medesimo al soggetto indagato.

Tanto osservato e precisato, dunque, deve negarsi che ricorra il denunciato vizio, risultando l’apparato motivazionale dell’ordinanza immune da censure di illogicità nell’apprezzamento della gravità del quadro indiziario, correttamente esaminato nella globalità degli elementi offerti dall’attività di indagine.

Con il rilievo sub A), invero, la ricorrente sostiene che l’ordinanza impugnata traviserebbe la relazione del consulente di parte, cui avrebbe attribuito la conclusione che non potrebbe affermarsi il momento di insorgenza dello stato di morte clinica del bambino quando, invece, la stessa aveva riproposto come significativo il tema del tempo di sopravvivenza, già dal consulente del PM contenuto in tempi ridottissimi e ricomprensivi dei fenomeni di reviviscenza conseguenti alle manovre di tipo rianimatorio operate dai primi soccorritori: ne deriverebbe, pertanto, una non autorizzata retrodatazione dell’ora dell’aggressione alla fase temporale non coperta dall’accertato alibi dell’indagata.

Orbene, tale censura è infondata: dal testo dell’ordinanza, invero, si trae che il giudice di rinvio, valorizzata la relazione definitiva V. del 9.5.2002 – che ha concluso, superando i primi giudizi formulati in termini probabilistici, per la certezza che (omissis) fosse in condizione di morte clinica nel momento di primo soccorso senza, però, poter stabilire “neppure con la più ampia approssimazione” (anche a motivo del ritardato accesso alla salma e delle modalità di conservazione della medesima) quando tale condizione fosse insorta – ha correttamente apprezzato anche la relazione del consulente di parte, non avendola affatto contraddetta nel giudizio finale che l’insorgenza di tale stato non possa farsi retrocedere in tempi assai brevi – tant’è che “ha parlato” di rapida insorgenza del fenomeno morte, quale già desunta dalla relazione V. – ma, piuttosto, ha concluso per una obiettiva incertezza sul dato fondamentale del momento del decesso, così come ammessa anche in tale relazione, giudicando in un qualsiasi senso inidonei a vincere l’imperscrutabilità del dato temporale i c.d. fenomeni di reviviscenza, attesa l’impossibilità di seria verifica della loro correlabilità “entro i primissimi muniti” dal momento del decesso, inteso in termini di morte clinica, ed in realtà espressi da segni di vitalità originati dagli interventi rinanimatori ed equivoci (avendo lo stesso CT descritto gli “apparenti” segni di vitalità come espressione di una morte relativa già perfezionatasi).L’ordinanza, in sostanza, ha preso atto, per corretta lettura delle risultanze ed alla luce degli offerti dati anatomo-patologici, della comune opinione di indecifrabilità del momento in cui è avvenuto il trapasso e della inidoneità in tal senso dei fenomeni di reviviscenza, e tale apprezzamento, che sottende un giudizio di fatto, non presta minimamente il fianco ad una qualsiasi censura di illogicità o, addirittura, di un travisamento delle acquisizioni processuali.

Di tal ché, come risulta evidente, l’incerta collocabilità dell’ora della morte non diviene circostanza incompatibile con la ritenuta ipotesi di una aggressione compiuta nella fascia temporale antecedente l’uscita di casa da parte dell’indagata, certo che costei, in tale periodo si è trovata in casa con il piccolo (omissis). Infondato è anche il rilievo sub H).

Il percorso argomentativo seguito per collocare l’aggressore, “principalmente” sul letto matrimoniale ed alla sinistra del bambino nel momento in cui è stata sferrata la pluralità dei colpi, invero, risulta coerente alla rilevazione che unicamente indenne dalle macchie di sangue è rimasta l’area della coperta immediatamente posta alla sinistra della vittima, e per nulla illogicamente l’ordinanza ha ritenuto che siffatta posizione non confligge, nè materialmente nè a livello probatorio) con la rilevata presenza di tracce ematiche oltre tale zona d’ombra, atteso che le medesime, l per loro conformazione ed orientamento, sono risultate perfettamente compatibili con l’azione di armamento del braccio destro e con la dispersione di sostanze ematiche da un’arma così imbrattata e più volte scaricata sul capo del bambino e da qui ritratta nella fase di consecuzione dei colpi. La presenza di una zona d’ombra, sul piumone e sul lato sinistro dell’area occupata dalla vittima, non macchiata del sangue della medesima, ed intermedia rispetto a quella adiacente, viceversa attinta da schizzi e tracce di gocciolamento, in uno al rilievo che proprio sul pigiama sono state rinvenute macchie da diretto impatto, giustifica, pertanto, sotto il profilo logico, la conclusione che il piumone si sia giovato, nella zona immediatamente prossima alla vittima e tuttavia rimasta indenne, di un idoneo “riparo” assicurato dalla persona dell’aggressore evidentemente indossante il pigiama.

La tesi difensiva che l’aggressore avrebbe sferrato tutti i colpi mortali stando. in piedi ed alla sinistra del letto -sicché la zona d’ombra della coperta si giustificherebbe, viceversa, per la presenza del pigiama che, in tale zona abbandonato, avrebbe ricevuto le macchie di sangue e gli sgocciolamenti dell’arma – risulta, invero, ampiamente trattata e non illogicamente rifiutata.

In tal senso, infatti, l’ordinanza ha congruamente considerato sia la localizzazione di numerosissime macchie in diversi punti della stanza (sulla parte di soffitto posta sopra il letto, intorno al lampadario, sulle ante dell’armadio ai piedi del letto, sulla parete adiacente alla finestra), quale giustificabile solo per una azione di brandeggio dell’arma sviluppata in una zona posta nei pressi del centro del letto ed alla sinistra della vittima, sia la inclinazione e la direzione delle medesime (da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso), come attestativa di un epicentro delle proiezioni nell’area corrispondente alla zona d’ombra, sia, infine, la “singolare” presenza V. degli schizzi diversamente orientati e delle tracce di sgocciolamento nell’adiacente area della coperta, pienamente riconducibile ad un fatto di movimento dell’arma sviluppato nella zona centrale e di dispersione del materiale ematico nella fase di inversione dell’oscillazione quale naturalmente imposta dalla reiterazione di colpi che siano stati appunto portati dal centro e su quel lato della vittima.

La logicità del discorso motivazionale sul punto – peraltro congruente all’apprezzamento dell’indizio dato dalle tracce ematiche sul pigiama, come in appresso si dirà – non è poi inficiata dall’ammissione di una posizione diversificata dell’aggressore, in piedi ed accanto al comodino al lato sinistro del letto (visto dal fondo) “per almeno un colpo”; l’ordinanza, infatti, ha coerentemente rilevato non soltanto la difficoltà di conciliare le plurime tracce ematiche originate dall’azione di armamento con una manovra che avrebbe imposto una innaturale torsione dell’aggressore nell’attingere (come è avvenuto), il capo della vittima – distesa verosimilmente più verso il centro del letto che sul bordo sinistro dello stesso (e verso questo lato girata, come attestato dalla ferita sulla mano sinistra, espressione di un tentativo di estrema difesa) – ma, sopratutto, ha considerato che le tracce ematiche rinvenute sulla parete-comò su tale lato sono risultate di numero abbondantemente inferiore rispetto a quelle sul lato opposto ed imputabili, come visto, ad una azione di brandeggio dell’arma in prossimità della zona centrale del letto, e tale circostanza giustifica pienamente l’ammissione.

E questa stessa, ancora, non è neppure incoerente alla ricostruzione di un fatto omicidiario d’impeto (quale autorizzata dalle modalità di sua commissione), sviluppatosi in un contesto di totale perdita dei freni inibitori (per un motivo scatenante pur rimasto insondato) cui si raccorda una condotta criminosa che non segua, nella incontrollabile drammaticità del momento, rigide regole di relativa ordinarietà, peraltro esse stesse difficilmente ipotizzabili.

E, da ultimo, deve negarsi illogicità all’affermazione del giudice del riesame, secondo cui nessun altro se non l’indagata avrebbe avvertito la necessità di salire sul letto per portare a compimento il delitto, poiché tale affermazione va apprezzata, nel contesto di globale valutazione degli elementi di ordine storico e/o logico, in relazione a quella, autorizzata dalla accertata scarsità del tempo disponibile, che un ipotetico aggressore esterno (cui è risultato decisamente irriconducibile un delitto d’impeto) si sarebbe del tutto verosimilmente orientato ad una azione omicidiaria rapida e non impegnativa della salita sul letto ovvero distribuita in distinti momenti. Non hanno fondamento, poi, le censure sub D) ed E), trattabili unitariamente perché attinenti alla lettura dell’indizio dato dalle tracce ematiche sul pigiama dell’indagata.

La presenza delle macchie sui due elementi del pigiama, invero, risulta considerata indiziante di un indossamento del capo nel momento dell’aggressione, in ragione della loro natura di macchie “dirette” e cioè da impatto, con tipico andamento “a sciame” ben spiegabile con il movimento dell’arto armato, nonché della loro distribuzione principalmente sul fianco destro e sulla manica destra della casacca, cioè sul lato maggiormente esposto nell’atto di colpire; e, in particolare, in ragione del rinvenimento, sulla manica destra della casacca, di una grossa macchia provvista di frammento osseo perfettamente compatibile con un fatto di contatto diretto del tessuto con una vistosa macchia di sangue, frammista a materia cerebrale e frammenti ossei, corrispondente al punto in cui poggiava la testa della vittima; per nulla incoerente, dunque, è l’averne desunto che le macchie di sangue si siano scaricate sul pigiama indossato da chi “contestualmente” le ha originate sovrastando la vittima, e ciò al punto di consentire all’indumento di trattenere il frammento osseo per un fatto di asportazione difficilmente conciliabile con l’ipotesi (sostenuta ancora dalla ricorrente) di una semplice ricaduta degli schizzi di sangue sul pigiama in precedenza adagiato sul letto e, in senso figurativo, “inerte”.

Né pecca di logicità, in tal senso, l’apprezzamento della circostanza ulteriore del rinvenimento dei due elementi del pigiama in diverse zone e piani del letto – la casacca, assai maggiormente macchiata, sotto il piumone, ed i pantaloni, invece, sopra il copriletto – come idonea a negare l’ipotesi di un disordinato deposito dell’indumento da parte dell’indagata sulla zona centrale, parte alta, del letto medesimo; fermo che sul letto sono post factum intervenuti soltanto “i primissimi” soccorritori, identificabili nella F. e nella S. – che portò il bambino, necessariamente liberato del piumone che parzialmente lo copriva – poiché i medici del pronto soccorso prelevarono il bambino all’esterno dell’abitazione, risultano infatti incensurabilmente valorizzate, ai fini del compiuto giudizio di capacità indiziante del dato nel complessivo quadro, le dichiarazioni di tali soccorritori: la S., infatti, ha decisamente e reiteratamente escluso, pure avendo riassettato il letto, di avere visto o spostato alcun pigiama (di tal che risulta mera ipotesi quella di inavvertito spostamento) e la F. ha reso, per proprio conto, di non aver notato alcun indumento ed entrambe, infine, hanno escluso di avere riassettato il letto (come credibile attesa la drammaticità del momento che ha imposto di concentrare ogni comune impegno nell’attività di soccorso), sì da rappresentare un quadro coerente all’apprezzamento del dato indiziante.

Così come, ancora, è immeritevole della censura di illogicità la considerazione che, ove i due elementi fossero stati coinvolti, per una sorta di trascinamento provocata dall’abbassamento del piumone nel momento di scoprimento del bambino e di suo “prelievo”, non si spiegherebbe la tanto distanziata e diversificata posizione, addirittura su piani diversi, assunta dagli elementi medesimi, rivelandosi, piuttosto, unicamente conciliabile con siffatta manovra, una loro ben diversa collocazione finale tra i due lembi quale effetto del ripiegamento della parte alta su quella bassa della coperta: deduzione logica, questa, che vale anche a negare alla circostanza, nella specie, l’alternativa capacità rappresentativa di un fatto di imbrattamento successivo per contatto meramente “indotto” fra i due elementi.

La ricorrente deduce, ulteriormente, che il giudice del riesame avrebbe apoditticamente: a) presunto che la casacca del pigiama diversamente dai pantaloni, sarebbe stata indossata dall’omicida al “rovescio”, diversamente dai pantaloni , così prospettando un fatto anomalo meritevole di una coerente spiegazione ; b) ipotizzato, onde giustificare l’assenza di tracce di strofinio o di spalmatura delle macchie ematiche sul pigiama – che l’omicida si sarebbe lavato le mani prima di sfilarsi l’indumento.

Tali rilievi non colgono veri profili di illogicità. Il primo rilievo, infatti, si appunta su un dato in realtà neutro nel contesto valutativo della capacità indiziante delle tracce ematiche sul pigiama, avendo l’ordinanza dato atto del rinvenimento a rovescio della casacca e della presenza di tali tracce sia sul recto sia sul verso dell’indumento, ed avendo altresì adeguatamente spiegato, alla luce delle risultanze degli accertamenti tecnici, il collegamento genetico e temporale delle prime; peraltro, il ravvisato difetto di un testuale rifiuto dell’assunto dell’indagata, secondo cui il capo si fosse trovato sul letto “girato” (come può avvenire per chi sia spinto dalla fretta), non rende in alcun modo incoerente l’apprezzamento di gravità dell’indizio, quand’anche separatamente esaminato, posto che la narrazione difensiva, sul punto, è stata disattesa escludendosi in radice, nei termini superiormente trattati, che il pigiama fosse stato gettato disordinatamente sul letto.

Quanto, poi, all’assenza di tracce di strofinio o spalmatura e di macchie da contatto sulle superfici del pigiama, l’ordinanza ha reso una spiegazione non rimproverabile di incongruenza od illogica coordinazione con il complessivo apprezzamento del dato indiziante; premesso, infatti, che tale assenza non nega certamente la capacità rappresentativa alle numerose macchie da diretto impatto sul pigiama, il richiamo al possibile assorbimento delle stesse da parte del tessuto – sì da definitivamente presentarsi in alcun modo espanse – non deraglia da un corretto utilizzo della massima di esperienza o, quanto meno, di assoluta verosimiglianza, che un qualsiasi tessuto non impermeabile, proprio ordinariamente ad un pigiama (denominato “maglia” il capo superiore), è “naturalmente” idoneo ad assorbire macchie ematiche che, per di più, come nella specie e come rilevato nell’ordinanza in linea con la indiscutibilità dei colpi e del distretto attinto, impattino velocemente; la derivazione, poi, dell’assenza di tracce di ditate o spalmature, per contatto dell’indumento con le mani sporche del sangue della vittima, da un lavaggio delle stesse precedente la svestizione del pigiama, non è incoerente al giudizio ricostruttivo del fatto, peraltro ex se incensurabile, ricondotto ad un delitto d’impeto seguito da un recupero di lucidità dell’aggressore. Deve aggiungersi, del resto, che l’ordinanza ha pur valorizzato il dato che si è trattato di macchie di piccolissime dimensioni sicché, in tal senso autorizzata dalle considerazioni del consulente medico legale, ha non illogicamente escludo che i colpi possano avere provocato un apprezzabile fenomeno di zampillio di spruzzi di sangue sulla persona “se non nell’ordine di qualche centimetro”, e, dunque, un significativo imbrattamento delle mani capace di lasciare segni sull’indumento quand’anche non immediatamente lavate; e, ancora una volta, l’alternatività della spiegazione, mostrandosi comunque per nulla dissonante con ogni altro apprezzamento, nega fondamento alla sollevata censura.

E, infine, neppure sono percepibili i denunciati profili di illogicità del provvedimento nella parte in cui non risulterebbe fornita “spiegazione” del fatto di voluta diversificazione della localizzazione dei due elementi del pigiama da parte dell’aggressore; la dedotta “omissione”, infatti, va raccordata al corretto giudizio di inattendibilità di una localizzazione meramente indotta da manomissioni o sommovimenti delle coperte nella fase dei soccorsi, nonché a quello ulteriore che un aggressore esterno non avrebbe impiegato il poco tempo disponibile, e senza alcuna plausibile necessità, nella distribuzione degli elementi, di tal che deve ritenersi che sia stata adeguatamente apprezzata la gravità di un indizio tale, peraltro, da non rendersi assolutamente dissonante nel complessivo contesto valutativo di un delitto d’impeto cui è seguito il recupero di lucidità dell’omicida. Debbono ritenersi parimenti infondate le censure sub F).

Incontestata la riferibilità alla vittima delle tracce ematiche rinvenute sulle suole degli zoccoli dell’indagata, l’esclusione della ipotesi di un imbrattamento nella fase dei soccorsi e provocato dal calpestio del pavimento coinvolto da schizzi o gocciolamenti – sicché tale presenza è stata ritenuta nuovo grave indizio a carico dell’indagata, come significativa di un gocciolamento contestuale all’attività di armamento di una persona indossante gli zoccoli e non ipotizzabile in un soggetto esterno – fonda, invero, non già su una “adesione acritica e passiva” al giudizio tecnico del RIS circa la morfologia delle tracce (giudizio, peraltro, che non risulta specificamente contestato) ma sì, invece, sull’apprezzamento, anzitutto, di un dato direttamente osservato dal giudice circa una prima traccia che “si palesa, anche visivamente, come da proiezione”, nonché, ed ancora, sulla deduzione perfettamente coerente che questa stessa non è stata rinvenuta nella forma espansa che avrebbe viceversa dovuto assumere quale ordinaria nella ipotesi in cui fosse stata unicamente prodotta dal calpestio.

E non solo, perché, ancora, l’ordinanza ha ritenuto dirimenti le dichiarazioni dei primi intervenuti sulla scena, e cioè della S., della F. e di M. S., tutte convergenti nel rappresentare la F., per l’intera fase di soccorso (messa in moto dalla S.), come indossante un paio di stivaletti scuri (quelli stessi utilizzati per raggiungere la fermata dello scuolabus) anziché, come dalla stessa riferito, gli zoccoli di casa. La ricorrente, per vero, deduce che le dichiarazioni della S. sarebbero state valorizzate, nel quadro indiziario, per illogico apprezzamento che le stesse fossero il frutto di un pieno recupero mnemonico dopo l’originaria ed incerta deposizione resa sulla specifica circostanza, mentre poi la F. ed il S. si sarebbero, in realtà, entrambi espressi in termini dubitativi.

Tali rilievi critici, in parte inducenti inammissibilmente la pretesa di rilettura degli atti, sono essi pure, comunque, privi di pregio.

Quanto al primo, infatti, l’ordinanza ha avuto cura di sottolineare la assoluta verosimiglianza di un pieno recupero mnemonico operato a distanza di appena un giorno, nel contesto descrittivo di particolari ulteriori dalla stessa teste dichiarati mentalmente accantonati nel momento di personale impegno, mirato principalmente al soccorso del bambino: l’osservazione che la S. venne pur richiesta di riferire quei particolari non coglie, evidentemente, alcuna contraddizione della motivazione sul punto.

Quanto al secondo, poi, va rilevato che l’ordinanza non ha affatto negato i termini dubitativi nei quali i testi si sono espressi, ma del tutto adeguatamente ha ritenuto, sul dato pacifico del colore bianco degli zoccoli, che le dichiarazioni di entrambi contengono comunque il riferimento a “scarpe scure” o “stivaletti scuri”, nonché ad un abbigliamento dell’indagata di identiche tonalità, e non, riferiscono, invece, di un colore bianco o di un contrasto invece, a calzature di colore bianco o ad un abbigliamento facilmente percepibile e memorizzabile; non incongruo, pertanto, è che l’ordinanza abbia considerato tali dichiarazioni convergenti con quelle della S..

L’ordinanza, del resto, ha valorizzato ulteriori circostanze, esse pure logicamente correlate nel giudizio di gravità del quadro indiziario, quali quelle che attengono alla dichiarazione della S. – la cui attendibilità soggettiva non è oggetto di censura – secondo cui ella non invitò l’indagata, perché si avviasse all’ospedale, a cambiare le calzature – il che giustifica la deduzione che la F. non avesse mai dismesso gli stivaletti – al rinvenimento degli zoccoli in bell’ordine nel disimpegno del bagno e, cioè, in una posizione di quiete assai poco compatibile con la drammaticità e l’urgenza del momento, e, infine, al rinvenimento di una traccia ematica, riconducibile alla vittima, sugli stivaletti dell’indagata.

Quanto alla prima circostanza, la ricorrente coglie un vero “travisamento” laddove il giudice del riesame ha dedotto che la smentita della S. confermerebbe il tentativo dell’indagata di accreditare “da subito” la tesi di imbrattamento accidentale e post factum degli zoccoli, ed oppone, al proposito, che l’ immediata consapevolezza, in capo all’indagata, del significato indiziante delle macchie ematiche sulle calzature, confliggerebbe con il fatto che queste stesse furono sequestrate solo successivamente e che, dunque, costei avrebbe semmai vanificato l’indizio attraverso un radicale occultamento delle tracce; tale censura è addirittura inammissibile, risolvendosi nella prospettazione di una possibile spiegazione alternativa – dunque non dimostrativa di illogicità di quella censurata – e di una omissione di precedente strategia difensiva, già formulata in sede di riesame ed adeguatamente rifiutata con richiamo all’inviolabilità dell’abitazione (posta immediatamente sotto sequestro dall’inquirente) e che, peraltro, apoditticamente presuppone la capacità dell’indagata di prevedere che l’argomento “calzature” sarebbe stato introdotto nelle indagini in sede di prime sommarie informazioni, mentre, viceversa, è dotata di intima coerenza la deduzione del giudice, fondata sul rilievo di smentita delle dichiarazioni dell’indagata – rese su particolari evidentemente richiestile sì da renderla avvertita che gli stessi non fossero indifferenti alle indagini – oltre che su oggettive acquisizioni (la posizione degli zoccoli, la traccia sugli stivaletti).

Deve ritenersi altresì infondata la censura sub G). La valenza indiziante della natura impropria dell’arma omicida – “con buone probabilità” riconoscibile in un corpo non prettamente finalizzato all’offesa e riconducibile all’area degli strumenti di uso comune che non hanno finalità lesive – risulta, invero, per nulla illogicamente apprezzata nei confronti dell’indagata, nella considerazione che un aggressore esterno che si fosse introdotto nell’abitazione profittando del breve lasso di tempo in cui l’indagata si era assentata – unica ipotesi alternativa possibile ed in effetti formulata dal difensore dell’indagata – non si sarebbe indotto all’omicidio avvalendosi di uno strumento inidoneo ad assicurare un rapido esito ma, piuttosto, avrebbe programmato il delitto anche in questo non secondario particolare.

L’osservazione è congruente “interpretazione” dell’indizio, risultando in linea con l’acquisizione di un episodio omicidiario di inaudita violenza e realizzatosi in forma di una reiterazione di colpi, tale da fortemente orientare verso un delitto d’impeto: la ricorrente oppone come conciliabile, con l’uso di un’arma impropria, la condotta di un soggetto esterno che non avesse preordinato il delitto e, invece, avesse dovuto incontrare nel bambino un imprevisto ostacolo, ma, in tali termini, prospetta una ipotesi, comunque inidonea a contrastare la coerenza dell’apprezzamento giudiziale, assolutamente non assistita da alcuna acquisizione processuale (oltre che contrastata dai richiami dell’ordinanza alla inattendibilità, esaustivamente motivata, delle dichiarazioni dell’indagata secondo cui la porta di ingresso della casa non sarebbe stata chiusa a chiave nel breve periodo di sua assenza).

Destituita di fondamento è anche la censura sub H), dovendosi decisamente escludere che l’ordinanza non abbia adeguatamente motivato il difetto di valenza probatoria delle dichiarazioni di (omissis) acquisite ex art. 391 bis cod.proc.pen.

L’ordinanza, infatti, ha correttamente considerato inattendibili dichiarazioni che: a) sopraggiunte a distanza di circa sei mesi dall’evento, sono state rese da un bambino che avrebbe dimostrato una migliore capacità mnemonica su particolari assolutamente marginali (“luci ed ombre” alla finestra di casa F.-G., presenza di una persona sul sentiero nei pressi di casa) – non emersi nelle dichiarazioni originarie raccolte dal pubblico ministero né tali da giustificare una memorizzazione nel quadro di assoluta normalità e quotidianeità che, rapportata alla vita di relazione del minore, dovette quel mattino rappresentarglisi; b) risultano fortemente condizionate dagli interventi del genitore e dal modo stesso con il quale il piccolo è stato esaminato (dandosi atto di risposte in qualche misura suggerite); c) contengono rilevanti contraddizioni con la stessa versione dell’indagata (sia quanto al particolare dell’uscita di casa, riferita dalla F. come contestuale a quella del bambino e, viceversa, avendo questi riferito di avere preceduto la madre, sia quanto al particolare del saluto fra i fratelli, non minimamente menzionato dalla prima nelle sue prime dichiarazioni, ed invece dichiarato dal secondo).

Non è minimamente censurabile, pertanto, il giudizio che le nuove dichiarazioni di (omissis) notevolmente difettino di genuinità e le siano sicuramente preferibili quelle rese in epoca assai più prossima al fatto (in data 1.2.2002 e, cioè, appena due giorni dopo) e meno influenzate da fattori esterni “per non avere egli, verosimilmente, preso ancora piena coscienza della tragica perdita del fratellino”.

Per il resto, va osservato che l’ordinanza non ha ignorato la presenza di discordanze, peraltro in termini di incompletezze o di difformi verbalizzazioni delle espressioni, nelle trascrizioni del colloquio (raccolto in audiocassetta) tra il minore ed il pubblico ministero, come operate dai Carabinieri della Compagnia di Aosta e dal consulente della difesa, e tuttavia ha correttamente ritenuto di utilizzare le parti per le quali vi è coincidenza di contenuto “se non proprio formale o lessicale, quanto meno sostanziale”; né, sul punto, la ricorrente minimamente enuncia e allega le dichiarazioni favorevoli all’indagata che non sarebbero state fedelmente riportate ovvero ignorate dal giudice del riesame nell’operazione di doveroso e completo esame dell’elemento di prova.

Le plurime censure in punto di gravità degli indizi – peraltro formulate in termini che pretendono una perfetta concordanza di tutti i singoli elementi, così da richiedere la valutazione di un requisito in realtà non necessario in subiecta materia, e ciò anche dopo le modifiche introdotte dalla Legge 1.3.2001 n. 63 (Cass. Sez. III, 27.3.2002 n. 20583, Parziale) – risultano pertanto infondate: il giudizio di gravità del quadro, infatti, si presenta immune da aporie ed incongruenze argomentative e viceversa, trova giustificazione in un organico e coerente apprezzamento degli elementi offerti dall’indagine, tali, per loro consistenza, da far prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori, si riveleranno idonei a dimostrare la responsabilità dell’indagata, fondando nel frattempo la qualificata probabilità di colpevolezza della medesima.

A tale giudizio, del resto, concorrono logicamente il richiamo alle contraddizioni nelle quali, e su particolari non marginali, l’indagata è incorsa, nonché la rilevazione della totale carenza di elementi che “oggettivamente” riconducano il delitto ad un soggetto esterno, non essendo risultate tracce o indicate presenze all’esterno dell’abitazione temporalmente compatibili con l’evento, né violazione degli accessi alla medesima (poiché la tesi difensiva che, nell’uscire, l’indagata non avesse chiuso la porta di ingresso, risulta coerentemente disattesa sulla base della dichiarazione di segno contrario resa dall’indagata stessa alla S., oltre che dalla inverosimiglianza di una condotta tanto incauta e mai tenuta in precedenza (come riconosciuto dalla F.), e ciò in un contesto che, negli individuati termini spazio-temporali, consente di collocare unicamente l’indagata all’interno della casa e di escludere, dunque, la immissione di altri sul luogo del delitto. Fondato, invece, è il motivo, meglio sviluppato nell’atto depositato il 15.1.2003, con il quale la ricorrente censura la motivazione circa il requisito delle esigenze cautelari.

Il giudice del riesame ha anzitutto escluso il pericolo di fuga (viceversa ritenuto concorrere nel provvedimento coercitivo) nella considerazione di un pieno e saldo radicamento dell’indagata con i legami familiari e con l’ambiente in cui ha fatto rientro, nonché di un verosimile suo autoconvincimento (rafforzato dal già ottenuto provvedimento di scarcerazione) di potere affermare la propria estraneità all’omicidio, sicché tali circostanze si rappresenterebbero come disincentivanti rispetto alla pur ipotizzabile “tentazione” che ella avrebbe di sottrarsi al rischio di un esito negativo del giudizio (id est, all’esecuzione della pena): su tale punto non v’è impugnazione, sicché l’ipotesi di cui alla lett. b) dell’art. 274 cod.proc.pen. non può venire rimessa in discussione.

L’ordinanza ha confermato, invece, la sussistenza del concreto pericolo di reiterazione criminosa, con riferimento a delitti della stessa specie per cui si procede. Orbene, tale giudizio prognostico non è assistito da idonea motivazione.

  Come è noto, invero, il pericolo di reiterazione criminosa, nella testuale previsione di cui alla lett. c) comma 1 dell’art. 274 cod.proc.pen. – nonché secondo jus receptum nelle pronunce dei giudici di legittimità – deve assumere (come per tutti i pericula libertatis) carattere di concretezza, cioè connotarsi di effettività ed attualità, sicché resti autorizzata la prognosi di probabile accadimento della situazione compromissoria della tutela della collettività che la misura cautelare intende salvaguardare, non essendo quindi sufficiente all’applicazione della misura stessa l’astratta possibilità che l’indagato (o l’imputato) reiteri il delitto. Sia in sede applicativa della misura, sia in sede di superiore controllo di legittimità della stessa, il giudice è chiamato a verificare la presenza del periculum sulla base della situazione concreta quale rappresentata, avvalendosi degli indici normativi riguardanti le modalità e circostanze del fatto e la personalità del soggetto desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali; la norma, pertanto, impone al giudice una verifica che comprenda i due elementi e, cioè, una specifica e distinta valutazione di entrambi i criteri direttivi, fermo che è legittimo, secondo consolidato insegnamento del giudice di legittimità (v., fra le tante: Cass. Sez. I, 18.11.1999/8.2.1990 n. 6359, Bianchi: Cass. Sez. V, 19.5.1999 n. 2416, Marchegiani F.), desumere una personalità pericolosa dal medesimo comportamento criminoso, ove questo denunci, per le modalità in cui si è espresso, una proclività del soggetto a ripetere il delitto, “poiché è non solo legittimo, ma addirittura doveroso trarre la natura della personalità proprio da quella condotta che ne può costituire la più immediata e genuina espressione” (Cass. Sez..V, 14.6.1996 n. 2975, Serra).

Fermi tali principi, il giudice del riesame ha ritenuto, nella fattispecie, di dover fondare il giudizio prognostico di recidivanza sul congiunto apprezzamento dei due elementi.

Quanto alle “specifiche circostanze e modalità del fatto”, tuttavia, l’apprezzamento delle caratteristiche di inaudita violenza dell’aggressione compiuta dalla madre nei confronti del figlio minore, “prolungata nel tempo e probabilmente non arrestata sino all’evento definitivo”, non si accompagna ad una considerazione “di chiusura” realmente utile ai fini della verifica richiesta: e, ciò, sia perché, in realtà, viene descritta poco più che la (indiscutibile, peraltro) gravità del fatto, sia perché, assolutamente oscuro, allo stato, il movente dell’azione delittuosa compiuta in ambito familiare, il quadro esaminato è incompleto di una “circostanza” del fatto – elemento da analizzare unitamente alle “modalità” del fatto stesso – ex se fortemente capace, sub specie di spinta alla condotta criminosa, di rappresentare la personalità dell’agente e, pertanto, indubbiamente significativa ai fini del complessivo giudizio prognostico. Sul punto, per vero, l’ordinanza esclude di dovere dar peso alla mancata individuazione del movente, in presenza di un delitto d’impeto che contribuirebbe a rendere imprevedibili le manifestazioni di aggressività – “evidentemente solo inibita, ma non inesistente” – di un soggetto non risultato affetto da alcuna patologia psichiatrica e, in ogni caso, assolutamente non giustificato alla condotta criminosa da un qualsivoglia movente: tale osservazione, però, è solo apparentemente logica, sia perché risulta non del tutto in linea con quella – pag. 70 – secondo cui la perizia psichiatrica avrebbe in realtà assegnato all’indagata la capacità di un “ipercontrollo rigido dell’aggressività”, sia perché sconta negativamente il fatto di dovere unicamente ipotizzare la riproducibilità della situazione motivazionale (tuttora in larga misura ignota) in cui la condotta criminosa è stata tenuta (e ciò anche volendo prescindere dalla condizione attuale e futura della famiglia L. F., quale verosimilmente modificata, e maggiormente “protetta”, dopo il terribile evento che l’ha sconvolta).

Significativo, in tal senso, è il riferimento, alla stessa pag. 70, di un “fattore scatenante o dirompente eventualmente per fini punitivi” (che, in tali termini, pur dovrebbero raccordarsi ad una qualche ragione di odio o di feroce rancore non minimamente esposta nel provvedimento), formulato quale “mera ipotesi di lavoro”; risulta incongruente, pertanto, desumere dal fatto come complessivamente rappresentato, in presenza di un largo spettro di mere ipotesi sul movente tuttora non individuato, una probabile reiterazione di un delitto della stessa specie (che, peraltro, nel caso in esame assume caratteristiche indubbiamente peculiari).

Sono altresì fondate le censure della ricorrente in punto di percorso argomentativo che sorregge il giudizio di pericolosità dell’indagata.

L’apprezzamento di negativa personalità della F., invero, considera quali elementi sintomatici: a) la riconosciuta capacità di intendere e di volere dell’indagata al momento del fatto, dimostrativa di piena consapevolezza della efferatezza dell’atto; b) la non ipotizzabilità di un qualsiasi movente capace di giustificare la tenuta condotta, sì da potersi prevedere nuove esplosioni di aggressività “evidentemente solo inibita ma non inesistente”; c) la freddezza e capacità reattiva dell’indagata nei minuti immediatamente successivi al delitto, in uno alla capacità manipolatoria, all’insospettabile tenuta psicologica ed alla sorprendente capacità di elaborazione della strategia difensiva. Il giudice del riesame ha ritenuto, infatti, che tutti tali elementi attesterebbero il pericolo di commissione di nuovi reati contro la persona, potendosi conclusivamente apprezzare una personalità proclive alla reiterazione per l’incapacità dell’indagata a resistere anche ad una semplice occasionalità delle pulsioni collegate alla vita di relazione, né la irreprensibile condotta dell’indagata, nella condizione di piena libertà recuperata, varrebbe a negare la pericolosità, sia in ragione della “verosimile impulsività ed emotività” che ha connotato il delitto, sia perché “non è possibile escludere che ogni atteggiamento medio tempore assunto …possa avere in realtà subito un’efficacia deterrente dalla prospettiva di ottenere concreti benefici incidenti sul proprio status libertatis”.

Orbene, per quanto l’ordinanza abbia correttamente ricercato gli elementi sintomatici ex art. 133 cod.pen., tuttavia la motivazione sul punto si presenta complessivamente non congruente alle conclusioni.

Quanto all’elemento sub a), infatti, l’espressa valutazione rinvia ad un apprezzamento di intensità della volizione già considerata nell’ambito delle modalità del fatto e seriamente condizionata, come sopra osservato, dalla mancata individuazione della spinta al delitto.

Quanto all’elemento sub b), poi, si è già detto che l’attribuzione all’indagata di una aggressività inibita e tuttavia latente – pronta ad esplodere in presenza di uno dei tanti eventi, anche insignificanti, quotidianamente occasionati dalla vita di relazione, soprattutto familiare – in non irrilevante misura confligge con il riferito risultato dell’indagine peritale, che ha viceversa escluso anomalie del carattere, fra le quali una eccessiva impulsività o irritabilità – pag..69 – e, anzi, ha rilevato, come già ricordato, un “ipercontrollo rigido dell’aggressività”.

Quanto agli elementi riuniti sub c), la freddezza della condotta tenuta dall’indagata subito dopo l’omicidio – e cioè l’uscita di casa simulando normalità, ovvero rinunciando ad un estremo tentativo di soccorrere il figlio ancora agonizzante – rende conto di una “sconcertante” insensibilità e spietatezza nell’occorso e, però, non anche di una attendibile proclività alla commissione di delitti della medesima specie (od anche di delitti gravi commessi con violenza personale), perché non accompagnata ad altra circostanza, riferibile eventualmente alla vita anteatta, anche minimamente e tuttavia concretamente sintomatica; certamente, infatti, tale sintomaticità non risulta congruamente colta nei dati di perfetto autocontrollo, di capacità elaborativa di una pronta strategia manipolatoria, addirittura, della realtà e, ancora, di insospettabile tenuta psicologica, posto che tali circostanze non risultano esaminate sotto il profilo dell’oggettiva loro idoneità ad attestare una speciale capacità del soggetto di “resistere” alle accuse in termini che, pur connotati da notevole dose di mancanza di scrupoli e spregiudicatezza (come esposta nel denunciato tentativo di dirottare le indagini su altri), tuttavia non risulterebbero debordare dai confini del diritto di una strenua difesa (a fronte del serio rischio di incriminazione e più che verosimile carcerazione) al punto di doversi apprezzare come indici di specifica pericolosità del soggetto; dal che complessivamente procede il vizio della motivazione per averne il giudice incongruentemente tratto, sul piano consequenziale, il giudizio prognostico di una reale propensione a reiterare delitti analoghi.

Rilevato, poi, che a tali fini non sarebbe utilmente recuperabile il richiamo al “più assoluto rifiuto collaborativo” (peraltro utilizzato per la valutazione di adeguatezza della misura) – traendo tale condotta, quanto meno, da naturali e “legittime” esigenze difensive, né avendo valenza sintomatica ex se il difetto di resipiscenza – neppure è esente da censure, sul piano della saldezza argomentativa, la motivazione del deprezzamento della “irreprensibile” condotta tenuta dall’indagata nella condizione di recuperata libertà, viceversa prospettata dalla difesa come “prova di non pericolosità”. Sul punto, infatti, l’ordinanza valorizza, anzitutto, la “verosimile impulsività ed emotività” connotante il delitto e, dunque, una condizione di soggettiva predisposizione che tuttavia lo stesso giudice riferisce, come già ricordato, non essere stata percepita in sede di perizia psichiatrica (né gioverebbe opporre che la perizia è stata essenzialmente mirata a verificare la condizione di imputabilità dell’agente), sicché non può dirsi coerente (come colto, pur sinteticamente, alla pag. 7 dei motivi nuovi, depositati dal difensore) l’apprezzamento di una condotta criminosa “ripetibile perché imprevedibile” (apprezzamento formulato, peraltro, sul presupposto, non meglio illustrato, di una perfetta riproducibilità della vita di relazione familiare dopo un evento tanto tragico); e, per il resto, si alimenta di un giudizio soltanto possibilista (“…non è possibile escludere che ogni atteggiamento medio tempore assunto…”) che non svaluta decisivamente il dato opposto dalla difesa. In sostanza, e conclusivamente, la motivazione dell’impugnata ordinanza non sorregge adeguatamente la formulazione di prognosi di pericolosità dell’indagata (cui non sono state neppure riferite condizioni apprezzabili in psichiatria, capaci di influire sul prossimo o futuro percorso di vita), poiché tutti gli elementi considerati, singoli ovvero fra loro stessi coordinati, risultano rappresentati in termini che non danno sufficientemente conto di un reale e concreto pericolo della reiterazione criminosa.

L’ordinanza, pertanto, deve essere annullata limitatamente alle esigenze cautelari, con rinvio al Tribunale di Torino per nuovo esame al riguardo, sì da rendere nuova motivazione che terrà presenti le osservazioni sopra formulate alla stregua dei principi di diritto enunciati da questa Corte; nel resto, il ricorso deve essere rigettato per le ragioni già illustrate.

P.Q.M.

La Corte, annulla l’ordinanza impugnata limitatamente alle esigenze cautelari, con rinvio al Tribunale di Torino per nuovo esame al riguardo; rigetta nel resto il ricorso.