Penale

Wednesday 11 June 2003

Procedimento penale avanti il Giudice di Pace e definizione per particolare tenuità del fatto. Con una elegante ordinanza il Tribunale di Torino solleva questione di legittimità costituzionale per eccesso di delega. N. 308 ORDINANZA (Atto di promovime

Procedimento penale avanti il Giudice di Pace e definizione per particolare tenuità del fatto. Con una elegante ordinanza il Tribunale di Torino solleva questione di legittimità costituzionale per eccesso di delega

N.   308   ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 marzo 2003.

  Ordinanza emessa il 6 marzo 2003 dal tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Luongo Giuseppe Processo penale – Reati di competenza del giudice di pace – Esclusione della procedibilita’ nei casi di particolare tenuita’ del fatto – Introduzione di una ipotesi di rinuncia alla potesta’ punitiva dello Stato – Eccesso di delega. – Decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, art. 34. – Costituzione, art. 76. Processo penale – Reati di competenza del giudice di pace – Esclusione della procedibilita’ nei casi di particolare tenuita’ del fatto – Insufficiente determinatezza dei presupposti – Violazione dei principi di stretta legalita’, di soggezione del giudice soltanto alla legge e di obbligatorieta’ dell’esercizio dell’azione penale. – Legge 24 novembre 1999, n. 468, art. 17, lett. f); d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 34. – Costituzione, artt. 25, comma secondo, 101, comma secondo, e 112. (GU n. 22 del 4-6-2003) 

IL TRIBUNALE

    Alla pubblica udienza del 6 marzo 2003 ha pronunciato la seguente

ordinanza  nella  causa  penale  contro  Luongo  Giuseppe, nato il 14

agosto  1967  a Torino, elettivamente domiciliato in Grugliasco (TO),

via  San  Gregorio  Magno,  21,  difeso  di fiducia dall’avv. Giacomo

Gribaudi  del  foro di Torino, libero presente, imputato del reato di

cui  all’art.  590, primo e terzo comma, c.p., commesso in Grugliasco

il 19 marzo 2001. Con la presenza della parte civile Gaglioti Rosina,

costituita  in  giudizio con il patrocinio dell’avv. Ercole Cappuccio

del foro di Torino.

    Con  atto  di  querela  in  data  21  marzo  2001 Gaglioti Rosina

chiedeva  procedersi  penalmente nei confronti di Luongo Giuseppe per

il delitto di lesioni personali colpose aggravate, in relazione ad un

sinistro stradale verificatosi in Grugliasco due giorni prima.

    Concluse  le  indagini  preliminari,  il p.m. esercitava l’azione

penale  nei  confronti  del  Luongo  con citazione diretta in data 24

settembre 2001.

    All’udienza dibattimentale del 25 gennaio 2002 Gaglioti Rosina si

costituiva parte civile nei confronti dell’imputato.

    All’udienza  del  12  aprile  2002 venivano ammesse ed assunte le

prove  documentali  e  orali.  Rinviando  alla lettura del verbale di

causa,   e’  qui  sufficiente  sintetizzare  come,  secondo  i  testi

d’accusa,  l’imputato  avrebbe tamponato l’autovettura della Gaglioti

mentre  costei  procedeva a bassissima velocita’, essendo in procinto

di posteggiare l’auto sul margine sinistro della pubblica via; l’urto

sarebbe stato cagionato, sempre stando alle prove d’accusa, dalla non

sufficientemente  moderata  velocita’  con  cui  il Luongo si sarebbe

immesso  nella  via  percorsa  dalla  Gaglioti, nel medesimo senso di

marcia, provenendo da una perpendicolare.

    Esaminati   anche  l’imputato  ed  i  testi a difesa, l’udienza e’

stata rinviata all’odierna udienza per la discussione finale.

    In  esito  alla discussione delle parti questo giudice ritiene di

dover sollevare d’ufficio questione di legittimita’ costituzionale di

alcune  norme,  norme  contenute nell’art. 34, d.lgs. n. 274/2000, le

quali  delineano,  accanto alle possibilita’ definitorie del processo

di  cui  agli  artt. 529  –  533  c.p.p.,  una nuova ed ulteriore via

tramite  cui  questo  giudice potrebbe pervenire alla definizione del

procedimento:  la declaratoria di esclusione della procedibilita’ per

c.d. «particolare tenuita’ del fatto».

A) In ordine alla rilevanza.

    In esito all’espletata istruttoria dibattimentale e’ emerso che:

        il  danno  cagionato  dal  reato, vale a dire l’entita’ delle

lesioni  sofferte  dalla  persona  offesa  in  conseguenza dell’urto,

sembra  essere di particolare tenuita’: e’ assai significativo che la

stessa  parte lesa, sentita in udienza, abbia completamente omesso di

menzionare il modesto «colpo di frusta» giudicato guaribile in giorni

sette  dai sanitari che la visitarono (cfr. referto medico in atti) e

che  costituisce  l’unica lesione per cui si procede, e si sia invece

soffermata  solo  sulle preoccupazioni che ebbe a nutrire per il feto

che portava in grembo (preoccupazioni peraltro escluse dai sanitari);

        l’occasionalita’  del  fatto  dovrebbe evincersi dalla stessa

natura  colposa  del reato per cui si procede, considerata unitamente

all’incensuratezza dell’imputato;

        il  grado  della  colpa  (ove la si dovesse ritenere provata,

cio’  su cui non e’ lecito fare anticipazioni) e’ minimo, considerato

che   lo   stesso   capo   d’imputazione   non  individua  violazioni

particolarmente   gravi   di   norme  disciplinanti  la  circolazione

stradale,  ma  addebita  al  Luongo  semplicemente di aver tenuto una

velocita’   non   sufficientemente   contenuta   in   relazione  alle

circostanze  di  luogo.  Peraltro la sostanziale inesistenza di danni

materiali  ai veicoli coinvolti (la Passat dell’imputato riporto’ uno

striscio  sul paraurti anteriore, mentre dal paraurti della Renault 5

della  parte civile cadde un pezzo di plastica che fu rimesso a posto

dal marito della stessa) e’ indicativa di un eccesso di velocita’ che

(ove  pure sia stato effettivamente sussistente) fu in concreto assai

modesto;

        non   si   dubita,   infine,   che   l’ulteriore   corso  del

procedimento,  anche  in  eventuali  successivi  gradi  di  giudizio,

arrecherebbe  pregiudizio  alle esigenze di lavoro dell’imputato, che

risulta occupato come operaio (cfr. cert. anagrafico in atti).

    Sembrerebbero percio’ sussistere, almeno ad un primo esame, tutte

le  condizioni previste dall’art. 34 del d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274

per  la  pronuncia  di  una  sentenza dichiarativa della «particolare

tenuita’ del fatto» con conseguente esclusione della procedibilita’.

    La   citata   disposizione,  prevista  in  via  generale  per  il

procedimento  penale  avanti al giudice di pace, e’ applicabile anche

da  parte  questo  giudice  in  virtu’ della norma transitoria di cui

all’art.  63,  d.lgs. n. 274/2000, che espressamente indica l’art. 34

dello  stesso  decreto  fra  le norme applicabili da parte di giudici

diversi dal giudice di pace qualora si trovino a giudicare di uno dei

reati  attribuiti  alla  competenza  del giudice di pace (tra i quali

rientra   il  delitto  di  lesioni  colpose  conseguenti  a  sinistro

stradale).

    Questo   giudice   dubita   pero’   di  poter  dare  in  concreto

applicazione   alle   disposizioni   di   cui   all’art.  34,  d.lgs.

n. 274/2000,   apparendo   non   infondati  i  seguenti  sospetti  di

incostituzionalita’.

B) In ordine alla non manifesta infondatezza.

    1. – Violazione dell’art. 76 Cost.

     L’art  34  del  d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274 («Disposizioni sulla

competenza  penale  del  giudice  di  pace»)  trova il suo fondamento

nell’art.  17, lett. f), della legge 24 novembre 1999 n. 468, che nel

delegare  il  Governo ad emanare un decreto legislativo in materia di

competenza  penale  del giudice di pace ha previsto in particolare la

«introduzione  di  un  meccanismo di definizione del procedimento nei

casi  di  particolare  tenuita’  del  fatto e di occasionalita’ della

condotta, quando l’ulteriore corso del procedimento puo’ pregiudicare

le  esigenze  di  lavoro,  di  studio,  di famiglia e di salute della

persona sottoposta ad indagini o dell’imputato».

    Ad  avviso  di  questo  giudice  il  legislatore  delegante,  nel

prevedere  un  nuovo  «meccanismo  di  definizione del procedimento»,

aveva  inteso introdurre un rito semplificato in relazione a fatti di

particolare  tenuita’ per i quali appariva eccessivamente dispendioso

percorrere   l’iter   dibattimentale,   inevitabilmente  complesso  e

potenzialmente  confliggente  con  le  esigenze lavorative, di studio

ecc. dell’imputato.

    Dal  punto  di  vista dell’interpretazione meramente letterale va

osservato  che  il  termine  «definizione»,  nell’uso  comune e nella

prassi  giudiziaria,  sta  ad  indicare ogni e qualsiasi modalita’ di

conclusione  di  un  grado  del  procedimento,  dalla declatatoria di

improcedibilita’ fino alla condanna.

    Tale interpretazione letterale sembra trovare altresi’ fondamento

in  una  lettura  sistematica  della  legge n. 468/1999, la quale non

prevede  –  se  si  esclude  la disposizione dell’art. 17, lett. f) –

alcun   meccanismo   definitorio   diverso   dalla  celebrazione  del

dibattimento.  In  altre  parole, mentre il processo penale avanti al

giudice  togato  consta  di un’ampia gamma di riti alternativi, tutti

finalizzati  al  risparmio  di  tempo  e  risorse, il processo penale

avanti   al   giudice  di  pace  presenterebbe  la  stortura  di  non

contemplare  alcuno  di  tali  riti  deflattivi,  con l’irragionevole

risultato  di  costringere  le  parti  a  percorrere  fino  in  fondo

l’accidentata  via dibattimentale proprio per reati di scarso allarme

sociale.

    L’esempio  piu’  evidente di questa stortura e’ rappresentato dai

numerosi  reati  contravvenzionali  attribuiti  alla  competenza  del

giudice  di pace, per i quali non e’ piu’ prevista la possibilita’ di

concludere  il  procedimento  con  l’emissione  del decreto penale di

condanna.  In questa linea pare assai significativo osservare che nel

processo  penale minorile, in cui la c.d. «irrilevanza del fatto» da’

sicuramente  luogo  all’adozione  di  una  «sentenza  di  non luogo a

procedere»  (art. 27, d.P.R. 448/1988), restano invece praticabili la

maggior  parte  de  riti  alternativi:  cosi’  dicasi per il giudizio

abbreviato, il giudizio direttissimo ed il giudizio per decreto (cfr.

art. 25 decreto cit.).

    Per tornare al giudice di pace, ecco allora che ove si interpreti

l’art.  17,  lett.  f),  della  legge delega n. 468/1999 nel senso di

delegare al Governo la previsione di un rito semplificato, il sistema

ne  risulterebbe  piu’  completo,  armonico  e  ragionevole. E sembra

invece  arbitraria la drastica identificazione, fatta dal legislatore

delegato    all’art. 34   d.lgs.   n. 274/2000,   del   concetto   di

«definizione»  del procedimento con una pura e semplice rinunzia alla

potesta’ punitiva dello Stato.

    Sotto  questo  profilo,  la  ricordata  norma dell’art. 34 appare

illegittima  per  contrasto  con l’art. 76 Cost., nella misura in cui

travalica  i  limiti di oggetto e non si attiene ai criteri direttivi

fissati   dal  Parlamento,  secondo  l’interpretazione  qui  proposta

(«eccesso di delega»).

    Questo  giudice  non  si  nasconde,  peraltro,  che  le  opinioni

prevalenti   sono  nel  senso di vedere nel meccanismo di cui all’art.

17, lettera f), della legge delega proprio uno strumento «deflattivo»

operante  indefettibilmente  come  rinuncia  alla  potesta’  punitiva

statuale.   Secondo   questa   interpretazione,   l’art. 34,   d.lgs.

n. 274/2000  sarebbe  allora  correttamente  attuativo  della  delega

conferita  dal  Parlamento, con la conseguenza che eventuali dubbi di

incostituzionalita’  non  possono  non  investire, unitamente al piu’

volte  citato art. 34, anche l’art. 17, lett. f), della legge-delega.

Tali profili di incostituzionalita’ sono:

    2. – Violazione  degli  artt.  25,  comma  2, 101, comma 2, e 112

della Costituzione.

    Lungi  dal  voler  affrontare una troppo complessa disamina della

portata dei principi espressi dalle indicate norme costituzionali, il

remittente  osserva  come  dette  disposizioni  consacrino, a livello

costituzionale,  un  sistema  di  supremazia  e inderogabilita’ della

legge  penale  che esclude ogni discrezionalita’ applicativa da parte

del  potere  giudiziario:  se e’ vero che ciascuno puo’ essere punito

solo  laddove  abbia  commesso  un  fatto conforme ad una fattispecie

tipica  prevista  dalla legge (art. 25 comma 2), e’ altrettanto vero,

specularmente,  che  ogniqualvolta  sia  commesso  un  «fatto tipico»

l’autore  deve  essere  assoggettato  a  sanzioni penali: il pubblico

ministero  e’  obbligato  ad  esercitare  nei suoi confronti l’azione

penale  (art. 112), ed il giudice, soggetto solo alla legge (art. 101

comma  2),  una  volta  accertata  la conformita’ della condotta alla

norma    incriminatrice   deve   applicare   le   sanzioni   previste

dall’ordinamento.

    L’art.  34,  d.lgs.  n. 274/2000,  invece,  demanda al giudice di

determinare, caso per caso, se l’esercizio dell’azione penale, pur in

presenza   di   un   fatto   tipico,   «sia  ingiustificato  rispetto

all’interesse  tutelato», sulla scorta dei seguenti indici: esiguita’

del   danno   o  pericolo,  occasionalita’  del  fatto,  grado  della

colpevolezza.

    Appare subito evidente come la formulazione usata dal legislatore

urti  contro  i  principi  costituzionali sopra ricordati: laddove un

fatto   sia   conforme   alla   fattispecie   astratta  prevista  dal

legislatore,  quel  fatto  e’  per  definizione lesivo dell’interesse

tutelato  dall’ordinamento,  e  non  vi  e’ spazio perche’ il giudice

dichiari    invece    che    l’esercizio    dell’azione   penale   e’

«ingiustificato».

    E’  noto  che  questo  principio  soffre di eccezioni, costituite

dalle  numerose  «cause  di  non  punibilita»,  di  ordine generale o

speciale,  oggetto di plurime previsioni all’interno dell’ordinamento

penale.  Una  trattazione  esaustiva di tali cause di non punibilila’

non  e’  probabilmente possibile ne’ necessaria in questa sede; ma e’

sufficiente  un breve richiamo alle due principali categorie, le c.d.

cause  di  giustificazione  (artt. 50  –  54 c.p.) e le c.d. cause di

esclusione  dell’imputabilita’ (artt. 85 – 98 c.p.) per apprezzare il

fondamentale   carattere   ad    esse   comune:  la  predeterminazione

legislativa  dei  requisiti  di  applicabilita’  delle  cause  di non

punibilita’.  In  altre  parole, nelle citate due grandi categorie la

decisione  del  giudice  e’  strettamente vincolata dall’esistenza di

rigide   condizioni  normativamente  previste,  onde il giudice, anche

quando  dichiara, per esempio, la non punibilita’ di chi ha agito per

legittima  difesa  ovvero in condizioni di totale infermita’ mentale,

rimane integralmente soggetto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.).

    Il  problema  dunque  e’  quello di verificare se anche l’art. 34

d.lgs.   n. 274/2000,   nell’attribuire   al  giudice  il  potere  di

dichiarare  l’improcedibilita’ dell’azione penale per la «particolare

tenuita’  del  fatto»,  definisca  effettivamente  le  condizioni  di

esercizio di tale potere.

    Ad  avviso  di  questo  giudice la risposta deve essere negativa,

giacche’  i  criteri  previsti  dal  citato  art. 34  sono  meramente

apparenti  ed  insuscettibili di dar luogo ad un’applicazione pratica

che non sfoci nell’arbitrio. Piu’ in dettaglio:

        l’esiguita’  del  danno  o  del  pericolo. Nel nostro sistema

penale  essa  non  puo  mai  essere  motivo di rinuncia all’esercizio

dell’azione  penale,  esercizio  che  e’ precluso soltanto laddove il

danno  o  il  pericolo  siano  non gia’ esigui ma, piu’ radicalmente,

assenti.  Al  riguardo  assume  la  valenza  di principio generale la

disposizione  dell’art. 49,  comma 2, c.p. che, in piena coerenza col

sistema,  esclude la punibilita’ nei casi di «inidoneita’ dell’azione

o  inesistenza dell’oggetto di essa». Al contrario, il sistema penale

pullula  di  disposizioni  che,  in  presenza  di un danno o pericolo

particolarmente  lieve,  prevedono  non  gia’ l’esenzione da pena, ma

solo la sua attenuazione: artt. 62 n. 4, 323-bis, 648 comma 2, c.p. e

molte  altre.  Nel  caso  previsto  dall’art. 34, d.lgs. n. 274/2000,

invece,  si  richiede al giudice di procedere ad una determinazione –

concettualmente  e  operativamente  impossibile se non con un atto di

mero  arbitrio  –  in  virtu’  della  quale  il  danno  da reato, pur

sussistente,  sarebbe  cosi’ esiguo da sfuggire a sanzione penale; in

virtu’   della   quale   la  modestia  del  danno  si  trasformerebbe

incomprensibilmente  in  «assenza»  di danno. Si torna a ripetere che

questo  e’ un criterio di valutazione soltanto apparente, che finisce

per lasciare il giudice solo con se’ stesso;

        l’occasionalita’ del fatto. Anche in questo caso la fluidita’

della  formula  legislativa  si  presta ad inammissibili applicazioni

discrezionali.  L’interprete  potrebbe  di  volta in volta ricondurre

all’ipotesi  del  fatto occasionale quel fatto che sia commesso senza

premeditazione,   o   meglio   con   «dolo  d’impeto»  (il  carattere

dell’occasionalita’  dovrebbe  percio’ riconoscersi a tutti i delitti

colposi?);  ovvero  il fatto commesso da un incensurato o quanto meno

da  un  agente  che  non  sia recidivo specifico. Ma altri potrebbero

considerare  «occasionale»  anche  il  fatto   commesso da un recidivo

specifico,  purche’  ad  una cospicua (ma non legalmente determinata)

distanza di tempo dal reato precedente …

    L’impossibilita’,  alla  stregua della formulazione normativa, di

delineare in modo preciso il concetto di occasionalita’ e’ un aspetto

tutt’altro  che  secondario,  perche’  dalla  delimitazione  di  tale

concetto   non   dipende   (come   normalmente   avviene)   solo   il

riconoscimento  delle  attenuanti  generiche, ovvero l’irrogazione di

una  pena  particolarmente mite a norma dell’art. 133 comma 1 n. 3) e

comma   2   n. 2)   c.p.,   bensi’,   assai  piu’  drasticamente,  la

delimitazione  dell’ambito  del  penalmente rilevante rispetto a cio’

che   rilevante   non   e’.  L’impossibilita’  di  definire  in  modo

sufficientemente  predeterminato  il  concetto  di «occasionalita» si

traduce dunque, ad avviso del remittente, in una violazione dell’art.

25,  comma  2,  Cost.  Puo’ forse essere significativo, in termini di

raffronto,  considerare  il  ben  diverso  livello  di determinatezza

normativa  che il legislatore ha avuto cura di assicurare, in tema di

sospensione  condizionale  della  pena, all’art. 164 c.p.: tale norma

disciplina  non  gia’  la  rinuncia definitiva alla potesta’ punitiva

statuale, bensi’ – piu’ modestamente – la sospensione (revocabile) di

essa;  cionondimeno il legislatore ha fissato tassativamente al comma

2  i  requisiti  soggettivi, senza accontentarsi del concetto, troppo

indeterminato, di «occasionalita»;

        il   «grado   della   colpevolezza»   presenta   le  medesime

difficolta’  sin  qui evidenziate. In primo luogo va osservato che il

termine  «colpevolezza»  designa  un  risultato della valutazione del

giudice, e cioe’ l’attribuzione di responsabilita’ per un determinato

reato.  In questo senso, la colpevolezza o esiste o non esiste, ed e’

insuscettibile   di   «gradi».   Sembra  pertanto  che  la  locuzione

utilizzata dal legislatore debba essere intesa come equivalente della

locuzione  di  cui  all’art. 133, comma 1, n. 3 c.p.: «intensita’ del

dolo o grado della colpa».

    Se  cosi’ e’, tornano a riproporsi le stesse perplessita’ esposte

con  riferimento  all’esiguita’ del danno: o dolo e colpa sussistono,

per quanto poco intensi, ed allora l’esercizio dell’azione penale non

puo’  ritenersi  «ingiustificato»;  ovvero  non sussistono, ed allora

l’imputato  dovra’  essere  assolto «perche’ il fatto non costituisce

reato».  In nessun modo il giudice potra’ compiere da solo, senza una

piu’   precisa   guida   normativa,   quel  salto   –  concettualmente

impossibile  –  che porta a trasformare una colpa lieve in assenza di

colpa.

    Si  e’  gia’  accennato,  piu’  sopra,  al  fatto  che  il nostro

ordinamento conosce gia’ da molti anni, nel processo penale minorile,

l’istituto  della  sentenza  di non doversi procedere per irrilevanza

del  fatto (art. 27 d.P.R. 448/1988). Tale circostanza, ad avviso del

remittente,  non puo’ tuttavia avere alcuna influenza sulla decisione

del  quesito  che  ora si pone, perche’ l’istituto di cui all’art. 27

cit.  trova  applicazione all’interno di un sistema, quello minorile,

che  e’  profondamente  «altro»  rispetto  a quello in vigore per gli

imputati   maggiorenni.   In   quel   sistema,  tutto  ispirato  alla

centralita’ della tutela del minore, vigono valori autonomi e possono

giustificarsi,  alla  luce  di principi costituzionali specifici come

quello  di  cui  all’art. 31  cpv.  Cost.,  anche deviazioni da altri

principi  costituzionali che restano invece inderogabili nei restanti

rami dell’ordinamento penale.

    La  questione  che  precede  e’  gia’ stata sottoposta alla Corte

costituzionale da questo giudice con ordinanza del 23 maggio 2002; la

Corte,  con  ordinanza  n. 34  del  16 gennaio/24 febbraio 2003, l’ha

dichiarata  manifestamente  inammissibile,  perche’  i  sopra esposti

profili  di  incostituzionalita’ erano stati presentati unitamente ad

altri  (qui omessi) che avevano finito col rendere contraddittorio il

quesito posto alla Corte.

    Nell’inchinarsi  a  tale  decisione  questo  giudice non puo’ non

rilevare,   tuttavia,   il  permanere  dei  dubbi  di  illegittimita’

costituzionale  esposti  nelle  pagine  che  precedono,  onde  reputa

doveroso adire nuovamente la Corte costituzionale.