Famiglia

Tuesday 11 February 2003

L’assegno di divorzio corrisposto una tantum è assoggettabile all’IRPEF. Lo ha deciso la Corte di Cassazione – Sezione Tributaria, con sentenza n.16462

                          

L’assegno di divorzio corrisposto “una tantum” è assoggettabile all’IRPEF.

Lo ha deciso la Corte di Cassazione – Sezione Tributaria, con sentenza n.16462 depositata il 22.11.2002, ponendosi in contrasto con lorientamento delle Commissioni Tributarie, secondo le quali anche lassegno una tantum (come quello periodico) è deducibile dal reddito complessivo dellobbligato.

                          

Suprema Corte di Cassazione, Sezione Quinta Civile, sentenza n.16462/2002        

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso alla Commissione Tributaria di primo grado di Milano, E. C. chiedeva che venisse dichiarata la nullità della cartella di pagamento con la quale la locale Esattoria Civica aveva recuperato a tassazione, per l’anno 1983, oneri deducibili pari a lire 30.000.000, costituiti dall’assegno di divorzio corrisposto in unica soluzione dal ricorrente all’ex coniuge in esecuzione del decreto emesso dal Tribunale della medesima città il 6.7.1983 a seguito di procedimento instaurato ai sensi dell’art.9 della legge n.898 del 1970.

La Commissione adita, con decisione del 9.10/15.11/1989, accoglieva il ricorso, affermando che non vi era motivo per negare all’assegno in parola un trattamento diverso, ai fini fiscali, da quello previsto dall’art.10, comma primo, lettera g), del d.P.R. n.597 del 1973, onde doveva essere consentita la deduzione della somma erogata una tantum alla stessa stregua degli assegni periodici versati al coniuge separato o divorziato.Avverso la decisione, proponeva appello l’Ufficio, chiedendone l’annullamento unitamente alla ratifica dell’operato dell’Amministrazione finanziaria.Resisteva nel grado l’appellato, instando per la reiezione del gravame e la conferma della pronuncia impugnata.

La Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, con sentenza del 20/27.10.1997, rigettava l’appello, assumendo che l’assegno di divorzio erogato in unica soluzione rappresentasse l’equipollente, sotto il profilo economico e giuridico, di quello somministrato periodicamente, dal momento che, anche nel primo caso, non si verificava alcun trasferimento di capitale da un soggetto ad un altro, ma solamente l’anticipato versamento di tutte le rate, il quale ben poteva essere stato affrontato mediante la corresponsione di somme dal reddito del contribuente e con incidenza su di esso.Avverso tale sentenza, propone ricorso per cassazione il Ministero delle Finanze

  I Ufficio Imposte dirette di Milano, deducendo un solo motivo di gravame cui non resiste il C..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo di impugnazione, lamenta il ricorrente violazione e falsa applicazione dell’art.10, lettera g), del d.P.R. n.597 del 1973, nonché dell’art.5 della legge n.898 del 1970 [1], in relazione all’art.360, primo comma, n.3, c.p.c., assumendo:

che il legislatore, nel prevedere la possibilità di dedurre gli assegni di mantenimento, ha voluto includere nella statuizione normativa solo quegli oneri periodici che gravano sul reddito annuo del contribuente, incidendo negativamente in misura continuativa

;b) che invece, nel caso di specie, la corresponsione di una somma a titolo di capitale, trasferita una tantum in sede di divorzio, non integra gli estremi di un onere che ricade direttamente sul reddito, dal momento che questa non assolve al mantenimento periodico, ma, senza implicazioni reddituali di alcun genere, se non in via del tutto indiretta ed ininfluente agli effetti di causa, rappresenta soltanto una transazione di natura economica volta a regolare il patrimonio attraverso un mero trasferimento di ricchezza;

che assegno periodico ed assegno in unica soluzione non hanno la stessa natura e non si differenziano unicamente per il modo estintivo dell’obbligazione, onde la Commissione Regionale avrebbe dovuto attenersi al significato letterale del sopra richiamato art. 10, primo comma, lettera g), all’epoca vigente e successivamente confermato dall’art.10, primo comma, lettera c), del d.P.R. n.917 del 1986, il quale, alludendo agli assegni periodici, intende riferirsi a quelli finalizzati espressamente all’effettivo sostentamento dell’altro coniuge e non comprende altresì il versamento dell’assegno una tantum, che assegno non è

.Il motivo è fondato.

Già questa Corte, in un obiter dictum contenuto nella sentenza n.11437 del 12 ottobre 1999, ebbe ad affermare, in contrasto con la giurisprudenza tributaria, che, ove si fosse interpretato l’art.47, primo comma, lettera f), del d.P.R. n.597 del 1973 nel senso che anche l’assegno di divorzio corrisposto una tantum costituisce, per il coniuge beneficiario, reddito imponibile ai fini dell’IRPEF (secondo quanto invece escluso dal Collegio dell’epoca), si sarebbe dovuto necessariamente ritenere, per via di interpretazione, allo scopo di evitare “salti d’imposta” relativamente al coniuge obbligato ed in assenza di una norma espressa al riguardo (art. 10, primo comma, lettera “g”, del medesimo d.p.R.597/73, nonché art.10, primo comma, lettera “c”, del d.P.R.n.917 del 1986), che il corrispondente onere sopportato da quest’ultimo sia deducibile dal suo reddito complessivo

Successivamente, questa medesima Corte, dubitando che l’interpretazione sopra riportata non fosse tuttavia conforme al dettato degli artt.3 e 53 della Costituzione, con ordinanza n.795 del 18 settembre 2000, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art.10, primo comma, lettera g), del d.P.R. n.597 del 1973 sopra citato (come sostituito dall’art.5, primo comma, della legge n.114 del 1977), in relazione all’art.5, quarto comma, della legge n.898 del 1970 (là dove quest’ultimo dispone che su accordo delle parti la corresponsione dell’assegno di divorzio può avvenire in un’unica soluzione), nella parte in cui non prevede la deducibilità dal reddito complessivo, ai fini dell’applicazione dell’IRPEF, del predetto assegno corrisposto al coniuge, in conseguenza dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella misura risultante da provvedimento dell’autorità giudiziaria

.La Corte Costituzionale, quindi, con ordinanza n.383 pronunciata in data 22.11/6.12.2001, ha dichiarato la manifesta infondatezza della riferita questione, segnatamente assumendo:

che la deducibilità o meno di oneri e spese dal reddito imponibile del contribuente non è generale ed illimitata, spettando al legislatore la sua individuazione in considerazione del necessario collegamento con la produzione del reddito, con il gettito generale dei tributi e con l’esigenza di adottare le opportune misure atte ad evitare le evasioni di imposta, secondo scelte che, in questa materia, appartengono alla discrezionalità legislativa, col solo limite del rispetto del generale principio di ragionevolezza;

che, nel caso in esame, la previsione normativa riguarda due forme di adempimento, quella cioè periodica e quella una tantum, le quali, pur avendo entrambe la funzione di regolare i rapporti patrimoniali derivanti dallo scioglimento o dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio, appaiono sotto vari profili diverse e tali sono state considerate dal legislatore nella disciplina dettata in materia;

che, in particolare, sull’accordo tra le parti, l’importo da corrispondere in forma periodica viene stabilito in base alla situazione esistente al momento della pronuncia, con la conseguente possibilità di una loro revisione, in aumento o in diminuzione, mentre, al contrario, quanto versato una tantum, che non corrisponde necessariamente alla capitalizzazione dell’assegno periodico, viene concordato liberamente dai coniugi nel suo ammontare e definisce una volta per tutte i loro rapporti per mezzo dì una attribuzione patrimoniale, producendo l’effetto di rendere non più rivedibili le condizioni pattuite, le quali restano così fissate definitivamente;

che la soluzione auspicata dal giudice a quo finirebbe col rendere deducibile dal reddito un trasferimento squisitamente patrimoniale, laddove da essa conseguirebbe altresì, a fronte della deducibilità dal reddito del soggetto tenuto all’adempimento, la necessità di regolare, con scelte che spettano al legislatore, la corrispondente obbligazione tributaria in capo al percipiente;

che, pertanto, il medesimo legislatore non irragionevolmente ha previsto una diversa regolamentazione tributaria per le differenti forme di adempimento esaminate, secondo un regime che è rimasto nel tempo invariato anche dopo l’entrata in vigore del d.P.R. n.917 del 1986 e le modifiche introdotte dalla legge n.898 del 1970, onde va esclusa sotto ogni profilo la violazione dell’art.3 della Costituzione, mentre del pari infondata è la questione sollevata in riferimento all’art.53 della stessa Costituzione, non provocando la scelta del legislatore la prospettata lesione del principio di capacità contributiva, lesione che, al contrario, potrebbe configurarsi qualora si ammettesse la deducibilità della somma corrisposta una tantum, che appare come conseguenza di un assetto complessivo degli interessi personali, familiari e patrimoniali dei coniugi, non direttamente correlata al reddito percepito dal contribuente nel periodo di imposta.

Risulta, quindi, palese come, nell’ordinanza sopra riportata, neppure il giudice delle leggi abbia dubitato dell’esattezza dell’interpretazione dell’art.l0, primo comma, lettera g), del d.P.R. n.597 del 1973 (che, al pari dell’art.10, primo comma, lettera “c”, del d.P.R. n.917 del 1986, limita la deducibilità in questione ai soli “assegni periodici”) già fornita da questa Corte, non ritenendo evidentemente apprezzabile il diverso orientamento emerso nella giurisprudenza di merito, posto che, altrimenti, detto giudice sarebbe addivenuto ad una pronuncia “interpretativa” di rigetto, caratterizzata, secondo la dottrina costituzionalistica, dal fatto:

di adottare un dispositivo nel quale la mancata difformità della disposizione rispetto alla Costituzione è affermata non in assoluto (come nel caso delle decisioni di rigetto, del genere di quella testé illustrata), ma in quanto alla disposizione medesima si dia un certo significato, ovvero quello chiarito in motivazione;

di separare l’interpretazione incostituzionale da quella conforme a Costituzione, abbandonando la prima ed utilizzando invece la seconda per respingere la questione di costituzionalità;

di contenere in definitiva due affermazioni, quella cioè secondo cui la norma interpretata alla prima maniera è contraria alla Costituzione e quella secondo cui la norma interpretata alla seconda maniera, viceversa, le è conforme, in tal senso risolvendosi in una “doppia pronuncia”, anche se solo in nuce, poiché il dispositivo della sentenza di rigetto lascia in ombra il primo aspetto.Il richiamato orientamento seguito da questa Corte merita, perciò, di trovare conferma, onde, accogliendo il ricorso, l’ impugnata sentenza va cassata in relazione al motivo accolto, mentre, sussistendo i presupposti di cui all’art. 384, primo comma, ultima parte, c.p.c., il ricorso introduttivo del contribuente deve essere rigettato.I dubbi interpretativi legati alla questione affrontata giustificano la compensazione delle spese dell’intero giudizio.

PER QUESTI MOTIVI

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente, compensando le spese dell’intero giudizio

.Depositata in Cancelleria il 22 novembre 2002.