Famiglia

Thursday 29 July 2004

Su iniziativa della Cassazione va alla Corte Costituzionale la vexata quaestio del cognome materno. Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Civile, ordinanza n.13298/2004

Su iniziativa della Cassazione va alla Corte Costituzionale la vexata quaestio del cognome materno

Suprema Corte di Cassazione, Sezione
Prima Civile, ordinanza n.13298/2004 (Presidente: R.
De Musis; Relatore: M.G. Luccioli)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi
Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MUSIS Rosario Presidente –

Dott. CAPPUCCIO Giammarco
Consigliere –

Dott. LUCCIOLI Maria
Gabriella rel. Consigliere –

Dott. SALVAGO Salvatore Consigliere –

Dott. FORTE Fabrizio Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso proposto da:

*……………..* e *…………* elettivamente domiciliati in ROMA, VIA
PANAMA 74, presso l’avvocato GIANNI EMILIO IACOBELLI, rappresentati e difesi
dagli avvocati LUIGI PALMIERI e LUIGI FAZZO, giusta delega in calce al ricorso;
– ricorrenti –

contro PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE
D’APPELLO DI MILANO; – intimato – avverso la sentenza n. 1464/02 della Corte
d’Appello di MILANO, depositata il 04/06/02; udita la relazione della causa
svolta nella pubblica udienza del 26/02/2004 dal Consigliere Dott. Maria
Gabriella LUCCIOLI; udito per il ricorrente l’avvocato CORRADO DE SIMONE, con
delega, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso; udito il P.M. in persona del
Sostituto Procuratore Generale Dott. CARESTIA Antonietta che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

LA CORTE DI CASSAZIONE

Rileva in fatto:

Con sentenza del 24 maggio – 4 giugno
2002 la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza
in data 6-8 giugno 2001 del Tribunale di Milano che aveva rigettato la domanda
dei coniugi *…..

…..* ed *……………..* diretta ad ottenere la rettificazione dell’atto di nascita della
propria figlia minore *…………….* nel senso che le fosse imposto
il cognome materno in luogo di quello del padre, risultante dall’atto formato
dal competente ufficiale dello stato civile, in contrasto con la volontà
espressa dal padre al momento della dichiarazione di nascita.

La Corte territoriale ha osservato
che il silenzio del legislatore della riforma del diritto di famiglia in ordine al cognome dei figli legittimi, pur a fronte della
modifica dell’art. 144 c.c. [1] relativo al cognome della moglie, consentiva di
desumere la persistente validità di una norma consuetudinaria saldamente
radicata nella coscienza e nella percezione della collettività; che neppure in
sede di riforma dell’ordinamento dello stato civile il legislatore aveva
ritenuto necessario inserire una previsione esplicita sul punto, nonostante
avesse fatto oggetto di innovativa regolamentazione talune problematiche
afferenti il cognome; che anche la Corte Costituzionale aveva in più occasioni
affermato che la mancata previsione della facoltà per la madre di trasmettere
il proprio cognome ai figli legittimi non si pone in contrasto nè con l’art. 3 nè con l’art. 29
Cost. ed aveva al tempo stesso rilevato che l’opportunità di introdurre un
diverso sistema di determinazione del cognome, ugualmente idoneo a
salvaguardare il principio dell’unità familiare senza comprimere quello
dell’uguaglianza dei coniugi, va ricondotta alla competenza esclusiva del
legislatore; che in adesione a tale orientamento erano stati presentati in
Parlamento numerosi progetti di legge, alcuni dei quali tuttora all’esame del
Senato o della Camera; che infine nell’attuale assetto normativo il consentire,
a mera richiesta dei coniugi genitori, la disapplicazione della norma
consuetudinaria in discorso comporterebbe riflessi negativi in ordine
all’interesse della prole minorenne, potendo questa essere individuata, proprio
in forza dell’attribuzione del solo cognome materno, come prole naturale, e non
legittima.

Avverso tale
sentenza hanno
proposto ricorso per Cassazione *……………..* e *………..* formulando
articolate censure.

Essi in particolare deducono che la
Corte di Appello, nel ritenere l’esistenza di una
consuetudine circa l’attribuzione al figlio del cognome paterno, non ha
esaminato la ricorrenza delle condizioni perchè un uso siffatto possa assumere
quel valore normativo, come fonte del diritto, che ne giustifichi
l’applicazione con forza di legge. Osservano che il principio fondamentale di
parità dettato dall’art. 3 Cost, l’altro principio
fondamentale di eguaglianza morale e giuridica dei
coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare,
sancito dall’art. 29 Cost., il disposto dell’art.
143, comma 1, c.c., secondo il quale con il
matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i
medesimi doveri, nonchè, sul piano delle norme
sopranazionali, le chiare indicazioni contenute nel preambolo e negli artt. 2 e
16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, nonchè l’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, l’art. 3, n. 2; del Trattato istitutivo della Comunità Europea,
ed ancora la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei
confronti della donna adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il
18 dicembre 1979, ratificata in Italia con legge 14 marzo 1985 n. 132, ed in
particolare il suo art. 16 lett. g), che impone agli Stati parte di assicurare
gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del
cognome, non consentono di attribuire alla prassi in discorso carattere
normativo. Rilevano ancora che la sentenza impugnata, nel disattendere la tesi
degli appellanti secondo la quale la disparità di
trattamento dei coniugi in relazione al cognome del figlio incorre nel divieto
di discriminazione e costituisce una deroga al principio di parità non
giustificata nelle leggi, ha errato nel ritenere operante nella fattispecie in
esame la riserva di deroga al principio di parità contenuta nel capoverso
dell’art. 29 Cost., non configurandosi alcun
attentato all’unità familiare per effetto dell’attribuzione del cognome
materno, anzichè di quello paterno, sulla base di una
concorde volontà dei coniugi.

Considera in diritto:

Come ha posto in
evidenza la sentenza impugnata, non esiste nel nostro ordinamento una
specifica disposizione diretta ad attribuire ai figli legittimi il cognome
paterno. La norma di cui all’art. 6 c.c., che sancisce il diritto di ognuno ad un nome sin dalla
nascita ed anche oltre la morte, esprime un preciso favore alla certezza ed
alla stabilità del nome, nel binomio comprensivo del cognome (comma 2), anche
in relazione al concorrente interesse pubblico alla certezza degli status ed
alla corretta individuazione delle persone, ma non detta alcuna regola in ordine
alla sua acquisizione.

Che il diritto al nome, indicato
anche nell’art. 22 Cost. come bene oggetto di autonomo
diritto, si qualifichi come diritto insopprimibile della persona, nella sua
specifica attitudine a delinearne l’identità, sia nella sua dimensione
individuale che nella sua proiezione esterna, costituisce un dato da tempo
acquisito nella giurisprudenza e nella dottrina civilistica:
tale impostazione è chiaramente espressa nelle sentenze della Corte
Costituzionale n.

13 del 1994, n. 297 del 1996 e n. 120
del 2001, che hanno affermato il diritto di ogni
persona a conservare il cognome che sia divenuto autonomo segno distintivo
della sua identità, così mantenendo attraverso il cognome l’identità fino ad
allora posseduta, anche quando siano sopravvenuti eventi tali da comportare il
cambiamento di quel cognome.

La normativa codicistica vigente
prima della riforma del diritto di famiglia, nel regolare soltanto, nell’ambito
della famiglia legittima, il cognome della moglie, disponeva all’art. 144 c.c., in piena coerenza con il
riconoscimento al marito – nella stessa norma sancito – della qualità di capo
della famiglia, che la moglie ne assumesse il cognome, così chiaramente ponendo
il cognome dell’uomo quale elemento identificativo del nucleo familiare.

La legge di riforma n. 151 del 1975 ha sostituito tale
disposizione con l’art. 143 bis c.c.,
ai sensi del quale la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito.
Nonostante l’apparente incisività della nuova formulazione, essa deve
considerarsi di modesto spessore, e comunque non decisiva
ai fini del problema qui in esame, tenuto conto da un lato che anche nel vigore
della precedente normativa la giurisprudenza di questa Suprema Corte aveva
ravvisato il diritto della moglie a conservare il proprio cognome, aggiungendo
ad esso quello del marito (v. Cass. 1961 n. 1692), considerato d’altro lato che
anche la disposizione novellata evidenzia, sia pure in termini attenuati
rispetto al passato, l’opzione del legislatore verso
il cognome del marito come identificativo della nuova famiglia costituita, in
quanto unico cognome comune, così rimarcando una posizione di evidente
disparità tra i coniugi.

Del tutto coerente con tale
disciplina è l’art. 5 comma 2 della legge sul
divorzio, nel testo riformato dalla legge n. 74 del 1987, il quale dispone che
con lo scioglimento del vincolo la moglie perde il cognome che aveva aggiunto
al proprio a seguito del matrimonio, salva la facoltà, prevista dal comma
successivo, di conservare il cognome del marito, quando sussista un interesse
suo o dei figli meritevole di tutela.

Quanto al cognome dei figli
legittimi, se l’assunzione di quello paterno si configurava nella vigenza delle
disposizioni codicistiche tanto aderente al modello tradizionale di famiglia
incentrato sull’autorità del marito/padre, da far apparire superflua una
specifica previsione normativa, nel sistema delineato dalla legge di riforma
del 1975, ampiamente ispirata a principi di parità e di pari dignità tra i
coniugi, la mancanza di una norma espressa appare assai meno giustificata, e
può trovare ragione soltanto nella forza di radicati condizionamenti culturali in ordine alla differenza di ruoli e di poteri all’interno
del nucleo familiare, che hanno consentito di privilegiare da tempo
immemorabile anche in sede ereditaria la linea maschile attraverso il
perpetuarsi del cognome paterno.

Ed anche il recente d.p.r. 3 novembre
2000, n. 396, che detta il regolamento per la
revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, non
contiene alcuna specifica disposizione circa l’assunzione del cognome da parte
del figlio legittimo, prevedendo all’art. 29, n. 2, in relazione alla
formazione dell’atto di nascita, che l’ufficiale dello stato civile indichi
nell’atto stesso (tra l’altro) le generalità del padre e della madre.

E tuttavia ritiene il Collegio che
una norma nel senso indicato sia chiaramente
desumibile dal sistema, in quanto presupposta da una serie di disposizioni
regolatrici di fattispecie diverse.

Ed invero l’art. 237 c.c. pone tra gli
elementi costitutivi del possesso di stato il fatto che la persona abbia sempre
portato il cognome del padre che pretende di avere.

L’art. 262 c.c., in materia di riconoscimento del figlio naturale, dispone
al primo comma che il riconoscimento contestuale da parte di entrambi i
genitori comporta che il figlio assuma il cognome del padre, in ragione di una
evidente equiparazione della prole naturale riconosciuta alla prole legittima.
Ed anche il secondo comma dell’art. 262 c.c., ai sensi del quale in caso di successivo riconoscimento
del padre o successivo accertamento della paternità il figlio può assumere il
cognome del padre, aggiungendolo o sostituendolo a quello materno, sottende
chiaramente, pur dopo P intervento additivo della Corte Costituzionale con la
sentenza n. 297 del 1996, una più forte rilevanza del cognome paterno.

Inoltre l’art. 299 c.c. in tema di adozione di maggiorenni prevede al terzo comma che se
l’adozione è compiuta da coniugi l’adottato assume il cognome del marito,
ancora una volta nello spirito della piena equiparazione della posizione del
figlio adottivo a quella del figlio legittimo.

Analogamente, una norma attributiva
al figlio legittimo del cognome paterno appariva presupposta dalla disposizione
di cui all’art. 72 comma 1 del d.r.d. 9 luglio 1939
n. 1238, che vietava di imporre al bambino lo stesso prenome del padre vivente,
all’evidente scopo di evitare omonimie per avere essi già il medesimo cognome,
così come è chiaramente sottintesa dal corrispondente
art. 34, n. 1, del d.p.r. n. 396 del 2000, nonchè
dall’art. 33, n. 1, del citato d.p.r., che attribuisce al figlio legittimato (salva l’opzione esercitabile dal soggetto maggiorenne) il cognome del
padre.

Da tali pur eterogenee previsioni si desume l’immanenza di una norma che non ha trovato corpo in
una disposizione espressa, ma che è pur presente nel sistema e lo completa,
della cui vigenza e forza imperativa non vi è ragione di dubitare. Sulla base di tale norma, che certamente si configura come
traduzione in regola dello Stato di un’ usanza consolidata nel tempo, il
cognome del figlio legittimo non si trasmette dal padre al figlio, ma si
estende ipso iure da quello a questo.

L’individuazione di una norma
siffatta, nella necessaria correlazione con il disposto dell’art. 6 c.c., il quale riconosce il
diritto di ogni persona al nome che le è per legge attribuito, induce a
dissentire dall’opinione espressa nella sentenza impugnata, sostenuta anche da
parte della dottrina, che ravvisa il fondamento della attribuzione al figlio
legittimo del cognome paterno in una consuetudine. È peraltro appena il caso di
ricordare che la consuetudine, quale strumento di formazione spontanea del
diritto, postula una reiterazione e continuità di comportamenti conformi ad una
medesima regola da parte della generalità dei consociati nella convinzione della loro doverosità: tali elementi non sono certamente
riscontrabili nella vicenda dell’attribuzione del cognome paterno, segnata da
un’attività vincolata dell’ufficiale dello stato civile, a fronte della quale
la volontà ed il convincimento dei singoli dichiaranti non trovano alcuno
spazio.

Va altresì rilevato che una
consuetudine nel senso indicato, ove ravvisabile, dovrebbe considerarsi contra legem, per il suo evidente
contrasto con le norme del 1975 che delineano su basi
paritarie il nuovo modello di famiglia e con i principi costituzionali di
riferimento, e sarebbe quindi suscettibile di disapplicazione diretta da parte
del giudice, atteso che, come è noto, l’indagine sulla legittimità di norme consuetudinarie,
alla stregua dei precetti costituzionali e dei principi generali
dell’ordinamento, spetta all’autorità giudiziaria che sia chiamata a farne
applicazione, non rientrando dette norme tra le leggi o gli atti aventi forza
di legge per i quali è devoluto il giudizio di legittimità alla Corte
Costituzionale.

Tanto ritenuto in diritto, ritiene il
Collegio di dover sollevare di ufficio la questione di
legittimità costituzionale della norma così individuata, in quanto non consente
che i coniugi possano scegliere concordemente il cognome da attribuire ai
figli, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 29, comma 2, Cost..

La questione è certamente rilevante
nel presente giudizio, atteso che l’applicazione della norma di cui si sospetta
la incostituzionalità comporterebbe inevitabilmente la
negazione della pretesa fatta valere dagli attori, diretta ad ottenere il
riconoscimento del proprio diritto ad attribuire alla figlia, per loro concorde
volontà, il cognome materno.

Non ignora questa Corte che il giudice
della legittimità delle leggi si è già espresso al riguardo, dichiarando in due
occasioni, con le ordinanze n. 176 e 586 del 1988, manifestamente inammissibile
la questione di legittimità costituzionale (nella prima pronuncia) degli artt.
71, 72 e 73 del r.d. n. 1238 del 1939, nonchè
(nella seconda pronuncia) degli artt. 73 del r.d. n. 1238 del 1939, 6,
143 bis, 236, 237, comma 2, e 262, comma 2, c.c., nella parte in cui non prevedono la facoltà dei genitori
di determinare il cognome del proprio figlio legittimo mediante l’imposizione
di entrambi i loro cognomi, nè il diritto di quest’ ultimo di assumere anche il cognome materno: in tali
pronunce la Corte Costituzionale ha rilevato che l’interesse alla conservazione
dell’unità familiare tutelato dall’art. 29, comma 2, Cost. sarebbe gravemente
pregiudicato se il cognome dei figli nati dal matrimonio non fosse prestabilito
fin dal momento dell’atto costitutivo della famiglia, così da essere non già
imposto dai genitori ai figli, ma esteso ope legis, ed al tempo stesso ha riconosciuto come del tutto
compatibile con il quadro costituzionale, ed anzi maggiormente aderente
all’evoluzione della coscienza sociale, una sostituzione della regola vigente
con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi ed idoneo a
conciliare i due principi sanciti dall’art. 29 Cost.,
ma ha ritenuto che tale innovazione normativa, anche per la pluralità delle
soluzioni adottabili, appartenga alla esclusiva competenza del conditor iuris.

È altresì noto alla Corte che varie
iniziative parlamentari dirette a modificare il sistema attuale così da
renderlo corrispondente al canone fondamentale di uguaglianza
morale e giuridica dei coniugi e da rafforzare il principio di libertà
all’interno del nucleo familiare sono state in passato e sono tuttora all’esame
del Parlamento.

E tuttavia ritiene il Collegio che il
lungo periodo trascorso dalle richiamate pronunce della Corte Costituzionale,
il maturarsi di una diversa sensibilità nella collettività e di diversi valori
di riferimento, connessi alle profonde trasformazioni sociali frattanto
intervenute, nonchè gli impegni imposti da
convenzioni internazionali e le sollecitazioni provenienti dalle istituzioni
comunitarie richiedano una rinnovata valutazione della conformità della norma
denunciata agli artt. 2, 3 e 29, comma 2. Cost. – Più
specificamente va ricordato, in relazione ai profili
da ultimo richiamati, che la
Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di
discriminazione nei confronti della donna adottata a New York il 18 dicembre
1979, ratificata in Italia con legge 14 marzo 1985 n. 132, all’art. 16 ha impegnato gli Stati
aderenti a prendere tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione
nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei
rapporti familiari, ed in particolare ad assicurare, in condizioni di parità
con gli uomini, (lett. g) gli stessi diritti personali al marito e alla moglie,
compresa la scelta del cognome, e che con le raccomandazioni n. 1271 del 1995 e
n. 1362 del 1998 il Consiglio d’ Europa, affermato che il mantenimento di
previsioni discriminatorie tra donne e uomini riguardo alla scelta del nome di
famiglia non è compatibile con il principio di eguaglianza sostenuto dal
Consiglio stesso, ha raccomandato agli Stati inadempienti di realizzare la
piena eguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome dei loro
figli, di assicurare la piena eguaglianza in occasione del matrimonio in
relazione alla scelta del cognome comune ai due partners,
di eliminare ogni discriminazione nel sistema legale per il conferimento del
cognome tra figli nati nel e fuori del matrimonio.

Non manifestamente infondata appare
la questione di illegittimità della norma in esame per
contrasto con l’art. 2 Cost., ai sensi del quale la
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Si
tratta, come è noto, di norma immediatamente precettiva, che non costituisce mera sintesi dei diritti
espressamente tutelati dalla carta costituzionale e dalle disposizioni del
codice civile, ma si pone come clausola aperta ad altre libertà e ad altri
valori emergenti nel tessuto sociale. La sua configurazione come norma a
fattispecie aperta, diretta a recepire e garantire le
nuove esigenze di tutela della persona ed a conferire agli interessi sottesi la
dignità di nuovi diritti costituzionali, è chiaramente enunciata nella
giurisprudenza della Corte Costituzionale (v. Corte Cost. 1987 n. 215 e 561).

Come si è innanzi
osservato, tra i diritti che formano il patrimonio irretrattabile
della persona, riconducibili al catalogo cui l’art. 2 Cost. offre tutela
costituzionale, va inserito il diritto all’identità personale, del quale il
nome – indicato come bene oggetto di autonomi diritto dal successivo art. 22
Cost. – costituisce il primo e più immediato elemento caratterizzante, in
quanto espressione emblematica della identità della persona e suo segno
distintivo nella vita di relazione (v. Corte Cost. 2001 n. 120).

In particolare, nella richiamata
sentenza n. 13 del 1994 il giudice della legittimità delle leggi ha rilevato
che il cognome gode di una distinta tutela anche nella
sua funzione di strumento identificativo della persona, e che, in quanto tale,
costituisce parte essenziale ed irrinunciabile della personalità, e nella
successiva decisione n. 297 del 1996 n. 297 ha affermato che il diritto
all’identità personale costituisce tipico diritto fondamentale, rientrando esso
tra "i diritti che formano il patrimonio irretrattabile
della persona umana, sicchè la sua lesione integra
violazione dell’art. 2.

La tutela costituzionale offerta
dall’art. 2 Cost. ai diritti inviolabili dell’uomo " nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità", nella loro funzione essenziale
di luoghi di promozione della personalità dei singoli
componenti, esige che il diritto in discorso sia garantito, nell’ambito di
quella formazione sociale primaria che è la famiglia (così Corte Cost. 2002 n.
484; 1988 n. 183), nella duplice direzione del diritto della madre di
trasmettere il proprio cognome al figlio e di quello del figlio di acquisire
segni di identificazione rispetto ad entrambi i genitori e di testimoniare la
continuità della sua storia familiare anche con riferimento alla linea materna.

Il dubbio di contrasto della norma in
esame con l’art. 3 Cost. si fonda sull’evidente rilievo che l’attribuzione
automatica ed indefettibile ai figli del cognome del marito si risolve in una
discriminazione ed in una violazione del principio fondamentale di eguaglianza e di pari dignità, che nella legge di riforma
del diritto di famiglia trova espressione e sostanza sia con riferimento ai
rapporti tra i coniugi, che ai sensi dell’art. 143 c.c. acquistano gli stessi
diritti e assumono i medesimi doveri, sia con riguardo alla relazione con i
figli, nei confronti dei quali l’art. 147 c.c. impone ai coniugi obblighi di
identico contenuto.

È d’ altro
canto evidente che un sistema normativo nel quale sia consentita l’attribuzione
al figlio (anche) del cognome della madre vale a realizzare il principio di
eguaglianza non solo dei coniugi tra loro, ma anche rispetto alla prole,
esprimendosi l’unità della famiglia, quale comunità di eguali, non solo nella
sua dimensione orizzontale, ma anche nel rapporto che lega genitori e figli.

Altrettanto forte è il sospetto di
contrasto con l’art. 29, comma 2, Cost., atteso che il principio di eguaglianza sul quale il
matrimonio è ordinato costituisce esplicazione del principio fondamentale posto
Dall’art. 3 della Costituzione. Peraltro il necessario bilanciamento tra
l’esigenza di tutela dell’unità familiare, cui è riconosciuta copertura
costituzionale, e la piena realizzazione del principio di eguaglianza
non appare correttamente perseguibile attraverso una disposizione così
marcatamente discriminatoria, tenuto anche conto che – come la Corte
Costituzionale ha avuto occasione di affermare già nella remota sentenza n. 133
del 1970, con riferimento ai rapporti patrimoniali tra i coniugi – è proprio la
diseguaglianza a mettere in pericolo l’unità
familiare, che al contrario si rafforza nella misura in cui i rapporti tra i
coniugi siano governati dalla solidarietà e dalla parità.

Appare pertanto da rifiutare una
lettura dell’art. 29, comma 2, Cost. tesa a contrapporre l’esigenza di tutela
dell’unità familiare alla piena espansione del principio di eguaglianza
tra i coniugi; in quanto funzionale alla realizzazione dell’unità della
famiglia, tale principio non può connotarsi esclusivamente in chiave negativa,
come divieto di ogni discriminazione fondata sul sesso, ma implica anche il
riconoscimento di un’ eguale responsabilità dei coniugi nello svolgimento in
concreto dei rapporti familiari, nel quadro di una reciproca solidarietà.

Sembra al Collegio che il limite
all’eguaglianza dei coniugi a tutela dell’unità della famiglia possa trovare giustificazione costituzionale solo in
presenza di particolari situazioni che rendano indispensabile una specifica
previsione normativa, e che comunque in ipotesi siffatte la soluzione legislativa
che privilegi uno dei coniugi rispetto all’altro non possa essere mai ancorata
al criterio del sesso di appartenenza del coniuge designato, non tollerando il
principio di cui all’art. 3 Cost., nè le varie convenzioni internazionali sui diritti umani
cui l’Italia ha aderito, discriminazioni basate sul genere.

È peraltro da dubitare che la
soluzione adottata nel nostro ordinamento sia effettivamente indispensabile al
fine di assicurare l’unità familiare, non intendendosi come le altre soluzioni
praticabili, ispirate al criterio della scelta preventiva dei coniugi –
invocato nella fattispecie in esame – ovvero a quello del doppio cognome
possano costituire attentato all’unità ed alla stabilità della famiglia, ed
inducendo anzi a ritenere il contrario le numerose esperienze di altri Paesi che già vantano una regolamentazione
rispettosa del principio di eguaglianza, a fronte delle quali la posizione
dell’Italia è ormai decisamente minoritaria, quanto meno in ambito europeo.

Nè può valere a giustificare il mancato
rispetto dei principi costituzionali innanzi
richiamati il rilievo che l’abbandono del principio di immediata ed automatica
attribuzione di un unico e predeterminato cognome determinerebbe problemi ed
incertezze nel sistema, sembrando che l’esplicazione del fondamentale principio
costituzionale di eguaglianza non possa arrestarsi in presenza di inconvenienti
pur seri, peraltro suscettibili di essere agevolmente risolti in via
legislativa (v. sul punto Corte Cost. 1983 n. 30, che ha dichiarato l’illegittimità,
per contrasto con gli artt. 3 e 29 comma 2 Cost., dell’art. 1 n. 1 della legge 13 giugno 1912 n. 555, nella
parte in cui non prevedeva che fosse cittadino per nascita anche il figlio di
madre cittadina).

Deve pertanto procedersi
alla sospensione del giudizio ed alla rimessione degli atti alla Corte
Costituzionale.

P.Q.M.

Visti gli artt. 134 Cost. e 23 e ss. legge 11 marzo 1953 n. 87; dichiara rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt.
143 bis, 236, 237, comma 2, 262, 299 comma 3 c.c., 33 e 34 del d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396, nella parte
in cui prevedono che il figlio legittimo acquisti automaticamente il cognome
del padre anche quando vi sia in proposito una diversa volontà dei coniugi,
legittimamente manifestata, per contrasto con gli artt. 2, 3
e 29, comma 2, della Costituzione.

Sospende il giudizio e dispone
l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.

Ordina che la presente ordinanza sia
notificata a cura della cancelleria alle parti, al Pubblico Ministero ed al
Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento.

Così deciso in
Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 26 febbraio
2004.

Depositato in Cancelleria il 17
luglio 2004