Civile

Wednesday 04 May 2005

Responsabilità professionale medica e consenso informato. Tribunale Milano, sez. V civile, sentenza 29.03.2005 n° 3520

Responsabilità professionale medica e consenso informato.

Tribunale Milano, sez. V civile,
sentenza 29.03.2005 n° 3520 (Giuseppe Mommo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI MILANO

SEZIONE V CIVILE

In persona del Giudice Istruttore, in
funzione di Giudice Unico, dott. Damiano Spera, ha pronunciato la seguente

SENTENZA n. 3520/05 (pubblicata il
29.3.2005)

Nella causa civile iscritta al R.G. n. 46808/01, promossa da

M.T.T., con gli avv.ti D. Zerega e L. Franceschinis

– attrice –

contro

ISTITUTO EUROPEO DI ONCOLOGIA, in
persona del legale rappresentante Dr. M.B., Dott.ri V.G.,
A.L., S.M., S.Z., U.V., B.B.,

con gli avv.ti M. Bozzato e S. Armenio

– convenuti –

e

PHARMACIA ITALIA S.P.A., con gli avv.ti
M. Bariè e M. Ribaldone

– convenuta –

– SVOLGIMENTO DEL PROCESSO –

Con atto di citazione datato
16.07.2001, la sig.ra M.T.T. esponeva:

– che in data 3.06.1996, veniva ricoverata presso l’Istituto Europeo di Oncologia
Divisione di Senologia per essere sottoposta ad
intervento chirurgico di “quadrantectomia alla
mammella destra, nonché dissezione ascellare omolaterale
con incisione separata” per carcinoma della mammella allo stadio T1;

– che l’intervento succitato veniva eseguito in data 4.06.1996;

– che, prima
dell’intervento chirurgico, la dott.ssa S.M. sottoponeva alla sig.ra T. un modulo di consenso informato
da sottoscriversi da parte della stessa;

– che, in
tale occasione, la dott.ssa M. forniva
alla signora T. informazioni
sommarie e lacunose in ordine all’intervento e alle cure successive;

– che successivamente
all’intervento, conclusosi con esito positivo, la sig.ra T., su indicazione
della dott.ssa V.G., veniva
sottoposta a cura farmacologica mediante prescrizione
del farmaco Kessar, prodotto e distribuito in Italia
dalla Pharmacia & Upjohn
s.p.a.;

– che, in conseguenza della cura
prescrittale, la T. lamentava sintomi dolorosi di intolleranza al farmaco, pertanto le veniva consigliato
dal dott. B. di abbinare al Kessar
altro medicinale (Maalox) che ne rendesse tollerabile
l’assunzione;

– che la T.
non verificava alcun miglioramento e, anzi, pativa forti dolori per
intollerabilità al suddetto farmaco, veniva affetta da vasculite
(processo di natura iatrogena derivante da reazione a immunocomplessi) ed inoltre, durante il trattamento con il
farmaco citato, verificava l’insorgenza di iperplasie endometriali;

– che il principio attivo del
suddetto medicinale (tamoxifene) comporta, quali
conseguenze collaterali, proprio quelle da cui veniva
affetta la T.;

– che, tuttavia, nelle note
illustrative del farmaco non era in alcun modo specificata la possibilità di insorgenza delle patologie lamentate dalla T.;

– che
l’Istituto Oncologico Europeo, e la Pharmacia & Upjohn s.p.a. non potevano ignorare la potenziale
pericolosità dell’uso del Kessar;

– che il consenso prestato dalla
paziente, non accompagnato dalle necessarie informazioni
che avrebbero dovuto essere rese alla stessa, era di
fatto inidoneo a consentire l’attività medico chirurgica;

– che, in particolare, la T.
non fu resa edotta della circostanza che le sarebbe stato praticato un
intervento particolarmente invasivo e invalidante mediante il quale le sarebbero stati asportati trentatré
linfonodi, laddove nel periodo in
cui ella fu operata (ovvero nell’anno 1996) era ormai consolidata prassi
operatoria, in interventi di quadrantectomia alla
mammella, l’asportazione del solo “linfonodo
sentinella”, in luogo del completo svuotamento del cavo ascellare (dissezione
ascellare omolaterale), che invece le fu praticato;

– che l’intervento eseguito sulla
paziente con le modalità sopra descritte aveva notevolmente, quanto
ingiustificatamente, causato esiti negativi alla stessa, quali la
sensibilizzazione e l’assottigliamento doloroso del lembo cutaneo del braccio,
ed aveva altresì aggravato il decorso post operatorio
della stessa.

Conveniva pertanto in giudizio
l’Istituto Europeo di Oncologia s.r.l.,
in persona del legale rappresentante pro tempore,
nonché i Dott.ri M., L., Z., V., G., B., oltre alla Pharmacia & Upjohn s.p.a. e
concludeva affinché il Tribunale li condannasse al risarcimento di tutti i
danni subiti, quantificati complessivamente nella somma di un miliardo di Lire.

Si costituiva l’I.E.O.
e i medici convenuti, nonché la Pharmacia
& Upjohn s.p.a. i quali concludevano per il
rigetto delle domande. In particolare l’I.E.O. e
l’equipe di medici eccepivano di avere adeguatamente informato la paziente circa l’intervento chirurgico
cui sarebbe stata sottoposta, ottenendone l’informato
consenso; la seconda negava ogni responsabilità per i danni lamentati
dall’attrice.

In seguito alla cessione di ramo
d’azienda da parte della Pharmacia & Upjohn s.p.a.,
si costituiva in giudizio, quale successore a titolo particolare della stessa, la Pharmacia
Italia s.p.a. dichiarando di fare proprie tutte le difese
della prima.

Il G.I. ammetteva parzialmente le
prove dedotte dalle parti e disponeva consulenza tecnica d’ufficio.

All’esito dell’istruttoria, le parti
precisavano le conclusioni come in epigrafe trascritte; disposto lo scambio
delle sole comparse conclusionali, all’udienza di discussione del 15.12.2004,
la causa veniva assegnata in decisione, ai sensi
dell’art. 281 quinquies cpv. c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE –

Ritiene il Tribunale che le domande
proposte dall’attrice debbano essere integralmente
rigettate.

Con l’atto introduttivo del presente giudizio l’attrice ha convenuto l’I.E.O.
– in persona del legale rappresentante pro-tempore –
e i medici dello stesso, nonché che la Pharmacia & Upjohn s.p.a. (ora Pharmacia
Italia s.p.a.).

Quanto alle responsabilità ascritte
ai medici e all’I.E.O.,
l’attrice ha contestato di avere prestato il “consenso informato”
all’intervento, lamentando che i curanti sarebbero venuti meno al dovere di informazione relativo alle modalità dello stesso e
al trattamento farmacologico successivo, con
particolare riguardo agli effetti collaterali del farmaco prescritto (Kessar). L’attrice ha lamentato che, a fronte delle
richieste di chiarimenti avanzate nei confronti della dott.ssa M., che le aveva sottoposto il modulo del consenso
informato, quest’ultima
si sarebbe limitata a rispondere che non si sarebbe proceduto all’intervento in
mancanza della firma sul modulo e, all’ulteriore richiesta della paziente di
spiegazioni sul contenuto del citato modulo, avrebbe risposto che in esso non
v’era "niente di speciale".

Per quanto riguarda i profili di
responsabilità ascritti alla Pharmacia Italia s.p.a., l’attrice ha fatto valere
in giudizio l’omissione da parte della stessa di informazioni
essenziali sugli effetti collaterali del Kessar, non
adeguatamente riportate sul foglietto illustrativo allegato al medicinale.

Con riguardo al primo profilo di
responsabilità – segnatamente al mancato consenso informato
sulle modalità dell’intervento e sugli effetti collaterali del trattamento farmacologico successivo – deve in primo luogo evidenziarsi
che è principio consolidato in giurisprudenza che il medico non possa più
intervenire sul paziente senza averne ricevuto prima il consenso, presupposto
indefettibile per un corretto esercizio dell’ars
medica.

Il diritto del paziente di formulare
un consenso informato all’intervento
si evince dagli artt. 2, 13 e 32
cpv. della Costituzione.

Il consenso deve essere consapevole
al trattamento terapeutico e chirurgico, senza del quale l’intervento sarebbe
impedito al chirurgo tanto dall’art. 32 cpv. della Costituzione – a norma del
quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se
non per disposizione di legge -, quanto dall’art. 13 Costituzione, che
garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla
libertà di salvaguardia della propria salute e della
propria integrità fisica, e dall’art. 33 della Legge 23 dicembre 1978, n. 833,
che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la
volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i
presupposti dello stato di necessità (art. 54 c.p.).

Il diritto in esame appartiene ai
diritti inviolabili della persona, ed è espressione del diritto
all’autodeterminazione in ordine a tutte le sfere ed
ambiti in cui si svolge la personalità dell’uomo, fino a comprendere anche la
consapevole adesione al trattamento sanitario (con legittima facoltà di
rifiutare quegli interventi e cure che addirittura possano salvare la vita del
soggetto).

Il consenso dev’essere frutto di un rapporto reale e non solo apparente
tra medico e paziente, in cui il sanitario è tenuto a raccogliere un’adesione
effettiva e partecipata, non solo cartacea, all’intervento. Esso non è dunque un atto puramente
formale e burocratico ma è la condizione imprescindibile per trasformare un
atto normalmente illecito (la violazione dell’integrità psicofisica) in un atto
lecito, fonte appunto di responsabilità.

Incombe dunque sul medico un preciso
obbligo di ottenere il consenso del paziente, dopo averlo preventivamente informato (Cass. n. 7027/2001). L’informazione dev’essere relativa alla “natura dell’intervento medico e
chirurgico, alla sua portata ed estensione, ai rischi, ai risultati
conseguibili, alle possibili conseguenze negative, alla possibilità di
conseguire il medesimo risultato attraverso altri interventi e ai rischi di
questi ultimi” (Cass. n 364/1997; Cass. n. 10014/1994): il paziente deve essere
messo concretamente in condizione di valutare ogni rischio ed ogni alternativa.

Circa la natura di tale obbligo deve
precisarsi che, superato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il
suo mancato assolvimento darebbe luogo a responsabilità di natura precontrattuale (Cass. n. 10014/94), esso deve più
correttamente inquadrarsi negli obblighi di natura contrattuale. Infatti l’attività professionale medica si qualifica come
prestazione complessa che comprende una fase diagnostica e una terapeutica, ed
è proprio successivamente alla prima fase e precedentemente alla seconda che si
colloca l’obbligo di informazione,
volto ad ottenere la partecipata adesione del paziente alla terapia e ai
trattamenti propostigli.

Ne consegue che l’onere probatorio
circa l’assolvimento del dovere di informazione grava sul medico (Cass. n. 7027/2001):
sarà dunque sufficiente la mera allegazione dell’inadempimento da parte del
creditore-paziente; graverà, invece, sul convenuto debitore-medico l’onere di
fornire la prova dell’avvenuto assolvimento dell’obbligo contrattuale posto a
suo carico, secondo i principi generali in materia di onere
della prova nell’adempimento delle obbligazioni (recentemente ribaditi dalla
Corte di Cassazione a S.U. con sentenza n. 13533/01.

Nel caso di specie risulta
ritualmente acquisito agli atti il modulo del
consenso informato, sottoscritto
dalla paziente prima dell’intervento. Nel testo si legge "Confermo di aver
avuto un colloquio durante il quale mi è stata esposta la natura della mia
malattia, il tipo di intervento proposto con i
benefici e gli eventuali rischi ad esso connessi e, in caso di intervento
chirurgico, il tipo di anestesia prevista. Sono altresì stato informato delle eventuali opzioni
terapeutiche previste per il mio caso. Sono consapevole che durante il
trattamento e nel corso dell’intervento chirurgico possano rendersi necessarie,
a giudizio del medico, procedure addizionali o diverse da quelle che mi sono
state preliminarmente illustrate. Confermo di aver ricevuto informazioni esaurienti e di aver ottenuto risposta
a tutte le mie domande. Comprendo che vi sono potenziali rischi associati a
procedure diagnostiche e terapeutiche e che eventuali reazioni avverse non sono
sempre prevedibili. Sono anche informato
che per le mie condizioni cliniche o per le mie
necessità terapeutiche potrebbe essere necessario ricevere uno o più
trasfusioni di sangue omologo/emocomponenti/emoderivati. Sono consapevole che tale pratica terapeutica
non è esente da rischi (inclusa la trasmissione del virus dell’immunodeficienza
e dell’epatite). Sono stato altresì informato
della possibilità o meno di praticare l’autotrasfusione nel mio caso […]".

Il modulo, così come formulato, non è
in alcun modo idoneo a ritenere assolto da parte dei medici l’onere di informazione. Infatti esso è sintetico, non dettagliato, e indica solo
genericamente che la paziente sarà sottoposta ad un intervento chirurgico. In esso non si indica affatto di quale intervento si tratti e,
pur facendosi menzione dei “benefici, dei rischi, delle procedure addizionali o
diverse”che possano rendersi necessarie a giudizio del medico, non si precisa
quali siano i rischi specifici, ovvero le diverse possibili procedure, di tal
ché, non può ritenersi che il paziente, anche solo dalla semplice lettura di
tale modulo, possa avere compreso effettivamente le modalità ed i rischi
connessi all’intervento, in modo da esercitare consapevolmente il proprio
diritto di autodeterminarsi in vista dello stesso.

Inoltre l’attrice
ha allegato: la non adeguata informazione
circa l’invasività dell’intervento e circa gli
effetti collaterali del Kessar; in particolare
avrebbe subito un intervento più invasivo (quadrantectomia
e linfoadenectomia
ascellare radicale) e più invalidante rispetto a quello prospettatole (quandrantectomia e sola biopsia del linfonodo
sentinella); pertanto il consenso non sarebbe stato del tutto carente, ma
avrebbe riguardato un intervento diverso. A sostegno delle proprie doglianze ha prodotto
diversi certificati medici, nei quali viene diagnosticata
vasculite iatrogena (doc. 13, fascicolo di parte
attrice) e lievi iperplasie endometriali (doc. 5),
pregiudizi venuti successivamente meno con la sospensione del farmaco.

Il procuratore dei convenuti ha sottolineato che la circostanza che l’attrice si sia
limitata a sottoscrivere solo le prime due parti del modulo – relative
all’intervento e alle possibili trasfusioni di sangue – e non la terza –
relativa al consenso alle riprese fotografiche – andrebbe valutata, quantomeno,
come indizio di “vigile attenzione e di dettagliata conoscenza” dei contenuti
del modulo, il che mal si concilierebbe con addebiti di lacunosità e sommarietà
dei sanitari a questo riguardo.

Ritiene questo giudice che tale
rilievo non meriti pregio, atteso che non vi è alcuna omogeneità
di contenuto tra le prime due parti del modulo e l’ultima, per cui, dalla
mancata sottoscrizione dell’autorizzazione alle riprese fotografiche da parte
della paziente, non può in alcun modo inferirsi la sua piena consapevolezza e
adesione al tipo di intervento e al programma terapeutico propostole.

Nel rendere
l’interrogatorio formale, i medici dell’I.E.O. e, in
particolare la dott.ssa M., hanno dichiarato che è
“prassi” dell’Istituto, prima di far sottoscrivere il modulo al paziente, illustrargli dettagliatamente
la procedura chirurgica programmata, descrivendogli il tipo di intervento da
effettuare. Tuttavia nessun medico interrogato
(eccetto la dott.ssa M.) era presente al momento in
cui fu prestato il consenso da parte dell’attrice, né tantomeno
era presente la teste E.D’A. (caposala), la quale ha
potuto anch’essa riferire solo sulla “prassi” seguita dai medici dell’I.E.O.

In mancanza di prova circa
l’assolvimento dell’obbligo di informazione
in relazione allo specifico intervento per cui è causa, tale onere gravante sui
medici non può ritenersi assolto.

Ne discende che la mancata richiesta del
consenso deve valutarsi quale autonoma fonte di responsabilità in capo ai medici per lesione del citato diritto
costituzionalmente protetto di autodeterminazione.

Con riguardo al consenso
sull’intervento diverso e meno invasivo, i CTU hanno spiegato, attraverso una
completa acquisizione e valutazione dei dati di fatto, che nel 1996 “il metodo
fondato sulla sensibilità diagnostica di un solo linfonodo
era ancora nel pieno della fase sperimentale (che poi si rivelò accreditabile
scientificamente) e, dunque, non poteva essere eseguito sulla paziente come
strumento operativo dotato di fondamento scientifico, […] lo studio del linfonodo sentinella poteva
e doveva essere eseguito solo associato alla linfoadenectomia radicale per incrementare le
conoscenze sulla sua sensibilità ma non con presidio terapeutico
definitivamente accolto e quindi proponibile in termini terapeutici e
prognostici concreti su una paziente. […] All’epoca
dei fatti non era proponibile né attuabile una procedura limitata alla sola
rimozione del linfonodo sentinella
in quanto non ancora sostenuta da una validante
evidenza scientifica che si realizzò in epoca ampiamente successiva".

A tale proposito il consulente
tecnico di parte attrice ha riportato nella sua relazione lo stralcio di un
articolo scientifico, redatto nel 1996 dai professori V. e Z., nel quale si può
leggere che “[…] il linfonodo
sentinella, se non coinvolto, può indicare che la completa dissezione ascellare
non è necessaria” e ancora che “[…] un’ampia resezione dovrebbe, nella maggior
parte dei casi, essere associata a radioterapia per sterilizzare il letto
tumorale e da completa dissezione ascellare per rimuovere ogni linfonodo metastatico e
fornire complete informazioni prognostiche”. Tale citazione non può che confermare quanto
sopra esposto dai CTU, e cioè che i due medici
convenuti consideravano positivamente la tecnica del linfonodo
sentinella ma che l’assoluta bontà di tale metodo non era comprovata
scientificamente. Infatti dalla stessa letteratura
scientifica citata dal CT di parte attrice può facilmente evincersi che non vi
era, all’epoca dei fatti, omogeneità di vedute circa l’effettiva validità
scientifica del metodo del “linfonodo
sentinella” (“Coburn e Bland,
in Curr. Opin. Oncol. 1995, ritenevano che la biopsia del linfonodo sentinella richiedesse ulteriore
conferma prima di essere universalmente accettata”).

Il consulente tecnico dell’attrice ha
altresì osservato che “la vasta dissezione linfonodale ascellare è stata contemporanea all’escissione del linfonodo
sentinella”, ma anche tale osservazione è destituita di fondamento, attesa la
precisazione al riguardo dei CTU, secondo la quale “la procedura di valutazione
anche del linfonodo sentinella
effettuata sulla sig.ra T., non comportò per la stessa alcuna modifica di
trattamento o di tecnica rispetto a quanto atteso e previsto per casi consimili
all’epoca dei fatti”.

Quanto alla mancata informazione circa i pregiudizi subiti dall’attrice,
quali effetti collaterali del trattamento con il Tamoxifene
(principio attivo del Kessar), in particolare:
orticaria, pirosi, vasculite iatrogena e iperplasie endometriali, la dott.ssa M., in
sede di interrogatorio formale, ha dichiarato che “Alla paziente viene detto
che seguiranno altri trattamenti che vengono indicati ma che vengono decisi
solo dopo il referto istologico” pertanto non viene precisato se “il
trattamento sarà medico, ormonale, chemioterapico o
radiante, in quanto le informazioni
vengono date successivamente all’esame istologico […]. Non è possibile
anticipare quale sarà la terapia complementare”.

Tale dichiarazione – seppure
giustificata da comprensibili ragioni di umana
sensibilità, anche al fine di non traumatizzare ulteriormente la paziente –
implica confessione circa la mancata completa informazione
sull’intervento e sui suoi effetti collaterali.

È acclarato dunque l’inadempimento da parte dei
medici convenuti e dell’I.E.O. circa l’obbligazione
relativa al consenso informato.

Ritiene questo giudice che
l’inadempimento dell’obbligo di informazione
da parte del medico incida in via diretta sul diritto della paziente
all’autodeterminazione in ordine alle scelte che attengono alla propria salute
e che tale lesione vada pertanto riconosciuta autonomamente rispetto alla
lesione del diritto alla salute, che nella specie non si è verificata. Essa
rientra nella previsione di cui all’art. 2059 c.c., volta a ricomprendere ogni
danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla
persona, secondo la recente interpretazione della Cassazione (sentenze n.
8827/03 e n. 8828/03) e della Consulta (sentenza n. 233/03).

Pertanto, secondo l’interpretazione
costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., oltre al danno morale soggettivo (quale transeunte
perturbamento dell’animo) e al danno biologico (quale lesione dell’integrità
psicofisica della persona) dev’essere risarcito anche
il danno derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale,
nei quali rientra il diritto di autodeterminazione.

Ma qual è il danno-conseguenza
risarcibile?

Alla comprovata lesione
dell’interesse di rango costituzionale relativo all’autodeterminazione non
consegue ipso iure un danno risarcibile. Non si può infatti ritenere che il danno lamentato dalla paziente sia
in re ipsa, nel senso che sarebbe coincidente con la
lesione dell’interesse protetto (Cass. n. 8827/03), essendo invece necessaria
l’allegazione e la prova dell’entità dello stesso che deve comunque
essere apprezzabile per poter dare luogo a risarcimento. Ha correttamente
ritenuto la Suprema
Corte: “non è l’inadempimento da
mancato consenso informato che è di
per sé oggetto di risarcimento, ma il danno conseguenziale,
secondo i principi di cui all’art. 1223 c.c.”
(sentenza n. 14638/2004, nella quale però si trae l’apodittica illazione che
“se non sussiste un rapporto causale tra l’aggravamento delle condizioni del
paziente o l’insorgenza di nuove patologie e l’intervento sanitario, non può
darsi luogo ad alcun risarcimento del danno”).

Ai fini di una corretta liquidazione
del danno in esame e al fine di contemperare i principi che presiedono
all’onere di allegazione e di prova con l’esigenza di
evitare duplicazioni ed automatismi risarcitori,
appare essenziale distinguere le ipotesi in cui la lesione del diritto
all’autodeterminazione si affianchi o meno alla lesione del diritto alla
salute, discriminando le ipotesi in cui si ravvisi, in pari tempo, colpa
medica.

Possono prendersi in considerazione,
a tale riguardo, le seguenti ipotesi, tutte comunque
caratterizzate da acclarato
inadempimento dell’obbligo di informazione
in capo al sanitario:

a) in presenza
di accertata colpa medica da cui consegua danno alla salute, idoneo criterio è
liquidare (oltre al danno biologico), con un’unica voce, sia il danno morale
soggettivo che il danno da lesione del diritto di autodeterminazione;

b) in mancanza di colpa medica, ma in presenza di danno biologico (per complicanze,
statisticamente prevedibili, decorso post-operatorio e quant’altro),
preminente dev’essere l’indagine volta a verificare
se, nella fattispecie concreta, sussistessero o meno alternative diagnostiche o
terapeutiche, ovvero farmacologiche, sulle quali sia
altresì mancata l’informazione
adeguata da parte del medico. In questa specifica ipotesi il danno risarcibile
dovrà tenere conto, in primo luogo, della percentuale di possibilità che il
paziente, correttamente informato, avrebbe optato per un diverso trattamento sanitario; in
secondo luogo, del rischio connesso all’intervento non eseguito, concretandosi
il danno nella perdita delle chances favorevoli,
correlate alla possibilità di esito positivo dell’intervento non posto in
essere (principi del resto già parzialmente adottati dall’ordinamento francese).
Infatti la “chance, o concreta ed effettiva occasione
favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non è una mera
aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed
economicamente suscettibile di autonoma valutazione, onde la sua perdita, id est la perdita della possibilità consistente di
conseguire risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura
un danno concreto ed attuale” (Cfr. Cass. n.
4400/2004).

In ogni caso l’omesso consenso informato non può elidere il rischio connesso sia
all’intervento posto in essere (senza colpa medica),
ma sul quale non vi era stata adeguata informazione,
e sia agli altri interventi – alternativi ed eventuali – non valutati dal
paziente.

A questi fini, tuttavia, non vengono prese in considerazione le alternative terapeutiche
talmente risolutive per la salute del paziente – seppure in termini di “alto
grado di probabilità logica e di credibilità razionale” – che la loro mancata prospettazione assume rilievo non in termini di difetto di informazione, bensì in termini di colpa
professionale (Cass. Pen. S.U. n. 30328/2002);

c) può darsi infine che, all’esito
dell’intervento cui non era stato dato il consenso informato
da parte del paziente, in assenza di colpa medica, non consegua alcun
pregiudizio alla salute dello stesso, anzi, addirittura, consegua un
miglioramento delle sue condizioni psicofisiche (si pensi all’ipotesi in cui
l’omessa esecuzione dell’intervento non consentito avrebbe cagionato la morte o
una grave menomazione del soggetto). In tale ultimo caso non sussiste in radice
la possibilità di ravvisare alcun danno biologico. Individuate le ipotesi
statisticamente più ricorrenti, per determinare i criteri di risarcimento del
danno-conseguenza, è opportuno richiamare i principi
già adottati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 184/86, per
applicarli all’ipotesi in cui sia stato leso il diritto costituzionalmente
protetto di autodeterminazione: il criterio di liquidazione dev’essere,
per un verso, egualitario ed uniforme (al fine di evitare che, a parità di casi
analoghi il giudice liquidi importi notevolmente differenti) e, per altro
verso, elastico e flessibile, per adeguare la liquidazione del danno alle
peculiarità della fattispecie concreta.

Nel perdurante vuoto normativo, le
recenti “Tabelle di liquidazione del danno non patrimoniale”, adottate dal
Tribunale di Milano, hanno confermato l’adesione a questo indirizzo
giurisprudenziale allorché vengano lesi altri interessi di rango costituzionale
della persona, oltre al danno biologico.

Infatti, qualora la lesione di questo ulteriore interesse si accompagni a quella del bene
salute, il criterio risarcitorio preferibile è
apparso quello di “portare fino a 2/3 della somma liquidata a titolo di danno
biologico l’entità massima del risarcimento attribuibile per il danno non
patrimoniale (diverso dal biologico) unitariamente inteso – patema d’animo
contingente + pregiudizi diversi derivanti dalla lesione di un interesse
costituzionalmente protetto – ove, oltre al danno morale soggettivo, risulti
un’ulteriore significativa compromissione di un
interesse protetto, diverso dal diritto alla salute”.

Premessa indefettibile dell’esposto
criterio è il punto d’invalidità, (pressoché univocamente) offerto dalla medicina
legale.

Appare evidente, quindi, che tale
criterio di liquidazione possa essere opportunamente utilizzato dal giudice per
la liquidazione del danno da lesione del diritto di autodeterminazione
nella citata ipotesi sub a) e, con ulteriori opportuni temperamenti,
nell’ipotesi sub b).

Nell’ipotesi sub c), invece, non v’è
alcuna lesione del bene salute del soggetto; tuttavia, in assenza di criteri
uniformi adottati dall’ufficio giudiziario, il giudice non può comunque sottrarsi all’obbligo di motivazione, ai fini della
liquidazione del danno, a pena di nullità della sentenza per omessa o
insufficiente motivazione e per violazione di legge in relazione agli artt. 1223 e 2059 c.c.

Nel caso sub c), dunque, per la
liquidazione del danno il giudice può ricorrere ad un criterio di equità pura, che regoli cioè, solo la fattispecie
concreta in esame (criterio generalmente adottato agli albori del danno
biologico), ma che può tuttavia tradursi in apodittiche e (ancora una volta)
immotivate statuizioni: “dal mancato consenso informato
non può non conseguire un danno nella misura di €…”; oppure “nella
fattispecie concreta, tenuto conto delle modalità e delle peculiarità della
fattispecie, si stima equo liquidare la somma di € 10.000” (e perché non €
50.000 o € 100.000?).

Pertanto il giudice, in tutte le
ipotesi in cui sia accertata la lesione del diritto di
autodeterminazione, deve esattamente individuare sia il danno risarcibile che
un congruo criterio risarcitorio (ciò vale vieppiù
nell’ipotesi sub c). Sarà poi compito della cultura giuridica l’esame dei
motivati precedenti giurisprudenziali, da cui poter trarre non semplici
automatismi tabellari, ma più univoci criteri
direttivi nella liquidazione del danno non patrimoniale in esame.

In definitiva, anche in relazione al danno-conseguenza risarcibile in esame,
devono applicarsi le regole ed i principi sull’onere di allegazione e prova del
danno subito, selezionando le conseguenze risarcibili dell’illecito, rispetto a
quelle non risarcibili, in base ai criteri della causalità giuridica: l’art.
1223 c.c. (richiamato dall’art. 2056 c.c.) limita il risarcimento ai soli danni
che siano conseguenza immediata e diretta dell’illecito, ma viene inteso nel
senso che la risarcibilità dev’essere
estesa anche ai danni mediati e indiretti, purché costituiscano effetti normali
del fatto illecito, secondo il criterio della cosiddetta regolarità causale
(Cass. S.U. n. 9556/02).

È tuttavia necessario che chi si
assume leso nel proprio diritto ad autodeterminarsi
provi le circostanze rilevanti che giustifichino il risarcimento del danno ex
art. 1223 e 2059 c.c.

Infatti “è sempre necessaria la prova
dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una
perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore
personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere
commisurato” (Corte Costituzionale n. 372/94). La Suprema Corte ha ribadito che ogni qualvolta sia provata la lesione di un
interesse costituzionale della persona devono essere risarciti il danno morale
soggettivo (pecunia doloris o patema d’animo) e i
pregiudizi ulteriori e diversi, derivanti da tale lesione, nei quali rientra il
diritto di autodeterminazione. È dunque onere della parte provare che, dalla
lesione – nella specie dal mancato assolvimento dell’obbligo di
informazione – siano derivate
conseguenze pregiudizievoli di cui si chiede il ristoro e tali conseguenze “in
relazione alle varie fattispecie, potranno avere diversa ampiezza e
consistenza, in termini di intensità e protrazione nel tempo”. Il danno in
questione dev’essere quindi allegato e provato;
tuttavia, trattandosi di “pregiudizio che si proietta nel futuro (diversamente
dal danno morale soggettivo contingente) […] sarà consentito il ricorso a
valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base
degli elementi obiettivi che sarà onere del danneggiato fornire” (Cass. n.
8827/2003).

Anche nella fattispecie concreta,
dunque, grava sull’attrice un preciso onere di allegazione
e di prova.

Ai fini della formazione del
convincimento del giudice si deve rilevare:

– in primo luogo, non è stata
accertata colpa medica e si è verificato un indubbio miglioramento delle
condizioni di salute della paziente, che, affetta da
carcinoma mammario, è poi definitivamente guarita a seguito dell’intervento. La
fattispecie concreta rientra dunque nella menzionata ipotesi sub c);

– in secondo luogo, l’intervento
praticato fu comunque eseguito secondo la tecnica
operatoria più accreditata all’epoca dello stesso e dunque l’astratto diritto
dell’attrice di autodeterminarsi in vista di un
possibile intervento “diverso” e meno invasivo non può trovare tutela in
mancanza della stessa possibilità che, all’epoca dei fatti, fosse praticato un
intervento chirurgico alternativo a quello posto in essere;

– in terzo luogo, nella fattispecie
concreta non sussiste, neppure in astratto, ipotesi di reato (Cass. n. 8827/03;
Corte Cost. n. 233/03). Peraltro la denuncia di reato sporta dall’attrice il
9/03/2000 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Genova nei
confronti dei medici convenuti si è risolta in una archiviazione
del procedimento, in quanto il G.I.P ha ritenuto di
non ravvisare nei fatti denunciati gli estremi di alcun reato, anche sulla base
della considerazione “che comunque esiste una sproporzione tra il male
lamentato ed il male che affliggeva la signora T. e
che occorreva fronteggiare ad ogni costo”;

– in quarto luogo, la circostanza
che, a fronte della lesione del diritto di autodeterminazione
della paziente – diritto che attiene alla sfera più intima e intangibile della
persona umana, particolarmente vulnerabile soprattutto in occasione di eventi
drammatici, quali quello che hanno colpito l’attrice – ella nel 1998, in epoca ampiamente
successiva all’intervento per cui è causa – allorché aveva certamente già
acquisito la piena consapevolezza delle modalità dell’intervento che aveva
subito abbia nuovamente accordato la sua fiducia all’I.E.O.,
per curare altre patologie da cui veniva affetta, e si sia anche sottoposta
alle visite di controllo al seno, determinandosi solo nel 2001 ad agire in
giudizio contro lo stesso Istituto;

– in quinto luogo, quanto ai
pregiudizi diversi allegati dall’attrice (pirosi, orticaria, vasculite, iperplasie endometriali),
alcuni dei quali di lieve entità (quali le iperplasie endometriali,
sub doc. 5), derivanti dall’uso del Kessar, deve
precisarsi che, come illustrato nella relazione peritale “il trattamento adiuvante con Tamoxifene 20 mg die per cinque anni, rappresenta la terapia standard per
donne con tumori alla mammella con recettori positivi.
La terapia adiuvante può infatti
prevenire le recidive e migliorare la sopravvivenza delle donne operate e
risultate con recettori positivi”. È ben vero che i benefici del Tamoxifene devono essere considerati alla luce dei suoi
effetti collaterali ma, come riportato nella letteratura indicata nella
relazione tecnica, in generale gli effetti collaterali del farmaco sono di gran lunga superati dai vantaggi, pertanto la “comprovata
efficacia del Tamoxifene giustifica il suo uso anche
a fronte di tali effetti sfavorevoli”. Quanto agli effetti collaterali,
infatti, essi “sono di modestissima portata,
ampiamente rientranti nelle eventualità attese durante tale terapia; essi, come
ben comprensibile, non sono paragonabili per rischio e compromissione
a quelli, più comunemente segnalati, di aumento delle possibilità di tromboembolismo venoso e di tumori dell’endometrio.
La comprovata efficacia del Tamoxifene giustifica il
suo uso anche a fronte di tali effetti sfavorevoli”. Inoltre tali effetti
collaterali sono cessati con la sospensione del farmaco ed, in ogni caso, come
precisano ancora i CTU “seguendo un itinerario decisionale razionale
scientificamente fondato, il referto di lieve iperplasia endometriale
(10 mm)
segnato all’ecografia del 13-12-96
in donna in età post menopausale
[nata il 7.6.1930], con genitali interni in fase involutiva e senza sintomi,
non rappresentava un riscontro che giustificasse la sospensione del farmaco la quale, peraltro, si realizzò dopo sei mesi di
trattamento”;

– in sesto luogo, infine, l’attrice –
affetta da carcinoma alla mammella e comunque
sottoposta ad intervento chirurgico di tipo conservativo (quadrantectomia)
e non al più devastante e demolitivi intervento di mastectomia
– non ha mai allegato anche la remota possibilità, a fronte del rischio
probabile della vita, di rifiutare l’intervento, se le fosse stato prospettato
che, oltre all’asportazione del solo linfonodo
sentinella, le sarebbero stati asportati tutti i linfonodi.
Sarebbe stato onere dell’attrice (se non provare che avrebbe fatto una scelta
diversa) quanto meno allegare circostanze che
rendessero plausibile la possibilità che, se adeguatamente informata, ella avrebbe rifiutato l’intervento.

Nella fattispecie concreta l’attrice
non ha, inoltre, allegato alcuno specifico patema d’animo o sofferenza, né
transeunte né permanente, e non ha neppure prospettato l’insorgenza di pregiudizi ulteriori e diversi comunque riconducibili all’omesso
consenso informato.

Alla luce di tutte le argomentazioni
esposte, ritiene il Tribunale che la lesione dell’interesse protetto, ovvero del diritto di autodeterminazione, abbia dato luogo
ad un danno non patrimoniale – inteso sia come danno morale soggettivo (pretium doloris della lesione
subita) che quale pregiudizio ulteriore e diverso (derivante dalla predetta
lesione) – ma che tale danno sia ontologicamente
trascurabile e, comunque, di entità economica non apprezzabile.

Quanto alla responsabilità della Pharmacia Italia s.p.a., l’attrice ha lamentato che nelle note riportate sul
foglietto illustrativo del Kessar non vi sarebbe
stata una corretta informazione
circa i suoi effetti collaterali.

Tali doglianze sono destituite di
fondamento.

In primo luogo, e per le ragioni già
esposte con riguardo alla responsabilità dei medici, deve ribadirsi
la correttezza della prescrizione del farmaco citato, anche a fronte dei suoi
pregiudizi collaterali; deve altresì ribadirsi come i pregiudizi lamentati
dall’attrice fossero comunque di modesta rilevanza (quanto alla pirosi,
all’orticaria e alle iperplasie). Per quanto attiene alla vasculite,
in uno stralcio del Grug Eruption
Reference Manual del 1997,
relativo al Tamoxifene (prodotto in giudizio
dall’attrice) si segnalano reazioni cutanee molto rare (circa il 2-3 % dei casi) e tale casistica non può in alcun modo
dimostrare la riconducibilità delle patologie
lamentate dall’attrice all’uso del Kessar; in ogni
caso lo stesso medico curante della T. propose
“l’assunzione di una terapia diversa da quella esterna per risolvere la
situazione” (doc. 13 fasc. attrice).

Con riguardo alla carenza
di informazioni sul foglietto
illustrativo allegato al farmaco, deve rilevarsi che in esso sono
specificamente riportati gli effetti indesiderati noti, quali gli effetti sull’endometrio, la possibile comparsa di iperplasia, polipi e
carcinoma, e precisamente “effetto estrogenico
paradosso che il Tamoxifene può esplicare sull’endometrio, […], vampate di calore, […], episodi di recrudescenza
del dolore osseo e a livello della eteroplasia e/o
incremento morfologico e sintomatico della malattia a livello locale, […]”.

Tale foglietto illustrativo contiene
tutte le voci prescritte dal D.Lgs. n. 540/92 in materia di etichettatura e foglietto
illustrativo dei medicinali per uso umano, e confermate a livello europeo dalla
direttiva 2001/83/CE. In particolare in esso sono
riportate sia le indicazioni terapeutiche, sia le controindicazioni e le
precauzioni di impiego, ovvero le interazioni con altri farmaci, le avvertenze
speciali e gli effetti indesiderati.

Nessuna responsabilità è dunque
ascrivibile in capo alla Pharmacia Italia s.p.a.

Pertanto, alla luce delle
considerazioni suesposte, le domande dell’attrice devono essere integralmente
rigettate.

Quanto esposto è assorbente rispetto
alle altre domande, eccezioni ed istanze istruttorie
proposte dalle parti.

Concorrono giusti motivi, alla luce
delle ragioni della decisione, per porre a carico delle parti, in ragione di un
quarto ciascuna (i medici in solido tra loro), le spese della consulenza
tecnica d’ufficio e per dichiarare integralmente compensate tra tutte le parti le spese processuali.

La presente sentenza è dichiarata
provvisoriamente esecutiva ex lege.

– P.Q.M. –

Il Tribunale di Milano,
definitivamente pronunciando, così provvede:

– rigetta le domande proposte
dall’attrice;

– rigetta le altre domande, eccezioni
ed istanze proposte dalle parti;

– pone le spese della consulenza
tecnica d’ufficio a carico delle parti in ragione di un quarto ciascuna;

– dichiara integralmente compensate
tra le parti le spese processuali;

– dichiara la presente sentenza
provvisoriamente esecutiva.

Milano, 24.03.2005

Il Giudice Istruttore in funzione di
giudice unico

dr. Damiano SPERA