Penale

Friday 19 May 2006

La sentenza della Corte Costituzionale sulla concessione della grazia.

La sentenza della Corte
Costituzionale sulla concessione della grazia.

Corte costituzionale – sentenza
3-18 maggio 2006, n. 200

Presidente Marini – Relatore Quaranta

Ritenuto in fatto

1. Con ricorso del 10 giugno 2005
il Presidente della Repubblica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, ha promosso conflitto di attribuzione nei
confronti del ministro della Giustizia «in relazione al rifiuto, da questi
opposto, di dare corso alla determinazione, da parte del Presidente della
Repubblica, di concedere la grazia ad Ovidio Bompressi»; rifiuto risultante
dalla nota del 24 novembre 2004 inviata dal medesimo Ministro al Capo dello
Stato.

1.1. Il ricorrente – sul
presupposto di aver manifestato al Guardasigilli, con nota dell’8 novembre 2004
(emessa dopo aver ricevuto ed esaminato la documentazione sull’istruttoria relativa all’istanza di grazia presentata dal Bompressi), la
propria determinazione di concedere il richiesto provvedimento di clemenza,
invitandolo pertanto a predisporre il relativo decreto di concessione della
grazia, per la successiva emanazione – si duole del fatto che il Ministro gli
abbia comunicato «di non poter aderire a questa richiesta» in quanto non condivisibile
«né sotto il profilo costituzionale né nel merito», atteso che – a suo dire –
«la Costituzione vigente pone in capo al ministro della Giustizia la
responsabilità di formulare la proposta di grazia».

Il Presidente della Repubblica
assume, per contro, che il potere di grazia – riservato «espressamente e in via
esclusiva al Capo dello Stato dall’articolo 87 della Costituzione» – «verrebbe posto nel nulla dalla mancata formulazione della
proposta da parte dello stesso Ministro», proposta, oltretutto, che né la
Costituzione né la legge richiedono ai fini della concessione del beneficio de
quo. Ritiene, pertanto, il ricorrente che qualora egli pervenga, come nel caso
in esame, «alla determinazione di concedere la grazia ad un condannato, tanto
la predisposizione del relativo decreto, quanto la successiva controfirma
costituiscono, per il Ministro della giustizia, “atti dovuti”».

Su tali basi, pertanto, il
ricorrente ha promosso conflitto – ai sensi degli articoli 37 e seguenti della
legge 11 marzo 1953, n. 87 – nei confronti del Ministro Guardasigilli, «per
violazione degli articoli 87 e 89 Costituzione».

1.2. Indiscutibile – secondo il
ricorrente – sarebbe l’ammissibilità del conflitto sotto il profilo soggettivo,
atteso che la qualificazione del Presidente della Repubblica come potere dello
Stato «è del tutto pacifica», come del resto la legittimazione del Ministro
della giustizia «ad essere parte in un conflitto di attribuzione
tra poteri dello Stato», e ciò «in ragione del ruolo istituzionale» che la Costituzione
riserva al Guardasigilli (sono richiamate, sul punto, le pronunce di questa
Corte 380/03, 216/95, 379/92). Ciò premesso, il ricorrente assume – sotto il
profilo oggettivo – l’esistenza di una lesione delle attribuzioni che la
Costituzione conferisce al Capo dello Stato «nell’esercizio del potere di
concessione della grazia».

1.3. Nel merito, infatti, viene dedotta – come sopra precisato – la violazione degli
articoli 87 e 89 della Costituzione, atteso che il rifiuto del Ministro «di
formulare la proposta di grazia in favore di Ovidio Bompressi, ritenendola
presupposto indispensabile del relativo decreto di concessione», si sostanzia
de facto nella rivendicazione del «potere di interdire con la sua decisione (o
addirittura con la sua inerzia) l’esercizio del potere presidenziale di
concessione della grazia», e quindi nell’attribuzione «di un sostanziale potere
di codecisione che è, viceversa, assente nel vigente ordinamento
costituzionale».

Diversi argomenti, difatti, «di ordine logico-giuridico, oltre che sistematico»,
concorrono a confermare la titolarità esclusiva di tale potere in capo al
Presidente della Repubblica, secondo quanto risulta già dalla lettera
dell’articolo 87 Costituzione.

1.3.1. Rilevante in tal senso –
secondo il ricorrente – è, in primis, la ratio dell’istituto della grazia, è cioè la sua finalità «umanitaria ed equitativa»
(riconosciuta anche da questa Corte nella sentenza 134/76 e nell’ordinanza
388/87) che è quella di «attenuare l’applicazione della legge penale in tutte
quelle ipotesi nelle quali essa viene a confliggere con il più alto sentimento
della giustizia sostanziale».

Se è vero, difatti, che la grazia
mira a soddisfare un’esigenza «correttivo-equitativa» dei rigori della legge
(oppure a fungere – come pure emerge dalla relazione governativa al progetto
preliminare del Cpp del 1988, a commento dell’articolo 672 – da «strumento di
risocializzazione» del condannato, «alla luce dei risultati del trattamento
rieducativo» al quale egli sia stato sottoposto), appare allora «naturale» –
assume il ricorrente – tanto che la sua concessione esuli del tutto «da
valutazioni di natura politica», quanto che «l’esercizio di un potere di tale
elevata e delicata portata venga riservato in via
esclusiva al Capo dello Stato, quale organo rappresentante dell’unità della
Nazione», nonché «garante super partes della Costituzione», e dunque «unico
organo che offra la garanzia di un esercizio imparziale».

In questo quadro, dunque, il
ministro della Giustizia «è soltanto il Ministro “competente” che collabora con
il Capo dello Stato nelle varie fasi del procedimento, contribuendo alla
formazione della volontà presidenziale nell’ambito delle sue specifiche
attribuzioni», destinate a sostanziarsi esclusivamente in «contributi
istruttori, valutativi ed esecutivi», fermo restando che, proprio in ragione
del «ruolo prevalentemente e essenzialmente
istruttorio» spettante al Guardasigilli, in mancanza di accordo con il medesimo
«devono comunque prevalere le istanze di cui è portatore il Presidente della
Repubblica quale titolare del potere di grazia».

1.3.2. Il riconoscimento
dell’esistenza di «poteri di natura sostanziale» spettanti, in materia di
grazia, al ministro della Giustizia non potrebbe, d’altra parte, fondarsi sul
disposto dell’articolo 89 Costituzione, secondo cui «nessun atto del Presidente
della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che
se ne assumono la responsabilità».

Tale norma, difatti, non
legittima affatto – per un verso – la necessità che in subiecta materia la
determinazione presidenziale sia preceduta da una “proposta ministeriale”,
giacché – come chiarito in dottrina – il riferimento in essa
contenuto all’espressione “ministri proponenti”, «in luogo della più corretta
“ministri competenti”», sarebbe da imputare ad un «uso improprio della
locuzione» (ciò di cui si sarebbe mostrata consapevole – a dire del ricorrente
– anche questa Corte, la quale nell’ordinanza 388/87, «parafrasando il dettato
dell’articolo 89 della Costituzione in relazione al provvedimento di grazia ha
fatto riferimento al “Ministro competente” anziché al “Ministro proponente”»).

Priva di fondamento
costituzionale, pertanto, si presenterebbe la pretesa del Guardasigilli di essere «titolare esclusivo del potere di proposta».

Né,
d’altra parte, la conclusione relativa ad una “compartecipazione” del Ministro
nella decisione presidenziale relativa alla concessione del provvedimento di
clemenza potrebbe trarre argomento dalla necessità della controfirma del
decreto di grazia.

Se è vero, difatti, che in relazione agli atti formalmente presidenziali ma
sostanzialmente governativi la controfirma «ha il significato di attestare la
effettiva paternità dell’atto e la conseguente assunzione di responsabilità
politica» da parte del Ministro (giacché qui il Capo dello Stato «si limita ad
un mero controllo di legittimità, oltre che di provenienza» dell’atto), le
posizioni dei due organi costituzionali appaiono, invece, «invertite con
riguardo agli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali», tra i quali
rientra la concessione della grazia. Ricorrendo tale
evenienza, invero, «la controfirma ministeriale si presenta come atto dovuto,
in quanto ha funzione, per così dire, notarile», e cioè «di mera attestazione
di provenienza dell’atto da parte del Capo dello Stato, oltre che di controllo
della sua regolarità formale».

1.3.3. Né,
poi, la necessità che la concessione della grazia consegua ad una
“collaborazione” tra Presidente della Repubblica e Ministro Guardasigilli
potrebbe essere giustificata in ragione dell’esistenza di una consuetudine
costituzionale in tal senso.

Rileva in proposito il ricorrente
come, innanzitutto, una consuetudine siffatta abbia assunto nel tempo «forme e
modalità diverse», collegate all’evoluzione conosciuta dalle norme del cosiddetto
“ordinamento penitenziario”; di talché la progressiva individuazione di «nuovi
percorsi di risocializzazione dei condannati» (in special modo attraverso
«l’applicazione di misure alternative alla detenzione, ad
opera della magistratura»), nel restituire alla grazia la sua funzione
prettamente «equitativo-umanitaria», ha comportato che l’istituto «perdesse le
finalità di politica penitenziaria che l’avevano a volte in precedenza pervaso»
e che avevano giustificato l’affermarsi della descritta consuetudine di
“collaborazione” tra i menzionati organi dello Stato.

Sempre sul piano delle relazioni
“consuetudinarie” intercorrenti, nella materia de qua, tra il Capo dello Stato
e il Ministro della giustizia, rileva il ricorrente come non sia
senza significato l’esaurimento di quella prassi seguita dal Ministro, nel caso
in cui ritenesse insussistenti i presupposti per la concessione del
provvedimento di clemenza, di «“archiviare” la relativa pratica, senza neppure informare
il Capo dello Stato». All’esito, infatti, dell’invio della nota del 15 ottobre
2003 – con la quale il Presidente della Repubblica ha
chiesto «di essere informato della conclusione
di tutte le istruttorie relative ad istanze di grazia, ai fini delle sue
decisioni» (nota alla quale il Ministro «ha immediatamente aderito», come da
sua comunicazione del successivo 17 ottobre) – deve ritenersi venuta meno
quella prassi in passato invalsa che «finiva per attribuire in qualche misura
al Ministro della giustizia dei poteri di decisione sostanziale in materia».

1.3.4. La «natura esclusivamente
presidenziale del potere di concedere la grazia» sarebbe, infine, desumibile –
secondo il ricorrente – dalla stessa giurisprudenza costituzionale.

Si richiama, difatti, da un lato,
l’indirizzo espresso da questa Corte in ordine alla
«necessaria “giurisdizionalizzazione” della fase esecutiva delle sanzioni
penali», per sottolineare come la declaratoria
di illegittimità costituzionale «di numerose disposizioni che contemplavano
competenze dell’esecutivo (e cioè quindi del ministro della Giustizia) nella
fase di esecuzione della pena» (sono richiamate le sentenze 274/90; 192/76;
114/79; 204 e 110/74) rischierebbe di essere contraddetta dal riconoscimento al
Guardasigilli di «poteri decisionali veri e propri in ordine alla concessione
della grazia», giacché, pur trattandosi di istituto «connotato da una ratio del
tutto peculiare», esso «incide certamente sull’esecuzione della pena».

D’altro canto, poi, si sottolinea come la tesi della «esclusiva pertinenza
presidenziale del potere di concedere la grazia» sia stata «implicitamente
condivisa» da questa Corte nella sentenza 274/90.

Difatti, con tale pronuncia è
stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 589, comma 3, del
Cpp del 1930, norma che attribuiva al ministro della Giustizia (e non al
Tribunale di sorveglianza) il potere di disporre il differimento della esecuzione della pena nel caso previsto dall’articolo
147, comma 1, n. 1, del Cp, quello, cioè, della presentazione della domanda di
grazia da parte del condannato.

In particolare, osserva il
ricorrente, la citata decisione «ha disatteso apertis verbis la tesi affermata
nella Relazione ministeriale al progetto definitivo del Cpp» del 1930, secondo
cui la prevista competenza ministeriale deriverebbe dalla necessità che la
prognosi in ordine alla concessione del provvedimento
di clemenza sia effettuata «soltanto dall’organo che nella prassi
costituzionale esercita il relativo potere» di concessione. Così argomentando,
pertanto, e nell’ulteriormente precisare che non esistono,
per contro, «vincoli costituzionalmente determinati per l’esercizio del potere
di grazia da parte del Presidente della Repubblica», questa Corte avrebbe
dunque chiaramente escluso «l’esistenza di qualsivoglia potere decisionale da
parte del ministro della Giustizia».

1.4. Ciò premesso, il ricorrente
evidenzia che nella materia de qua il ministro della Giustizia «è sicuramente
titolare dei poteri istruttori», con la conseguenza che – in base al principio
di leale collaborazione – il parere che esso esprime al Presidente della
Repubblica consente al più «di pervenire a un
provvedimento condiviso», fermo però restando che, «nel caso in cui tale
condivisione non si verificasse», è innegabile che «la volontà prevalente e
quindi la decisione finale non possono che essere quelle del titolare del
potere costituzionale di grazia e cioè il Presidente della Repubblica».

Su tali basi, pertanto, il
ricorrente ha concluso affinché la Corte dichiari «che
non spetta al ministro della Giustizia il potere di rifiutare di dare corso
alla determinazione, alla quale il Capo dello Stato è pervenuto, di concedere
la grazia ad Ovidio Bompressi e che, conseguentemente, annulli l’atto di cui
alla nota 24 novembre 2004 del ministro della Giustizia».

2. Il presente conflitto è stato
dichiarato ammissibile da questa Corte con ordinanza 354/05,
con cui è stato disposto che, a cura del ricorrente, il ricorso e la stessa
ordinanza fossero notificati al ministro della Giustizia; notificazione
avvenuta il 29 novembre 2005.

3. Non si è costituito in
giudizio il ministro della Giustizia.

Considerato in diritto

1. Il presente conflitto è
occasionato dal rifiuto opposto dal ministro della Giustizia di «dare corso
alla determinazione, da parte del Presidente della Repubblica, di concedere la
grazia ad Ovidio Bompressi», rifiuto risultante dalla nota del 24 novembre 2004
inviata dal medesimo Ministro al Capo dello Stato.

Con il ricorso – muovendosi dal
presupposto che il potere di grazia sia riservato «espressamente e in via
esclusiva al Capo dello Stato dall’articolo 87 della Costituzione» – si lamenta
che il Guardasigilli si sia rifiutato «di formulare la proposta di grazia» e di
predisporre il relativo decreto di concessione, malgrado
il Presidente della Repubblica, con nota dell’8 novembre 2004, avesse
manifestato la propria determinazione di volere concedere a favore dell’interessato
il provvedimento di clemenza. Da qui la dedotta violazione degli articoli 87 e
89 della Costituzione, atteso che la mancata «formulazione della proposta da
parte del Ministro» si sostanzierebbe, di fatto, nella rivendicazione di una attribuzione costituzionalmente spettante al Capo dello
Stato, laddove, invece, sia la predisposizione del decreto che la successiva
controfirma da parte del Guardasigilli costituirebbero «atti dovuti».

In particolare, si sostiene nel
ricorso che la ratio dell’istituto della grazia sia
«umanitaria ed equitativa», assolvendo alla funzione di «attenuare
l’applicazione della legge penale in tutte quelle ipotesi nelle quali essa
viene a confliggere con il più alto sentimento della giustizia sostanziale». Da
questa peculiare connotazione del potere di grazia, da cui esula ogni
valutazione di «natura politica», deriverebbe la sua «naturale» attribuzione al
Capo dello Stato «quale organo rappresentante dell’unità nazionale», nonché «garante super partes della Costituzione».

2. Con ordinanza 354/05 questa
Corte ha dichiarato, prima facie, ammissibile il conflitto che ha dato origine
al presente giudizio e, lasciando impregiudicata ogni diversa successiva
determinazione in ordine alla sua stessa
ammissibilità, ha disposto la notificazione del ricorso al Ministro
Guardasigilli.

3. Ciò premesso, sul piano
processuale, ferma la legittimazione del Presidente della Repubblica a proporre
il conflitto, deve essere confermata la legittimazione passiva del solo
Ministro della giustizia, il quale – competente, ratione materiae, ad effettuare l’istruttoria sulla grazia, a predisporre il
relativo decreto di concessione, a controfirmarlo ed a curarne l’esecuzione – è
il legittimo contradditore. È dal Ministro, infatti, che proviene l’atto, la
nota datata 24 novembre 2004, con cui viene
rivendicata una compartecipazione sostanziale nella determinazione di concedere
o negare l’atto di clemenza e dunque, nello stesso tempo, viene implicitamente
limitato l’ambito di autonomia decisionale del Capo dello Stato. La
legittimazione passiva del Ministro della giustizia trova il suo fondamento
direttamente nella previsione di cui all’articolo 110 Costituzione, atteso che,
delle attribuzioni contemplate da tale norma, la giurisprudenza costituzionale
ha costantemente escluso la necessità di «un’interpretazione restrittiva»
(sentenze 142/73 e 168/63). In tali attribuzioni devono essere inclusi tutti i
compiti spettanti al suddetto Ministro in forza di precise disposizioni
normative, purché essi siano in rapporto di strumentalità rispetto alle
funzioni «afferenti all’organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia», comprese dunque quelle concernenti
«l’organizzazione dei servizi relativi all’esecuzione delle pene e delle misure
detentive» (sentenza 383/93), e così, per quel che qui specificamente
interessa, anche l’attività di istruttoria delle domande di grazia e di
esecuzione dei relativi provvedimenti secondo quanto previsto dall’articolo 681
del Cpp.

Alla luce di tale premessa può,
pertanto, ribadirsi quanto già affermato da questa
Corte, sia pure in riferimento ad una diversa fattispecie, e cioè che il
ministro della Giustizia deve ritenersi legittimato a resistere nei giudizi per
conflitto quale «diretto titolare delle competenze determinate dall’articolo
110 della Costituzione», il cui esercizio venga assunto come causa di
menomazione delle attribuzioni di altri poteri dello Stato (sentenza 379/92).

4. Così determinata la
legittimazione a stare in giudizio delle parti, in relazione
alla esatta individuazione del thema decidendum, deve preliminarmente
osservarsi come la questione all’esame di questa Corte concerna non già la
titolarità del potere di grazia, espressamente attribuita dalla Costituzione
(articolo 87, penultimo comma) al Presidente della Repubblica, bensì le
concrete modalità del suo esercizio. Nel ricorso si assume, in particolare, che
il ruolo del Ministro si risolverebbe in una doverosa collaborazione con il
Capo dello Stato nelle varie fasi del procedimento. Il Ministro in tal modo
sarebbe chiamato a contribuire, nel segno di una leale collaborazione tra
poteri, alla formazione della volontà presidenziale mediante lo svolgimento di attività cui dovrebbe essere attribuita valenza
essenzialmente “istruttoria”.

5. Ciò precisato, il ricorso, nel
merito, deve ritenersi fondato sulla base delle considerazioni che seguono.

5.1. Prerogativa personale dei
sovrani assoluti, la concessione della grazia ha sostanzialmente mantenuto tale
carattere anche dopo l’avvento della Monarchia costituzionale, essendo quello
di dispensare dalle pene il segno massimo del potere, che attribuiva
particolare autorità e prestigio alla figura del Monarca.

È, dunque, in tale contesto storico – quanto all’esperienza italiana – che,
dapprima, nell’articolo 5 del Proclama dell’8 febbraio 1848 (atto con il quale
veniva preannunciata da Carlo Alberto l’emanazione dello Statuto), e,
successivamente, nell’articolo 8 dello Statuto stesso, venne riconosciuto al Re
il potere di «far grazia e commutare le pene». Prerogativa,
evidentemente, concepita in stretta connessione con i caratteri della
«inviolabilità» e «sacralità» della persona del Monarca. Non
irrilevante, tuttavia, appare la circostanza che, mentre nel primo dei citati
testi normativi l’esercizio del potere de quo veniva
ascritto alla sfera del “giudiziario” (il predetto articolo 5, difatti,
recitava: «ogni giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo nome. Egli può
far grazia e commutare le pene»), nel secondo, viceversa, si recideva tale
legame. Alla previsione, difatti, dell’articolo 8 dello Statuto («il Re può far
grazia, e commutare le pene») corrispondeva quella autonoma
dell’articolo 68 (secondo cui «la Giustizia emana dal Re, ed è amministrata in
suo Nome dai Giudici ch’Egli istituisce»), e ciò quasi a sottolineare che
l’adozione del provvedimento di clemenza si poneva, già allora, come l’esito di
un giudizio equitativo del tutto diverso da quello riservato agli organi
giurisdizionali; ciò che rendeva l’esercizio del potere di grazia non idoneo ad
essere gestito dalla magistratura il cui compito è “fare giustizia” applicando
la legge.

Non è quindi casuale, nella
medesima prospettiva, che già il primo codice di rito penale del Regno d’Italia
(quello del 1865) prevedesse – all’articolo 826 – che
le «suppliche per grazia di pene pronunziate» fossero «dirette al re, e
presentate al Ministro di grazia e giustizia», dettando così una norma che, se
non dirimeva la questione circa la natura della grazia (e la sua titolarità),
indicava tuttavia il luogo opportuno della sua trattazione, distinto dalla sede
giurisdizionale.

5.2. Mutato il quadro
istituzionale con il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, va ricordato il
punto saliente del dibattito svoltosi nell’Assemblea
costituente, che portò a riconfermare – nel testo della Costituzione del 1948 –
il Capo dello Stato quale titolare di un potere intimamente connesso, almeno da
un punto di vista storico, alla figura del Monarca. L’articolo 87, comma 11,
della Costituzione, dettando una disposizione sostanzialmente identica
all’articolo 8 dello Statuto albertino, ha infatti
stabilito che il Presidente della Repubblica «può concedere grazia e commutare
le pene».

Si discusse, allora, in ordine alle implicazioni di tale scelta, ponendosi
prevalentemente l’accento sull’evoluzione conosciuta – già nella prassi
statutaria – dall’istituto in esame. In particolare, si sottolineò
nella seduta assembleare del 22 ottobre del 1947 come il potere di concedere la
grazia, rientrante in origine tra quelle «attribuzioni (…) ancora di natura
personale, residui dei diritti propri dei monarchi, senza alcun concorso di
altri organi costituzionali», avesse progressivamente mutato natura già sotto
il vigore del regime monarchico. Dalla affermazione
secondo cui, allorché «il re fa la grazia, la fa come persona, non la fa in
quanto rappresenta lo Stato», si era progressivamente passati al riconoscimento
che «il Capo dello Stato della monarchia, secondo lo Statuto albertino, non ha
nessun potere personale; tutti i suoi poteri sono esercitati in quanto
rappresentante dello Stato e tutti sottoposti al principio generale della
responsabilità ministeriale».

Non casualmente, quindi, nel
medesimo impianto costituzionale configurato nel 1948, venne
ribadita la necessità che tutti gli atti del Presidente della Repubblica, a
pena di invalidità, dovessero essere controfirmati dai Ministri «proponenti»
(espressione equivalente, secondo l’interpretazione successivamente invalsa, a
quella di Ministri «competenti»), respingendo l’Assemblea costituente la
proposta – avanzata nel corso di quella stessa seduta del 22 ottobre 1947 – di
escludere dall’obbligo della controfirma gli atti presidenziali adottati «in
via di prerogativa».

6. Inquadrato storicamente
l’istituto, diventa rilevante stabilire – ai fini della risoluzione del
presente conflitto – quale tipo di relazione intercorra
tra il Capo dello Stato, titolare del potere di grazia, ed il ministro della
Giustizia, il quale, responsabile dell’attività istruttoria e quindi a tale
titolo partecipe del procedimento complesso in cui si snoda l’esercizio del
potere in esame, è chiamato a predisporre il decreto che dà forma al
provvedimento di clemenza, nonché a controfirmarlo e, successivamente, a
curarne l’esecuzione.

Sul punto, come
è noto, si è sviluppato un ampio dibattito nel corso del quale sono
emersi diversi orientamenti che, sulla base di percorsi argomentativi anche
molto diversificati, vanno dalla configurazione della grazia come atto
costituente “prerogativa presidenziale” a quella di un “atto complesso”, alla
cui formazione dovrebbero concorrere, in modo paritario, le due volontà del
Presidente della Repubblica e del Ministro Guardasigilli, non senza passare
attraverso altre distinte ed intermedie opzioni interpretative.

È, dunque, rilevante, per la
soluzione della questione posta, individuare la funzione propria del potere di
grazia, anche alla luce della prassi sviluppatasi, nel periodo repubblicano,
nelle relazioni tra Capo dello Stato e Ministro Guardasigilli.

6.1. Orbene, deve ritenersi, al
riguardo, che l’esercizio del potere di grazia risponda a finalità
essenzialmente umanitarie, da apprezzare in rapporto ad una serie di
circostanze (non sempre astrattamente tipizzabili), inerenti alla persona del
condannato o comunque involgenti apprezzamenti di
carattere equitativo, idonee a giustificare l’adozione di un atto di clemenza
individuale, il quale incide pur sempre sull’esecuzione di una pena validamente
e definitivamente inflitta da un organo imparziale, il giudice, con le garanzie
formali e sostanziali offerte dall’ordinamento del processo penale.

La funzione della grazia è,
dunque, in definitiva, quella di attuare i valori costituzionali, consacrati
nel terzo comma dell’articolo 27 Costituzione, garantendo soprattutto il «senso
di umanità», cui devono ispirarsi tutte le pene, e ciò
anche nella prospettiva di assicurare il pieno rispetto del principio
desumibile dall’articolo 2 Costituzione, non senza trascurare il profilo di
«rieducazione» proprio della pena.

Questa peculiare connotazione
funzionale del potere di grazia appare, del resto, coerente con quanto
affermato dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Questa Corte nello
scrutinare, in particolare, l’istituto della grazia “condizionata”, ha
osservato come esso assolva ad un compito «logicamente
parallelo alla individualizzazione della pena, consacrata in linea di principio
dall’articolo 133 Cp», tendendo «a temperare il rigorismo dell’applicazione
pura e semplice della legge penale mediante un atto che non sia di mera
clemenza, ma che, in armonia col vigente ordinamento costituzionale, e
particolarmente con l’articolo 27 Costituzione, favorisca in qualche modo
l’emenda del reo ed il suo reinserimento nel tessuto sociale» (sentenza
134/76).

È evidente, altresì, come –
determinando l’esercizio del potere di grazia una deroga al principio di
legalità – il suo impiego debba essere contenuto entro
ambiti circoscritti destinati a valorizzare soltanto eccezionali esigenze di
natura umanitaria. Ciò vale a superare il dubbio – al quale ha sostanzialmente
fatto riferimento lo stesso Guardasigilli nella nota 24 novembre 2004, che ha
occasionato il conflitto – che il suo esercizio possa dare luogo ad una
violazione del principio di eguaglianza consacrato
nell’articolo 3 della Costituzione.

6.2. La stessa disamina della
prassi formatasi sulla concessione della grazia dopo l’avvento della
Costituzione repubblicana, pone in evidenza, in base a
dati statistici ministeriali, l’esistenza di una ulteriore evoluzione
dell’istituto, o meglio della funzione assolta con il suo impiego.

Se infatti
molto frequente, fino alla metà degli anni ’80 del secolo appena concluso, si è
presentato il ricorso a tale strumento, tanto da legittimare l’idea di un suo
possibile uso a fini di politica penitenziaria, a partire dal 1986 – ed in
coincidenza, non casualmente, con l’entrata in vigore della legge 663/86
(Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
misure privative e limitative della libertà) – si è assistito ad un
ridimensionamento nella sua utilizzazione: valga, a titolo esemplificativo, il
raffronto tra i 1.003 provvedimenti di clemenza dell’anno 1966 e gli appena 104
adottati nel 1987, ma il dato numerico è ulteriormente diminuito negli anni
successivi, riducendosi fino a poche decine.

Un’evenienza, quella appena
indicata, da ascrivere – come si notava – all’introduzione di una apposita legislazione in tema di trattamento carcerario
ed esecuzione della pena detentiva. Ciò nella convinzione che le ordinarie
esigenze di adeguamento delle sanzioni applicate ai
condannati alle peculiarità dei casi concreti – esigenze fino a quel momento
soddisfatte in via pressoché esclusiva attraverso l’esercizio del potere di
grazia – dovessero realizzarsi mediante l’impiego, certamente più appropriato
anche per la loro riconduzione alla sfera giurisdizionale, degli strumenti
tipici previsti dall’ordinamento penale, processual-penale e penitenziario (ad
esempio, liberazione condizionale, detenzione domiciliare, affidamento ai servizi
sociali ed altri).

Ciò ha fatto sì, dunque, che
l’istituto della grazia sia stato restituito – correggendo la prassi, per certi
versi distorsiva, sviluppatasi nel corso dei primi decenni di
applicazione della disposizione costituzionale di cui all’articolo 87,
comma 11, Costituzione – alla sua funzione di eccezionale strumento destinato a
soddisfare straordinarie esigenze di natura umanitaria.

7. L’evoluzione
legislativa e della prassi appena illustrata concorre a meglio definire i
rispettivi ruoli esercitati dal Presidente della Repubblica e dal Ministro
Guardasigilli nel procedimento complesso che culmina nell’emanazione del
decreto di concessione della grazia o di commutazione della pena.

7.1. In particolare, una volta
recuperato l’atto di clemenza alla sua funzione di mitigare o elidere il
trattamento sanzionatorio per eccezionali ragioni umanitarie, risulta evidente la necessità di riconoscere nell’esercizio
di tale potere – conformemente anche alla lettera dell’articolo 87, comma 11,
Costituzione – una potestà decisionale del Capo dello Stato, quale organo super
partes, «rappresentante dell’unità nazionale», estraneo a quello che viene
definito il “circuito” dell’indirizzo politico-governativo, e che in modo
imparziale è chiamato ad apprezzare la sussistenza in concreto dei presupposti
umanitari che giustificano l’adozione del provvedimento di clemenza.

Infine, si deve rilevare come
l’indicata conclusione risponda ad un’ulteriore
esigenza, quella cioè di evitare che nella valutazione dei presupposti per
l’adozione di un provvedimento avente efficacia “ablativa” di un giudicato
penale possano assumere rilievo le determinazioni di organi appartenenti al
potere esecutivo.

L’esame della giurisprudenza
della Corte (sentenze 274/90, 114/79, 192/76, 204 e 110/74) induce a ritenere
ormai consolidato l’orientamento che, con implicito riferimento al principio di
separazione dei poteri, esclude ogni coinvolgimento di esponenti
del Governo nella fase dell’esecuzione delle sentenze penali di condanna, in
ragione della sua giurisdizionalizzazione ed in ossequio al principio secondo
il quale solo l’autorità giudiziaria può interloquire in materia di esecuzione
penale.

Significativa,
a tale proposito, è la già citata sentenza 274/90 con la quale questa Corte ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 589, comma 3, del Cpp
del 1930, il quale stabiliva che «nel caso previsto dall’articolo 147, primo
comma, n. 1, del codice penale» (presentazione della domanda di grazia),
spettasse «al ministro di Grazia e Giustizia e non al Tribunale di sorveglianza
il potere di differire l’esecuzione della pena». Alla declaratoria
di illegittimità della norma censurata questa Corte
perveniva in base al rilievo secondo cui l’ipotesi contemplata nell’articolo
147, comma 1, n. 1, del codice penale è, unitamente ad altre analoghe,
«espressione d’uno stesso principio, attinente all’ingerenza del potere
esecutivo, dopo la pronuncia di sentenza definitiva di condanna, in decisioni
riservate all’autorità giudiziaria», e dunque evidenziando la necessità «che i
residui poteri ministeriali in tema di differimento dell’esecuzione della pena
detentiva» venissero, invece, «rimessi alla competenza dell’autorità
giudiziaria di sorveglianza».

7.2. Detto ciò, rimane da chiarire – ai fini della risoluzione del presente
conflitto – quali siano i compiti spettanti al Guardasigilli nell’ambito
dell’attività finalizzata all’adozione del provvedimento di clemenza.

In via preliminare, occorre
puntualizzare che il decreto di grazia è la risultante di un vero e proprio
procedimento – così è qualificato nella stessa rubrica dell’abrogato articolo
595 del Cpp del 1930 – che si snoda attraverso una pluralità di
atti e di fasi. Tale procedimento è stato tenuto ben presente dallo
stesso legislatore costituente nel momento in cui, con l’articolo
87, comma 11, Costituzione ha annoverato tra i poteri del Capo dello
Stato quello di concedere la grazia e commutare le pene.

7.2.1. L’analisi di tale
complessa procedura deve muovere dalla lettura dell’articolo 681 Cpp, il quale
prevede, innanzitutto, che l’“iniziativa” – salva l’ipotesi della «proposta»
proveniente dal presidente del consiglio di disciplina (comma 3) – possa essere
assunta dal condannato ovvero da un suo prossimo congiunto, dal convivente, dal
tutore, dal curatore, da un avvocato, che sottoscrivono
la «domanda» di grazia, «diretta al Presidente della Repubblica» e «presentata»
al ministro della Giustizia (comma 1).

La medesima disposizione – con
un’innovazione significativa rispetto alle previgenti
discipline contenute nei codici di rito penale del 1865 (articoli da 826 a
829), del 1913 (articolo 592), ed infine del 1930 (articolo 595) – ha,
peraltro, riconosciuto espressamente la possibilità che la grazia sia «concessa
anche in assenza di domanda o proposta»
(articolo 681, comma 4, cod. proc. pen.). In ogni caso l’iniziativa potrà
essere assunta direttamente dal Presidente della Repubblica al quale da tempo
si è riconosciuto tale potere.

E si è anche chiarito quanto era
dato per presupposto sotto il vigore della legislazione previgente, cioè nell’esperienza costituzionale statutaria: già da
allora si riteneva, infatti, che la presentazione della domanda non fosse
indispensabile affinché potesse esplicarsi la prerogativa regia prevista
dall’articolo 8 dello Statuto, giacché altrimenti, sarebbe stata introdotta,
con legge ordinaria, una limitazione incompatibile con la natura dell’istituto.

7.2.2. Instaurato, dunque, il
procedimento, la prima fase è quella dell’“istruttoria”, che ai sensi
dell’articolo 681, comma 2, Cpp prevede uno svolgimento differenziato
a seconda che il condannato risulti, o meno, detenuto o internato.

Nel primo caso è il magistrato di
sorveglianza che, acquisiti tutti gli elementi di giudizio utili e le
osservazioni del Procuratore generale presso la competente Corte di appello, provvede alla loro trasmissione al ministro
della Giustizia, unitamente ad un motivato parere.

Nella seconda ipotesi è, invece,
direttamente il Procuratore generale a trasmettere al Guardasigilli le opportune
informazioni con le proprie osservazioni.

La prassi delle relazioni tra il
Ministro e gli organi giurisdizionali ha poi portato a
meglio precisare quali siano le «informazioni»
e gli «elementi di giudizio» da utilizzare ai fini della determinazione circa
la concessione, o meno, della clemenza nei singoli casi.

Tra tali elementi vanno
ricompresi – oltre ovviamente quelli desumibili dalla sentenza di condanna, dai
precedenti dell’interessato e dai procedimenti in corso a suo carico – anche le
dichiarazioni delle parti lese o dei prossimi congiunti della vittima, circa il
risarcimento del danno e la concessione del perdono, nonché,
in relazione alla valutazione della personalità del soggetto, le informazioni
inerenti alle condizioni familiari e a quelle economiche, alla condotta
dell’interessato, richiedendosi, infine, per i detenuti anche l’estratto della
cartella personale ed il c.d. rapporto di condotta.

7.2.3. La valutazione di suddetti
elementi, ed in particolare dei pareri espressi dagli organi giurisdizionali, è
effettuata in sede ministeriale. A conclusione della istruttoria
il Ministro decide se formulare motivatamente la “proposta” di grazia al
Presidente della Repubblica ovvero se adottare un provvedimento di
archiviazione. E delle avvenute archiviazioni è da
qualche tempo data notizia periodicamente al Capo dello Stato.

7.2.4. Se il
Guardasigilli formula la “proposta” motivata di grazia e predispone lo schema
del provvedimento mostra ovviamente con ciò di ritenere sussistenti i
presupposti, sia di legittimità che di merito, per la concessione dell’atto di
clemenza.

Spetterà, poi, al Presidente
della Repubblica valutare autonomamente la ricorrenza, sulla base dell’insieme
degli elementi trasmessi dal Guardasigilli, di quelle ragioni essenzialmente umanitarie
che giustificano l’esercizio del potere in esame. In caso di valutazione positiva del Capo dello Stato seguirà la controfirma del
decreto di grazia da parte del Ministro, che provvederà a curare anche gli
adempimenti esecutivi.

Quanto, segnatamente, alla
controfirma, pur necessaria per il completamento della fattispecie, è da
rilevare – in via generale – come essa assuma un
diverso valore a seconda del tipo di atto di cui rappresenta il completamento
o, più esattamente, un requisito di validità. È chiaro, infatti, che alla
controfirma va attribuito carattere sostanziale quando
l’atto sottoposto alla firma del Capo dello Stato sia di tipo governativo e,
dunque, espressione delle potestà che sono proprie dell’Esecutivo, mentre ad
essa deve essere riconosciuto valore soltanto formale quando l’atto sia
espressione di poteri propri del Presidente della Repubblica, quali – ad
esempio – quelli di inviare messaggi alle Camere, di nomina di senatori a vita
o dei giudici costituzionali. A tali atti deve essere equiparato quello di
concessione della grazia, che solo al Capo dello Stato è riconosciuto
dall’articolo 87 della Costituzione.

7.2.5. Qualora, invece, il
Ministro valuti negativamente i risultati della istruttoria
effettuata e ritenga non sussistenti i necessari requisiti di legittimità e/o
di merito per la concessione della grazia, l’esito della procedura può
conoscere talune varianti, dipendenti dalle peculiarità delle circostanze
concrete.

Innanzitutto, come si è detto,
può essere disposta l’archiviazione. Ma se il Capo dello Stato abbia, a seguito della comunicazione e/o conoscenza della
decisione di archiviazione, sollecitato, previa eventuale acquisizione di una
apposita informativa orale o scritta (c.d.
“relazione obiettiva”), il compimento dell’attività istruttoria, il Ministro
non ha il potere di impedire la prosecuzione del procedimento.

Qualora, invece, l’iniziativa sia
direttamente presidenziale, il Capo dello Stato può chiedere al Ministro
l’apertura della procedura di concessione della grazia; anche in questo caso il
Guardasigilli ha l’obbligo di iniziare e concludere la
richiesta attività istruttoria, formulando la relativa proposta.

Nelle suddette ipotesi, un
eventuale rifiuto da parte del Ministro precluderebbe, sostanzialmente,
l’esercizio del potere di grazia, con conseguente menomazione di una attribuzione che la Costituzione conferisce – quanto
alla determinazione finale – al Capo dello Stato.

In definitiva, qualora il Presidente
della Repubblica abbia sollecitato il compimento dell’attività istruttoria
ovvero abbia assunto direttamente l’iniziativa di
concedere la grazia, il Guardasigilli, non potendo rifiutarsi di dare corso
all’istruttoria e di concluderla, determinando così un arresto procedimentale,
può soltanto rendere note al Capo dello Stato le ragioni di legittimità o di
merito che, a suo parere, si oppongono alla concessione del provvedimento.

Ammettere che il Ministro possa o
rifiutarsi di compiere la necessaria istruttoria o tenere comunque
un comportamento inerte, equivarrebbe ad affermare che egli disponga di un
inammissibile potere inibitorio, una sorta di potere di veto, in ordine alla
conclusione del procedimento volto all’adozione del decreto di concessione della
grazia voluto dal Capo dello Stato.

Il Presidente della Repubblica,
dal canto suo, nella delineata ipotesi in cui il Ministro Guardasigilli gli abbia fatto pervenire le sue motivate valutazioni contrarie
all’adozione dell’atto di clemenza, ove non le condivida, adotta direttamente
il decreto concessorio, esternando nell’atto le ragioni per le quali ritiene di
dovere concedere ugualmente la grazia, malgrado il dissenso espresso dal
Ministro.

Ciò significa che, a fronte della
determinazione presidenziale favorevole alla adozione
dell’atto di clemenza, la controfirma del decreto concessorio, da parte del
Ministro della giustizia, costituisce l’atto con il quale il Ministro si limita
ad attestare la completezza e la regolarità dell’istruttoria e del procedimento
seguito.

Da ciò consegue anche che
l’assunzione della responsabilità politica e giuridica del Ministro
controfirmante, a norma dell’articolo 89 della
Costituzione, trova il suo naturale limite nel livello di partecipazione del
medesimo al procedimento di concessione dell’atto di clemenza.

8. Sulla base delle
considerazioni che precedono, facendo applicazione di tali principi al caso di
specie, deve concludersi per l’accoglimento del
ricorso proposto dal Presidente della Repubblica.

Il ministro della Giustizia,
difatti, ha omesso di dar corso alla procedura per la
concessione della grazia ad Ovidio Bompressi, sebbene, con nota dell’8 novembre
2004, l’odierno ricorrente abbia manifestato la propria determinazione
di volere concedere il provvedimento di clemenza.

Va, pertanto, dichiarato che non
spettava al ministro della Giustizia impedire la prosecuzione del procedimento
volto alla adozione della determinazione presidenziale
relativa alla concessione della grazia, con la conseguenza che deve essere disposto
l’annullamento della impugnata nota ministeriale del 24 novembre 2004.

PQM

La Corte costituzionale dichiara,
in accoglimento del ricorso, che non spettava al ministro della Giustizia di
impedire la prosecuzione del procedimento volto alla adozione
della determinazione del Presidente della Repubblica relativa alla concessione
della grazia ad Ovidio Bompressi e, pertanto, dispone l’annullamento della
impugnata nota ministeriale del 24 novembre 2004.