Lavoro e Previdenza

Wednesday 29 November 2006

La violazione di regole di convivenza civile, che impongono il reciproco rispetto e che sono radicate nella coscienza sociale giustifica il licenziamento del dipendente (Cassazione, Sez. Lavoro Sentenza 7 novembre 2006, n. 2372).

La “violazione di
regole di convivenza civile, che impongono il reciproco rispetto e che sono
radicate nella coscienza sociale
” giustifica il licenziamento del
dipendente (Cassazione,
Sez. Lavoro
Sentenza 7 novembre 2006, n. 2372).

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza 7 novembre 2006, n.
2372

(Pres. Ciciretti –
est. Monaci)

Svolgimento del processo

La prof. A. C. ha convenuto dinanzi al Tribunale di Trento il Centro di
Formazione Professionale Università Popolare del Trentino, di cui era stata
dipendente in qualità di insegnante, con le mansioni
di direttrice di una unità operativa, impugnando una sanzione disciplinare
irrogatale il 19 aprile 2001 ed il successivo licenziamento intimatole il 29
gennaio 2002.

Il primo giudice dichiarava la nullità della sanzione disciplinare e respingeva
le altre domande.

Questa decisione è stato confermato dalla Corte d’appello di Trento con
sentenza 351/04 in data 10 giugno 131 agosto 2004. notificato
il 24 settembre 2004.

Per quanto ancora interessa ai fini di questo giudizio, vale a dire la
legittimità del licenziamento, il giudice d’appello riteneva che il
comportamento complessivo tenuto dalia dipendente in occasione dell’affidamento
di un nuovo incarico di insegnamento di informatica
ed, in particolare, le dichiarazioni che aveva fatte pubblicamente al consiglio
di classe, avessero superato i limiti del diritto di critica e sconfinassero
nell’area dell’illecito comportando la denigrazione dell’istituzione da cui
dipendeva.

Contro questa pronunzia la prof. A. ha proposto
ricorso per cassazione, con due motivi, notificato, in termine, il 23 novembre
2004.

Resisteva il Centro di Formazione Professionale Università Popolare del
Trentino con controricorso notificato, in termine, il
30 dicembre 2004.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente
denunzia l’insufficiente e contraddittoria motivazione, la violazione e falsa
applicazione dell’articolo 2697 c.c. circa gli oneri probatori sui fatti che
costituiscono una giusta causa di licenziamento.

Secondo il ricorso io sentenza, pur affermando che le dichiarazioni della prof.
A. potevano in astratto giustificarsi come espressione
del diritto di critica, aveva ritenuto che la divulgazione di esse a mezzo
stampa avrebbe costituito la dimostrazione che t’interessata non intendeva
esercitare il diritto di critica, ma denigrare l’istituzione sua datrice di
lavoro.

Il ricorso argomentava che la signora A. rispondeva, però, soltanto di quello
che aveva fatto o detto personalmente, e non di come la stampa riportava le sue
parole e le sue azioni.

L’articolo di stampa menzionato dalla sentenza non poteva esserle riferito;
l’ente datore non le aveva contestato di avere messo a disposizione dei
giornalisti le dichiarazioni che questi ultimi avevano riportate,
e, comunque, sarebbe stato onere dell’Università Popolare di dare prova della
circostanza.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la
ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’articolo 7, comma 1,
della legge 300/70.

Ricorda che non era stato affisso preliminarmente il codice disciplinare, e
contesta l’interpretazione della Corte d’Appello secondo cui in quei caso
l’affissione preventiva non sarebbe stato necessaria perché la sanzione
espulsiva si basava sulla violazione d’obblighi di carattere generale contenuti
nel codice civile, osservando che, in ogni modo, quelle violazioni avrebbero
potuto comportare in astratto sanzioni differenti, e che perciò dovevano essere
specificate mediante l’affissione le sanzioni effettivamente applicabili nei
singoli casi.

La Corte d’Appello, inoltre, avrebbe dovuto tenere conto del comportamento
della signora A. alla luce dell’intera vicenda in cui era maturato e, con
riguardo al criterio di proporzionalità della sanzione, valutare le attenuanti
ed i motivi.

3. Il ricorso è infondato e non può trovare accoglimento.

Deve essere esaminato preliminarmente il secondo motivo di
impugnazione, che propone una questione di carattere pregiudiziale,
quella della legittimità, o meno, dei procedimenti espulsivi in caso di mancato
preventiva esposizione disciplinare ai sensi del comma 1 dell’articolo 7 della
legge 300/70.

Il motivo non è fondato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, «il carattere ontologicamente disciplinare del licenziamento, mentre
implica la necessitò dello preventiva contestazione
degli addebiti (ancorché non espressamente previsti dalla contrattazione
collettiva o dalla disciplina predisposta dal datore di lavoro) e della
possibilità di difesa del lavoratore, non comporta invece che il potere di
recesso del datore di lavoro per giusta causa o giustificato motivo (già
previsto dagli articolo 1 e 3 della legge 604/66) debbo essere esercitato in
ogni caso previa inclusione dei fatti contestati in un codice disciplinare ed
affissione del medesima. Tali ultimi adempimenti non sono, infatti, necessari in relazione a quei fatti il cui divieto (sia o no
penalmente sanzionato) risiede nella coscienza sociale quale minimo etico e non
già nelle disposizioni collettive o nelle determinazioni dell’imprenditore».
(Cass. civile, 13906/00, nello stesso senso, 3949/89; 2963/91; 1974/94,
5434/03; 12500/03; 12735/03; 13194/03: mentre le sentenze 17763/04 e 10201/04,
estendono questo principio anche alle sanzioni conservative).

Nel caso di specie, secondo la valutazione della sentenza impugnata, la
lavoratrice avrebbe denigrato il proprio datore di lavoro, e perciò di un comportamento, contestatole formalmente e poi
sanzionato con il provvedimento espulsivo, che risponde al criterio indicato
dalla giurisprudenza, consistendo nella violazione di regole di convivenza
civile, che impongono il reciproco rispetto e che sono radicate nella coscienza
sociale, e che come tali non necessitavano di essere portate specificamente a
conoscenza dei dipendenti.

4. Sempre nel secondo motivo la ricorrente lamento anche che la Corte d’Appello non avrebbe
valutato il comportamento della signora A. alla luce dell’intera vicenda e non
avrebbe tenuto conto delle attenuanti e dei motivi.

Questo profilo la censura è inammissibile, perché si risolve nella richiesta di
una nuova valutazione dei fatti, del comportamento complessivo addebitato alla
lavoratrice, mentre, proprio perché non è giudice del fatto, non rientra nei
poteri del giudice di legittimità sostituire una proprio valutazione nel merito
dei fatti (e perciò anche dei comportamenti delle porti) o quella del giudice
del fatto, ove quest’ultimo sia stato motivata in
modo coerente, così come è avvenuto nel caso in esame: in particolare, il
giudice di legittimità non ha il potere di rivalutare i motivi del comportamento
addebitato, e le eventuali attenuanti.

5. Anche il primo motivo di impugnazione è infondato.

Nel merito, sotto il profilo della violazione di legge è parzialmente
inammissibile, nella misura in cui ripropone questioni di fatto, che in quanto
tali (indipendentemente da possibili vizi di motivazione) non possono essere
riesaminate nel giudizio di legittimità, mentre per il resto, appunto sotto il
profilo del difetto di motivazione, è infondato.

La ricorrente lamenta, infatti, innanzi tutto che la sentenza impugnata avrebbe
rinvenuto la causa giustificativa del provvedimento espulsivo nel fatto che le
gravi critiche rivolte dalla lavoratrice all’Università Popolare di Trento
avessero trovato una forte risonanza sulla stampa locale e rileva che «la
signora A., come chiunque altro, risponde di ciò che personalmente ha detto e
fatto, e non di come io stampa riporto le sue parole e le sue azioni
».

Questa critica è infondato perché io lettura della sentenza impugnata dimostra
che il giudice ha ritenuto giustificato il licenziamento perché la dipendente
aveva rivolto, in una riunione pubblica, quelle gravi critiche all’Università
Popolare, non perché queste ultime erano state riportate sulla stampa locale.

È vero che la sentenza ha ritenuto (a pag. 28) che sia stato la signora A.
ad informare dei fatti la stampa, ma non si è basata su questo
elemento nel valutare la gravità dell’addebito, e la conseguente
legittimità del recesso, ritenendo piuttosto che la divulgazione dei fatti alla
stampa costituiva un indice della volontà dello dipendente di denigrare la
struttura, e valeva perciò ad escludere che i fatti addebitati alla lavoratrice
potessero costituire soltanto un esercizio, di per se legittimo, del diritto di
critica, e che come tali non fossero suscettibili di sanzioni.

Come giustamente rileva la resistente a pag. 22 del controricorso,
io sentenza non ha ritenuto affatto che se il contenuto delle dichiarazioni
della prof. A. non fossero state pubblicizzate, quest’ultima avrebbe potuto fruire dell’esimente dell’esercizio
del diritto di critica.

Secondo la sentenza, la divulgazione dei fatti a mezzo stampa non era un
elemento costitutivo della fattispecie posta a base del recesso, e che il
giudice aveva ritenuto giustificativo del licenziamento, ma piuttosto un mezzo
di prova, riferito all’elemento psicologico che aveva motivato la condotta
della ricorrente, della volontarietà del danno che aveva cagionato (o che aveva
tentato di cagionate) alla datrice di lavoro.

6. Come in qualsiasi giudizio di impugnazione di licenziamento. il giudice doveva accertare se il provvedimento fosse
legittimo, o meno, e perciò se fosse fondato l’addebito contestato alla
lavoratrice. ed indicato dalia Università Popolare
come giusta causa del licenziamento.

L’accertamento del giudice di merito doveva essere riferito a quella specifica
causa di licenziamento esposta dalla datrice di lavoro, non poteva prescindere
da essa.

Nel caso di specie era stato addebitato alla lavoratrice di avere espresso
pubblicamente, ed in forma polemica, aspre critiche allo struttura. non di averle divulgate a mezzo stampa, e perciò l’oggetto
dell’accertamento demandato al giudice, e cui il giudizio era circoscritto, era
costituito da quel comportamento, da quelle critiche, e non dalla comunicazione
dei fatti ai giornali, la sentenza, infatti, riporta per esteso, alle pagine da
21 a 25,
la lettera di contestazione, e quest’ultima, molto
dettagliatamente, fa riferimento agli avvenimenti del 7 gennaio 1970, e
specificamente alle critiche, alle polemiche ed alle ingiurie che la prof. A. avrebbe esternate pubblicamente nel corso di una riunione
del collegio dei docenti.

La lettera di contestazione fa riferimento alla pubblicazione (in particolare
sul giornale “L’Adige” del successivo giorno 9 gennaio, due giorni dopo gli
eventi) soltanto come ulteriore prova dei fatti, ma non come addebito.

La sentenza stessa, del resto, riferisce in narrativa, a pagina 11, che nel
ricorso introduttivo del giudizio di primo grado la ricorrente aveva allegato di essere stata licenziata in tronco per i
fatti avvenuti il 7 gennaio 2002, quando era intervenuta nel corso di quella
riunione.

7. La censura è infondata anche sotto il profilo del difetto di motivazione
perché la motivazione in fatto della sentenza impugnata, è dettagliata (si
snoda attraverso molte pagine fitte, e riporta la trascrizione per esteso di
alcuni documenti), completa e puntuale.

La ricorrente, in realtà, non formula critiche sulla completezza o sulla
coerenza logica della ricorrente, e neppure contesta sostanzialmente la
ricostruzione dei fatti contenuta dal giudice, ma contrappone a quella della Ca una propria valutazione di questi stessi fatti.

8. Il ricorso perciò è infondato, e deve essere respinto.

In applicazione del criterio della soccombenza la
ricorrente deve essere condannata alle spese del grado, che si liquidano nella
misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese che liquida
in euro 40 oltre ad euro 2000 per onorari, oltre ad
Iva e Cpa.