Penale

Tuesday 23 March 2004

Per la Corte Costituzionale è giusto che chi truffa lo Stato sia punito pià severamente rispetto a chi truffa il privato. N. 95 ORDINANZA 8 – 12 marzo 2004.

Per la Corte Costituzionale è giusto che chi truffa lo Stato sia punito più severamente rispetto a chi truffa il privato

N.  95 ORDINANZA 8 – 12 marzo 2004.

  Giudizio di legittimita’ costituzionale in via incidentale. Reati e pene – Erogazioni pubbliche – Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato – Trattamento sanzionatorio – Prospettata irrazionalita’ di disciplina, per disparita’ di trattamento rispetto al reato comune di truffa in danno di un soggetto privato – Manifesta infondatezza della questione. – Cod. pen., art. 316-ter. – Costituzione, artt. 3 e 10. (GU n. 11 del 17-3-2004) 

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

  Presidente: Gustavo ZAGREBELSKY;

  Giudici:  Valerio  ONIDA,  Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido

NEPPI  MODONA,  Piero  Alberto CAPOTOSTI, Franco BILE, Giovanni Maria

FLICK,  Ugo  DE  SIERVO,  Romano  VACCARELLA,  Paolo MADDALENA, Alfio

FINOCCHIARO;

ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di  legittimita’  costituzionale dell’art. 316-ter del

codice  penale,  promosso  con  ordinanza  del 25 novembre 2002 dalla

Corte  di appello di Milano nel procedimento penale a carico di M.T.,

iscritta  al  n. 135  del  registro ordinanze 2003 e pubblicata nella

Gazzetta   Ufficiale  della  Repubblica  n. 13,  1ª  serie  speciale,

dell’anno 2003.

    Visto  l’atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei

ministri;

    Udito  nella  camera  di consiglio del 21 gennaio 2004 il giudice

relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto  che  con l’ordinanza in epigrafe la Corte di appello di

Milano   ha  sollevato,  in  riferimento  agli  artt. 3  e  10  della

Costituzione,      questione     di     legittimita’    costituzionale

dell’art. 316-ter del codice penale, aggiunto dall’art. 4 della legge

29 settembre  2000,  n. 300 (Ratifica ed esecuzione dei seguenti Atti

internazionali   elaborati   in  base  all’art.  K.  3  del  Trattato

sull’Unione   europea:   Convenzione  sulla  tutela  degli  interessi

finanziari  delle  Comunita’  europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio

1995,  del suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996,

del Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da

parte  della  Corte  di  giustizia  delle Comunita’ europee, di detta

Convenzione,   con   annessa  dichiarazione,  fatto  a  Bruxelles  il

29 novembre  1996,  nonche’  della  Convenzione  relativa  alla lotta

contro  la  corruzione  nella  quale  sono coinvolti funzionari delle

Comunita’  europee  o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a

Bruxelles il 26 maggio 1997 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla

corruzione   di   pubblici   ufficiali   stranieri  nelle  operazioni

economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre

1997.  Delega  al  Governo  per  la  disciplina della responsabilita’

amministrativa  delle  persone  giuridiche  e  degli  enti  privi  di

personalita’  giuridica), che – sotto la rubrica «indebita percezione

di  erogazioni  a  danno dello Stato» – punisce, con la reclusione da

sei mesi a tre anni, «chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione

di  dichiarazioni  o  di  documenti falsi o attestanti cose non vere,

ovvero   mediante   l’omissione   di  informazioni  dovute,  consegue

indebitamente,  per se’ o per altri, contributi, finanziamenti, mutui

agevolati  o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate,

concessi  o  erogati  dallo  Stato,  da  altri  enti pubblici o dalle

Comunita’  europee»;  prevedendo,  altresi’,  l’applicazione  di  una

semplice   sanzione   amministrativa   pecuniaria   quando  la  somma

indebitamente  percepita  e’  pari  o  inferiore  ad  un  determinato

importo;

        che  il  giudice a quo premette di essere investito, in grado

di appello, del processo penale nei confronti di persona imputata del

reato   di  truffa  aggravata  per  il  conseguimento  di  erogazioni

pubbliche,  di cui all’art. 640-bis cod. pen. (oltre che di quello di

cui  all’art. 483  cod.  pen.),  per aver conseguito dall’Universita’

degli studi di Milano, negli anni 1995 e 1996, benefici ed erogazioni

(in  particolare  un  «tesserino  mensa»  ed  una borsa di studio) di

entita’  maggiore rispetto a quella ad essa effettivamente spettante,

tramite  «artifizi» consistiti in false attestazioni circa la propria

situazione  patrimoniale  e  reddituale: reato per il quale era stata

pronunciata,   in   primo   grado,  sentenza  di  condanna  appellata

dall’imputato;

        che,  ad  avviso  del rimettente, il fatto per cui si procede

rientrerebbe attualmente nella previsione del nuovo art. 316-ter cod.

pen.:  donde la necessita’ di stabilire quale rapporto intercorra tra

tale  previsione  sanzionatoria  e  la  norma  incriminatrice  di cui

all’art. 640-bis cod. pen., oggetto dell’imputazione;

        che,  secondo  il  giudice  a quo, la «formale sussidiarieta»

dell’art. 316-ter  rispetto  all’art. 640-bis  cod. pen. – risultante

dalla  clausola di riserva con cui la prima norma si apre («salvo che

il  fatto  costituisca il reato previsto dall’articolo 640-bis») – si

scontrerebbe  con  la «secolare tradizione interpretativa» per cui il

falso,  nelle  sue  diverse manifestazioni (comprese quelle descritte

nell’art. 316-ter),  rappresenta  la  forma  piu’  comune e tipica di

estrinsecazione  degli  «artifizi o raggiri», costitutivi del delitto

di truffa;

        che a fronte di tale «insanabile contraddizione» tra «formale

sussidiarieta»  e  «sostanziale specialita» della norma impugnata, la

giurisprudenza  di  legittimita’ si sarebbe indotta – onde ritagliare

uno   spazio   operativo  alla  nuova  figura  criminosa,  altrimenti

condannata   all’«ineffettivita»  –  a  restringere  il  tradizionale

concetto di «artifizi o raggiri», escludendo che le condotte indicate

nell’art. 316-ter cod. pen. rientrino in esso;

        che  alla  stregua di tale orientamento, peraltro, l’imputato

nel  giudizio  a quo dovrebbe essere assolto, dato che il fatto a lui

ascritto  non  risulterebbe  punibile  ne’ ai sensi dell’art. 640-bis

cod.  pen.,  per assenza – in tesi – dell’artifizio o raggiro; ne’ in

base  all’art. 316-ter  cod.  pen.,  trattandosi di fatto commesso in

data anteriore a quella di entrata in vigore di tale norma;

        che  a  parere  del rimettente, tuttavia, l’art. 316-ter cod.

pen.  violerebbe  l’art. 10  Cost., in quanto la nuova disposizione –

introdotta  al  dichiarato scopo di rafforzare la tutela penale degli

interessi  finanziari  delle  Comunita’  europee,  in  attuazione  di

specifici  obblighi  internazionali  –  avrebbe prodotto il risultato

esattamente   opposto,   facendo   si’  che  condotte  in  precedenza

pacificamente    integrative    dell’ipotesi    criminosa    di   cui

all’art. 640-bis  cod. pen. beneficino oggi del piu’ mite trattamento

sanzionatorio prefigurato dalla norma impugnata;

        che  inoltre – essendo la fattispecie di cui all’art. 640-bis

cod.  pen.  uno  «sviluppo»  della  «figura  base di truffa» prevista

dall’art. 640  cod.  pen., tanto da essere considerata quale semplice

circostanza  aggravante  di tale reato – occorrerebbe chiedersi se il

concetto  piu’  ristretto  di  «artifizio  o  raggiro»,  elaborato  a

proposito  dell’art. 640-bis  cod. pen., valga anche in rapporto alla

figura generale di cui all’art. 640 cod. pen;

        che peraltro, qualunque risposta si dia a tale interrogativo,

si  avrebbe  una  «palese irrazionalita’ di disciplina», atta a porre

l’art. 316-ter cod. pen. in contrasto con l’art. 3 Cost.;

        che,  in  particolare, ove si ritenga che l’anzidetta nozione

ristretta  di  «artifizio  o raggiro» non si estende alla fattispecie

«comune» di truffa di cui all’art. 640 cod. pen., si profilerebbe una

ingiustificata  disparita’  di  trattamento  della truffa in danno di

ente pubblico o comunitario rispetto a quella commessa in danno di un

soggetto  privato:  chi  ottiene  erogazioni  da  un privato mediante

documenti   falsi,   difatti,  sarebbe  comunque  punibile  ai  sensi

dell’art. 640 cod. pen. (al pari di chi, allo stesso fine, si avvalga

di  altri  artifizi  o raggiri); mentre nel caso dell’ente pubblico o

comunitario, detta tipologia di condotta costituirebbe «il discrimine

per   un   rilevante   mutamento   della  sanzione»,  che  diverrebbe

addirittura  solo  amministrativa  nei casi piu’ lievi (art. 316-ter,

secondo comma, cod. pen.);

        che ove si ritenga, invece, che il concetto piu’ ristretto di

«artifizio  o  raggiro»  vale anche per la truffa comune – soluzione,

peraltro,  priva  di  qualsiasi  riscontro nel «diritto vivente» – si

determinerebbe  una  disparita’  di  trattamento di segno opposto: in

danno, cioe’, dell’offeso «privato»;

        che  in  quest’ultima  prospettiva,  difatti, si accorderebbe

agli  enti  pubblici e comunitari una tutela penale (quella contro le

frodi  commesse mediante utilizzazione di falsa documentazione) della

quale  sarebbero  – in tesi – completamente privi i soggetti privati:

assetto,  questo, inaccettabile sul piano costituzionale, in quanto –

a  fronte di fatti identicamente lesivi della sfera patrimoniale – la

natura   pubblica   o   privata   della   persona   offesa   potrebbe

ragionevolmente  influire  solo sulla misura della pena, ma non sulla

stessa liceita’ penale della condotta;

        che  nel  giudizio  di  costituzionalita’  e’  intervenuto il

Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso

dall’Avvocatura  generale  dello  Stato,  il  quale ha chiesto che la

questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

    Considerato   che   i   dubbi   di   legittimita’  costituzionale

dell’art. 316-ter   cod.  pen.,  formulati  dalla  Corte  di  appello

rimettente,  risultano  sostanzialmente  coincidenti  –  quanto  alla

premessa  fondante  – con quelli in passato sollevati, in riferimento

al  solo  art. 3  Cost.,  riguardo  alla  previsione  punitiva di cui

all’art. 2  della  legge  23 dicembre  1986,  n. 898  (Conversione in

legge,  con modificazioni, del decreto-legge 27 ottobre 1986, n. 701,

recante  misure  urgenti  in materia controlli degli aiuti comunitari

alla  produzione dell’olio di oliva. Sanzioni amministrative e penali

in  materia  di  aiuti  comunitari nel settore agricolo): norma che –

punendo  con  la  reclusione  da  sei  mesi  a tre anni chi, mediante

esposizione   di   dati   o  notizie  falsi,  consegue  indebitamente

contributi  a  carico  del  Fondo  europeo agricolo di orientamento e

garanzia  (FEOGA),  salva  l’applicazione  di  una  semplice sanzione

amministrativa  pecuniaria  ove  la somma indebitamente percepita non

ecceda  un  determinato  importo –  e’ del tutto omologa, per ratio e

struttura, a quella oggi sottoposta a scrutinio;

        che  il citato art. 2 della legge n. 898 del 1986 era infatti

finalizzato  –  secondo  quanto  si  affermava  nella  relazione alla

proposta  di legge e come emergeva, altresi’, dai lavori parlamentari

–  a  rafforzare  la  tutela  penale  delle  sovvenzioni comunitarie,

evitando,  in  specie,  che  potesse  rimanere impunito chi ottenesse

indebite  erogazioni dal FEOGA mediante la mera esposizione di dati o

notizie  falsi:  e  cio’ a fronte della «constatata riluttanza, nella

pratica  amministrativa  ed  in  quella giudiziaria», a far rientrare

detta condotta nel paradigma degli «artifizi o raggiri», richiesti ai

fini   della   configurabilita’   del   delitto  di  truffa,  di  cui

all’art. 640  cod.  pen.  (cfr.  sentenza  di  questa Corte n. 25 del

1994);

        che   la   funzione   sussidiaria  che,  nell’intenzione  del

legislatore,  la fattispecie era destinata ad assolvere rispetto alla

truffa  – e, poi, rispetto alla truffa aggravata per il conseguimento

di  erogazioni  a  carico  dello  Stato,  di  enti  pubblici   o delle

Comunita’ europee, di cui all’art. 640-bis cod. pen., successivamente

introdotto  dall’art. 2  della  legge  19 marzo  1990,  n. 55  (Nuove

disposizioni  per  la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e

di altre gravi forme di manifestazione della pericolosita’ sociale) –

venne   tuttavia  negata  da  una  parte  della  giurisprudenza,  che

qualifico’,  viceversa,  l’art. 2  della  legge  n. 898 del 1986 come

norma  speciale – e dunque prevalente, nel caso di concorso apparente

– rispetto a quelle del codice penale;

        che tale tesi si fondava, in specie, sul rilievo che, secondo

un  risalente  indirizzo  giurisprudenziale, la sola menzogna sarebbe

stata  gia’  di per se’ sufficiente, in via generale, ad integrare il

concetto   di   «artifizi   o  raggiri»,  onde  il  fatto  sanzionato

dall’art. 2  della legge n. 898 del 1986 sarebbe rientrato pleno iure

nel   perimetro   applicativo   dell’art. 640   cod.   pen.   (e  poi

dell’art. 640-bis  cod.  pen.),  se  non fosse stato per gli elementi

specializzanti  costituiti  dalla specificita’ del soggetto passivo e

dalla  natura  del profitto conseguito dall’agente: prospettiva nella

quale, peraltro, la norma de qua – con eterogenesi dei fini – avrebbe

di  fatto determinato un indebolimento della tutela delle sovvenzioni

comunitarie,  riservando,  in  pratica,  un trattamento sanzionatorio

piu’  mite  – tenuto  conto  dei  livelli delle pene edittali e della

prevista   degradazione   della   violazione    in  semplice  illecito

amministrativo,  al  di  sotto  di  un  determinato importo – a fatti

altrimenti  soggetti  alla piu’ severa sanzione comminata dalle norme

del codice penale;

        che  il  legislatore  ritenne,  quindi,  di dover sconfessare

apertamente tale interpretazione, aggiungendo in apertura dell’art. 2

della  legge  n. 898 del 1986 – con l’art. 73 della legge 19 febbraio

1992,  n. 142  (Disposizioni  per l’adempimento di obblighi derivanti

dall’appartenenza   dell’Italia   alle   Comunita’   europee.   Legge

comunitaria  per  il 1991) – una clausola di sussidiarieta’ espressa,

volta  ad escludere l’operativita’ della previsione punitiva nel caso

di  configurabilita’  del  delitto  di cui all’art. 640-bis cod. pen.

(«ove   il   fatto   non   configuri  il  piu’  grave  reato  previsto

dall’art. 640-bis del codice penale …»);

        che  –  sul  presupposto  che l’art. 2 della legge n. 898 del

1986  si  ponesse  comunque  in rapporto di specialita’ rispetto agli

artt. 640 e 640-bis cod. pen., con il conseguente irrazionale effetto

sopra  evidenziato  –  la  norma  venne  sottoposta  a  scrutinio  di

costituzionalita’  per contrasto con l’art. 3 Cost.: questione che la

Corte  dichiaro’ tuttavia infondata, rilevando come – alla luce della

inequivoca  ratio  della  disposizione  impugnata  e  del  successivo

intervento  del  legislatore  del 1992 – la disposizione stessa fosse

destinata  ad  operare  esclusivamente negli spazi non gia’ «coperti»

dalle  citate  norme  del  codice  (cfr.  sentenza  n. 25  del 1994 e

ordinanza n. 433 del 1998);

        che  l’odierno  giudice  a quo pone, analogamente, a base dei

propri  dubbi  di  legittimita’ costituzionale del nuovo art. 316-ter

cod.  pen.  l’assunto  per cui la norma denunciata avrebbe in pratica

assicurato  un  trattamento  sanzionatorio piu’ favorevole a fatti di

indebita  percezione  di  contributi  a  danno  dello  Stato, di enti

pubblici  o  delle  Comunita’  europee:  fatti  che  –  al lume della

«tradizionale»  lettura giurisprudenziale del concetto di «artifizi o

raggiri»  –  ricadrebbero  «pacificamente» nella sfera punitiva della

truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di cui

all’art. 640-bis cod. pen.;

        che   anche  in  questo  caso  va peraltro osservato, in senso

contrario,    che    il    carattere    sussidiario   e   «residuale»

dell’art. 316-ter  cod.  pen. rispetto all’art. 640-bis cod. pen. – a

fronte  del  quale  la  prima norma e’ destinata a colpire unicamente

fatti  che  non  rientrino  nel campo di operativita’ della seconda –

costituisce un dato normativo assolutamente inequivoco;

        che la chiara lettera della disposizione impugnata – la quale

esordisce  anch’essa  con  una clausola di salvezza dell’art. 640-bis

cod.  pen.  –  si  coniuga  infatti puntualmente sia con la finalita’

generale   del   provvedimento   legislativo  che  ha  introdotto  la

disposizione   stessa,   sia  con  l’obiettivo  specifico  della  sua

introduzione;

        che, quanto al primo profilo, l’art. 316-ter e’ stato infatti

inserito nel codice penale dalla legge 29 settembre 2000, n. 300, nel

quadro  delle  misure  di  adeguamento dell’ordinamento italiano agli

obblighi  derivanti  dalla  Convenzione  sulla tutela degli interessi

finanziari  delle  Comunita’  europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio

1995:  Convenzione il cui art. 2 imponeva agli Stati membri di punire

le frodi lesive dei predetti interessi – quali definite dall’art. 1 –

con   sanzioni   penali   «effettive,  proporzionate  e  dissuasive»,

comprensive,  almeno  nei  casi  di  «frode grave», di pene privative

della liberta’ personale che possano comportare l’estradizione; salva

la  facolta’  di stabilire sanzioni di natura non penale per le frodi

«di  lieve  entita»,  riguardanti un importo totale inferiore a 4.000

ecu;

        che   la   norma   censurata   non   era   peraltro  prevista

dall’originario  disegno  di  legge  governativo  di  ratifica  della

suddetta Convenzione, nella convinzione – esplicitata nella relazione

–  che  l’art. 640-bis  cod. pen. fosse gia’ sufficiente a soddisfare

gli  obblighi  comunitari in parola, segnatamente per quanto atteneva

alle  frodi «in materia di spese», delineate dall’art. 1, lettera a),

primo e secondo trattino, dello strumento;

        che  nel corso dei lavori parlamentari, e’ emersa tuttavia la

preoccupazione  che  talune  delle  fattispecie di frode identificate

dalla  Convenzione  – le quali comprendevano non soltanto condotte di

falso in senso lato («utilizzo o … presentazione di dichiarazioni o

di  documenti  falsi,  inesatti  o  incompleti»),  ma  anche  di mero

silenzio  antidoveroso  («mancata comunicazione di un’informazione in

violazione di un obbligo specifico»), senza che al tempo stesso fosse

previsto  il requisito dell’induzione in errore del soggetto passivo,

caratterizzante  il paradigma della truffa – potessero in realta’ non

rientrare  nella  sfera  di operativita’ del citato art. 640-bis cod.

pen.;

        che onde evitare una eventuale inadempienza, per tal aspetto,

agli  obblighi  comunitari  –  scartata l’idea iniziale di aggiungere

all’art. 640-bis  cod.  pen.  un  ulteriore  comma,  che riconducesse

espressamente  alla  fattispecie  della  truffa aggravata le condotte

descritte  nella  Convenzione  –  si  e’  optato  per la soluzione di

coniare  una  nuova  disposizione  sanzionatoria  –  quella, appunto,

dell’art. 316-ter  cod.  pen.  –  modellata (anche per quanto attiene

alla  preliminare  clausola  di salvezza dell’art. 640-bis cod. pen.)

sulla  falsariga  dell’art. 2  della  legge  n. 898  del  1986, e che

riproduce  quasi alla lettera, quanto alla descrizione della condotta

sanzionata,  la  formula  dell’art. 1 della Convenzione: disposizione

che   –   nel   comminare  sanzioni  piu’  miti  di  quelle  previste

dall’art. 640-bis  cod.  pen. – e’ peraltro eloquentemente indicativa

dell’intento  legislativo  di  reprimere,  con  essa, fatti di minore

gravita’,  sul  piano  del  disvalore  di condotta, rispetto a quelli

attinti dalla norma principale;

        che  appare  dunque  evidente  –  alla  luce  tanto  del dato

normativo,  quanto  della ratio legis – come l’art. 316-ter cod. pen.

sia volto ad assicurare agli interessi da esso considerati una tutela

aggiuntiva   e   «complementare»   rispetto  a  quella  gia’  offerta

dall’art. 640-bis  cod.  pen.,  «coprendo»,  in specie, gli eventuali

margini  di  scostamento – per difetto – del paradigma punitivo della

truffa  rispetto  alla fattispecie della frode «in materia di spese»,

quale   delineata  dall’art. 1  della  Convenzione:  margini  la  cui

concreta  entita’  –  correlata  alle piu’ o meno ampie «capacita’ di

presa»  che  si  riconoscano al delitto di truffa, avuto riguardo sia

all’elemento   degli   «artifizi   o  raggiri»,  in  qualunque  forma

realizzati,  sia  al  requisito  dell’induzione  in  errore  – spetta

all’interprete  identificare, ma sempre nel rispetto della inequivoca

vocazione sussidiaria della norma oggi sottoposta a scrutinio;

        che,   in   altre   parole,  rientra  nell’ordinario  compito

interpretativo del giudice accertare, in concreto, se una determinata

condotta   formalmente   rispondente   alla   fattispecie   delineata

dall’art. 316-ter   cod.  pen.  integri  anche  la  figura  descritta

dall’art. 640-bis  cod. pen., facendo applicazione, in tal caso, solo

di quest’ultima previsione punitiva;

        che  – nella prospettiva della natura meramente sussidiaria e

residuale della norma impugnata – e’ ben vero che l’art. 316-ter cod.

pen.  si  presta, nell’intenzione del legislatore, a reprimere taluni

comportamenti  che, se posti in essere in danno di soggetti privati –

o  anche  di  soggetti  pubblici, quando non si discuta dell’indebita

erogazione  di sovvenzioni – restano privi di sanzione: ma cio’ senza

che  ne  derivi  affatto  la  lesione dell’art. 3 Cost. ventilata dal

rimettente,  posto  che  –  come  correttamente  osserva l’Avvocatura

generale dello Stato – la previsione di una tutela penale rafforzata,

anche  quanto  ad  ampiezza,  delle  finanze  pubbliche e comunitarie

contro  le  frodi,  rispetto  alla  generalita’ degli altri interessi

patrimoniali,  costituisce  ragionevole esercizio di discrezionalita’

legislativa,  tenuto  conto  della specialita’ dell’interesse offeso,

nonche’  del  carattere  «minore»  delle violazioni di cui si discute

(evidenziato   anche   dall’applicazione  di  una  semplice  sanzione

amministrativa  al  sotto  di  una  certa  soglia), rispetto a quelle

integrative del delitto di truffa;

        che,  alla  luce  di quanto precede, resta ovviamente esclusa

anche   l’ipotizzata   violazione   dell’art. 10   Cost.;  e  cio’  a

prescindere  da  ogni  possibile  rilievo  circa  la  pertinenza  del

parametro  evocato  e  dalla  circostanza  che  la  Convenzione sulla

protezione  degli  interessi  finanziari  delle Comunita’ europee non

imponeva  agli Stati membri – come il giudice a quo sembra supporre –

un  inasprimento  delle sanzioni penali anteriormente previste per le

violazioni in parola, ma solo la comminatoria di sanzioni rispondenti

ai requisiti stabiliti all’art. 2 della Convenzione stessa: requisiti

il cui rispetto, da parte della legislazione nazionale, il rimettente

non pone affatto in discussione;

        che  la  questione  va  dichiarata,  pertanto, manifestamente

infondata.

    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,

n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi

davanti alla Corte costituzionale.

                                    Per questi motivi

                       LA CORTE COSTITUZIONALE

    Dichiara   la   manifesta   infondatezza   della   questione   di

legittimita’  costituzionale  dell’art. 316-ter  del  codice  penale,

sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 10 della Costituzione, dalla

Corte di appello di Milano con l’ordinanza indicata in epigrafe.

    Cosi’  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,

Palazzo della Consulta, l’8 marzo 2004.

                     Il Presidente: Zagrebelsky

                         Il redattore: Flick

                       Il cancelliere:Di Paola

    Depositata in cancelleria il 12 marzo 2004.

               Il direttore della cancelleria:Di Paola

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