Penale

Friday 24 September 2004

Atti osceni. Non sempre palpeggiare una donna è manifestazione di libidine. Cassazione – Sezione terza penale (up) – sentenza 2 luglio-23 settembre 2004, n. 37395

Atti osceni. Non sempre palpeggiare una donna è manifestazione di libidine

Cassazione – Sezione terza penale
(up) – sentenza 2 luglio-23 settembre 2004, n. 37395

Presidente Papadia
– Relatore Fiale – Pm Albano – ricorrente Annunziata

Svolgimento del processo

La Corte di appello
di Roma, con sentenza del 24 gennaio 2002, confermava la sentenza 13 marzo
2001, pronunziata dal Gip del Tribunale di Roma in
esito a giudizio celebrato con il rito abbreviato, che aveva affermato la
penale responsabilità di Annunziata Michele in ordine ai reati di cui:

a) agli articoli 609bis e 61, n. 11, Cp (per avere costretto P.M., funzionario direttivo in servizio presso la Corte di cassazione, a
subire atti sessuali e, segnatamente, il toccamento lascivo dei glutei, con
violenza consistita nell’aggredirla da tergo e proditoriamente, eludendone la
vigilanza, con abuso di relazioni di ufficio, in quanto magistrato della stessa
Corte suprema di Cassazione – in Roma, il 21 giugno 2000);

b) all’articolo 527 Cp (perché compiva gli atti osceni dianzi
descritti nei locali della Cancelleria della prima Sezione civile della Corte
suprema di Cassazione – in Roma, il 21 giugno 2000);

c) agli articoli 609bis e 61, n. 11, Cp (per avere costretto S.C., operatore amministrativo in servizio presso la prima
Sezione civile della Corte di cassazione, a subire atti sessuali e,
segnatamente, il toccamento lascivo dei glutei con violenza consistita
nell’aggredirla da tergo e con movimento repentino tale da eluderne la
vigilanza, con abuso di relazioni di ufficio, in quanto magistrato della stessa
Corte suprema di Cassazione – in Roma, il 9 marzo 2000);

d) all’articolo 527 Cp (perché compiva gli atti osceni dianzi
descritti nei locali della Cancelleria della prima Sezione civile della Corte suprema
di Cassazione – in Roma, il 9 marzo 2000);

e) agli articoli 609bis e 61, n. 11, Cp (per avere costretto M.A., in servizio presso la terza Sezione civile della Corte di
cassazione, a subire atti sessuali e, segnatamente, il toccamento lascivo dei
glutei, con violenza consistita nell’aggredirla da tergo e con movimento
repentino tale da eluderne la vigilanza, con abuso di relazioni di ufficio, in
quanto magistrato della stessa Corte suprema di Cassazione – in Roma, nel
maggio 2000);

f) all’articolo 527 Cp (perché compiva gli atti osceni dianzi
descritti nei locali della Cancelleria della terza Sezione civile della Corte
suprema di Cassazione – in Roma, nel maggio 2000);

e, riconosciute sia la diminuente di
cui al 3°comma dell’articolo 609bis Cp sia circostanze
attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti contestate, unificati tutti i
reati nel vincolo della continuazione ex articolo 81 cpv. Cp,
lo aveva condannato alla pena principale complessiva di anni uno di reclusione
ed alla pena accessoria di legge, con i doppi benefici, nonché al risarcimento
del danno, liquidato nella misura di lire una in conformità alla richiesta, ed
alla rifusione delle spese in favore della parte civile costituita Paola M..

Avverso tale
sentenza ha
proposto ricorso l’Annunziata, il quale ha eccepito:

a) l’erronea applicazione
dell’articolo 442 Cpp, in quanto sarebbero stati illegittimamente utilizzate,
ai fini Probatori, le dichiarazioni raccolte dal funzionario di Cancelleria dr.
Palumbo
nell’ambito di un’indagine amministrativa interna disposta dal Pg e dal Primo Presidente della Corte suprema di Cassazione.
I risultati di tale indagine avrebbero dovuto essere
considerati esclusivamente come notitia criminis, dalla quale il Pm
avrebbe potuto solo trarre spunto per acquisire gli elementi di prova a
sostegno dell’accusa;

b) l’insussistenza dei reati di cui
all’articolo 609bis Cp, per carenza
della connotazione oggettiva, in quanto la sfera sessuale delle parti offese
non sarebbe stata minimamente attinta dalle condotte contestate «che, se mai ci
sono state, altro non erano che comportamenti volgari, ma non incidenti sulla
libertà di determinazione sessuale dei soggetti passivi»;

c) l’insussistenza dei reati di cui
all’articolo 527 Cp, non potendo configurarsi, nei
comportamenti contestati, alcuna offesa giuridicamente
rilevante al pubblico pudore.

Il ricorrente ha sollevato, infine,
eccezione di legittimità costituzionale dell’art 609bis Cp,
in relazione agli articoli 3 e 25 della Costituzione,
per assunta violazione del principio di determinatezza della fattispecie
incriminatrice (in funzione sia di garanzia della libertà sia di tutela
dell’uguaglianza), non essendo rinvenibile nel linguaggio corrente e nella
letteratura scientifica un concetto comunemente e univocamente accettato di
“atto sessuale”.

La questione di incostituzionalità
è stata ulteriormente illustrata con “motivi aggiunti” depositati il 6 marzo
2003 e con “note di udienza”.

Motivi della decisione

  1. L’eccezione
    di inutilizzabilità degli atti raccolti
    nell’indagine amministrativa

La doglianza riferita alla pretesa
illegittimità dell’acquisizione probatoria nel rito abbreviato è infondata.

L’articolo 442, comma 1bis, Cpp
stabilisce che, ai fini della deliberazione, il giudice utilizza gli atti contenuti
nel fascicolo di cui all’articolo 416, comma 2, la documentazione di cui
all’articolo 419, comma 3, e le prove assunte nell’udienza.

Nella specie (a prescindere da ogni
questione circa la necessità di dedurre al momento della richiesta e del consenso,
nel rito abbreviato, le eventuali cause di inutilizzabilità
della prova) risultano utilizzate, quali fonti di prova, le deposizioni delle
persone offese dal reato rese – nella fase delle indagini preliminari – dalla
M. al Pm il 21 settembre 2000 e quelle rese dalla A.
e dalla C. alla Pg, su delega del Pm,
il 28 settembre 2000, legittimamente confluite nel fascicolo del Pm; mentre gli sporadici accenni che vengono fatti dalla
Corte territoriale all’inchiesta amministrativa appaiono sostanzialmente privi
di qualsiasi valenza, probatoria ed irrilevanti ai fini della decisione.

2. La condotta tipica del reato di
“violenza sessuale”

L’individuazione della condotta
tipica del reato di “violenza sessuale” si riconnette alla definizione della
nozione, del contenuto e dei limiti della locuzione “atti sessuali”, di cui
alla legge 66/1996, in quanto l’articolo 609bis Cp
(introdotto appunto da tale legge) ha concentrato m una fattispecie unitaria le previgenti ipotesi
criminose previste dagli articoli 519 e 521, individuando quale unica condotta
composita, idonea a ledere il bene giuridico della libertà sessuale, in luogo
della “congiunzione carnale” e degli “atti di libidine violenti”, il fatto di
chi con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità “costringe” taluno a
compiere o a subire “atti sessuali”.

Le posizioni della dottrina, di fronte al
problema dell’individuazione, del minimum di condotti penalmente rilevante
perché resti integrato il delitto di violenza sessuale, possono
ricondursi a tre principali orientamenti:

a) la tesi della maggiore ampiezza
dell’espressione “atti sessuali” rispetto a quella di “atti di libidine, che
ricomprende nella nuova categoria, perlomeno in astratto, qualsiasi atto che
sia comunque riconducibile (quanto ai motivi che lo
ispirano, alle modalità di realizzazione, alle finalità perseguite) alla sfera
della sessualità umana;

b) l’opinione che tra gli atti di
libidine e gli atti sessuali vi è invece una
fondamentale identità concettuale e che la fattispecie dell’articolo 609bis,
unificando ì precedenti reati di violenza carnale e di. atti
di libidine nella figura unitaria della violenza sessuale, abbia lasciato
sostanzialmente intatto il limite inferiore della tutela della libertà
sessuale, costituito appunto dagli atti di libidine;

c) l’indirizzo secondo il quale la
nozione di “atti sessuali” deve essere intesa in senso restrittivo rispetto a
quella comunemente accolta in relazione agli atti di
libidine e deve essere connotata in termini necessariamente oggettivi, senza
che possano avere rilievo, nell’individuazione della condotta penalmente
rilevante, «né l’impulso del soggetto attivo del reato, né la potenziale
suscettibilità erotica del soggetto passivo, ma piuttosto l’oggettiva natura
sessuale dell’atto in sé considerato», individuata «rifacendosi alle scienze
medico psicologiche ed ancor più a quelle antropologico-sociologiche».
In tale prospettiva, per potere qualificare un atto come “atto sessuale”, si
richiede necessariamente «il contatto fisico tra una parte qualsiasi del corpo
di una persona con una zona genitale, anale od orale del partner»; mentre
restano fuori dalla nozione minima di atto sessuale
quelle condotte che, per quanto possano costituire espressioni di un impulso
concupiscente o possano essere rivolte ad eccitare o a soddisfare la
concupiscenza, siano però prive di quella oggettiva componente strettamente
fisica (e non moralistica) nel senso dianzi enunciato.

Vengono così espunti
dall’area psicologica dell’agente i suoi ulteriori moventi, quale il soddisfacimento
dell’istinto sessuale, che non rientrano nella fattispecie tipica e che
costituiscono in certo modo il retaggio della disciplina previdente.

Nella Relazione al codice Rocco, gli
atti di libidine diversi dalla congiunzione carnale erano iscritti, infatti,
nella categoria dello “sfogo sessuale”, ma proprio tale prospettiva è stata
abbandonata dal Legislatore del 1996, che ha spostato la tutela del patrimonio
collettivo insito nella moralità comune alla sfera intima della libertà di disporre dei propri costumi ed istinti sessuali (con
conseguente eliminazione di ogni nota etica nella repressine dei reati in
materia sessuale).

La giurisprudenza di questa Corte
suprema è orientata nel senso che il concetto attuale di “atti sessuali” è
semplicemente la somma dei concetti previdenti di congiunzione carnale e atti
di libidine (v. Cassazione, Sezione terza, 2941/99, Pg
in proc. Carnevali).

Punto focale è la disponibilità della
sfera sessuale da parte della persona che ne è
titolare e la condotta vietata dall’articolo 609bis Cp
ricomprende – se connotata la costrizione (violenza, minaccia o abuso di
autorità), sostituzione ingannevole di persona ovvero abuso di condizioni di
inferiorità fisica o psichica – oltre ad ogni forma di congiunzione carnale,
qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo tra soggetto attivo e
soggetto passivo, ancorché fugace ed estemporaneo, o comunque coinvolgendo la
corporeità sessuale di quest’ultimo, sia finalizzato
e normalmente idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del
soggetto passivo nella sua sfera sessuale.

Di conseguenza, il delitto di
violenza sessuale è configurabile non solo nei casi in cui avvenga
un contatto fisico diretto tra soggetto attivo e soggetto passivo, ma anche
quando il soggetto attivo costringa soggetti diversi, da considerare soggetti
passivi, a compiere atti di autoerotismo ovvero a compiere o subire atti
sessuali tra loro (v. Cassazione, Sezione terza, 18847/03, De Feudis).

Già nella disciplina previdente, del
resto, il 2° comma dell’articolo 521 Cp prevedeva
atti di libidine che il soggetto passivo era costretto a compiere “su se
stesso, sulla persona del colpevole o su altri”.

Le finalità dell’agente e l’eventuale
soddisfacimento del proprio piacere sessuale non assumono un rilievo decisivo
ai fini del perfezionamento del reato, che è caratterizzato dal dolo generico e
richiede semplicemente la coscienza e volontà di compiere atti pervasivi della
sfera sessuale altrui (v. Cassazione, Sezione terza, 4402/00,
Rinaldi).

Non possono
qualificarsi, pertanto, come “atti sessuali” – nel senso richiesto dalla norma
incriminatrice in esame – tutti quegli atti i quali, pur essendo espressivi di
concupiscenza sessuale, siano però inidonei (come nel caso
dell’esibizionismo, del feticismo, dell’autoerotismo praticato m presenza di
altri costretti ad assistervi o del “voyeurismo”) ad intaccare la sfera della
sessualità fisica della vittima, comportando essi soltanto offesa alla libertà
morale di quest’ultima o (ricorrendone i presupposti)
al sentimento pubblico del pudore (v. Cassazione, Sezione terza, 2941/99, Pg in proc. Carnevali).

Anche i palpeggiamenti ed i
toccamenti possono costituire una indebita intrusione
nella sfera sessuale ed il riferimento al sesso non deve limitarsi alle zone
genitali, ma comprende pure quelle ritenute “erogene”
(stimolanti dell’istinto sessuale) dalla scienza medica, psicologica ed antropologico-sociologica (v. Cassazione, Sezione terza,
12446/00, Gerardi; 4005/00, Alessandrini; 1137/99, De
Marco; 6652/98, Di Francia).

Meritano inoltre adesione, al
riguardo, le considerazioni svolte da un’autorevole dottrina secondo cui «le
fattispecie incriminatrici, per loro stessa natura,
implicano una valutazione umana e sociale, culturalmente condizionata, dei comportamenti
presi in considerazione», sicché deve convenirsi che «la determinazione di ciò
che è sessualmente rilevante in materia penale non può in realtà prescindere
dal riferimento al costume e alle rappresentazioni culturali di una
collettività determinata in un determinato momento
storico».

Non basta dunque, talvolta, il solo
riferimento alle parti anatomiche aggredite dal
soggetto attivo e/o al grado di intensità fisica del contatto instaurato, non
potendo trascurarsi la valenza significativa dell’intero “contesto” in cui il
contatto si realizza, e la complessa dinamica intersoggettiva che si sviluppa
in una situazione che, oltretutto, è connotata dalla presenza di fattori
coartanti. Più aderente alla logica dell’apprezzamento penalistico va considerato,
conseguentemente, un approccio interpretativo di tipo sintetico, volto cioè a desumere il significato della violenza sessuale da
una valutazione complessiva di tutta la vicenda sottoposta a giudizio.

Appare opportuno ricordare, infine,
che – secondo parte della dottrina – il concetto di violenza è ben diverso da
quelli della sorpresa e dell’insidia, sicché non realizzerebbero violenza
sessuale gli atti non violenti ma attuati di sorpresa, pure essendo
manifestazioni di immoralità e spesso di degenerazione,
riconducibili eventualmente ad altre ipotesi di reato.

La giurisprudenza di questa Corte,
invece, è orientata nel senso che la violenza richiesta per l’integrazione del
reato non è soltanto quella che pone il soggetto passivo nell’impossibilità di
opporre tutta la resistenza voluta, tanto da realizzare un vero e proprio costringimento fisico, ma anche quella che si manifesta nel
compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa, così venendosi a
superare la contraria volontà del soggetto passivo (v. Cassazione, Sezione
terza, 3990/01, Invidia).

Nella fattispecie in esame i giudici
del merito si sono correttamente attenuti ai principi di diritto dianzi enunciati e le condotte tenute dall’Annunziata nei
confronti delle tre donne sono state valutate non soltanto in relazione alle
parti anatomiche “erogene” aggredite e palpeggiate ma
nell’intero contesto in cui i comportamenti si sono realizzati (per la M.: repentino bacio sulla
guancia nei sotterranei dal palazzo della Cassazione, reieterazione
di battute ed apprezzamenti sull’aspetto fisico, ostentazione di sguardi
intensi verso le gambe e la scollatura del vestito; per la C.: predisposizione di
condizioni spaziali agevolatrici di un contatto fisico ravvicinato; per la A.: toccamenti preordinati
all’instaurazione di un clima confidenziale).

3. L’eccezione di legittimità
costituzionale dell’articolo 609bis Cp, in relazione agli articoli 3 e 5 della Costituzione

Il ricorrente ha sollevato questione
di legittimità costituzionale dell’articolo 609bis Cp,
prospettando:

– La violazione del principio di
legalità in materia penale, fissato dall’articolo 25, 2°
comma, della Costituzione, il quale implica che la legge determini in modo
specifico il fatto previsto come reato, consentendo quindi di individuare con
sufficiente precisione la condotta sanzionata penalmente e di distinguere con
chiarezza la sfera del lecito da quella dell’illecito, orientando
preventivamente la condotta dei consociati.

La norma incriminatrice in questione
– accomunando sotto un’unica previsione fatti che prima integravano i di reati
di violenza carnale e di atti di libidine violenti ed
unificando le condotte incriminate mediante la locuzione “atti sessuali”, senza
ulteriore descrizione o definizione – difetterebbe di determinatezza, non
essendo rinvenibile nel linguaggio corrente e nella letteratura scientifica una
nozione comunemente accettata di “atto sessuale”.

A causa dell’eccessiva genericità ed
indeterminatezza della nuova locuzione di sintesi “atti sessuali”,
l’individuazione dell’atto sessuale penalmente rilevante in ogni fattispecie
concreta verrebbe interamente rimessa. alla discrezionalità interpretativa del giudicante, con il
pericolo di vistose disparità di trattamento, inaccettabili dalla coscienza
sociale, anche in considerazione del fatto che l’articolo 609bis Cp prevede sanzioni ispirate a severo rigore.

– La lesione del principio di parità
di trattamento, riconosciuto dall’articolo 3 della Costituzione, derivante dal
fatto che le già manifestatesi differenze di interpretazione
giudiziale del concetto indeterminato di “atti sessuali” darebbero luogo ad
altrettante diversità di trattamento di una medesima condotta.

3.1. Già il Tribunale di Crema – con
ordinanza del 21 ottobre 1998 – ebbe a sollevare questione di
illegittimità costituzionale dell’articolo 609bis Cp
in riferimento all’articolo 25, 2° comma, della Costituzione, per violazione
del principio di determinatezza della fattispecie incriminatrice.

L’Avvocatura dello Stato prospettò,
in proposito, che, la fattispecie configurata dall’articolo 609bis Cp risulta determinata con
sufficiente precisione qualora si interpreti la nozione di “atti sessuali” alla
luce della nuova collocazione dei delitti cosiddetti “sessuali” fra i reati
contro la libertà personale. Tale collocazione,
indicativa della volontà del Legislatore di individuare nella libertà di
autodeterminazione sessuale il bene giuridico tutelato dalla norma e
corrispondente ad un nuovo comune modo di sentire, dovrebbe orientare
l’interprete a rendere punibili gli atti che violino la libertà sessuale intesa
come estrinsecazione di un diritto fondamentale della persona che coinvolge la
sfera della sessualità.

Sempre secondo l’Avvocatura dello
Stato, «ove si richiedesse una maggiore specificità, rischierebbero di rimanere
impuniti comportamenti non specificamente previsti dal Legislatore ma
ugualmente lesivi della libertà personale nel suo aspetto della libera
determinazione della sessualità».

La Corte costituzionale, però – con
ordinanza 295/00 – si limitò a dichiarare la questione manifestamente
inammissibile per carenza di motivazione sulla
rilevanza.

La questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 609bis Cp, in relazione agli articoli 2, 3 e 25, 2° comma, Cost., riferita all’assunta indeterminatezza
dell’espressione “atto sessuale”, è già stata dichiarata manifestamente
infondata da questa Sezione, con la sentenza 6652/98, Di Francia, ove è stato
evidenziato che «la formula, che ha il pregio della sinteticità, essendo ogni
definizione analitica nella materia in esame da evitare, non può essere
ritenuta generica ed indeterminata, poiché molte volte l’organo di giustizia
costituzionale ha riconosciuto la legittimità del riferimento a condotte la cui
illiceità è condizionata dall’evoluzione del costume sociale o da nozioni
scientifiche ed i cui contenuti sono determinati dall’interpretazione
giurisprudenziale (Corte costituzionale 191/70, con riguardo al concetto di
osceno».

Questo Collegio ribadisce
il giudizio di manifesta infondatezza della questione, anche alla stregua di
tutte le argomentazioni svolte negli atti difensivi sottoposti al suo esame, e
rileva anzitutto che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale:

– la legge, nel delineare i fatti che
costituiscono reato, può ricorrere a locuzioni di uso
comune o a termini il cui significato può essere ricavato da nozioni non
giuridiche, purché sia comprensibile e sufficientemente determinata la condotta
punita con sanzioni penali (sentenza 312/96 e 414/95);

– «il principio di tassatività della fattispecie penale …deve considerarsi
rispettato anche se il Legislatore, nel descrivere il fatto-reato, usi non già
termini di significato rigorosamente determinato ma anche espressioni meramente
indicative o di rinvio alla pratica diffusa nella collettività in cui
l’interprete opera, spettando a quest’ultimo di
determinare il significato attraverso il procedimento ermeneutica di cui
all’articolo 12, comma 1, delle Preleggi»
(ordinanza 169/83).

La “determinatezza” (in funzione di
garanzia della libertà o in funzione di tutela dell’uguaglianza) è un modo di
essere delle norme (e dei loro elementi) come risultano
non soltanto dagli enunciati legislativi, ma anche dall’interpretazione dei
medesimi e dal loro precisarsi attraverso l’applicazione.

Deve essere pertanto di guida, nella
relativa indagine, il criterio, reiteratamente affermato dalla Corte
costituzionale, secondo il quale la verifica del rispetto del principio di
determinatezza va condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento
descrittivo dell’illecito, ma raccordando con gli altri elementi costitutivi
della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce.

L’inclusione, nella formula
descrittiva dell’illecito penale, di espressioni
sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di concetti “elastici”, non comporta un
vulnus del parametro costituzionale in esame, quando la descrizione complessiva
del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle
finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il
significato del singolo elemento, mediante un’operazione interpretativa non
esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella
descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della
fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento
ermeneutica controllabile, e, correlativamente,
permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente
chiara ed immediata del relativo valore precettivo
(cfr. ex plurimis, le
sentenze 5/5004; 34/1995; 31/1995; 122/96; 247/89).

Secondo la giurisprudenza di questa
Corte di legittimità, come si è esposto dianzi,
nell’articolo 609bis Cp, il riferimento al sesso non
deve limitarsi alle zone genitali, ma comprende anche quelle ritenute “erogene” (stimolanti dell’istinto sessuale) dalla scienza
medica, psicologica ed antropologica-sociologica.

La dottrina, che considera
insoddisfacenti i richiami sia alle “zone erogene”
quali estremi confini della libertà sessuale sia alle
nozioni scientifiche, osserva che il ricorso alle discipline scientifiche, in
vista della tipizzazione di una fattispecie penale, se pure garantisce una
maggiore uniformità rispetto ai criteri di carattere culturale e sociale, non esime
dai rischi di una probabile relativizzazione del
canone valutativo.

Viene evidenziato, altresì, che anche
negli orientamenti scientifici, soprattutto nel campo del comportamento umano,
può pur sempre aversi un recupero subliminale di parametri etico-sociali.

In contrario, però, va rilevato che –
alla stregua dell’anzidetto consolidato orientamento giurisprudenziale – il
termine “atti sessuali”, al quale nel linguaggio comune possono attribuirsi più
significati, anche eterogenei, viene ad assumere, attraverso il riferimento
alle discipline scientifiche, un’accezione peculiare, che lo rende preciso e
per nulla indeterminato.

È in primo luogo chiaro che,
attraverso la norma incriminatrice in esame, il Legislatore ha voluto accordare
tutela alla libertà personale intesa come libertà di autodeterminazione
della propria corporeità personale, e non già alla libertà morale della persona
oppure al pudore come specificazione del buon costume e dei valori morali della
collettività.

Deve inoltre evidenziarsi che –
secondo la Corte costituzionale – l’integrazione della norma ad
opera del giudice, mediante prudente apprezzamento delle indicazioni
scientifiche, non costituisce invasione dei poteri riservati al Legislatore (v.
Corte costituzionale, sentenza 475/88).

3.2. Quanto, poi all’ulteriore profilo di supposta compromissione dell’articolo 3
della Costituzione – vale a dire alla prospettata “irragionevolezza” della
equiparazione del trattamento sanzionatorio tra comportamenti delittuosi
diversi – va negata la validità del postulato difensivo circa la parificazione
di condotte non omologabili.

Contrariamente a quanto sostenuto dal
ricorrente, infatti, non è irragionevole che il Legislatore abbia sottoposto
alla stessa pena edittale un’ampia, gamma di modalità
di aggressione alla dignità della persona ed alla
libera autodeterminazione della corporeità sessuale individuale, trattandosi di
lesioni del medesimo bene protetto dalla norma incriminatrice, realizzate con
modalità diverse, ma omogenee, salvo sempre il potere discrezionale del
giudice, all’atto della determinazione in concreto della sanzione, di calibrare
l’applicazione di quest’ultima tra gli ampi termini
della pena edittale prevista (da cinque a dieci anni)
alla reale entità della condotta posta m essere e alla differente attitudine
degli atti realizzati a ledere il bene tutelato.

Né può trascurarsi di valutare, al
riguardo, la previsione – nel comma 3 dell’articolo 609bis – dell’attenuante
speciale che si applica “nei casi di minore gravità” e che comporta la
diminuzione della pena “in misura non eccedente i due terzi”.

Tale attenuante deve considerarsi
applicabile in tutte quelle fattispecie in cui – avuto riguardo ai mezzi, alle
modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione – sia
possibile ritenere che la libertà sessuale personale della vittima sia stata
compressa in maniera non grave, ed implica la necessità di una valutazione
globale del fatto, non limitata alle sole componenti oggettive del reato, bensì
estesa anche a quelle soggettive ed a tutti gli elementi menzionati
nell’articolo 133 Cp (Cassazione, Sezione Terza,
9528/00, Nitti).

Secondo Cassazione, Sezione terza, 972/00, Pm in proc. Poziello
Della Rotonda, la citata attenuante è stata, introdotta proprio «al fine di
svincolare la valutazione della gravità del fatto dai limiti della materialità
della condotta posta in essere, così come in
precedenza, elevandola ad un giudizio più ampio che deve tener conto di tutte
le componenti del caso».

4. I delitti di “atti osceni”

Il ricorso deve ritenersi fondato –
nella parte in cui prospetta l’insussistenza dei contestati delitti di “atti
osceni” – per le ragioni di seguito esposte.

Ai sensi dell’art
529 Cp, «si considerano osceni gli atti e gli oggetti
che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore». Per la configurazione
della fattispecie delittuosa di cui all’articolo 527, 1°
comma, Cp, il Legislatore rinvia, dunque, ad un
elemento normativo extragiuridico costituito dal “comune senso del pudore”.

Anche in ordine a
tale reato si è posta la questione della corrispondenza della norma
incriminatrice al principio di legalità garantito dall’articolo 25, 2° comma
della Costituzione e la Corte
costituzionale, investita della questione, ha affermato che «gli articoli 527,
528 e 529 Cp, che puniscono gli atti, le
pubblicazioni e gli spettacoli osceni, qualificandoli come quelli che, secondo
il comune sentimento, offendono il pudore non contrastano con il principio di
legalità, garantito dall’articolo 25, 2° comma, della Costituzione. Detto principio
viene rispettato dal Legislatore non solo con la
tassativa descrizione delle fattispecie penali, ma, quando appare necessario,
come nel caso di tutela di beni immateriali, altresì con il ricorso a nozioni
proprie dell’intelligenza comune, che egualmente consentono di individuare con
certezza il precetto e di giudicare se una determinata condotta lo abbia o meno
violato» (Corte costituzionale, sentenza 191/70).

Il giudice delle leggi ha ricordato,
anzitutto, di avere costantemente riconosciuto (sentenze 27/1961, 120/63,
44/964, 7/1965) che «il principio di legalità si attua non soltanto con la
rigorosa e tassativa descrizione di una fattispecie, ma, in talune ipotesi, con
l’uso di espressioni sufficienti per individuare con
certezza il precetto e per giudicare se una determinata condotta lo abbia, o
meno, violato.

Quando la legge penale prevede la tutela di beni immateriali (come il decoro,
l’onore, la reputazione, il prestigio, la decenza ed altri) il ricorso a
nozioni proprie del linguaggio e dell’intelligenza comune è inevitabile … Per
quanto attiene, in particolare, alla difesa del pudore, il rinvio alla morale,
al buon costume, e nominativamente al comune sentimento (articolo 529 Cp) è legittimo, trattandosi di concetti diffusi e
generalmente compresi, sebbene non suscettibili di una categorica definizione».

La stessa Corte costituzionale ha
affermato, poi, che «Il costume varia notevolmente secondo le condizioni
storiche d’ambiente e di cultura, ma non vi è momento in cui il cittadino, e
tanto più il giudice, non siano in grado di valutare
quali comportamenti debbano considerarsi osceni secondo il comune senso del
pudore, nel tempo e nelle circostanze m cui essi si realizzano».

Sotto il profilo giuridico (in
conformità anche alla Relazione ministeriale sul progetto del codice penale), viene considerato osceno «tutto ciò che ha la capacità,
attitudine causale a violare quel senso di naturale, doveroso riserbo che la
media del popolo italiano esige sia mantenuta nell’attuale momento storico,
attorno alle manifestazioni ed ai fatti di indole sessuale».

Trattasi del “comune sentimento del
pudore”, sentimento relativo al buon costume, connesso
alla riservatezza su tutto ciò che attiene alla vita sessuale, ed il “buon
costume” – secondo la Corte
costituzionale (sentenze 19/1965, 191/70 e 368/92) – costituisce «un valore
riferibile alla collettività in generale, nel senso che denota le condizioni
essenziali che sono indispensabili per una convivenza sociale conforme ai
principi costituzionali inviolabili della tutela della dignità umana e del
rispetto reciproco tra le persone».

Tale valore è «dotato di una
relatività storica, dovuta al fatto che varia notevolmente secondo
le condizioni storiche d’ambiente e di cultura».

Questa Corte suprema ha affermato, in
proposito, che «nella nozione di osceno la legge
assume ad oggetto di tutela un fenomeno biologico umano qual’è
il pudore, che si esprime in una reazione emotiva, immediata ed irriflessa, di disagio, turbamento e repulsione in ordine a
organi del corpo o comportamenti sessuali che, per ancestrale istintività,
continuità pedagogica, stratificazione di costumi ed esigenze morali, tendono a
svolgersi nell’intimità e nel riserbo, poiché tale reazione emotiva è variabile
di tono, in relazione alle varie componenti della comunità e alle esigenze
morali e alla evoluzione del costume, la legge ha commisurato la tutela del
pudore al sentimento di esso diffuso nella comunità stessa, con ciò adombrando
anche il momento valutativo del fenomeno, poiché il sentimento, diversamente
dal senso, coinvolge anche una valutazione positiva, sul piano morale ed etico,
dell’atteggiamento psicologico di verecondia penalmente protetto. Nel porre,
infine, l’attributo “comune” la formula normativa ha poi inteso da un lato
escludere il metro individuale o minoritario del pudore, che potrebbe peccare di eccesso o di difetto, dall’altro accordare rilievo a
criteri di identificazione del medesimo che ne colgano la estensione e la
intensità nella coscienza sociale in ragione della sua larga diffusione e della
sua normale presenza nei soggetti la cui personalità è in via di formazione o
si sia gia formata». (Cassazione, Sezione terza,
1809/77, Dall’O).

Il riferimento dell’articolo 529 Cp al senso del pudore medio dei cittadini fa si che l’evoluzione dei costumi influisca sul concetto di
pudore, che non deve essere considerato cristallizzato e immutabile.

Sempre secondo la giurisprudenza di
questa Corte:

– La nozione di comune sentimento del
pudore, di cui all’articolo 529 Cp, va risolta nel
senso della verifica e dell’aggiornamento di esso
nella sua mutevolezza con il divenire dei costumi e con l’evoluzione del
pensiero medio dei consociati nel momento storico in cui avviene il fatto
incriminato (c.d. criterio storico-evolutivo) (v. Cassazione, Sezione terza,
5308/84, Rossellini).

– In relazione al
concetto di pudore, rimane affidata all’apprezzamento del giudice
l’identificazione del sentimento medio nel periodo storico nel quale egli è
chiamato ad esprimere il suo giudizio.

Affermare che l’evoluzione dei
costumi non può alterare il senso del pudore e della decenza significa
distruggere proprio quel parametro di valori che è
affidato al giudice per integrare la norma lasciata appositamente in bianco per
essere riempita del contenuto che solo la valutazione del sentimento medio può
dare; significa distruggere il valore storico-sociale che tale giudizio
comporta, cristallizzando, in forme delimitate e insuscettibili
di mutamento, ciò che il Legislatore ha voluto fosse mutevole; significa, in sintesi,
voler eliminare il giudizio del caso concreto, nel momento storico evolutivo
che è espressamente richiamato con riferimento al senso del pudore medio dei
cittadini (Cassazione, Sezione terza, 484/79, Del Punta).

– Ai fini della determinazione delle categorie
dell’osceno e degli atti contrari alla pubblica decenza, il giudice deve
adottare, quali parametri di valutazione del modificarsi dei costumi
sull’intero territorio nazionale, mode (costumi generalizzati ed accettati) e
mass-media (televisione, radio e giornali quali “fabbrica” e “specchio del
comune sentire”, del generale stato di accettazione
del mutamento di costume, della tolleranza nel pluralismo): parametri non
variabili nello spazio; ma, pur tuttavia, il giudice medesimo deve prendere approfonditamente
in considerazione le diverse, concrete circostanze (la vicenda concreta, il
luogo in cui l’atto si manifesta) (Cassazione, Sezione terza, 9685/96, Bertaccini).

– Il comune sentimento del pudore, la
cui offesa determina l’oscenità di atti e oggetti ai
sensi dell’articolo 529 Cp, tutela la sensibilità
comune e non quella di ogni uomo, sicché, indipendentemente dai criteri
elaborati per la sua individuazione, è certo che esso si rifèrisce ad un
ipotetico individuo la cui sensibilità è offesa a fronte di un dato atto od
oggetto osceno e tale sensibilità è generalizzata appunto nel comune sentimento
del pudore, indipendentemente dalla soglia del singolo individuo, sia essa più
alta o più bassa. Il fatto che vi siano individui con differenziata
sensibilità è è ininfluente per la nozione normativa
di osceno, che, se consentisse segmentazioni non sarebbe più riferibile al
“comune” sentimento del pudore (Cassazione, Sezione terza, 1977/88, Bruttini).

– Il comune modo di sentire, ai fini
del concetto di osceno, va determinato non in base
alla sensibilità di quel cittadini che attribuiscono scarso rilievo al valori
morali e spirituali, ma m relazione a quella dei consociati di normale levatura
morale, intellettuale e sociale nell’attuale momento storico (Cassazione,
Sezione terza, 3 marzo 1986 Dagasso).

Quanto alla configurabilità dei
palpeggiamenti come atti osceni, questa Corte – con decisioni ormai risalenti
nel tempo – ha affermato che:

– I palpeggiamenti e i toccamenti
lascivi, se determinati dal fine di concupiscenza ed in particolare dal
desiderio di congiunzione carnale con la parte lesa, integrano i delitti di cui
agli articoli 521 e 527 Cp (Cassazione, Sezione
terza, 7812/85, Autiero).

– E palpeggiamento dei seni di una
donna, sia pure al di sopra degli abiti, o l’afferrare
la stessa per le braccia, nel tentativo di stringerla a sé, accompagnando tali
gesti con parole chiaramente rivelatrici di un intento lascivo, essendo
manifestazioni di indole sessuale tendenti esclusivamente all’eccitamento
erotico, integrano sotto il profilo obiettivo e subiettivo
il reato di cui all’articolo 527, in quanto offendono il pudore secondo il
comune sentimento e, cioè, secondo il sentimento dell’uomo normale,
intendendosi per tale l’individuo che, avendo raggiunto la maturità sul piano
etico e psichico, e alieno così dalla fobia, come dalla mania, per il sesso, e
nell’accettare il fenomeno sessuale come dato fondamentale della persona umana,
non ne fa, tuttavia, un mito (Cassazione, Sezione prima, 5873/76, Bozano).

Questa stessa Corte non ha mancato,
però, di specificare che:

Le nozioni di osceno
e di pudore non sono riferite ad un concetto considerato in sé, ma al contesto
ed alle modalità in cui gli atti o gli oggetti sono compiuti o esposti
(Cassazione, Sezione terza, 8959/97, Pm in proc. Gallone).

– Non possono considerarsi oscene
quelle manifestazioni di reciproco affetto, visibili in pubblico, che non
turbano la sensibilità dell’uomo di media moralità, il quale rimane
indifferente alla visione di baci ed abbracci tra soggetti consenzienti, mentre
atti che sono brutale espressione dell’istinto sessuale, quali baci sulla, bocca e il toccamento di parti intime, compiuti su persona
non consenziente, integrano il reato di cui all’articolo 527 Cp (Cassazione Sezione terza, 7234/98, Molle).

Può affermarsi, allora, che osceno è
ciò che, avendo connotazione sessuale – tenuto conto della sensibilità dei
consociati di normale levatura morale, intellettuale e sociale nell’attuale
momento storico – suscita nell’osservatore rappresentazioni e desideri erotici
ovvero malsani eccitamenti; mentre questo Collegio non condivide quell’orientamento dottrinale (pure recepito da Cassazione,
Sezione terza, 2447/85, Carioti) che collega la punibilità ad una offesa del pudore intensa e
grave.

Si tratta, in sostanza, di quegli
atti che (secondo Cassazione, Sezione terza, 1809/77,
Dall’O) cagionano «una reazione emotiva, immediata ed irriflessa,
di disagio, turbamento e repulsione in ordine a organi del corpo o
comportamenti sessuali, che, per ancestrale istintivita,
continuità pedagogica, stratificazione di costumi ed esigenze morali, tendono a
svolgersi nell’intimità e nel riserbo».

Il delitto di atti
osceni e quello di violenza sessuale ben possono concorrere, poiché, mentre col
primo si punisce l’offesa al pudore come specificazione del buon costume e si
tutela la morale pubblica, con il secondo l’ordinamento intende accordare
tutela alla persona e, più segnatamente, alla libertà di autodeterminazione
della propria corporeità sessuale.

Passando quindi alla valutazione del
caso specifico, deve rilevarsi che non ogni forma di toccamento di parti
anatomiche, anche erogene, del corpo altrui integra
il delitto di osceno. Questa Corte, come si è detto,
ha ritenuto che l’uomo di media moralità non è turbato
da baci ed abbracci tra soggetti consenzienti, sicché tali atti non si
qualificano per la loro contrarietà oggettiva al comune sentimento del pudore.

Deve convenirsi, allora, che mentre
il contenuto sessuale di certi atti è inequivoco, altri possono presentarsi o
non quali manifestazione di libidine, e che una
valenza non marginale deve attribuirsi al contesto in cui il contatto fisico si
realizza. In relazione ad atti sessuali, che possono definirsi relativamente osceni, e necessario perciò accertarne caso per caso la
potenzialità lesiva per il pudore, tenendo conto della situazione complessiva
in cui essi sono compiuti e delle modalità con cui si estrinsecano i
comportamenti. In tale ottica al toccamento dei glutei di una donna (della quale,
fra l’altro, non sia percepibile il dissenso) non può sempre e comunque riconoscersi un chiaro contenuto erotizzante.

Nelle fattispecie in esame è rimasto
accertato, in punto di fatto, che l’Annunziata, in locali di Cancelleria: “toccò con la mano il sedere” della A., mentre ella si stava
allontanando da una stanza; “toccò in maniera violenta il sedere” della C.
mentre ella stava avvicinandosi al telefono; «toccò con la mano una delle
natiche della M. e poi la colpì su entrambe altre due volte a mò di sculacciata». Questi comportamenti sono stati
valutati stregua di violenze sessuali anche in un contesto
che ha inequivocamente evidenziato la specifica
coartazione della libertà di autodeterminazione sessuale delle donne, portando
ad escludere che l’imputato abbia agito con spirito goliardico o “ioci causa”; condotte siffatte, però, non possono
considerarsi oggettivamente offensive pure dell’attuale comune sentimento del
pudore. Infatti, chi avesse assistito a tali atti (sicuramente inopportuni e
poco consoni sia alla funzione di chi li poneva in essere sia alla sede in cui
trovavano esplicazione) non avrebbe provato alcuna azione
erotica e, quel che più conta, li avrebbe valutati sotto il profilo della
correttezza del contegno (piuttosto che della pubblica decenza) ma non avrebbe
potuto immediatamente ricondurli a quei «comportamenti sessuali che, per
ancestrale istintività, continuità pedagogica, stratificazione di costumi ed
esigenze morali, tendono a svolgersi nell’intimità e nel riserbo».

La sentenza impugnata,
conseguentemente, deve essere annullata senza rinvio, limitatamente ai
contestati reati di cui all’articolo 527 Cp (capi B,
D ed F della rubrica), Perché il fatto non sussiste e
deve essere eliminata la relativa pena, di giorni venti di reclusione, inflitta
per la continuazione.

Tale statuizione non influisce sulla
procedibilità dei reati di violenza sessuale commessi in danno della A. e della C. – le quali non hanno sporto querela –
poiché si configura l’ipotesi prevista dall’articolo 609septies, 4° comma – n.
3, Cp, in quanto gli atti sessuali in oggetto sono
stati commessi dall’imputato, magistrato della Corte suprema di Cassazione, su
dipendenti dell’Amministrazione giudiziaria, contestualmente all’esercizio
della pubblica funzione ed in occasione dello svolgimento della stessa.

5. Il ricorso deve essere rigettato
nel resto ed il ricorrente deve essere condannato al rimborso, in favore della
costituita parte civile P. M. delle spese del presente grado di
giudizio, liquidate in complessivi curo 2.030,00, di cui curo 2.000,00 per
onorario, oltre Iva e Cassa Avvocati.

PQM

La
Corte suprema di Cassazione, visti gli articoli 607, 615, 616
e 620 Cpp, dichiara manifestamente infondata la dedotta questione di
legittimità costituzionale. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata
limitatamente ai reati di cui all’articolo 527 Cp
(capi B, D ed F della rubrica), perché il fatto non
sussiste ed elimina la relativa pena di giorni venti di reclusione.

Rigetta il ricorso nel resto.

Condanna il ricorrente al rimborso,
in favore della costituita parte civile, delle spese del presente grado di giudizio, liquidate in complessivi euro 2.030,00, di cui
euro 2.000,00 per onorario, oltre Iva e Cassa Avvocati.