Civile

Tuesday 16 November 2004

Responsabilità professionale medica e consenso informato. Secondo il Tribunale di Venezia la procedura di relazione informativa circa i rischi connessi all’ intervento non deve ridursi a prassi burocratica Tribunale di Venezia – Sezione Terza Civile

Responsabilità professionale medica e consenso informato. Secondo il
Tribunale di Venezia la procedura di relazione
informativa circa i rischi connessi all’intervento non deve ridursi a prassi
burocratica

Tribunale di Venezia – Sezione Terza
Civile – Sentenza 24 giugno – 4 ottobre 2004

Sentenza.

Giudice Dr. Roberto Simone

Con l’atto di citazione in epigrafe
indicato M. P. conveniva dinanzi al Tribunale di Venezia la
l’U.L.S.S. 13, al fine di sentir pronunciare
sentenza di condanna al pagamento della somma di Lire 200.000.000 a titolo di
risarcimento danni.

Esponeva l’attrice che il 26.2.1998
era stata sottoposta presso la Divisione di
cardiologia dell’Ospedale di XXX ad un intervento chirurgico di sostituzione valvolare mitro-aortica con
ricovero dal 24 febbraio al 1° aprile 1998; l’anno precedente era stata
ricoverata presso l’Ospedale di UUUU. per "doppio
vizio valvolare con embolia cerebrale; durante il
decorso post-operatorio erano insorte gravi complicazioni a seguito di ictus embolico con conseguente emiparesi
destra ed afasia motoria, sì da determinare l’incapacità di provvedere a se
stessa; per quanto le fosse stato fatto sottoscrivere prima dell’intervento un
modulo di consenso informato, peraltro neppure interamente compilato, non era
stata informata in ordine ai rischi ed alle eventuali complicazioni correlabili
all’intervento, anche alla luce dell’episodio di ischemia
embolica dell’anno precedente; prima di sottoporsi
all’intervento, accompagnata da B. L., aveva avuto un colloquio con il primario
della divisione di cardiochirurgia dell’Ospedale di XXX, dott. A. K., il quale
l’aveva rassicurata del fatto che il tipo di intervento era fatto
quotidianamente e così aveva accettato di sottoporvisi;
il 24.2.1998 (il primo giorno del ricovero), presente il figlio A. M., lo
stesso primario l’aveva nuovamente rassicurata che si trattava di un intervento
routinario e l’aveva accompagnata nel reparto
indicando altri pazienti, che avevano subito lo stesso intervento; la nuova
rassicurazione l’aveva indotta a sottoporsi all’intervento poi eseguito dal
dott. G. J.; se adeguatamente informata in ordine ai rischi di complicazione,
tuttavia, avrebbe ragionevolmente rifiutato di soggiacere all’intervento;
stanti le riferite complicazioni, lo stesso giorno delle dimissioni era stata
ricoverata presso l’Ospedale YYY e successivamente dal 19 giugno alla fine del
luglio 1998 presso l’Ospedale YXYX, ove era stata sottoposta a terapie di
rieducazione neuromotoria, senza purtroppo ottenere
alcun miglioramento; in data 30.10.1998 si sottoponeva a visita medico-legale,
dalla quale emergeva che era praticamente impossibilitata a muoversi, riuscendo
a deambulare trascinando faticosamente l’arto inferiore destro, mentre l’arto
superiore destro risultava perennemente flaccido; inoltre non era più in grado
di pronunciare correttamente le parole e presentava una marcata confusione
mentale e frequenti stati depressivi con cambio di umore; il riferito quadro
clinico attuale doveva ritenersi alquanto grave e le possibilità di conseguire
un miglioramento in futuro erano praticamente inesistenti.

Si costituiva l’U.L.S.S.
13 e resisteva alla domanda proposta. Deduceva la convenuta che alla fine del 1997 l’attrice, già
sottoposta presso l’Ospedale di Padova ad un intervento al cuore, si era
rivolta all’Ospedale di XXX, dove era stata sottoposta ad accurati esami,
all’esito dei quali si evidenziava la necessità di procedere all’intervento di
sostituzione valvolare mitroaortica;
in data 2.12.1997 era stata sottoposta ad una nuova visita, nel corso della
quale, alla presenza dei familiari, i medici rappresentavano che non solo la
valvola si era richiusa, ma a ciò si era aggiunta una stenoinsufficienza
aortica con aggravamento della condizione emodinamica; in occasione di tale visita erano stati sottolineati i rischi dell’operazione, quantificati intorno
al 20/25% (misura includente il rischio intrinseco dell’intervento e di quello
collegato alla sua pregressa condizione); edotta in merito alla possibilità di
sostituzione di entrambe le valvole malate ed ai benefici correlati, nonché
prospettata la possibilità di impiantare una protesi biologica ovvero una
meccanica, la M. P.
aveva manifestato la preferenza per quest’ultima,
concordando, tuttavia, che la scelta definitiva sarebbe avvenuta al momento del
ricovero; il 25.2.1998, precedente quello dell’intervento, la paziente era
stata nuovamente informata dall’anestesista in merito alle modalità ed ai
benefici dell’interevento, nonché in ordine ai rischi dello stesso, alle
complicazioni, inclusa la possibilità di un esito letale; alla presenza di
terzi la paziente aveva sottoscritto il consenso informato anche per
l’effettuazione del test volto ad accertare la presenza di anticorpi HIV e per
un’eventuale trasfusione di sangue.

Concludeva la convenuta in ordine all’assenza
di qualsiasi profilo di responsabilità a carico dei sanitari, avendo questi
ultimi informato correttamente ed esaurientemente la paziente in ordine alla
natura, alle modalità ed ai rischi dell’intervento di sostituzione della valvola
mitroaortica.

Radicato il contraddittorio,
all’esito dell’udienza di prima comparizione erano concessi i termini per il
deposito di memorie ai fini di cui all’art. 180, comma 2, c.p.c. A seguito di istruttoria orale e documentale, disposta C.T.U., la causa era trattenuta in decisione sulle
conclusioni epigrafate all’udienza del 5.3.2004,
previa concessione dei termini per il deposito degli atti ex art. 190 c.p.c.

Motivi della decisione

Non è in discussione in questa sede
la sussistenza, o no, della responsabilità della struttura sanitaria convenuta in ordine alla adeguatezza delle prestazioni rese in
occasione dell’intervento di sostituzione valvolare mitro-aortica, quanto l’inadempienza da parte dei sanitari
da quella dipendenti rispetto all’obbligo di informazione in ordine ai rischi
ed alle eventuali complicazioni correlabili all’intervento. Complicazioni,
queste ultime, in fatto verificatesi nell’immediatezza del decorso
post-operatorio e consistite in un fenomeno di emiparesi ed afasia.

Per quanto, come
emerso nel corso dell’istruttoria, all’attrice sia stato fatto sottoscrivere in
data 24.2.1998 il modulo per il consenso informato anestesiologico
e chirurgico (cfr.
il doc. 4 del fascicolo dell’attrice), la questione
oggi in esame non può certo ridursi all’espletamento di un passaggio di natura
burocratica. Infatti, il consenso deve essere il frutto di una relazione
interpersonale tra i sanitari ed il paziente sviluppata sulla
base di un’informativa coerente allo stato, anche emotivo, ed al livello
di conoscenze di quest’ultimo. In altri termini, la
conformità della condotta dei sanitari rispetto all’obbligo di fornire un
adeguato bagaglio di informazioni deve essere valutata
non tanto sul piano tecnico-operatorio, quanto sulla natura dell’intervento,
sull’esistenza di alternatitive praticabili, anche di
tipo non cruento, sui rischi correlati e sulle possibili complicazioni delle
diverse tipologie di cura tali da compromettere il quadro complessivo del
paziente, segnando il passaggio, come icasticamente
osservato da una prestigiosa dottrina, dalla fase dell’assenso a quella del
consenso, ossia del convergere delle volontà verso un comune piano di intenti.

In tal senso l’art. 31 dell’allora
vigente codice di deontologia medica (approvato il 24-25 giugno 1995) disponeva
che: "Il medico non deve intraprendere attività diagnostica o terapeutica
senza il consenso del paziente validamente informato. Il consenso, in forma
scritta nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche o terapeutiche
o per le possibili conseguenze sulla integrità fisica
si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà del paziente, è
integrativo e non sostitutivo del consenso informato di cui all’art. 29. Il
procedimento diagnostico e il trattamento terapeutico
che possano comportare grave rischio per l’incolumità del paziente, devono
essere intrapresi, comunque, solo in caso di estrema necessità e previa
informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna
documentazione del consenso". Infatti, in base all’art. 29 citato:
"Il medico ha il dovere di dare al paziente, tenendo conto del suo livello
di cultura e di emotività e delle sue capacità di
discernimento, la più serena e idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi,
sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e
della mancata terapia, nella consapevolezza dei limiti delle conoscenze mediche
anche al fine di promuovere la migliore adesione alle proposte
diagnostiche-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di
informazione da parte del paziente deve essere comunque soddisfatta. Le
informazioni relative al programma diagnostico e
terapeutico, possono essere circoscritte a quegli elementi che cultura e
condizione psicologica del paziente sono in grado di recepire ed accettare,
evitando superflue precisazione di dati inerenti agli aspetti scientifici. Le
informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare
preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, devono essere fornite con
circospezione, usando terminologie non traumatizzanti senza escludere mai
elementi di speranza. La volontà del paziente, liberamente e attualmente
espressa, deve informare il comportamento del medico, entro i limiti della
potestà, della dignità e della libertà professionale. Spetta ai responsabili
delle strutture di ricovero o ambulatoriali, stabilire le modalità
organizzative per assicurare la corretta informazione dei pazienti in accordo e
collaborazione con il medico curante".

Una volta chiarito che il problema
della relazione informativa tra medico e paziente, nel costituire parte
integrante del contratto di assistenza sanitaria
intercorrente tra il paziente e la struttura sanitaria, non potendo lo stesso
più essere chiuso in un obbligo di natura precontrattuale
attinente al piano dell’art. 1337 c.c., né ridursi a
quello meramente accessorio e strumentale rispetto alle prestazioni di
diagnosi, di cura o di esecuzione dell’eventuale intervento chirurgico, per
essere assurto al livello di piena autonomia nell’ambito del diritto
all’autodeterminazione in ordine all’esistenza dell’individuo, senza per questo
costituire l’elemento scriminante dell’attività medica, non resta che
verificare se ed in quali termini siffatta obbligazione sia stata adempiuta
nell’ambito degli incontri che hanno indotto la paziente a ricoverarsi ed a
sottoporsi all’intervento di sostituzione valvolare.

Non v’è bisogno di alcun
riscontro per sostenere che versandosi in campo contrattuale l’onere della
prova in ordine all’adempimento dell’obbligo di informazione incomba sul
soggetto convenuto (cfr. Cass. 23-05-2001, n. 7027).
Il teste A. K., dirigente medico presso il reparto di cardiochirurgia
dell’Ospedale di XXX, ha affermato: "parlai con la sig.ra M. P. e le rappresentai
i rischi connessi al tipo di intervento cui doveva
sottoporsi. Si trattava comunque di un intervento di
routine. Considerato che la signora aveva già avuto un episodio di embolia cerebrale, probabilmente le dissi che vi era il
rischio di lesioni permanenti, tant’è che ho fatto
eseguire una Tac cerebrale e un EEG. La visita preoperatoria
con la sig.ra M. P. durò circa un’ora, probabilmente le dissi
che si trattava di un intervento di routine. Non ricordo se la signora
manifestò paura per l’intervento. Posso riferire che se la signora manifestò
paura per

l’intervento la tranquillizzai".

Senonché le indicazioni appena riferite sono
contraddette da quanto dichiarato dalla teste M. P. Luciana (sorella
dell’attrice), la quale presente durante la prima visita fatta dal dott. A. K.
ha riferito: "ricordo che il dottore illustrò
tutto l’intervento, disse che il ricovero sarebbe durato 10 giorni e che mia
sorella sarebbe stata in sala rianimazione per tre giorni. Nulla disse in
merito al rischio di lesioni permanenti …Ricordo che qualche
giorno prima dell’intervento il dott. A. K. chiamò mia sorella per dirle che poteva ricoverarsi. Poiché mia
sorella aveva paura dell’intervento il dott. A. K. la rassicurò. Ciò posso riferire per averlo appreso da mia sorella. Ero
presente al momento della telefonata…". Che l’attrice fosse
particolarmente impaurita per l’operazione (reazione pienamente comprensibile)
emerge anche dalla testimonianza del A. M. (figlio dell’attrice), il quale ha
ricordato che il giorno del ricovero per tranquillizzare sua madre, dopo una
conversazione dal tono colloquiale, il dott. A. K. disse
che si trattava di un intervento di routine e le mostrò altri pazienti già
operati in precedenza. Il dato, apparentemente relegabile nel
quadro delle reazioni soggettive, in realtà rileva proprio al fine di
calibrare l’ambito di estensione della prestazione informativa al fine di
promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche, come
espresso nell’art. 29 del codice citato.

Nessun apporto a sostegno della
difesa di parte convenuta sovviene dalla testimonianza dell’anestesista (dott.ssa F.), la quale, come
appreso, provvide a raccogliere la sottoscrizione della paziente sul modulo
indicato. La teste ha precisato che (la M. P.) "era una paziente ansiosa per cui con
qualche difficoltà ho potuto effettuare la visita anestesiologica…
la visita l’ho effettuata due giorni prima dell’intervento, e in tale occasione
ho fatto sottoscrivere il modulo per il consenso informato. Riconosco nel doc.
4 attoreo il modulo per il consenso informato. Ho informato la M. P. in
ordine ai rischi dell’operazione ma dal punto di vista anestesiologico, indicandole l’attività cui sarebbe stata
sottoposta a partire dalla cannula al successivo risveglio … Non mi sono
occupata dei profili cardiologici, poiché esulanti le
mie competenze".

Da tali indicazioni non appare
provato, dunque, l’espletamento della prestazione informativa in ordine ai rischi ed alle possibili complicazioni
dell’intervento. Nozioni che, come già detto, debbono
essere somministrate in funzione della capacità di comprensione della paziente.
Ciò non è avvenuto in occasione della visita eseguita dal dott. A. K., tant’è che lo stesso ha riferito di aver probabilmente
informata la paziente in ordine al rischio di lesioni permanenti, pur
dichiarando di aver rappresentato i rischi connessi al tipo di intervento,
emergendo dalle dichiarazioni delle teste M. P. una indicazione di segno
contrario. Ciò può significare o che l’informazione non fu
resa affatto ovvero non fu espressa con linguaggio pienamente
comprensibile da chi tecnico non è. In ogni caso un’informazione fornita in
modo non pienamente comprensibile dall’intercolutore,
nella sostanza non è in grado di assolvere la sua funzione ed equivale ad una
non informazione, ossia l’esatto contrario del dovuto.

Ad ogni modo non può non rilevarsi
come il minor livello di interesse della teste M. P.,
rispetto alla posizione del dott. A. K., ben giustifichi in questa sede la
preminenza riservata al suo racconto.

Si consideri ancora che il fatto
stesso che il modulo per il consenso sia stato fatto
sottoscrivere il giorno del ricovero, avvenuto il 24.2.1998, è rappresentativo
di una non adeguata valorizzazione del problema da parte della struttura
sanitaria, tanto più che, come appreso, il consenso fu raccolto
dall’anestesista, dando per scontata la definizione della questione sul piano cardiologico. Ma così non è stato.

Senza per questo voler contraddire
quanto riferito più sopra, probabilmente al fine di rendere meno problematica
la prova relativa, sarebbe stato quantomai opportuna,
come peraltro segnalato dal C.T.U.,
una maggiore puntualizzazione in ordine ai rischi ed ai possibili sviluppi
all’interno dello stesso modulo. Questo lo si afferma
non tanto per svilire al piano cartaceo il problema in esame, ma per meglio
calibrare la stessa possibilità di prova diretta o contraria, dovendo comunque
valutarsi le modalità ed il tipo di informazioni rese al paziente.

Siffatta affermazione si basa su una
regola di distribuzione dell’onere della prova in base
alla prossimità delle parti rispetto alla fonte di prova. È evidente che
pretendere in capo al paziente la puntuale allegazione e la dimostrazione del
tipo di informazione resa (sebbene nel caso di specie,
la teste M. P. ha fornito un quadro sufficientemente chiaro) pare
irrealizzabile non foss’altro per l’evidente
asimmetria informativa esistente tra le parti. Per contro, esigere dalla
struttura sanitaria di documentare e conservare traccia di quanto effettuato,
anche in considerazione del trattamento e della conservazione dei dati
personali ai sensi dell’allora vigente l. 675/1996 (ed ora del D.leg. 196/2003), appare, oltre che più ragionevole,
certamente in linea con la regola di cui all’art. 1218 c.c., da leggersi in unione con l’art. 1176, comma 2, c.c.
(cfr. Cass. 23 maggio 2001, n. 7027; sez. unite 30 ottobre
2001, n. 13533; 10-5-2002, n. 6735; 28-5-2004, n. 10297).

In altri e più diretti termini,
l’affermazione di responsabilità della convenuta non si basa su una regola inferenziale, che trae dalla scarsità di dati disponibili
il difetto di diligenza del personale, quanto piuttosto dal fatto che a causa
di tale assenza di informazioni non è dato sapere cosa
sia stato comunicato alla paziente e, quindi, far ritenere assolto l’obbligo di
informazione.

Nell’ambito di una vicenda di natura
contrattuale, laddove, come nel caso di specie, emerga una situazione di carenza di prova in merito all’ambito delle informazioni
rese alla paziente, non v’è spazio per una discussione in merito alla
sussistenza del nesso di causa sul piano dell’an
(cfr. indicativamente Cass. 13-12-2001, n. 15759),
ponendosi a valle il problema correlabile alla c.d. causalità giuridica ex art.
1223 c.c., che presuppone la già avvenuta identificazione
dell’evento oggetto di addebito. Evento, quest’ultimo,
da intendersi come inadempimento rispetto all’obbligazione informativa, come
tale incidente in via diretta sul diritto della paziente all’autodeterminazione
in ordine alle scelte involgenti la propria salute,
poco rilevando sapere come l’attrice si sarebbe comportata qualora avesse avuto
piena contezza in ordine ai rischi di complicazioni, stimati nell’ordine del
20% da parte del consulente. Quello che rileva è che la M. P. non è stata in
condizioni di esprimere un consenso realmente informato, non senza rilevare che
l’eventuale prova diretta a dimostrare che, quand’anche informata, la paziente avrebbe optato per l’intervento a fronte dell’elevato
rischio connesso alla sua condizione di soggetto affetto da stenosi mitro-aortica incombeva sulla convenuta (cfr. Cass., sez. III, 10-05-2002, n. 6735).

A questo punto, una volta accertata
l’inadempienza della convenuta rispetto all’obbligazione contrattuale, sebbene
da più parti si è rilevato che quello del consenso
informato esula il piano strettamente contrattuale, ossia è un problema ben
diverso da quello che attiene al procedimento di formazione dell’accordo
contrattuale, fondandosi sulla natura stessa dell’attività medica, occorre
passare all’esame dell’ambito delle conseguenze pregiudizievoli risarcibili.

Al riguardo il
giudizio di valutazione, esulante il piano della causalità materiale, perché
involgente quello della causalità giuridica deve operarsi in base all’art. 1223
c.c. In altri termini, il criterio di selezione delle conseguenze risarcibili,
che come autorevolmente sostenuto involge un problema di opportunità, non può
essere governato in base agli stessi parametri che sovraintendono
al piano della causalità naturale ed in primo luogo secondo il criterio della condicio sine qua non. È pur vero
che in base al giudizio controfattuale basato
sull’eliminazione mentale dell’antecendente l’evento
in concreto accaduto (emiparesi ed afasia) non si sarebbe verificato, ma in quest’ordine
di idee, allora, dovrebbe trovare piena applicazione una valutazione basata
sulla comparazione dei rischi, ossia confrontare il rischio di complicazione
collegato all’intervento con la possibile evoluzione del quadro di salute della
paziente nel caso contrario.

In questa prospettiva la bilancia del
giudizio dovrebbe pendere dal lato della convenuta, considerato che secondo il
consulente tecnico d’ufficio la patologia da cui era affetta la M. P. era
soggetta ad inevitabile evoluzione sfavorevole a breve, sì da giustificare
pienamente l’intervento.

Senonché una tale prospettiva risulta
fuorviante, posto che finisce per non tenere conto del fatto che
l’inadempimento non investe le modalità di esecuzione dell’operazione
chirurgica, ma l’obbligazione informativa, con il rischio di mettere in secondo
piano l’interesse oggetto di tutela: il diritto alla scelta della paziente. Non
ignora il giudicante che ben più autorevoli consessi hanno ritenuto il nesso di
causa tra la lesione della salute, legata alla complicazione di un trattamento
clinico, e la violazione dell’obbligo di una piena informazione da parte dei
sanitari (cfr. Cass. 6.10.1997, n. 9705; 24-9-1997, n. 9374; App. Genova 5-4-1995). Osserva al riguardo lo scrivente che una tale affermazione, probabilmente, è il
frutto di una configurazione del consenso del paziente quale scriminante
dell’operato del medico. Impostazione, quest’ultima,
ormai da tempo recessiva, per essere stato da tempo portato in esponente che
l’attività medico-chirurgica si autogiustifica in
funzione della sua utilità sociale, mentre il consenso attiene al piano dei
diritti della personalità e, più nel dettaglio, quello all’autodeterminazione in ordine alla propria salute. Diversamente argomentando si
dovrebbe dare piena cittadinanza anche alle nostre latitudini ai casi di wrongful life (come accaduto
oltralpe nel caso affrontato da Cour de Cassation, ass. plen. 17.11.2000, in Nuova giur. civ. comm., 2001, I, 209), ossia
alla pretesa risarcitoria del soggetto che nasce affetto da gravi patologie a
seguito dell’erronea diagnosi prenatale con la correlativa perdita per la
partoriente della possibilità di decidere in ordine alla opportunità, o no, di
interrompere la gravidanza.

Seguendo la traiettoria prescelta dal
giudicante, comunque allegata dall’attrice, ma
allargata al piano della salute, appare possibile circoscrivere l’ambito del
pregiudizio di natura non patrimoniale (l’allegazione fatta in comparsa
conclusionale alle spese per la futura assistenza è tardiva rispetto a quanto
dedotto nel limite per la formazione del thema decidendum) a quello correlato al piano esistenziale, da
intendersi come riparazione correlata alla privazione del diritto alla scelta
consapevole da parte della M. P.. Data la particolarità delle prestazioni, in
quanto incidenti sulla sfera personale dell’individuo, non è possibile
escludere la risarcibilità di una tale posta di danno in base all’art. 1225 c.c., posto che, pur non essendo possibile operare una
stima economica esatta del pregiudizio connesso alla lesione di un interesse
non patrimoniale, comunque la natura dell’attività svolta deve dare per
scontato che la prestazione involge la sfera dell’individuo, sicché il
pregiudizio di natura non patrimoniale può essere risarcito senza dover
necessariamente far leva su un concorso di responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale. Infatti, la rilettura in chiave
costituzionale dell’art. 2059 c.c. operata dalla Cassazione (sentenze
31-5-2003, nn. 8827 e 8828) fa sì che anche in
ambito contrattuale possa darsi rilievo a pregiudizi di natura non
patrimoniale, sempre che i correlativi interessi possano ritenersi inclusi
nell’ambito di tutela del contratto.

Al riguardo, consapevole della
mancanza di una scala parametrata su basi oggettive o
che quantomeno siano in grado di tradurre in termini
economici oggettivi il pregiudizio patito, non resta che una valutazione
puramente equitativa, liquidando all’attualità il danno patito dall’attrice
nella somma di Euro 100.000. Su tale somma, inoltre, saranno dovuti gli interessi
legali dall’evento al saldo.

Tale valore, per quanto stocastico,
tiene conto della specificità del caso di specie, posto che l’operato dei sanitari anche se non censurabile sul piano
delle modalità di esecuzione dell’intervento, comunque ha finito per
espropriare l’attrice del suo diritto a scegliere in ordine alla propria
esistenza. Ora in una visione della libertà come assenza di
"coercizione" da parte di terzi, non può non rilevarsi come quello
all’autodeterminazione in ordine alla propria salute costituisca
un valore primario di rango costituzionale, da cui non si può prescindere, pena
la rinuncia al valore di base della nostra società.

La domanda proposta, pertanto deve
essere accolta e, per l’effetto, l’U.L.S.S. 13, in persona del Direttore
generale p.t., deve essere
condannata al pagamento, a titolo di risarcimento danni, della somma di Euro
100.000, oltre gli interessi legali dall’evento al saldo.

Le spese di lite, liquidate come da
dispositivo, seguono la soccombenza.

Spese di C.T.U.
a definitivo carico della convenuta.

Sentenza provvisoriamente esecutiva
per legge.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente
pronunciando nella causa in epigrafe riportata, respinta ogni altra domanda o
eccezione, così provvede:

1) in accoglimento della domanda
proposta, condanna l’U.L.S.S. 13, in persona del
Direttore generale p.t., al
pagamento, a titolo di risarcimento danni per le causali indicate, in favore di
M. P. della somma di Euro 100.000, oltre gli interessi legali dall’evento al
saldo;

2) condanna l’U.L.S.S.
13, in
persona del Direttore generale p.t.,
alla rifusione in favore dell’attrice delle spese di lite, liquidate in
complessivi Euro 13.431,49, di cui Euro 396,68 per spese, Euro 3.072,35 per
diritti ed Euro 9.962,46 per onorari, oltre IVA e CPA se dovuti per legge;

3) spese di C.T.U.
a definitivo carico della convenuta;

4) sentenza provvisoriamente
esecutiva per legge.

Venezia, li
24 giugno 2004

Il Giudice Unico

Il Collaboratore di Cancelleria

Depositata in cancelleria

Il Collaboratore di Cancelleria

PUBBLICATA IL 4 OTTOBRE 2004