Penale

Tuesday 09 September 2003

L’etichetta dell’ acqua minerale può essere un po’ bugiardino senza che il produttore incorra in reato

Cassazione – Sezione terza penale (cc) – sentenza 6 giugno-6 agosto 2003, n. 33303 Presidente Vitalone – relatore Franco Pm Albano – ricorrente Traficante Svolgimento del processo I carabinieri del Nas di Bari sottoposero ad analisi il 21 ottobre 2002 un campione di acqua minerale oligominerale “Lilia”, prodotta dalla “Sorgente Traficante srl”. Dalle analisi emersero alcune difformità, espresse in microgrammi, fra le concentrazioni di rame, zinco e selenio rinvenute rispetto a quelle indicate sull’etichetta delle bottiglie, nonché un concentrato di vanadio e di arsenico diverso da quello previsto per l’acqua potabile dal decreto legislativo 31/2001. Sulla base di questi risultati, il Pm presso il Tribunale di bari, con decreto del 13 dicembre 2002 dispose il sequestro probatorio sull’intero territorio nazionale di tutte le bottiglie di acqua minerale “Lilia” da due litri appartenenti al lotto L2.247.02:04B avendo ravvisati gli estremi dei reati di commercio di sostanze alimentari nocive (articolo 444 Cp), di frode in commercio (articolo 515 Cp) e di vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine (articolo 516 Cp). Il tribunale del riesame di Bari, con ordinanza del 3 gennaio 2003, rilevò, tra l’altro, che il decreto legislativo 31/2001 non era applicabile alle acque minerali oligonaturali e che comunque mancava qualsiasi prova della nocività o pericolosità dell’acqua in questione, ed escluse quindi che sussistesse il fumus del reato di cui all’articolo 444 Cp. Ritenne invece che fosse ravvisabile il fumus dei reati di cui agli articoli 515 e 516 Cp e quindi, dopo aver ribadito che nella specie si trattava di sequestro probatorio e non preventivo e dopo avere rigettato le altre eccezioni sollevate dall’indagata, confermò il sequestro probatorio in relazione a questi due reati. Traficante Aurelia propone ricorso per cassazione deducendo: a) violazione dell’articolo 606, primo comma lettera b) Cp in relazione all’articolo 223 disp att. Cpp. Osserva che ai sensi sia dell’articolo 1 legge 283/62, sia dell’articolo 223 disp. att. Cpp, il parametro irrinunciabile a cui ancorare la legittimità del sequestro operato è la revisione delle analisi, non essendo legittimo un provvedimento ablatorio giustificato solo da un primo ed incerto esito analitico, e quindi in sostanza da una mera congettura. Nella specie, poi, si tratta di valori espressi in parti per milione o addirittura per miliardo, con conseguente inevitabile incertezza analistica ed esigenza del riscontro previsto dal legislatore con la revisione delle analisi con le garanzie difensive. Nella specie, quindi, non solo si è disposto il sequestro sulla base di una mera congettura, ma vi è stata una violazione delle citate disposizioni normative, che debbono obbligatoriamente trovare applicazione anche in caso di sequestro probatorio. Ha perciò errato il tribunale del riesame quando ha affermato che non vi è una norma specifica che vieti espressamente il sequestro prima della revisione, perché tale norma c’è ed è posta in via generale e di principio dalle due citate disposizioni, che devono trovare applicazione in tutti i casi in cui non sia espressamente prevista una deroga, ed in tutto l’arco del procedimento penale, sin dal momento in cui viene effettuato un prelievo di campione in sostanza, poiché la legge attribuisce espressamente all’interessato il diritto di chiedere la revisione, in ipotesi di analisi ripetibili, un sequestro probatorio che preceda la revisione e si basi solo sulle prime analisi è sicuramente illegittimo, in quanto emesso in assenza del fumus delicti. b) Violazione dell’articolo 606, primo comma, lettera b), Cpp in relazione all’articolo 1 legge 283/62. Lamenta che l’ordinanza impugnata erroneamente non ha applicato il principio di specialità. Ed infatti, nel caso in oggetto, devono prevalere, in quanto speciali, le previsioni normative contenute nella legge 283/62, ed in particolare nell’articolo 1, il quale dispone che la difformità del campione prelevato rispetto ai requisiti per esso determinati vada resa nota alla autorità giudiziaria soltanto dopo che si sia proceduto alle analisi di revisione, salvo che si sia in presenza di una frode tossica (circostanza questa non sussistente nella specie). Anche tale disposizione conferma chiaramente la impossibilità che la sola prima analisi possa attivare misure aleatorie nei confronti del prodotto, e lo stesso principio, del resto, si ricava anche dall’articolo 223 disp. att. Cpp. Il sequestro probatorio è stato pertanto nella specie disposto in violazione dell’articolo 1 legge 283/62. c) Violazione dell’articolo 606, primo comma, lettera b) Cpp in relazione agli articoli 353 e 321 Cpp. Ricorda che nella specie il sequestro probatorio è stato esteso all’intero territorio nazionale ed all’intero lotto al quale appartiene il campione. Ora, per lotto si intende un complesso di prodotti tra loro omogenei e l’attività di vigilanza sui prodotti alimentari si svolge necessariamente e per legge con accertamenti a campione. Quindi, solo a fronte dell’accertata irregolarità del campione analizzato può essere eventualmente disposto il sequestro preventivo dell’intero blocco ai sensi dell’articolo 321 Cpp. È perciò evidente che un provvedimento di sequestro riguardante l’intero lotto non può che essere preventivo, ai sensi dell’articolo 321 Cpp ma non mai probatorio. La motivazione sul punto del tribunale del riesame il quale ha fatto notare che il sequestro ha riguardato non tutte le bottiglie dell’acqua minerale Lilia diffuse sul territorio nazionale ma solo quelle facenti parte del lotto in questione – è inconferente, dal momento che, poiché il sequestro probatorio è diretto a consentire di acquisire il corpo del reato o cose pertinenti al reato, non era rilevante che oggetto del sequestro fosse un numero rilevante di res, ben bastandone una sola. Nella specie, trattandosi di campioni di acqua minerale, era sufficiente, ai fini probatori, l’acquisizione di 15 litri, come previsto in tema di prelievo delle acque minerali. Una estensione del sequestro a tutto il territorio nazionale ed all’intero lotto ha violato lo scopo e le finalità del sequestro probatorio, dal momento che indubbiamente non possono considerarsi corpo di reato oggetti non ancora sottoposti ad analisi. Ed è palesemente illogica ed illegittima l’affermazione secondo cui l’estensione del sequestro all’intero lotto sarebbe giustificata dalla necessità di procedere ad ulteriori analisi ed accertamenti sulle altre bottiglie del lotto, in quanto la procedura normativamente dettata (articolo 16 Dpr 327/80) per l’espletamento del campionamento prevede il prelevamento di sole cinque aliquote del prodotto interessato, le quali, evidentemente, sono pienamente sufficienti a soddisfare le necessità connesse agli accertamenti da esperire. Il provvedimento di sequestro difetta pertanto delle caratteristiche di necessità, e quindi di legittimità. d) Violazione dell’articolo 606, primo comma, lettera b) Cpp in relazione agli articoli 515 e 516 Cp. Osserva preliminarmente che per valutare la sussistenza del fumus di questi due reati occorre fare riferimento alle previsioni normative del decreto legislativo 105/92, il quale, all’articolo 11, punto 6, stabilisce che le analisi concernenti la composizione delle acque minerali vanno effettuate almeno ogni cinque anni. È infatti noto che le acque minerali sono soggette a mutazioni della loro composizione e proprio per questo l’analisi riportate in etichetta reca l’indicazione della data di effettuazione. Di conseguenza il consumatore è in grado di collocare cronologicamente l’apprezzamento analistico. Proprio perché le acque minerali sono soggette a variazioni della composizione, è evidente la assoluta relatività e non tassatività dei valori riportati in analisi, che hanno valore meramente esemplificativo e di supporto delle indicazioni qualitative concernenti la naturalità e la purezza microbiologica dell’acqua. d1) In particolare, in relazione all’articolo 515 Cp osserva che nella specie potrebbe venire in rilievo il requisito della qualità, che però identifica una qualità essenziale, ossia non marginale, del prodotto. Nel caso in esame vi sarebbe stata una pretesa difformità tra le indicazioni analitiche riportate nell’etichetta e le risultanze delle analisi. In realtà, il riferimento all’articolo 11 decreto legislativo 105/92 consente di dedurre la totale relatività di simile indicazione, che quindi non può assurgere a valenza di dichiarazione o pattuizione con valore vincolante, quale richiesta dall’articolo 515 Cp, proprio perché le acque minerali sono per loro natura suscettibili di variazione nella loro composizione. È pertanto evidente che i parametri analitici indicati in etichetta non possono essere ricondotti al concetto di qualità cui fa riferimento l’articolo 515 Cp. Manca perciò il fumus del reato di cui all’articolo 515 Cp. d2) In particolare, in relazione all’articolo 516 Cp osserva che tale reato si concretizza nella mancanza del requisito della genuinità delle sostanze alimentari e che la genuinità non può che essere il rispetto della originalità del prodotto. Nella specie, la presunta non conformità alle risultanze analitiche indicate in etichetta non può legittimare la sussistenza del fumus del reato ipotizzato. Infatti, l’analisi riportata in etichetta, proprio per la sua relatività dovuta alla non con testualità con il prodotto imbottigliato, non può costituire parametro di riferimento per l’individuazione della genuinità del prodotto. Ciò anche perché le acque minerali è vietato attuare qualsiasi trattamento diverso da quello previsto dal decreto legislativo 105/92, sicché se l’imbottigliatore intervenisse sull’acqua per modificarne i parametri, si violerebbe il decreto legislativo 105/92 e il prodotto non potrebbe essere più acqua minerale. Non potendo quindi in alcun modo i dati riportati in etichetta assurgere ad elemento individualizzante la genuinità del prodotto, la loro eventuale differenza con i dati analitici del campione non può sicuramente integrare il fumus del reato ipotizzato. Motivi della decisione Deve preliminarmente mettersi in rilievo che nel caso di specie si tratta di sequestro probatorio e non di sequestro preventivo. Il Pm di Bari, infatti, con proprio decreto del 13 dicembre 2002 ha disposto direttamente il sequestro probatorio ai sensi degli articoli 253 e 259 Cpp delle bottiglie di acqua minerale in questione ed ha poi chiarito, nella memoria depositata dinanzi al tribunale del riesame il 3 gennaio 2003, che il sequestro non aveva finalità del lotto per la loro sottoposizione ad analisi e ad ulteriori accertamenti in relazione «a tutti i canali commerciali adottati dalla ditta “Lilia” e da chi la rappresenta». Il tribunale del riesame di Bari, pur essendo stato investito della relativa questione dalla ricorrente la quale aveva eccepito l’illegittimità del sequestro disposto direttamente dal Pm in quanto nella realtà si trattava di un sequestro preventivo e non probatorio, non perseguendo lo stesso la finalità propria di quest’ultimo di mettere a disposizione dell’autorità giudiziaria un elemento di prova, dato che il sequestro stesso era stato esteso a tutto il lotto ed a tutto il territorio nazionale – ha confermato che il sequestro in esame ha carattere probatorio, e ciò in considerazione della natura di corpo di reato del campione di acqua sottoposto ad analisi ed affetto da anomalie chimiche nonché dell’esigenza avvertita dal Pm di procedere ad ulteriori analisi ed accertamenti su bottiglie rientranti nel medesimo lotto. Il Tribunale di Bari ha quindi esplicitamente evidenziato che nel caso di specie si deve «escludere l’esistenza di una vera e propria finalità “preventiva”, intesa quale presupposto di operatività del sequestro disciplinato dall’articolo 321 Cpp, nel provvedimento impugnato» e deve invece ritenersi che il sequestro abbia carattere probatorio perché avente ad oggetto il corpo del reato e «l’obiettivo di consentire l’effettuazione di ulteriori analisi chimiche sull’intero lotto viziato». D’altra parte, se così non fosse, se cioè fosse stata in realtà ravvisabile una finalità preventiva e non meramente probatoria, il tribunale del riesame avrebbe dovuto dichiarare la illegittimità del sequestro in questione, essendo chiaramente illegittimo un sequestro avente finalità preventive che invece il Pm qualifiche come sequestro probatorio ed adotti con proprio decreto, dal momento che con tale inesatta qualificazione il Pm verrebbe illegittimamente ad espropriare il Gip della giurisdizione che l’articolo 321 Cpp gli riserva in tema di adozione di sequestro preventivo (cfr. sezione terza, 28 settembre 1995, Viola, m. 202.953). Pertanto, nell’esaminare i motivi di ricorso, questa Corte deve partire dal presupposto che il sequestro che viene in esame è un sequestro probatorio e non preventivo. Da ciò deriva innanzitutto che devono ritenersi infondati i primi due motivi di ricorso. L’articolo 223 disp. att. Cpp infatti regola il procedimento di analisi dei campioni e le garanzie per l’interessato, disponendo tra l’altro, che, qualora sia prevista, l’interessato può chiedere la revisione delle analisi e cha a tal fine lo stesso deve essere regolarmente avvisato sia in relazione alle prime analisi sia in relazione a quelle di revisione. L’articolo 1 della legge 283/62, poi, che detta specificamente la disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande, dispone, ai commi cinque e sei (quest’ultimo come sostituito dall’articolo 1 della legge 441/63) che le analisi di revisione vanno eseguite presso l’istituto superiore di sanità, entro il termine massimo di mesi due; che in caso di mancata tempestiva istanza di revisione, o di conferma dell’analisi di prima istanza, il medico o il veterinario provinciale devono trasmettere, entro 15 giorni, le denunce all’autorità giudiziaria; che le denunce devono essere trasmesse immediatamente qualora si tratti di frode tossica o comunque dannosa alla salute. Orbene, tali norme disciplinano, da un alto, il procedimento di revisione delle analisi con le relative garanzie che debbono essere riconosciute all’interessato e, dall’altro, le modalità ed i termini massimi entro i quali le autorità sanitarie debbono trasmettere le denunce alla autorità giudiziaria nell’ipotesi in cui siano ravvisabili ipotesi di reato. Le dette norme, però, come esattamente rilevato dal Tribunale di Bari, non impediscono affatto alla polizia giudiziaria di comunicare al Pm anche il risultato delle prime analisi così come non impediscono al Pm, qualora sia ravvisabile il fumus di un reato, di disporre – ancor prima delle analisi di revisione il sequestro probatorio dei campioni o di altri oggetti ritenuti necessari proprio al fine di compiere diverse e più approfondite analisi e o altri indispensabili accertamenti. Gli altri motivi sono invece fondati sotto molteplici profili. Innanzitutto, è fondato il motivo con il quale la ricorrente lamenta che, pur trattandosi di sequestro probatorio, lo stesso sia stato esteso all’intero lotto al quale appartiene il campione sottoposto alle analisi ed all’intero territorio nazionale, essendo giuridicamente erronee o manifestamente illogiche le motivazioni addotte dalla ordinanza impugnata per giustificare una siffatta estensione. Va preliminarmente ricordato che il sequestro è stato ritenuto legittimo dal giudice a quo esclusivamente in relazione ai reati di cui agli articoli 515 e 516 Cp e che esso fu disposto a seguito di un’ispezione compiuta dai carabinieri nel deposito all’ingrosso di alimenti del “Centro distribuzione Martino” sito in Giovinazzo, dove furono prelevati i campioni da sottoporre ad analisi. Non è però specificato, né nel decreto di sequestro probatorio, né nella memoria del Pm al tribunale del riesame, né nell’ordinanza impugnata a quale titolo giuridico il detto deposito all’ingrosso detenesse le bottiglie dell’acqua minerale “Lilia” prodotta dalla Sorgente Traficante srl. In particolare non è chiarito se il Centro distribuzione Martino avesse già acquistato le partite di acqua minerale della società Traficante per poi rivenderle in nome proprio ai singoli distributori e commercianti in tutta Italia o se tale Centro non fosse altro che un deposito appartenente o di pertinenza della società Traficante e se quindi le bottiglie di acqua minerale in questione non fossero state ancora consegnate ad un acquirente. Nemmeno è specificato, poi, se le bottiglie stesse fossero già state o meno messe in commercio. In altre parole, non è assolutamente chiaro né evidenziato dall’ordinanza impugnata se gli ipotizzati reati di cui agli articoli 515 e 516 Cp sarebbero già stati commessi nel momento in cui la società Traficante ha consegnato o trasportato le bottiglie di acqua minerale al Centro distribuzione Martino in tal modo immettendole altresì in commercio, ovvero se il decreto di sequestro probatorio e l’ordinanza impugnata abbiano invece inteso fare riferimento a reati di cui agli articoli 515 e 516 Cp che sarebbero stati commessi in futuro quando il Centro distribuzione Martino avesse rivenduto le bottiglie di acqua ad altri rivenditori all’ingrosso o al dettaglio ovvero nel momento in cui i singoli commercianti avessero consegnato le bottiglie agli acquirenti finali. L’ordinanza impugnata, infatti, non si pone affatto tale problema e si limita ad osservare che «la corrispondenza tra i valori chimici indicati in etichetta e quelli presenti nell’acqua minerale venduta al pubblico appaia, spesso, circostanza determinante ai fini delle operazioni di mercato del consumatore»; che «le caratteristiche chimiche delle acque minerali in vendita risultano idonee ad incidere sulla possibilità di scelta del prodotto da parte del consumatore finale», la cui possibilità di scelta invece «in un sistema di libero mercato, deve essere assolutamente libera», e che, anche in relazione all’articolo 516 Cp la diversità di composizione chimica dell’acqua rispetto a quella riportata in etichetta, apposta a garanzia della genuinità ed integrità del prodotto, è idoneo a «trarre in inganno il consumatore». Questi espliciti riferimenti fatti esclusivamente alla vendita al pubblico, alle opzioni ed alla libertà di scelta del consumatore, ed in particolare del consumatore finale, accompagnati dall’assoluta mancanza di motivazione circa la qualificazione dei rapporti giuridici e commerciali esistenti tra la società Traficante ed il Centro distribuzione Martino (nonché dall’estensione del sequestro all’intero lotto ed all’intero territorio nazionale), sembrerebbero quindi far ritenere che il tribunale del riesame abbia fatto riferimento, nell’ipotizzare il fumus dei reati di cui agli articoli 515 e 516 Cp, esclusivamente a reati che sarebbero stati commessi in futuro con la distribuzione dell’acqua ai dettaglianti ed ai consumatori finali, e non anche a reati già commessi e già perfettamente consumati con la consegna dell’acqua dalla società Traficante al deposito del Centro distribuzione Martino. In ogni modo, è evidente come l’ordinanza impugnata difetti totalmente di qualsiasi motivazione su questa circostanza, che invece costituisce un punto esenziale e decisivo al fine di valutare la legittimità del disposto sequestro probatorio, così come, del reato, manca qualsiasi motivazione anche circa l’esistenza del fumus di supposti reati che sarebbero già stati commessi e consumanti con la consegna dell’acqua nel deposito all’ingrosso. In primo luogo, invero, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, «presupposto del sequestro probatorio ex articolo 354 Cpp è la commissione di un reato, sia pure accertato in via incidentale nella sua astratta configurabilità, e non la mera intenzione di commetterlo. È quindi illegittimo il sequestro probatorio disposto e convalidato prima che il reato sia stato commesso, sul mero presupposto che l’agente avesse intenzione di commetterlo. In tal caso, infatti, sarebbero violate sia le norme degli articoli 354 e 355 Cpp, che prevedendo come oggetti sequestrabili un corpo di reato o cose pertinenti al reato, presuppongono necessariamente la commissione del rato, sia le norme dell’articolo 1 Cp e dell’articolo 25, secondo comma Costituzione, giacché il principio di legalità penale ivi statuito condiziona alla previsione tipica non solo la punibilità dell’agente, ma anche l’applicabilità delle misure processuali strumentali al giudizio penale. Prima della commissione del reato, l’ordinamento giuridico consente solo misure di prevenzione per soggetti pericolosi, non già l’acquisizione processuale di fonti di prova» (sezione terza, 17 luglio 1996, Terracina, m. 205724; 30 giugno 1993, Crispo, m. 195134). Pertanto, se, come sembrerebbe, l’ordinanza impugnata ha fatto riferimento esclusivamente a futuri reati che sarebbero stati commessi in danno dei consumatori finali, il sequestro probatorio sarebbe illegittimo per contrasto con il principio appena ricordato. Se invece l’ordinanza impugnata ha fatto riferimento a reati già commessi e perfezionati con la consegna al deposito all’ingrosso, allora la tessa è affetta da vizio di motivazione, mancando invero qualsiasi motivazione che si riferisca specificamente alla sussistenza del fumus di tali specifici reati (basta pensare che le considerazioni del consumatore finale con riferimento ai singoli dati riportati sull’etichetta potrebbero non essere valide in relazione ad un eventuale acquisto da parte del centro di distribuzione, sempre che acquisto vi sia effettivamente stato). In secondo luogo, la motivazione su quali fossero specificamente i reati in relazione ai quali è stato disposto il sequestro probatorio potrebbe avere rilevanza anche sotto un ulteriore profilo. Ed infatti, questa Suprema Corte, sia pure in passato e con riferimento a diversa fattispecie ed a norme che non trovano applicazione nel caso di specie, ha affermato il principio che «il precetto dell’articolo 44 comma 2, regio decreto legge 2033/25, conferisce all’autorità giudiziaria che procede per reati commessi nella rispettiva circoscrizione la facoltà di sequestrare la merce, sottoposta ad analisi e non risultante rispondente alle condizioni ed ai requisiti prescritti dalla legge 283/62. Sebbene la formulazione letterale della norma autorizzi l’adozione del sequestro della merce “ovunque si trovi”, dal coordinamento di tale disposizione con il sistema processuale, in base al quale nella suddetta materia è da escludersi l’ipotesi dell’efficacia territorialmente illimitata dal sequestro penale della merce sospetta, discende che il giudice può disporre detto sequestro ovunque la merce si trovi ma solo in rapporto al reato commesso nell’ambito della propria circoscrizione territoriale)» (sezione sesta, 5 aprile, Berti, m. 153064). Nel caso di specie, quindi – proprio perché il Pm ha ritenuto di disporre un sequestro probatorio e non preventivo, che avrebbe sicuramente escluso ogni dubbio sulla legittimità della sua estensione a tutto il territorio nazionale – appariva decisivo precisare in relazione a quali reati (se già commessi o solo futuri) il sequestro probatorio si riferisse, dal momento che se il sequestro si fosse riferito a reati commessi e consumanti nella circoscrizione del Tribunale di Bari (e fosse stata motivata l’esistenza del relativo fumus) era ben possibile un sequestro probatorio esteso all’intero territorio nazionale, mentre qualora, come sembrerebbe dal testo dell’ordinanza impugnata, il sequestro probatorio è stato disposto solo (anche) in relazione a reati che sarebbero stati commessi e consumati in altre circoscrizioni, anche a non voler ritenere applicabile nella specie il principio di cui alla massima testé riportata, sarebbe stato comunque necessario dare un’adeguata motivazione delle ragioni per cui il sequestro probatorio doveva essere esteso anche ad ipotetici e possibili reati che non sarebbero appartenuti alla competenza territoriale del Pm di Bari. L’ordinanza impugnata è inoltre viziata da carenza e manifesta illogicità di motivazione anche in ordine alla estensione del sequestro probatorio all’intero lotto ed all’intero territorio nazionale. Il tribunale del riesame si è limitato ad affermare in proposito che un siffatto sequestro probatorio sarebbe legittimo: a) in considerazione della natura di corpo di reato del campione d’acqua affetto da simili vizi; b) a causa dell’esigenza avvertita dal Pm di procedere ad ulteriori analisi ed accertamenti su bottiglie rientranti nello stesso lotto viziato. Orbene, circa la pretesa natura di corpo di reato, va in primo luogo rilevato che, come già osservato e come si osserverà anche in seguito, nella specie manca qualsiasi motivazione sulla sussistenza del fumus di uno o più reati già commessi e consumati, e di conseguenza manca anche qualsiasi motivazione sul fatto che le bottiglie di acqua appartenenti al medesimo lotto e diverse da quelle legittimamente trattenute per essere sottoposte alle analisi legislativamente previste costituissero corpo di reato. In secondo luogo, va comunque ricordato che, secondo la più recente giurisprudenza di questa Suprema Corte che si ritiene di dover seguire e ribadire, «in tema di motivazione del decreto di sequestro probatorio, anche in relazione alla cose che costituiscono corpo del reato occorre indicare la ragione della necessità del sequestro in funzione dell’“accertamento dei fatti”, come si ricava, in primo luogo, dalla “ratio” dell’articolo 253, comma primo, Cpp che se collega tale espressione al sequestro delle cose pertinenti al reato, non autorizza certo il sequestro del corpo di reato al di fuori di ogni finalità in indagine; in secondo luogo, dall’articolo 262 del medesimo codice, che prevede la restituzione delle cose sequestrate, tra cui anche quelle che costituiscono corpo del rato, quando “non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova”. A ritenere il contrario, si renderebbe possibile un’ablazione della cosa al di fuori della indicazione dei motivi di interesse pubblico, collegati all’accertamento dei fatti di reato, con lesione dell’articolo 42 Costituzione)» (sezione sesta, 11 giugno 1998, Ferroni, m. 211710; sezione terza, 22 marzo 2001, Servadio, m. 218.753; cfr anche 30 ottobre 2001, De Masi, m. 220114). In terzo luogo, quand’anche, per ipotesi, dovesse ritenersi che nella specie fosse provata e motivata la natura di corpo di reato delle rimanenti bottiglie del lotto e che tale natura sia in generale di per sé sufficiente a giustificare un sequestro probatorio, sussisterebbe egualmente un difetto di motivazione, giacché il sequestro probatorio è stato disposto in relazione ad una fattispecie che – per quanto riguarda i mezzi necessari ad assicurare l’effettuazione delle analisi e la prova di commissione di eventuali reati – è dettagliatamente disciplinata da specifiche disposizioni normative, sicché sarebbe stato in ogni caso indispensabile motivare adeguatamente sulle ragioni che nel concreto caso in esame rendevano indispensabile derogare a dette disposizioni e disporre il sequestro probatorio con una estensione ben maggiore di quanto ritenuto necessario e sufficiente dalla vigente normativa in materia. Quanto alla seconda ragione pretesa esigenza del Pm di procedere ad ulteriori analisi ed accertamenti su altre bottiglie del lotto – è evidente la sua inconsistenza e genericità, che mostrano come la motivazione sia in realtà inesistente o comunque manifestamente illogica. Va infatti ricordato che, ai sensi dell’articolo 13 del decreto legislativo 109/92, «per lotto si intende un insieme di unità di vendita di una derrata alimentare, prodotte, fabbricate o confezionate in circostanze praticamente identiche». Quindi, per definizione, tutte le bottiglie di acqua minerale appartenenti al lotto sequestrato hanno un contenuto perfettamente identico a quelle già prelevate come campioni per essere sottoposte alle prime analisi ed alle analisi di revisione. Non si vede, quindi, e non è minimamente spiegato né dal Pm sequestrante né dall’ordinanza impugnata perché sarebbe stato necessario disporre ulteriori analisi su tutte le bottiglie del medesimo lotto – bottiglie aventi appunto un contenuto per definizione identico tra di loro quando è evidente che per accertare la reale composizione dell’acqua contenuta in tutte le bottiglie del lotto sarebbe stato certamente sufficiente compiere le analisi soltanto su un numero strettamente limitato di esse, né tanto meno è spiegato in che cosa consisterebbero tali ulteriori analisi – che, si presume, dovrebbero essere differenti da quelle già compiute dalla Asl Br1 in data 21 ottobre 2002 e da quelle che avrebbero dovuto essere compiute in sede di revisione dall’istituto superiore di sanità, per le quali erano già stati prelevati i necessari campioni – ed all’accertamento di quali ulteriori e differenti caratteristiche dell’acqua minerale in questione esse dovrebbero essere dirette. Quanto poi all’affermata necessità di compiere “ulteriori accertamenti”, di cui non vengono minimamente indicati né le caratteristiche né le finalità, è di tutta evidenza come si tratti di un’affermazione meramente di stile ed apodittica, che si traduce in realtà in mancanza assoluta di motivazione. Ed infatti, come esattamente ricorda la ricorrente, la materia relativa alle analisi da compiere sui prodotti alimentari in generale, e sulle acque minerali in particolare, è disciplinata da specifiche disposizioni legislativi e regolamenti. Viene in primo luogo in rilievo l’articolo 16 del Dpr 327/80 (recante il regolamento di esecuzione della legge 283/62), il quale prevede che il campione sia costituito da cinque aliquote, una per l’analisi, una per la revisione di analisi, una per il detentore, una per il produttore ed una a disposizione dell’autorità giudiziaria. Ne consegue che, secondo il legislatore, le esigenze di accertamento probatorio sono pienamente soddisfatte dal prelevamento di un campione costituito da cinque aliquote, ed in particolare le esigenze probatorie dell’autorità giudiziaria sono normalmente soddisfatte dalla messa a disposizione di una sola aliquota del campione. Per quanto riguarda in particolare le acque minerali naturali, l’articolo 2 del decreto legislativo 105/92, dispone che i metodi di analisi per il controllo delle caratteristiche microbiologiche e di composizione nonché le modalità per i relativi prelevamenti di campioni sono fissati con decreto del Ministero della sanità, mentre l’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 339/99, dispone, per quanto concerne le acque di sorgente, che i metodi analitici per la valutazione delle caratteristiche microbiologiche e le modalità per il prelevamento di campioni per tutti i tipi di analisi sono quelli indicati nel decreto del Ministero della sanità 13 gennaio 1993. È quindi evidente come sarebbe stata necessaria una specifica ed adeguata motivazione – che è invece del tutto mancata – delle ragioni per le quali, nel caso concreto, si rendeva necessario derogare alle suddette norme legislative e regolamentari e disporre il sequestro probatorio, al fine del compimento delle analisi sulla composizione dell’acqua, non solo di un numero di campioni di gran lunga superiore a quello normativamente previsto, ma addirittura dell’intero lotto di bottiglie. È infine fondato, sotto tutti i suoi profili, anche il quarto motivo. Per quanto riguarda il reato di cui all’articolo 515 Cp, va innanzitutto ricordato che, come già evidenziato, l’unico reato che sarebbe potuto venire in considerazione per legittimare il sequestro probatorio sarebbe stato un reato eventualmente commesso mediante la consegna del lotto di bottiglie della società Traficante al Centro distribuzione Martino, dal momento che eventuali reati che avrebbero potuto essere commessi in futuro mediante la consegna da tale Centro ai rivenditori o dai commercianti ai consumatori finali non potevano in alcun modo legittimare, alla stregua del principio dianzi ricordato, un sequestro probatorio, proprio perché questo presuppone, per la sua legittimità,. Che il reato sia già stato commesso. Orbene, come si è pure accennato, nell’ordinanza impugnata manca la benché minima motivazione circa la sussistenza del fumus di tale unico reato rilevante ai fini del sequestro probatorio in esame. Basta a questo proposito soltanto osservare che non è stato nemmeno indicato né se si sia stata effettivamente la consegna dell’acqua da parte della società Traficante ad un acquirente rappresentato dal Centro distribuzione Martino (ovvero se questi fosse, per caso, nient’altro che un ramo della stessa società produttrice e che quindi l’acqua non fosse stata nemmeno consegnata ad un soggetto diverso), né che vi sia stata (o fosse comunque ipotizzabile sulla base di una qualche presunzione) una pattuizione fra il Centro distribuzione Martino e la società produttrice nel senso che quest’ultima avesse garantito o comunque dichiarato alla prima che le caratteristiche dell’acqua contenuta nel lotto di bottiglie consegnate corrispondevano perfettamente, quanto ai microgrammi per litro del rame, dello zinco e del selenio, a quelle risultanti dall’etichetta apposta sulle bottiglie stesse. La motivazione della ordinanza impugnata, infatti, si incentra tutta sulla scelta normalmente fatta dal consumatore finale e sulla ipotetica possibilità che questi venga indotto in errore dalle caratteristiche riportate sull’etichetta sicché, qualora si fosse determinato alla scelta di quell’acqua proprio sulla base di tali caratteristiche, egli verrebbe a ricevere in consegna un prodotto mancante delle qualità promesse, ossia si incontra su circostanze del tutto irrilevanti ai fini della sussistenza del fumus dell’unico reato che potrebbe venire in considerazione, in riferimento al quale occorreva motivare non già sulle possibilità di scelta o le aspettative del consumatore finale, bensì esclusivamente sulle concrete pattuizioni eventualmente intervenute tra la società Traficante ed il Centro distribuzione Martino. In ogni modo, la motivazione dell’ordinanza impugnata è carente anche in relazione ad un eventuale fumus del reato di frode in commercio ai danni del consumatore finale. Il tribunale del riesame, infatti, non ha tenuto in alcun conto circostanze che erano state puntualmente messe in rilievo dalla difesa della ricorrente e che avevano carattere sicuramente rilevante ai fini del giudizio della sussistenza del fumus del reato. In particolare non ha preso in considerazione alcuni aspetti della disciplina legislativa in tema di acque minerali naturali dettata dal decreto legislativo 105/92 (recante Attuazione della direttiva 80/777/Cee relativa alla utilizzazione e alla commercializzazione delle acque minerali naturali), come modificato da decreto legislativo 339/99 (recante Disciplina delle acque di sorgente e modificazioni al decreto legislativo 105/92, concernente le acque minerali naturali, in attuazione della direttiva 96/70/Ce) e dalla legge 39/2002 (recante Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee legge comunitaria 2001). Ed infatti l’articolo 11 del decreto legislativo 105/92, dispone al punto 6, che le analisi concernenti la composizione delle acque minerali naturali devono essere effettuate almeno ogni cinque anni. L’articolo 8 del medesimo decreto legislativo pone quindi il divieto di sottoporre l’acqua minerale naturale ad operazioni diverse da quelle espressamente previste dal precedente articolo 7, ed in particolare il divieto di modificare artificialmente la composizione minerale dell’acqua nei suoi componenti essenziali. L’articolo 11 dello stesso decreto legislativo specifica poi le indicazioni che debbono essere riportate sulle etichette o sui recipienti delle acque minerali naturali, fra le quali sono previste la denominazione di “acqua minerale naturale” (se del caso integrata con altre menzioni quali “totalmente degassata”, “parzialmente degassata”, “aggiunta di anidride carbonica”, “naturalmente gassata” o “effervescente naturale” e così via), il nome della località dove l’acque viene utilizzata, «i risultati delle analisi chimica e fisio-chimica, la data in cui sono state eseguite le analisi di cui al punto precedente e il laboratorio presso il quale dette analisi sono state effettuate», “il contenuto nominale” ed altre. Orbene, come giustamente mette in rilievo la ricorrente, la normativa risultante dal complesso di tali disposizioni trova logica giustificazione proprio nel fatto che, notoriamente, le acque minerali sono soggette a mutazioni che interessano la loro composizione (e proprio per tale ragione l’etichetta deve indicare la data delle analisi e queste devono essere ripetute almeno ogni cinque anni). Esattamente, pertanto, la ricorrente rileva che i dati riportati in analisi hanno un valore soprattutto esemplificativo, ed un carattere di relativa e non di tassatività, costituendo principalmente un supporto rispetto alle indicazioni qualitative concernenti la naturalità e la purezza microbiologica delle acque stesse. In altre parole, i dati analitici riportati in etichetta non possono ritenersi dotati di valenza definitiva, dal momento che le acque minerali sono suscettibili di variazioni nella loro composizione. Di conseguenza, non può ritenersi in via assoluta ed in qualsiasi caso che tutte le indicazioni relative ai singoli elementi contenuti nell’acqua minerale che risultano dall’etichetta assurgano, in quanto tali, a valore di dichiarazione o pattuizione sulla qualità del prodotto, come richiesta dall’articolo 515 Cp ed identifichino una qualità essenziale del prodotto cui fa riferimento sempre l’articolo 515 Cp qualità essenziale che generalmente va individuata nella circostanza che l’acqua possa definirsi oligominerale e batteriologicamente pura e nel fatto che essa corrisponda alle altre indicazioni essenziali riportate nell’etichetta che ne specificano le caratteristiche (come, ad esempio, la presenza o la eliminazione totale o parziale alla sorgente di anidride carbonica, o la aggiunta di anidride carbonica non prelevata dallo stesso giacimento, o il tenore di anidride carbonica libera). È bene specificare che con quanto osservato non si vuol dire che qualsiasi difformità tra i componenti minerali dell’acqua minerale naturale effettivamente presenti nella stessa e quelli risultanti dall’analisi riportata sull’etichetta non possa mai ed in nessun caso determinare una modificazione delle qualità essenziali del prodotto dichiarate dal venditore e quindi non possa mai ed in nessun caso integrare il reato di cui all’articolo 515 Cp. È vero, infatti, almeno in astratto, quanto rileva il tribunale del riesame, e cioè che il consumatore possa determinarsi in ragione della dichiarata presenza in una data misura di certi componenti minerali o di certe caratteristiche chimiche ed organolettiche e che quindi, in certi casi, una rilevante divergenza tra i dati reali e quelli risultanti dall’etichetta, che non sia riconducibile alle normali mutazioni cui tutte le acque minerali sono naturalmente soggette, possa determinare un’ipotesi di difetto delle qualità promesse e quindi integrare il reato di cui all’articolo 515 Cp. Si vuole invece dire che tale conseguenza non può essere fatta automaticamente discendere – come invece nella specie ha semplicisticamente fattoli tribunale del riesame – dalla sola difformità fra valori dichiarati e valori riscontrati in relazione ad alcuni componenti dell’acqua. In altre parole il giudice del merito avrebbe dovuto valutare in concreto, con specifico riferimento ai singoli componenti trovati difformi ed alla misura di questa difformità, da un lato, se la variazione in quella determinata misura di quei componenti non potesse ricondursi alla naturale costante mutazione di composizione cui sono soggette tutte le acque minerali naturali (espressamente riconosciuta e presa in considerazione del legislatore) e, dall’altro, se la presenza di quei determinati componenti in una misura non inferiore o non superiore ad una certa quantità possa considerarsi come una qualità essenziale di quel prodotto, ossia come una caratteristica particolare e distintiva di quella specifica acqua minerale, e se tale presenza possa in concreto ritenersi essere stata dichiarata o pattuita con l’acquirente, di modo che la sua mancanza concreti un difetto delle qualità essenziali promesse e possa quindi integrare il reato di cui all’articolo 515 Cp. Valutazioni queste che nel caso di specie sono completamente mancate, anche sotto il profilo del semplice fumus, con conseguente evidente difetto di motivazione. Per quanto concerne il reato di cui all’articolo 516 Cp, va innanzitutto rilevato che, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, «la fattispecie di vendita di sostanze alimentari non genuine, di cui all’articolo 516 Cp, risulta essere sussidiaria rispetto a quella dell’articolo 515 Cp – frode nell’esercizio del commercio – e copre l’area della mera immissione sul mercato, cioè una attività preparatoria alla frode in commercio. Se avviene la materiale consegna della merce all’acquirente, o atti univocamente diretti a tale fine, il reato ipotizzabile è quello precisato dall’articolo 515 Cp, rispettivamente nella forma consumata o tentata» (sezione terza, 5 giugno 1998, Nataloni, m. 211089). Se quindi il giudice del merito dovesse ritenere – come nella specie ha ritenuto integrato il reato di cui all’articolo 515 Cp non può ritenere configurabile anche quello sussidiario di cui all’articolo 516 Cp. In ogni caso, anche con riferimento a tale rato, manca nell’ordinanza impugnata la motivazione sulla sussistenza del suo fumus. Ed infatti, anche a ritenere esistente il presupposto del reato stesso, o quanto meno del suo tentativo, ossia la messa in commercio del prodotto mediante il suo trasporto dal luogo di produzione a quello di deposito – circostanza sulla quale manca invece la benché minima motivazione -, è del tutto carente ed apodittica la motivazione sulla configurabilità del fumus del reato, in relazione sia all’elemento materiale sia a quello psicologico. L’articolo 516 Cp, invero, punisce chi vende o mette altrimenti in commercio come genuine sostanze alimentari non genuine: la fattispecie del reato in questione si concretizza dunque nella mancanza del requisito della genuinità nelle sostanze alimentari. Ora, come esattamente rileva la ricorrente, per genuinità deve intendersi il rispetto della originalità del prodotto. In particolare, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, deve ritenersi che il prodotto alimentare messo in commercio non abbia il carattere della genuinità qualora «sia concretamente dimostrato che la singola merce abbia perso le sue qualità specifiche» (Sezioni unite, 21 dicembre 2000, Morici, m. 217296); che il «concetto di genuinità non è soltanto quello naturale, ma anche quello formale fissato dal legislatore con la indicazione delle caratteristiche e dei requisiti essenziali per qualificare un determinato tipo di prodotto alimentare» (sezione terza, 25 luglio 1998, Fusello, m. 212038; 10 novembre 1994, Fiorito, m. 200393; sezione sesta, 22 novembre 1980, Bruno, m. 146.785) e che «pertanto debbono considerarsi non genuini sia i prodotti che abbiano subito una artificiosa alterazione nella loro essenza e nella composizione mediante commissione di sostanze estranee e sottrazione dei principi nutritivi caratteristici, sia i prodotti che contengono sostanze diverse da quelle che la legge prescrive per la loro composizione» (sezione sesta, 18 settembre 1986, Sforza, m. 173460); che è ravvisabile la non genuinità quando si tratti di «sostanze alimentari adulterate, mutate nelle loro componenti naturali ed artificiosamente modificate o alterate nella loro essenza primaria ovvero commiste a sostanze estranee e depauperate degli elementi nutritivi propri e caratteristici» (Sezione quarta, 6 luglio 1996, Lionetti, m. 205.250); che «per sostanza alimentare non genuina deve intendersi anche quella che non contiene le sostanze o i quantitativi previsti (oppure contiene additivi non consentiti)» (sezione terza, 13 novembre 1995, Pittarello, m. 202.935); che il reato in questione «ha come fine quello di garantire la genuinità delle sostanze alimentari rispetto all’origine, alle proprietà nutritive e alla specifica utilizzabilità delle sostanze stesse» (sezione sesta, 24 luglio 1980, Mancini, m. 145.903). Nella specie, deve evidentemente escludersi che possa parlarsi di non genuinità per mancanza delle caratteristiche essenziali dal prodotto stabilite dal legislatore (che nel caso in esame non è stata contestata), o perché il prodotto contenga sostanze diverse da quelle prescritte dalla legge, o abbia subito un’artificiosa alterazione nella sua essenza e nella composizione mediante commistione di sostanze estranee, o sia stato adulterato, mutato nelle sue componenti naturali ed artificiosamente modificato o alterato nella sua essenza primaria ovvero commisto a sostanze estranee , o che contenga additivi non consentiti, o che sia diverso rispetto all’origine ed alla specifica utilizzabilità. Le uniche ipotesi di non genuinità astrattamente ipotizzabili, quindi, sono quelle del prodotto che abbia perso le sue qualità specifiche, o che non contenga i principi nutritivi caratteristici, o che sia stato depauperato degli elementi nutrititi propri o caratteristici, o che non contenga le sostanze ed i quantitativi previsti. Nella specie, però, il tribunale non ha per nulla esaminato se sussistessero gli estremi per ritenere sussistente il fumus di una di tali ipotesi di non genuinità, ma si è ancora una volta limitato apoditticamente ad affermare che l’acqua minerale in questione non era genuina solo perché le misure riscontrate dei tre summenzionati componenti (rame, zinco e selenio) non erano conformi a quelle riportate in etichetta. Vale anche a questo proposito quanto dianzi rilevato in materia di acque minerali naturali risulta come queste siano naturalmente soggette a continue mutazioni nella loro composizione e nella quantità dei loro componenti e che pertanto le analisi riportate in etichetta, proprio per la loro relatività dovuta alla non con testualità con il prodotto imbottigliato, non possono di per sé sole costituire sufficiente parametro di riferimento per l’individuazione della genuinità del prodotto. In altri termini, una differenza fra la quantità rilevata a quella indicata in etichetta rispetto ad alcuni componenti minerali, così come non può di per sé determinare automaticamente un difetto delle qualità essenziali promesse, allo stesso modo non può di per sé automaticamente comportare che l’acqua minerale non contenga le sostanze previste, o abbia perso le sue qualità specifiche che la caratterizzano o abbia perso o sia stata depauperata dei principi e degli elementi nutritivi propri e caratteristici. Anche in relazione al reato di cui all’articolo 516 Cp, pertanto, il giudice del merito avrebbe dovuto valutare, con specifico riferimento alle singole misure dei componenti rilevati difformi, se le variazioni non fossero riconducibili al naturale mutamento che subiscono costantemente le acque minerali e comunque se la presenza di quel determinato componente in una misura inferiore o superiore ad una certa quantità potesse, quanto meno in astratto, comportare la conseguenza della perdita dei principi e degli elementi nutritivi propri e caratteristici di quella specifica acqua minerale o della perdita di qualità o di sostanze specifiche ed essenziali. Anche queste valutazioni sono state completamente omesse dal giudice a quo, sia pure limitatamente alla sussistenza del semplice fumus, e quindi anche in relazione all’articolo 516 Cp sussiste un evidente difetto di motivazione. Può per completezza ricordarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, il delitto di cui all’articolo 516 Cp «ha la finalità di garantire l’ordine economico esposto a pericolo da colui che, intenzionalmente, produca o ponga in vendita sostanze alimentari dichiarate genuine pur non essendo tali» e che per la sua configurabilità «deve essere raggiunta la prova della sussistenza del dolo» (sezione sesta, 2 marzo 1990, Lisa, m. 184.833). È vero che nella specie si versa in sede di sequestro probatorio e che è sufficiente la sussistenza del semplice fumus del reato ipotizzato essendo probatorio e che è sufficiente la sussistenza del semplice fumus del reato ipotizzato essendo normalmente riservato al giudice della cognizione l’accertamento della presenza dell’elemento psicologico, ma è anche vero che nel caso concreto, in considerazione delle disposizioni legislative in materia e soprattutto di quella che impone al produttore di effettuare le analisi almeno ogni cinque anni e di indicare sull’etichetta soltanto la data delle analisi effettuate, nonché in considerazione del fatto che sempre legislativamente è imposto al produttore di non sottoporre l’acqua minerale a nessuna composizione diversa da quelle espressamente previste (e che non è stato nemmeno ipotizzato che il produttore avesse modificato o alterato l’acqua raccolta dal giacimento, né è stata in alcun modo ipotizzata la non veridicità delle analisi ictu oculi, dalla stessa contestazione, la mancanza del dolo, e quindi, sia pure sotto il profilo del mero fumus, una motivazione anche sull’elemento psicologico del reato in questione sarebbe stata necessaria. La ordinanza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio per nuovo giudizio al tribunale di Bari. PQM Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Bari.