Famiglia

Monday 19 May 2003

Corte di Cassaz. Sez. I, sentenza n. 5115 del 3.4.2003: il riconoscimento del figlio naturale minore infrasedicenne, già riconosciuto da un genitore, costituisce un diritto soggettivo primario dell’altro genitore, garantito dall’art. 30 della Costituzion

Corte di Cassaz. Sez. I, sentenza n. 5115 del 3.4.2003: il riconoscimento del figlio naturale minore infrasedicenne, già riconosciuto da un genitore, costituisce un diritto soggettivo primario dell’altro genitore, garantito dall’art. 30 della Costituzione.

Tale diritto può essere sacrificato solamente allorquando sussistono motivi gravissimi.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

SENTENZA n. 5115/2003

(Presidente G. Losavio – Relatore M. Bonomo)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ex art. 250 c.c., depositato il 2 luglio 1998 presso il Tribunale per i minorenni di Roma, V. S. – premesso che da una relazione sentimentale con A. C. era nata il 13 gennaio 1997 la figlia (omissis), riconosciuta dalla sola madre, che si opponeva, per ragioni di personale opportunità, al riconoscimento del padre – chiedeva l’autorizzazione al riconoscimento della bambina, l’assunzione da parte di quest’ultima del cognome del padre e la fissazione di un regime di frequentazione padre-figlia.

A. C. si costituiva in giudizio sostenendo che il riconoscimento da parte del S. sarebbe stato pregiudizievole agli interessi della minore, ormai stabilmente inserita nel nucleo familiare costituto dalla madre con il marito.

Il Tribunale per i minorenni, con sentenza depositata il 12 aprile 2000, sentite le parti ed espletata c.t.u. psicologica, rigettava il ricorso del S. condannandolo alla rifusione delle spese processuali.

L’impugnazione del S. era parzialmente accolta dalla Corte d’appello di Roma, Sezione per i minorenni, la quale dichiarava non giustificato il rifiuto opposto da A. C. al riconoscimento della figlia da parte del S., rigettando la domanda di quest’ultima volta ad ottenere che la minore assumesse il cognome del padre; compensava, inoltre, integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi di giurisdizione. Osservava la Corte territoriale, tra l’altro:

che la c. t. u., pur negando che la minore (la quale ha interiorizzato quale figura genitoriale quella del marito della madre, che intenderebbe adottarla) abbia interesse al riconoscimento, non aveva neppure ipotizzato il pericolo che la minore potesse riportare, in conseguenza del riconoscimento paterno, un trauma tale da pregiudicare il suo sviluppo psicofisico;

che non si ravvisavano quindi le condizioni perché il diritto della personalità del S., quale padre biologico, al riconoscimento fosse sacrificato in relazione ad un (serio e prevalente) contrario interesse della minore.

Avverso la sentenza d’appello A. C. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi, illustrati con memoria.

(Omissis) ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale, con un unico motivo.

MOTIVI DELLA DECISIONE.

Il ricorso principale e quello incidentale devono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., trattandosi di impugnazioni contro la stessa sentenza.

Con il primo mezzo d’impugnazione la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di norme di legge con riferimento agli artt. 250 c.c. e 30 Cost., nonché agli artt. 3 e 7 della convenzione di New York del 20 novembre 1989 e all’art. 28 della legge n. 184 del 1983.

Con l’art. 250 c.c. il legislatore ha ritenuto il consenso al riconoscimento vincolante e rimesso all’apprezzamento esclusivo del genitore che per primo ebbe a concederlo e con il quale il minore convive dalla nascita. La mancanza del consenso è superabile con una sentenza del Tribunale per i minorenni solo nei casi in cui il rifiuto sia chiaramente pretestuoso e gli interessi del minore risultino in qualche modo lesi o compromessi.

Il criterio del primario interesse del minore trova conferma nell’art. 3 della citata convenzione, il cui art. 7 era stato impropriamente richiamato dalla sentenza impugnata perché il diritto del fanciullo a conoscere i propri genitori e ad essere da loro allevati è sancito “nella misura del possibile”.

Pure improprio, secondo il ricorrente, è stato il richiamo effettuato dalla sentenza impugnata all’art. 28, comma 5, della legge n. 184 del 1983 (come sostituito dall’art. 24 della legge n. 149 del 2001), non essendo correlabile alla necessità che il diritto del padre biologico al riconoscimento sia sacrificato in presenza di specifici e seri motivi che legittimano il rifiuto.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia carenza e contraddittorietà della motivazione.

La Corte d’appello si era limitata ad affermare che non erano emersi aspetti rilevanti sulla personalità del S., senza esaminare tale personalità rispetto al fatto storico della nascita. La richiesta di riconoscimento si era manifestata oltre due anni dopo la nascita e in contemporanea alla richiesta di adozione. Erano state accertate in sede di c.t.u. le incapacità del S. di offrire alla bambina spunti positivi di arricchimento ovvero di costituire per lei un punto di riferimento morale e materiale stabile. Non si era poi tenuto conto del fatto che il S., oltre a vivere lontano da dove la bambina è nata e risiede, alla sua età (46 anni) non ha un’attività lavorativa stabile né un’autonoma abitazione. La Corte d’appello non aveva nemmeno valutato l’attuale situazione familiare in cui vive la bambina e la nascita di una sorellina. Disattendendo completamente i risultati della c.t.u., il giudice di merito era incorso in un’omissione delle ragioni che avevano portato al suo convincimento. Sarebbe stato poi contraddittorio, secondo la ricorrente, disattendere la richiesta del S. rivolta a far assumere alla minore il nome del padre.

I due motivi, congiuntamente esaminabili, non sono fondati. La previsione contenuta nel terzo comma dell’art. 250 c.c. – secondo cui il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i sedici anni non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento – non conferisce alcun carattere vincolante o esclusivo alla valutazione del genitore che ha riconosciuto per primo il figlio, poiché, ai sensi del comma quarto dell’art. citato, il consenso non può essere rifiutato ove il riconoscimento risponda all’interesse del figlio e, in caso di opposizione al riconoscimento, la decisione spetta al giudice.

Questa Corte ha osservato che il riconoscimento del figlio naturale minore infrasedicenne, già riconosciuto da un genitore, è diritto soggettivo primario dell’altro genitore, costituzionalmente garantito dall’art. 30 Cost.: in quanto tale, esso non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, atteso il diritto del bambino ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere cosi una precisa e completa identità. Ne consegue che il secondo riconoscimento, ove vi sia opposizione dell’altro genitore che per primo ha proceduto al riconoscimento, può essere sacrificato solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore (Cass. 22 ottobre 2002 n. 14894, 10 aprile 2001 n. 6470; cfr. pure Cass. 16 marzo 1999 n. 2338, 26 novembre 1998 n. 12018, 11 marzo 1998 n. 2669, 29 dicembre 1994 n. 11263).

Nella specie, deve escludersi la sussistenza dei lamentati vizi di violazione di legge, avendo la sentenza impugnata fatto corretta applicazione dei suddetti principi.

L’art. 28, comma 5, della legge n. 184 del 1983, come modificato dall’art. 24 della 1. n. 149 del 2001, non è direttamente applicabile al caso in esame, riguardando l’adozione. Il richiamo di tale disposizione da parte della Corte d’appello appare effettuato – ai fini della verifica dei motivi del rifiuto opposto dal genitore che per primo aveva effettuato il riconoscimento – solo per sottolineare la rilevanza delle origini della persona e della facoltà di accesso all’identità dei genitori biologici.

Quanto alla convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con 1. 27 maggio 1991 n. 176 – le cui previsioni hanno carattere generale e sono dirette verso le parti dello strumento internazionale – i principi sopra riportati, di cui la decisione impugnata ha fatto applicazione, non sono incompatibili con l’art. 3 e con l’art. 7 della convenzione, atteso che essi assicurano la preminenza dell’interesse del minore, che impedisce il secondo riconoscimento qualora questo possa pregiudicare lo sviluppo psico-fisico del figlio, limitando solo in tal caso la possibilità del minore di conoscere il suo genitore.

Non sussistono nemmeno i vizi di motivazione denunciati dalla ricorrente.

Il vizio di contraddittoria motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della “ratio decidendi”, e cioè l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione adottata (Cass. Sez. Un. 27 dicembre 1997 n. 13045 e, da ultimo, fra le altre, Cass. 4 giugno 2001 n. 7476, 14 gennaio 2002 n. 350), ipotesi questa non ricorrente nella specie.

Per quanto riguarda l’accertamento della situazione in punto di fatto, la sentenza impugnata ha fornito una motivazione sufficiente ed esente da vizi logici o giuridici. In particolare, rispetto ai risultati della c.t.u. – che aveva escluso l’interesse della minore al riconoscimento paterno, avendo la medesima interiorizzato quale figura genitoriale quella del marito della madre che avrebbe inteso adottarla – la Corte d’appello ha sottolineato che la consulenza, pur negando l’interesse della minore, non aveva tuttavia neppure ipotizzato il pericolo che la piccola potesse riportare, in conseguenza del riconoscimento del padre, un trauma tale da pregiudicare in modo rilevante il suo sviluppo psicofisico (circostanza questa rilevante ai fini dell’applicazione dei principi di diritto sopra enunciati). La Corte territoriale ha pure osservato che non erano emersi aspetti negativi rilevanti sulla personalità del S., tanto che la Contento in primo grado aveva dichiarato la sua piena disponibilità ad assicurare, in ogni caso, rapporti tra padre e figlia.

Le deduzioni della ricorrente in ordine all’età del S., alla sua residenza in una località lontana da quella di residenza della minore, alla mancanza di un’attività lavorativa stabile, di un’autonoma abitazione, di concrete prospettive future e degli strumenti intellettuali e culturali necessari ed indispensabili per migliorare la propria posizione – a prescindere dall’assenza d’indicazione dei modi di acquisizione processuale di alcuni di tali elementi – non sono comunque rilevanti essendo sfornite di carattere di decisività.

L’unico motivo del ricorso incidentale, proposto dal curatore speciale della minore, è diretto contro la compensazione delle spese anche nei suoi confronti.

La compensazione delle spese in ragione della natura del giudizio non poteva applicarsi rispetto alla curatela, la quale svolge una funzione di natura pubblicistica. La decisione adottata comporta che il professionista cui è stato deferito l’incarico di curatore speciale non viene compensato da nessuno, nemmeno per le spese vive, il che è contrario alla tutela superiore del minore che con tale istituto la legge vuole assicurare.

Il motivo non è fondato.

In tema di regolamento delle spese processuali, il sindacato della Corte di Cassazione è limitato alla violazione del principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa; esula, pertanto, da tale sindacato e rientra, invece, nel potere discrezionale del giudice del merito, ex art. 92 cod. proc. civ., la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite (da ultimo, Cass. Sez. lII, 2 agosto 2002 n. 11537, Sez. I, 2 agosto 2002 n. 11597) . L’apprezzamento dei giusti motivi circa l’opportunità della compensazione totale o parziale delle spese rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito, non richiedendosi al riguardo alcuna specifica motivazione (Cass. 11 febbraio 2002 n. 14095, 24 luglio 2002 n. 10861) .

Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto – tenuto conto della natura dei diritti in questione nonché della delicatezza e complessità della valutazione rimessa agli organi giudicanti – che sussistessero ragioni d’equità per compensare integralmente tra le parti le spese di entrambe le fasi processuali.

La mancata differenziazione della posizione del curatore in relazione al regime delle spese processuali non è suscettibile di riesame in questa sede costituendo espressione dell’esercizio del potere discrezionale spettante sul punto al giudice di merito.

Il ricorso principale e quello incidentale devono essere, pertanto rigettati.

Ne consegue che le spese del giudizio di cassazione devono essere compensate tra le parte costituite, mentre nulla è dovuto relativamente al rapporto processuale con V. S..

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta; compensa le spese tra le parti costituite.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA il 3 aprile 2003.