Penale
Per la Corte Costituzionale è giusto che chi truffa lo Stato sia punito pià severamente rispetto a chi truffa il privato. N. 95 ORDINANZA 8 – 12 marzo 2004.
Per la Corte Costituzionale è giusto che chi truffa lo Stato sia punito più severamente rispetto a chi truffa il privato
N. 95 ORDINANZA 8 – 12 marzo 2004.
Giudizio di legittimita’ costituzionale in via incidentale. Reati e pene – Erogazioni pubbliche – Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato – Trattamento sanzionatorio – Prospettata irrazionalita’ di disciplina, per disparita’ di trattamento rispetto al reato comune di truffa in danno di un soggetto privato – Manifesta infondatezza della questione. – Cod. pen., art. 316-ter. – Costituzione, artt. 3 e 10. (GU n. 11 del 17-3-2004)
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Gustavo ZAGREBELSKY;
Giudici: Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido
NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Franco BILE, Giovanni Maria
FLICK, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio
FINOCCHIARO;
ha pronunciato la seguente
Ordinanza
nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’art. 316-ter del
codice penale, promosso con ordinanza del 25 novembre 2002 dalla
Corte di appello di Milano nel procedimento penale a carico di M.T.,
iscritta al n. 135 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, 1ª serie speciale,
dell’anno 2003.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 21 gennaio 2004 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che con l’ordinanza in epigrafe la Corte di appello di
Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 10 della
Costituzione, questione di legittimita’ costituzionale
dell’art. 316-ter del codice penale, aggiunto dall’art. 4 della legge
29 settembre 2000, n. 300 (Ratifica ed esecuzione dei seguenti Atti
internazionali elaborati in base all’art. K. 3 del Trattato
sull’Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi
finanziari delle Comunita’ europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio
1995, del suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996,
del Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da
parte della Corte di giustizia delle Comunita’ europee, di detta
Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il
29 novembre 1996, nonche’ della Convenzione relativa alla lotta
contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle
Comunita’ europee o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a
Bruxelles il 26 maggio 1997 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla
corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni
economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre
1997. Delega al Governo per la disciplina della responsabilita’
amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di
personalita’ giuridica), che – sotto la rubrica «indebita percezione
di erogazioni a danno dello Stato» – punisce, con la reclusione da
sei mesi a tre anni, «chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione
di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere,
ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue
indebitamente, per se’ o per altri, contributi, finanziamenti, mutui
agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate,
concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle
Comunita’ europee»; prevedendo, altresi’, l’applicazione di una
semplice sanzione amministrativa pecuniaria quando la somma
indebitamente percepita e’ pari o inferiore ad un determinato
importo;
che il giudice a quo premette di essere investito, in grado
di appello, del processo penale nei confronti di persona imputata del
reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni
pubbliche, di cui all’art. 640-bis cod. pen. (oltre che di quello di
cui all’art. 483 cod. pen.), per aver conseguito dall’Universita’
degli studi di Milano, negli anni 1995 e 1996, benefici ed erogazioni
(in particolare un «tesserino mensa» ed una borsa di studio) di
entita’ maggiore rispetto a quella ad essa effettivamente spettante,
tramite «artifizi» consistiti in false attestazioni circa la propria
situazione patrimoniale e reddituale: reato per il quale era stata
pronunciata, in primo grado, sentenza di condanna appellata
dall’imputato;
che, ad avviso del rimettente, il fatto per cui si procede
rientrerebbe attualmente nella previsione del nuovo art. 316-ter cod.
pen.: donde la necessita’ di stabilire quale rapporto intercorra tra
tale previsione sanzionatoria e la norma incriminatrice di cui
all’art. 640-bis cod. pen., oggetto dell’imputazione;
che, secondo il giudice a quo, la «formale sussidiarieta»
dell’art. 316-ter rispetto all’art. 640-bis cod. pen. – risultante
dalla clausola di riserva con cui la prima norma si apre («salvo che
il fatto costituisca il reato previsto dall’articolo 640-bis») – si
scontrerebbe con la «secolare tradizione interpretativa» per cui il
falso, nelle sue diverse manifestazioni (comprese quelle descritte
nell’art. 316-ter), rappresenta la forma piu’ comune e tipica di
estrinsecazione degli «artifizi o raggiri», costitutivi del delitto
di truffa;
che a fronte di tale «insanabile contraddizione» tra «formale
sussidiarieta» e «sostanziale specialita» della norma impugnata, la
giurisprudenza di legittimita’ si sarebbe indotta – onde ritagliare
uno spazio operativo alla nuova figura criminosa, altrimenti
condannata all’«ineffettivita» – a restringere il tradizionale
concetto di «artifizi o raggiri», escludendo che le condotte indicate
nell’art. 316-ter cod. pen. rientrino in esso;
che alla stregua di tale orientamento, peraltro, l’imputato
nel giudizio a quo dovrebbe essere assolto, dato che il fatto a lui
ascritto non risulterebbe punibile ne’ ai sensi dell’art. 640-bis
cod. pen., per assenza – in tesi – dell’artifizio o raggiro; ne’ in
base all’art. 316-ter cod. pen., trattandosi di fatto commesso in
data anteriore a quella di entrata in vigore di tale norma;
che a parere del rimettente, tuttavia, l’art. 316-ter cod.
pen. violerebbe l’art. 10 Cost., in quanto la nuova disposizione –
introdotta al dichiarato scopo di rafforzare la tutela penale degli
interessi finanziari delle Comunita’ europee, in attuazione di
specifici obblighi internazionali – avrebbe prodotto il risultato
esattamente opposto, facendo si’ che condotte in precedenza
pacificamente integrative dell’ipotesi criminosa di cui
all’art. 640-bis cod. pen. beneficino oggi del piu’ mite trattamento
sanzionatorio prefigurato dalla norma impugnata;
che inoltre – essendo la fattispecie di cui all’art. 640-bis
cod. pen. uno «sviluppo» della «figura base di truffa» prevista
dall’art. 640 cod. pen., tanto da essere considerata quale semplice
circostanza aggravante di tale reato – occorrerebbe chiedersi se il
concetto piu’ ristretto di «artifizio o raggiro», elaborato a
proposito dell’art. 640-bis cod. pen., valga anche in rapporto alla
figura generale di cui all’art. 640 cod. pen;
che peraltro, qualunque risposta si dia a tale interrogativo,
si avrebbe una «palese irrazionalita’ di disciplina», atta a porre
l’art. 316-ter cod. pen. in contrasto con l’art. 3 Cost.;
che, in particolare, ove si ritenga che l’anzidetta nozione
ristretta di «artifizio o raggiro» non si estende alla fattispecie
«comune» di truffa di cui all’art. 640 cod. pen., si profilerebbe una
ingiustificata disparita’ di trattamento della truffa in danno di
ente pubblico o comunitario rispetto a quella commessa in danno di un
soggetto privato: chi ottiene erogazioni da un privato mediante
documenti falsi, difatti, sarebbe comunque punibile ai sensi
dell’art. 640 cod. pen. (al pari di chi, allo stesso fine, si avvalga
di altri artifizi o raggiri); mentre nel caso dell’ente pubblico o
comunitario, detta tipologia di condotta costituirebbe «il discrimine
per un rilevante mutamento della sanzione», che diverrebbe
addirittura solo amministrativa nei casi piu’ lievi (art. 316-ter,
secondo comma, cod. pen.);
che ove si ritenga, invece, che il concetto piu’ ristretto di
«artifizio o raggiro» vale anche per la truffa comune – soluzione,
peraltro, priva di qualsiasi riscontro nel «diritto vivente» – si
determinerebbe una disparita’ di trattamento di segno opposto: in
danno, cioe’, dell’offeso «privato»;
che in quest’ultima prospettiva, difatti, si accorderebbe
agli enti pubblici e comunitari una tutela penale (quella contro le
frodi commesse mediante utilizzazione di falsa documentazione) della
quale sarebbero – in tesi – completamente privi i soggetti privati:
assetto, questo, inaccettabile sul piano costituzionale, in quanto –
a fronte di fatti identicamente lesivi della sfera patrimoniale – la
natura pubblica o privata della persona offesa potrebbe
ragionevolmente influire solo sulla misura della pena, ma non sulla
stessa liceita’ penale della condotta;
che nel giudizio di costituzionalita’ e’ intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la
questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Considerato che i dubbi di legittimita’ costituzionale
dell’art. 316-ter cod. pen., formulati dalla Corte di appello
rimettente, risultano sostanzialmente coincidenti – quanto alla
premessa fondante – con quelli in passato sollevati, in riferimento
al solo art. 3 Cost., riguardo alla previsione punitiva di cui
all’art. 2 della legge 23 dicembre 1986, n. 898 (Conversione in
legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 ottobre 1986, n. 701,
recante misure urgenti in materia controlli degli aiuti comunitari
alla produzione dell’olio di oliva. Sanzioni amministrative e penali
in materia di aiuti comunitari nel settore agricolo): norma che –
punendo con la reclusione da sei mesi a tre anni chi, mediante
esposizione di dati o notizie falsi, consegue indebitamente
contributi a carico del Fondo europeo agricolo di orientamento e
garanzia (FEOGA), salva l’applicazione di una semplice sanzione
amministrativa pecuniaria ove la somma indebitamente percepita non
ecceda un determinato importo – e’ del tutto omologa, per ratio e
struttura, a quella oggi sottoposta a scrutinio;
che il citato art. 2 della legge n. 898 del 1986 era infatti
finalizzato – secondo quanto si affermava nella relazione alla
proposta di legge e come emergeva, altresi’, dai lavori parlamentari
– a rafforzare la tutela penale delle sovvenzioni comunitarie,
evitando, in specie, che potesse rimanere impunito chi ottenesse
indebite erogazioni dal FEOGA mediante la mera esposizione di dati o
notizie falsi: e cio’ a fronte della «constatata riluttanza, nella
pratica amministrativa ed in quella giudiziaria», a far rientrare
detta condotta nel paradigma degli «artifizi o raggiri», richiesti ai
fini della configurabilita’ del delitto di truffa, di cui
all’art. 640 cod. pen. (cfr. sentenza di questa Corte n. 25 del
1994);
che la funzione sussidiaria che, nell’intenzione del
legislatore, la fattispecie era destinata ad assolvere rispetto alla
truffa – e, poi, rispetto alla truffa aggravata per il conseguimento
di erogazioni a carico dello Stato, di enti pubblici o delle
Comunita’ europee, di cui all’art. 640-bis cod. pen., successivamente
introdotto dall’art. 2 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove
disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e
di altre gravi forme di manifestazione della pericolosita’ sociale) –
venne tuttavia negata da una parte della giurisprudenza, che
qualifico’, viceversa, l’art. 2 della legge n. 898 del 1986 come
norma speciale – e dunque prevalente, nel caso di concorso apparente
– rispetto a quelle del codice penale;
che tale tesi si fondava, in specie, sul rilievo che, secondo
un risalente indirizzo giurisprudenziale, la sola menzogna sarebbe
stata gia’ di per se’ sufficiente, in via generale, ad integrare il
concetto di «artifizi o raggiri», onde il fatto sanzionato
dall’art. 2 della legge n. 898 del 1986 sarebbe rientrato pleno iure
nel perimetro applicativo dell’art. 640 cod. pen. (e poi
dell’art. 640-bis cod. pen.), se non fosse stato per gli elementi
specializzanti costituiti dalla specificita’ del soggetto passivo e
dalla natura del profitto conseguito dall’agente: prospettiva nella
quale, peraltro, la norma de qua – con eterogenesi dei fini – avrebbe
di fatto determinato un indebolimento della tutela delle sovvenzioni
comunitarie, riservando, in pratica, un trattamento sanzionatorio
piu’ mite – tenuto conto dei livelli delle pene edittali e della
prevista degradazione della violazione in semplice illecito
amministrativo, al di sotto di un determinato importo – a fatti
altrimenti soggetti alla piu’ severa sanzione comminata dalle norme
del codice penale;
che il legislatore ritenne, quindi, di dover sconfessare
apertamente tale interpretazione, aggiungendo in apertura dell’art. 2
della legge n. 898 del 1986 – con l’art. 73 della legge 19 febbraio
1992, n. 142 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia alle Comunita’ europee. Legge
comunitaria per il 1991) – una clausola di sussidiarieta’ espressa,
volta ad escludere l’operativita’ della previsione punitiva nel caso
di configurabilita’ del delitto di cui all’art. 640-bis cod. pen.
(«ove il fatto non configuri il piu’ grave reato previsto
dall’art. 640-bis del codice penale …»);
che – sul presupposto che l’art. 2 della legge n. 898 del
1986 si ponesse comunque in rapporto di specialita’ rispetto agli
artt. 640 e 640-bis cod. pen., con il conseguente irrazionale effetto
sopra evidenziato – la norma venne sottoposta a scrutinio di
costituzionalita’ per contrasto con l’art. 3 Cost.: questione che la
Corte dichiaro’ tuttavia infondata, rilevando come – alla luce della
inequivoca ratio della disposizione impugnata e del successivo
intervento del legislatore del 1992 – la disposizione stessa fosse
destinata ad operare esclusivamente negli spazi non gia’ «coperti»
dalle citate norme del codice (cfr. sentenza n. 25 del 1994 e
ordinanza n. 433 del 1998);
che l’odierno giudice a quo pone, analogamente, a base dei
propri dubbi di legittimita’ costituzionale del nuovo art. 316-ter
cod. pen. l’assunto per cui la norma denunciata avrebbe in pratica
assicurato un trattamento sanzionatorio piu’ favorevole a fatti di
indebita percezione di contributi a danno dello Stato, di enti
pubblici o delle Comunita’ europee: fatti che – al lume della
«tradizionale» lettura giurisprudenziale del concetto di «artifizi o
raggiri» – ricadrebbero «pacificamente» nella sfera punitiva della
truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di cui
all’art. 640-bis cod. pen.;
che anche in questo caso va peraltro osservato, in senso
contrario, che il carattere sussidiario e «residuale»
dell’art. 316-ter cod. pen. rispetto all’art. 640-bis cod. pen. – a
fronte del quale la prima norma e’ destinata a colpire unicamente
fatti che non rientrino nel campo di operativita’ della seconda –
costituisce un dato normativo assolutamente inequivoco;
che la chiara lettera della disposizione impugnata – la quale
esordisce anch’essa con una clausola di salvezza dell’art. 640-bis
cod. pen. – si coniuga infatti puntualmente sia con la finalita’
generale del provvedimento legislativo che ha introdotto la
disposizione stessa, sia con l’obiettivo specifico della sua
introduzione;
che, quanto al primo profilo, l’art. 316-ter e’ stato infatti
inserito nel codice penale dalla legge 29 settembre 2000, n. 300, nel
quadro delle misure di adeguamento dell’ordinamento italiano agli
obblighi derivanti dalla Convenzione sulla tutela degli interessi
finanziari delle Comunita’ europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio
1995: Convenzione il cui art. 2 imponeva agli Stati membri di punire
le frodi lesive dei predetti interessi – quali definite dall’art. 1 –
con sanzioni penali «effettive, proporzionate e dissuasive»,
comprensive, almeno nei casi di «frode grave», di pene privative
della liberta’ personale che possano comportare l’estradizione; salva
la facolta’ di stabilire sanzioni di natura non penale per le frodi
«di lieve entita», riguardanti un importo totale inferiore a 4.000
ecu;
che la norma censurata non era peraltro prevista
dall’originario disegno di legge governativo di ratifica della
suddetta Convenzione, nella convinzione – esplicitata nella relazione
– che l’art. 640-bis cod. pen. fosse gia’ sufficiente a soddisfare
gli obblighi comunitari in parola, segnatamente per quanto atteneva
alle frodi «in materia di spese», delineate dall’art. 1, lettera a),
primo e secondo trattino, dello strumento;
che nel corso dei lavori parlamentari, e’ emersa tuttavia la
preoccupazione che talune delle fattispecie di frode identificate
dalla Convenzione – le quali comprendevano non soltanto condotte di
falso in senso lato («utilizzo o … presentazione di dichiarazioni o
di documenti falsi, inesatti o incompleti»), ma anche di mero
silenzio antidoveroso («mancata comunicazione di un’informazione in
violazione di un obbligo specifico»), senza che al tempo stesso fosse
previsto il requisito dell’induzione in errore del soggetto passivo,
caratterizzante il paradigma della truffa – potessero in realta’ non
rientrare nella sfera di operativita’ del citato art. 640-bis cod.
pen.;
che onde evitare una eventuale inadempienza, per tal aspetto,
agli obblighi comunitari – scartata l’idea iniziale di aggiungere
all’art. 640-bis cod. pen. un ulteriore comma, che riconducesse
espressamente alla fattispecie della truffa aggravata le condotte
descritte nella Convenzione – si e’ optato per la soluzione di
coniare una nuova disposizione sanzionatoria – quella, appunto,
dell’art. 316-ter cod. pen. – modellata (anche per quanto attiene
alla preliminare clausola di salvezza dell’art. 640-bis cod. pen.)
sulla falsariga dell’art. 2 della legge n. 898 del 1986, e che
riproduce quasi alla lettera, quanto alla descrizione della condotta
sanzionata, la formula dell’art. 1 della Convenzione: disposizione
che – nel comminare sanzioni piu’ miti di quelle previste
dall’art. 640-bis cod. pen. – e’ peraltro eloquentemente indicativa
dell’intento legislativo di reprimere, con essa, fatti di minore
gravita’, sul piano del disvalore di condotta, rispetto a quelli
attinti dalla norma principale;
che appare dunque evidente – alla luce tanto del dato
normativo, quanto della ratio legis – come l’art. 316-ter cod. pen.
sia volto ad assicurare agli interessi da esso considerati una tutela
aggiuntiva e «complementare» rispetto a quella gia’ offerta
dall’art. 640-bis cod. pen., «coprendo», in specie, gli eventuali
margini di scostamento – per difetto – del paradigma punitivo della
truffa rispetto alla fattispecie della frode «in materia di spese»,
quale delineata dall’art. 1 della Convenzione: margini la cui
concreta entita’ – correlata alle piu’ o meno ampie «capacita’ di
presa» che si riconoscano al delitto di truffa, avuto riguardo sia
all’elemento degli «artifizi o raggiri», in qualunque forma
realizzati, sia al requisito dell’induzione in errore – spetta
all’interprete identificare, ma sempre nel rispetto della inequivoca
vocazione sussidiaria della norma oggi sottoposta a scrutinio;
che, in altre parole, rientra nell’ordinario compito
interpretativo del giudice accertare, in concreto, se una determinata
condotta formalmente rispondente alla fattispecie delineata
dall’art. 316-ter cod. pen. integri anche la figura descritta
dall’art. 640-bis cod. pen., facendo applicazione, in tal caso, solo
di quest’ultima previsione punitiva;
che – nella prospettiva della natura meramente sussidiaria e
residuale della norma impugnata – e’ ben vero che l’art. 316-ter cod.
pen. si presta, nell’intenzione del legislatore, a reprimere taluni
comportamenti che, se posti in essere in danno di soggetti privati –
o anche di soggetti pubblici, quando non si discuta dell’indebita
erogazione di sovvenzioni – restano privi di sanzione: ma cio’ senza
che ne derivi affatto la lesione dell’art. 3 Cost. ventilata dal
rimettente, posto che – come correttamente osserva l’Avvocatura
generale dello Stato – la previsione di una tutela penale rafforzata,
anche quanto ad ampiezza, delle finanze pubbliche e comunitarie
contro le frodi, rispetto alla generalita’ degli altri interessi
patrimoniali, costituisce ragionevole esercizio di discrezionalita’
legislativa, tenuto conto della specialita’ dell’interesse offeso,
nonche’ del carattere «minore» delle violazioni di cui si discute
(evidenziato anche dall’applicazione di una semplice sanzione
amministrativa al sotto di una certa soglia), rispetto a quelle
integrative del delitto di truffa;
che, alla luce di quanto precede, resta ovviamente esclusa
anche l’ipotizzata violazione dell’art. 10 Cost.; e cio’ a
prescindere da ogni possibile rilievo circa la pertinenza del
parametro evocato e dalla circostanza che la Convenzione sulla
protezione degli interessi finanziari delle Comunita’ europee non
imponeva agli Stati membri – come il giudice a quo sembra supporre –
un inasprimento delle sanzioni penali anteriormente previste per le
violazioni in parola, ma solo la comminatoria di sanzioni rispondenti
ai requisiti stabiliti all’art. 2 della Convenzione stessa: requisiti
il cui rispetto, da parte della legislazione nazionale, il rimettente
non pone affatto in discussione;
che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente
infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la manifesta infondatezza della questione di
legittimita’ costituzionale dell’art. 316-ter del codice penale,
sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 10 della Costituzione, dalla
Corte di appello di Milano con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l’8 marzo 2004.
Il Presidente: Zagrebelsky
Il redattore: Flick
Il cancelliere:Di Paola
Depositata in cancelleria il 12 marzo 2004.
Il direttore della cancelleria:Di Paola
04C0347