Penale

Thursday 29 January 2004

La sentenza definitiva sulla strage della stazione Bologna. Cassazione Sezione sesta penale (up) sentenza 17 dicembre 2003-27 gennaio 2004, n. 2852

La sentenza definitiva sulla “strage della stazione Bologna”.

Cassazione – Sezione sesta penale (up) – sentenza 17 dicembre 2003-27 gennaio 2004, n. 2852

Presidente Ambrosini – relatore Cortese

Pm Galati – ricorrente Ciavardini

Fatto

Imputazione

Ciavardini Luigi venne tratto a giudizio dinanzi al Tribunale per i minorenni di Bologna per rispondere:

1. del delitto previsto e punito dall’articolo 306 Cp, perché (come da imputazione modificata dal Pm in udienza), in concorso con le persone indicate nell’ordinanza del Giudice istruttore di Bologna 344/80 in data 14 giugno 1986 (ed in particolare in concorso con Fioravanti Giuseppe Valerio, Mambro Francesca, Cavallini Gilberto e Giuliani Egidio) costituiva, promuoveva, organizzava e comunque vi partecipava in Roma, Bologna, una banda armata con particolare riferimento alla commissione dei delitti: omicidio Maurizio Arnesano del 6 febbraio 1980; omicidio di Franco Evangelista (fatti del Giulio Cesare) del 28 maggio 1980, omicidio del dottor Mario Amato del 23 giugno 1980, strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980;

2) del delitto di cui agli articoli 110, 285, 422 Cp, 2, 4, 6 legge 895/67 (modif con legge 497/74), e 21 e 29 legge 110/75, perché, in concorso con Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e con persone da identificare, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commetteva un fatto diretto a portare la strage nel territorio nazionale, concertando, promuovendo, deliberando, organizzando ed eseguendo materialmente il porto e la collocazione di un ordigno esplosivo nella sala d’attesa della stazione ferroviaria di Bologna, con il preventivato voluto fine di uccidere (tenuto conto della potenzialità dell’ordigno e dell’ora dello scoppio ‑ 10,25 del primo sabato di agosto nel più importante scalo ferroviario nazionale) un numero elevatissimo di persone, oltre che di ferirne molte altre, cagionando in effetti la morte di 85 persone (condotta iniziata in località imprecisata e cessata in Bologna il 2 agosto 1980);

3) del delitto previsto e punito dagli articoli 81 cpv., 110, 575, 577 n.3 Cp, articolo 1 Dl 625/79, perché in concorso con Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e con persone da identificare, con le condotte sopra descritte cagionava la morte o istantanea o derivante dalle gravissime lesioni, di 85 persone;

4) del delitto previsto e punito dagli articoli 110 Cp, 4 legge 895/67, mod. dall’articolo 12 legge 497/74, con l’aggravante dell’articolo 1 Dl 625/79, per avere, in concorso con Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e con persone da identificare, collocato, nella sala di attesa di seconda classe della stazione centrale di Bologna delle Ffss un ordigno esplosivo, al fine di commettere il delitto sub.2);

5) del delitto previsto e punito dagli articoli 110, 81 cpv., 582, 583 Cp, articolo 1 Dl 625/79, perché in concorso con Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e con persone da identificare, con la condotta di cui sopra, cagionava a oltre 150 persone lesioni personali multiple, tra le quali alcune di durata superiore ai 40 giorni, aggravate dalla sussistenza di postumi permanenti ed esposizioni o pericolo di vita;

6) del delitto previsto e punito dagli articoli 110, 635, in relazione all’articolo 625 n. 7, 61 n. 7, Cp, perché in concorso con Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e con persone da identificare, con la condotta di cui sopra, cagionava la distruzione di una importante porzione degli impianti ferroviari di Bologna e la parziale distruzione di materiale rotabile, con gravissimo danno patrimoniale delle Ferrovie dello Stato, nonché arredi e beni privati;

7) del delitto previsto e punito dagli articoli 81 cpv., 110, 420 p.p. e cpv. Cp (come modificato con articolo 1 Dl 59/1978), perché in concorso Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e con persone da identificare, collocava l’ordigno allo scopo di danneggiare gli impianti ferroviari di Bologna, determinandone il grave danneggiamento e la distruzione della sala d’attesa.

Giudizio di primo grado

Il giudizio a carico del Ciavardini iniziò solo dopo la definitiva conclusione del processo a carico dei coimputati adulti Fioravanti e Mambro, che, dopo alterne vicende, sfociava nella sentenza 16 maggio 1994 della prima Corte d’assise d’appello di Bologna (divenuta irrevocabile il 23 novembre 1995), che, giudicando in sede di rinvio, dichiarava Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro colpevoli del reato di strage e degli altri delitti connessi.

Con sentenza del 30 gennaio 2000 il Tribunale per i Minorenni di Bologna dichiarava il Ciavardini colpevole del delitto di banda armata e, ritenuta la diminuente dell’età minore, lo condannava alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione, con l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque, mentre lo assolveva dai reati ascrittigli ai capi 2), 3), 4), 5), 6) e 7) della rubrica per non aver commesso il fatto.

Il Tribunale per i Minorenni di Bologna confermava la validità dell’impianto accusatorio posto a fondamento della decisione irrevocabile assunta contro Giuseppe Vaterio Fioravanti e Francesca Mambro. Tutti gli indizi acquisiti in quel processo, arricchiti di particolari emersi nel corso del giudizio minorile, venivano di nuovo singolarmente vagliati e se ne accertavano la gravità e la precisione.

In particolare la tesi della colpevolezza del Fioravanti e della Mambro veniva condivisa essenzialmente in ragione dei seguenti elementi:

A) le dichiarazioni rese da Massimo Sparti, coimputato dei due in un diverso procedimento, il quale aveva riferito che il pomeriggio del 4 agosto 1980, presentatisi a casa sua Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, il primo aveva detto «hai visto che botto!», aggiungendo che, per passare inosservato, si era vestito in modo da sembrare un turista tedesco, e che invece la Mambro poteva esser stata notata, ragion per cui «le aveva fatto tingere i capelli» e per questo la donna aveva urgentissimo bisogno di documenti falsi (che doveva appunto procurarle lo Sparti);

B) la valutazione delle incertezze e contraddizioni dell’alibi fornito per la giornata del due agosto 1980;

C) la testimonianza resa da Cecilia Loreti, che aveva riferito che Ciavardini, nell’imminenza della strage, telefonò a lei, a Marco Pizzari e a Elena Venditti (fidanzata del prevenuto), per far loro rinviare il viaggio da Roma a Venezia, spostando un precedente appuntamento solo perché aveva appreso da Fioravanti e Mambro che la strage sarebbe stata compiuta il 2 agosto;

D) le presunte motivazioni che avrebbero spinto gli stessi Fioravanti e Mambro, in concorso con altri, a uccidere il 9 settembre 1980 Francesco Mangiameli, individuate nella circostanza che quest’ultimo sapeva del loro coinvolgimento nella strage e si era rivelato un traditore, avendo in particolare parlato con un agente dei Servizi segreti, il colonnello Amos Spiazzi, il quale, sia pure in modo criptico, aveva divulgato il contenuto del colloquio in un’intervista rilasciata a un diffuso settimanale, lasciando intendere che il suo informatore era un certo “Ciccio” (identificabile in esso Mangiameli).

Circa il Ciavardini, il primo giudice riteneva raggiunta la prova certa, oltre che degli estremi del delitto di banda armata, delle seguenti circostanze:

a) Luigi Ciavardini, latitante a seguito dell’omicidio dell’agente della Polizia di Stato Franco Evangelista, nella seconda metà di luglio del 1980 aveva trovato rifugio nei pressi di Treviso, in un “covo” messogli a disposizione da Gilberto Cavallini;

b) il 1° agosto 1980 era stato raggiunto da Giuseppe Valerio Fioravanti e da Francesca Mambro: i due lo avevano informato che nella mattinata del giorno successivo avrebbero fatto deflagrare una bomba nella stazione ferroviaria di Bologna;

c) Luigi Ciavardini il 2 agosto 1980 si sarebbe dovuto incontrare a Venezia con la fidanzata, Elena Venditti, e con due amici, Cecilia Loreti e Marco Pizzari; ma, dopo aver appreso le intenzioni di Mambro e Fioravanti, aveva immediatamente differito l’appuntamento di ventiquattro o quarantotto ore, adducendo l’insorgere di “gravi problemi”;

d) i “gravi problemi” non erano collegati, come aveva in seguito sostenuto l’imputato, all’impossibilità di disporre di un documento falso “sicuro” e neppure al desiderio di trascorrere qualche giorno in compagnia di Fioravanti e della Mambro: erano invece collegati proprio alla notizia, appena ricevuta, della strage che stava per compiersi;

e) più specificatamente, il viaggio a Venezia della Venditti, della Loreti e del Pizzari era stato rinviato essenzialmente perché Ciavardini desiderava ‑ essere libero nella giornata del 2 agosto, anche se non si poteva del tutto escludere la simultanea volontà di proteggere la fidanzata e gli amici dal rischio di transitare a Bologna all’ora dello scoppio;

f) Luigi Ciavardini aveva affermato di aver trascorso la giornata del 2 agosto a Padova insieme a Valerio Fioravanti e Francesca Mambro; ma l’alibi era certamente falso, perché i due maggiorenni, in ora prossima alle 10,25, erano a Bologna per collocare l’ordigno nella sala d’attesa di seconda classe della stazione ferroviaria;

g) immediatamente dopo la strage, Cecilia Loreti ed Elena Venditti avevano ripensato alla telefonata di differimento ed erano state assalite da inquietanti sospetti: non appena incontrato Ciavardini, gli avevano chiesto se avesse spostato il giorno dell’appuntamento proprio per partecipare al crùnine; nei giorni successivi alla Fioravanti aveva deciso di uccidere Luigi Ciavardini giovane aveva ingenerato nelle due ragazze.

strage, la banda di Valerio per i sospetti che l’improvvida condotta del giovane aveva ingenerato nelle due ragazze.

Tuttavia, il Tribunale per i Minorenni di Bologna, nell’operare la sintesi finale, sosteneva che la concordanza di tutti gli indizi, che pure aveva consentito (e consentiva) di affermare in termini d’assoluta certezza la responsabilità dei due maggiorenni per il reato di strage, non escludeva invece di prospettare un’altra ragionevole soluzione per Luigi Ciavardini, secondo la quale questi non partecipò al crimine e «non fu investito di alcun ruolo perché non serviva o addirittura perché potenzialmente dannoso … per coloro che stavano per andare a compiere l’attentato. Nondimeno Ciavardini si senti a disposizione; e, sua sponte, restò a Treviso o da quelle parti, se non altro per raccogliere il racconto di Fioravanti e della Mambro. .. al loro ritorno».

Tale soluzione trovava tre elementi di sostegno:

1) il 1° agosto Giuseppe Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini si erano scambiati i documenti falsi di cui disponevano, consegnando il primo al secondo una patente di guida intestata ad Amedeo De Francisci e il secondo al primo un documento a nome di Flavio Caggiula; poiché tale ultimo attestato era “sicuro” (intestato a persona realmente esistente, sconosciuta alle forze dell’ordine) e la patente di guida a nome De Francisci era pressoché inutilizzabile, in quanto l’intestatario era stato da poco arrestato, secondo il Tribunale il fatto che Ciavardini non potesse più disporre «di un documento decente, involge seri dubbi sulla convenienza per la coppia Valerio (Fioravanti) Mambro di portarsi dietro un elemento divenuto a rischio per l’eventualità che qualcosa andasse storto prima o dopo l’attentato».

2) il 28 maggio 1980 Luigi Ciavardini aveva ucciso l’agente della Polizia di Stato Franco Evangelista: mentre compiva il delitto era rimasto ferito allo zigomo sinistro; era residuata una cicatrice assai vistosa, che rendeva l’immagine del suo viso facilmente memorizzabile; fatto che, ovviamente, secondo l’ottica degli attentatori sconsigliava la sua presenza alla stazione ferroviaria di Bologna la mattina del 2 agosto;

3) uno dei cardini su cui si fondava la specifica accusa rivolta all’imputato minorenne era il c.d. “baratto”: constatato che Ciavardini non era in grado di tenere il segreto sulla strage, Fioravanti, Mambro e Cavallini avevano deciso di ucciderlo, e quando tale progetto era definitivamente sfumato a seguito dell’arresto del Ciavardini, i tre, volendo impedire che questi, specie se colpito da una condanna a dura pena detentiva, finisse per divulgare le sue conoscenze, avevano deciso di scongiurare la condanna del giovane per l’omicidio del giudice Mario Amato e, per questo, dopo aver confessato le proprie responsabilità, avevano ingiustamente attribuito il ruolo in realtà svolto dal Ciavardini al defunto Giorgio Vale. Secondo il Tribunale per i Minorenni, tutte queste erano semplici congetture: infatti, se l’imputato fosse stato partecipe della strage, per accusare i correi avrebbe dovuto accusare se stesso. Quindi, l’oggetto del baratto veniva immediatamente a cadere. Se, viceversa, Ciavardini fosse rimasto ai margini dell’azione stragista, parlare di quel crimine sarebbe stato per lui ugualmente pericoloso, «visto e considerato che anch’egli faceva parte integrante del gruppo e che la sua estraneità tecnico-giuridica al terribile fatto si articola sul filo di poche sfumature. Insomma, c’era poco da temere dal Ciavardini: perché costui non aveva convenienza a parlare sia nell’uno che nell’altro caso».

Sentenza di appello

Su appello del Pm e dell’imputato, con sentenza emessa il giorno 9 marzo 2002 la Corte d’appello di Bologna, Sezione per i Minorenni, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, dichiarava il Ciavardini colpevole dei reati a lui ascritti ai capi n. 1), 2), 3), 4) e 5) della rubrica e, ritenuta la diminuente per la minore età, e con la continuazione tra detti reati, lo condannava alla pena di anni trenta di reclusione, dichiarandolo interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, mentre dichiarava non doversi procedere nei suoi confronti in ordine ai reati di cui ai capi e 7) perché estinti per prescrizione.

Rilevava in particolare la Corte che la decisione irrevocabile assunta contro gli imputati maggiorenni era assolutamente condivisibile: Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro erano colpevoli del reato di strage commesso il 2 agosto 1980 alla stazione ferroviaria di Bologna.

I motivi d’appello proposti dalla difesa dell’imputato erano infondati.

Le ragioni che avevano determinato l’assoluzione in primo grado di Luigi Ciavardini erano inconsistenti.

1 numerosi indizi già presi in esame dal Tribunale per i Minorenni erano gravi e precisi. La loro concordanza era certa: se si poneva ogni fatto in relazione agli altri il senso complessivo degli eventi si delineava con chiarezza.

La permanenza a Treviso di Luigi Ciavardini era stata predisposta da Giuseppe Valerio Fioravanti per dare attuazione al piano terroristico che la sua banda si era incaricata di portare a termine (strage a Bologna e successivo assassinio del giudice Stiz a Treviso).

Valerio Fioravanti e Francesca Mambro raggiunsero a Treviso Luigi Ciavardini e lo informarono che il giorno successivo sarebbe stato collocato l’ordigno alla stazione ferroviaria di Bologna.

Luigi Ciavardini nella giornata del 1° agosto annullò l’appuntamento preso con Elena Venditti, Cecilia Loreti e Marco Pizzari per il giorno successivo e differì l’incontro di quarantotto ore. Menti agli amici sul motivo del rinvio, falsamente affermando che esso era determinato da problemi di documenti: il differimento fu in realtà disposto perché Luigi Ciavardini, dopo il colloquio avvenuto nella notte con Fioravanti e Mambro, sapeva bene di non essere più lui stesso disponibile per la mattina del 2 agosto 1980 all’appuntamento di Venezia.

Orbene, in assenza di elementi di segno contrario, tanto già basterebbe, secondo la Corte territoriale, per affermare che Luigi Ciavardini la mattina del 2 agosto 1980 era a Bologna insieme a Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro.

Del resto, tutti i fatti accaduti dopo la strage (prima il proposito di uccidere Ciavardini; poi l’assassinio di Francesco Mangiameli, infine l’intenzione di evitare la condanna di Ciavardini per l’omicidio del giudice Amato) univocamente confortavano tale conclusione.

L’ipotesi seguita dalla sentenza di primo grado era considerata come la prospettazione di una mera possibilità, non sostenuta da elementi di prova o indiziari, apertamente in contrasto con ogni e qualsiasi verosimiglianza, del tutto svincolata dalla realtà emergente dalla lettura degli atti, non avendo, in particolare, reale pregio gli elementi valorizzati dal Tribunale a sostegno del proprio assunto (scambio di documenti fra l’imputato e il Fioravanti, cicatrice sul volto del Ciavardini, inconsistenza della tesi del “baratto” relativo alla partecipazione dell’imputato all’omicidio Amato).

Secondo la Corte bolognese, contrariamente a quanto ritenuto dai primi giudici, la mattina del 2 agosto 1980 Luigi Ciavardini non restò a Treviso, ma si allontanò a bordo dell’autovettura di Flavia Sbrojavacca in compagnia di Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Gilberto Cavallini. Tornò, sempre insieme ai suoi amici, nelle prime ore del pomeriggio. Su dove quel giorno sia andato, ha costruito un alibi falso, mentendo nell’affermare di aver trascorso la mattina del 2 agosto a Padova, insieme a Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, tra le bancarelle di un mercato che si teneva in Prato della Valle.

Ciavardini era uomo d’azione e di appartenenza, ambizioso, risoluto, audace. Il suo ruolo all’interno della banda ora diventato insostituibile, soprattutto nelle azioni militari che, come l’attentato alla stazione ferroviaria di Bologna, presentavano un elevato livello di rischio.

I rapporti personali con Valerio Fioravanti e Francesca Mambro erano strettissimi: insieme avevano compiuto gesta eroiche e insieme vivevano la drammatica esperienza della latitanza e della clandestinità, vicendevolmente aiutandosi.

Fino al 2 agosto 1980 nessun segno evidenziava o lasciava intravedere la benché minima frattura nel rapporto di amicizia e fiducia o il cambiamento di questo stile di vita.

Era dunque impensabile e contrario a ogni logica giuridica che, dopo essere stato messo a parte del progetto e dopo essersi liberato da tutti gli impegni che aveva assunti, trovandosi nello stesso tempo e nello stesso luogo con gli amici e sodali che stavano per compiere l’attentato alla stazione ferroviaria di Bologna, punto d’arrivo del progetto politico e della “micidiale escalation militare” fortemente voluti da tutti i membri della banda, partisse con loro alla volta dell’obiettivo, ma se ne stesse in disparte o a mani levate.

Così come era impensabile che Giuseppe Valerio Fioravanti nel momento in cui doveva portare la sua banda a realizzare l’azione più clamorosa e pericolosa del programma politico, azione che secondo il suo sentire avrebbe aperto le porte alla rivoluzione da lui stesso fortemente voluta, dopo aver messo sull’avviso l’unico uomo che gli aveva dato prova sicura della freddezza e determinazione indispensabili per portare a compimento il crimine, partisse con lui e rinunciasse senza alcun plausibile motivo alla sua complicità.

Luigi Ciavardini il 2 agosto 1980 era, quindi, ad avviso della Corte d’appello minorile, a Bologna con Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro e con loro commise la strage alla stazione ferroviaria, svolgendo, alla stregua delle mansioni da lui svolte in seno alla banda annata (di organizzatore, ma con funzione esclusivamente operativa), dell’audacia e risolutezza da lui dimostrate in precedenti azioni, un compito determinante, non di sorveglianza o copertura, bensì direttamente connesso alla materiale esecuzione del crimine.

Ricorso dell’imputato

Avverso la decisione di appello propone ricorso il prevenuto, denunciando, sotto vari profili, vizio di motivazione, travisamento del fatto, violazione degli articoli 192 e 546 Cpp.

Motivo 1). In via generale il ricorrente lamenta anzitutto che sono stati utilizzati contro di lui gli elementi indiziari esistenti nei confronti dei soli Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, come risultanti dalla sentenza di condanna irrevocabile emessa dalla Corte d’assise d’appello di Bologna in data 16 maggio 1994 (si tratta in particolare delle dichiarazioni di Massimo Sparti e del complesso accusatorio relativo alla reale motivazione della uccisione di Francesco Mangiameli), incorrendo così nella grave illogicità di far discendere la prova della partecipazione di Ciavardini alla strage di Bologna dalla sua presenza (dovuta invece alla necessità di nascondersi, in quanto era ricercato per gravissimi reati) in quel di Treviso, insieme a Mambro, Fioravanti e Cavallini, all’inizio del mese di agosto del 1980, nonché dall’affermazione del Ciavardini di avere trascorso la mattina del 2 agosto a Padova insieme a Mambro, Fioravanti e Cavallini: illogicità accresciuta dal fatto che la sentenza nulla dice riguardo alla presunta partecipazione all’attentato di Gilberto Cavallini, la cui posizione è perfettamente equiparabile a quella di Ciavardini.

Del tutto indefiniti e indimostrati sarebbero fra l’altro rimasti il ruolo rivestito dal Ciavardini nell’attentato e le ragioni (non certo rinvenibili nelle sue utili doti di coraggio fisico) della essenzialità della sua partecipazione allo stesso, specificamente sconsigliata (come già ritenuto dal Tribunale) dalla circostanza che il giovane non possedeva un documento d’identità rassicurante, avendogli il Fioravanti imposto “manu militari” lo scambio di documenti falsi Caggiula-De Francisci; per non parlare della non acclarata disponibilità, in capo al Ciavardini e/o alle altre persone condannate, dell’esplosivo impiegato a Bologna.

Vengono poi sottoposti ad analitica critica i vari tasselli posti a sostegno della tesi accusatoria, a cominciare da quello relativo al c.d. “baratto”, consistito nel tentativo operato nella metà degli anni ‘80 da Fioravanti, Mambro e Cavallini di scagionare il Ciavardini da ogni responsabilità nell’omicidio del dottor Mario Amato, per il timore che il giovane, qualora condannato ad una lunga pena, in preda allo sconforto potesse rivelare alla Magistratura particolari compromettenti sulla strage di Bologna.

L’illogicità di tale argomento scaturirebbe già dalla circostanza, non considerata dalla Corte, che Angelo Izzo (personaggio notoriamente incline alla calunnia) e Raffaella Furiozzi, propalatori dell’asserita confidenza ricevuta in tal senso da Cristiano Fioravanti, sono stati smentiti dalla stessa fonte.

La sentenza non avrebbe neppure considerato che il Ciavardini nell’epoca considerata era già detenuto da anni (come pure Mambro, Fioravanti e Cavallini) e che nei suoi confronti pendevano (fin dal 1980) le accuse di omicidio in danno dell’agente Arnesano (febbraio 1980) e dell’agente Evangelista (maggio 1980), oltre all’addebito di gravi delitti associativi, onde l’eventuale scagionamento per il delitto Amato non lo avrebbe fatto uscire dal carcere ancora per molti anni (la pena per le condanne subite in ordine ai delitti sopra riferiti è terminata il 2 agosto 2000) e non avrebbe dunque eliminato le preoccupazioni sulla sua “tenuta” carceraria.

Inoltre, il timore di presunte rivelazioni di Ciavardini sulla strage di Bologna in via logica escluderebbe una sua partecipazione all’attentato (che interesse avrebbe avuto costui ad autoaccusarsi di un fatto di simile gravità?) e sarebbe stato invece più plausibilmente compatibile con la sua semplice conoscenza degli autori dell’attentato, senza alcun proprio coinvolgimento personale, non volendo considerare anche la possibilità che il Ciavardini abbia fornito a Fioravanti e Mambro un alibi per il giorno della strage in cambio della propria estromissione dall’accusa per l’omicidio Amato.

Motivo 2). Quanto poi all’elemento indiziario, considerato di maggiore gravità dai giudici dell’appello, costituito dalla presunta telefonata fra il Ciavardini e alcuni amici nell’imminenza dell’attentato, con cui il ricorrente avrebbe spostato al 4 di agosto un appuntamento a Venezia, già fissato per il 2 agosto, se ne rileva anzitutto l’incertezza della stessa verificazione storica, in quanto ancorata essenzialmente alle affermazioni rese all’A.G. il 23 dicembre 1980 da Cecilia Loreti (in qualità di indiziata, unitamente a Luigi Ciavardini e altre persone, per il reato di partecipazione al sodalizio sovversivo “Terza Posizione”), che contrastano però, senza che sul punto l’impugnata sentenza abbia fornito convincente spiegazione, con la dichiarazione rilasciata dalla donna sugli stessi fatti il 23 settembre 1980, confermata a suo tempo da Pizzari Marco e poi da lei ribadita dibattimentalmente, nonché con la deposizione di Loreti Luigi (confermativa peraltro di quanto da lui già dichiarato nel 1983) e le altre acquisizioni dibattimentali presso la famiglia Pizzari.

Incerta sarebbe comunque anche la data della telefonata, che, secondo la versione di Venditti Elena, immotivatamente disattesa dalla Corte bolognese, si collocherebbe dopo la strage e sarebbe collegata proprio ai problemi di trasporto da questa determinati.

Ma è sulla causa del richiesto rinvio del viaggio a Venezia ‑ indicata da Ciavardini riscontrato in ciò dalla stessa Loreti e dalle vicende che seguirono nei rapporti fra il prevenuto e i suoi sodali, in un problema di documenti falsi nella disponibilità del giovane ‑ che l’impugnata sentenza avrebbe compiuto un vero salto logico, disattendendo ingiustificatamente la spiegazione dell’imputato e optando apoditticamente, anche attraverso una fantasiosa ricostruzione (necessaria per escludere il più economico motivo – compatibile con la mera conoscenza dell’incombente attentato – della preoccupazione della coincidenza del viaggio degli amici col verificarsi della strage) dell’orario dei viaggi in treno per Venezia programmati e attuati dalla Venditti e dai suoi compagni, per la tesi del sopravvenuto contemporaneo impegno (in sé fra l’altro mal conciliabile con un mero breve rinvio dell’appuntamento) del Ciavardini nell’esecuzione della strage.

Motivo 3). Il ricorrente, oltre alla ricostruzione dello scenario storico e del movente (che sarebbe stata operata in modo congetturale e attraverso il confuso riciclaggio di materiale istruttorio già ritenuto inattendibile in precedenti decisioni) da cui scaturì la strage, e all’ingiustificata asserzione (contrastante con quanto opinato dal primo giudice) del presunto incontro preparatorio avvenuto in Sicilia tra lui e la coppia Fioravanti-Mambro, censura poi argomentatamente sia la disinvolta svalutazione della ferita che egli si procurò al volto durante l’azione terroristica perpetrata il 28 maggio 1980 davanti alla scuola Giulio Cesare di Roma (nel corso della quale rimase ucciso l’agente Evangelista) e che, per la vistosa cicatrice conseguitane, avrebbe logicamente sconsigliato la sua presenza nel luogo di compimento della strage, sia l’illogicità del ritenuto collegamento dei propositi omicidiari manifestati dal Fioravanti nei confronti di esso Ciavardini con il coinvolgimento di quest’ultimo nell’attentato, meglio evidentemente conciliandosi i detti propositi con la sua semplice conoscenza di particolari compromettenti sulla strage cui era rimasto estraneo, e trovando peraltro gli stessi autonoma e sufficiente spiegazione nelle documentate gravi pericolose imprudenze da lui commesse nel periodo immediatamente successivo alla strage.

Motivo 4). Stante lo stretto collegamento della posizione del Ciavardini con quelle del Fioravanti e della Mambro, nel ricorso si sottopongono a serrata critica anche gli elementi su cui si fonda l’assunto della responsabilità dei detti coimputati maggiorenni, a cominciare dalle dichiarazioni di Sparti Massimo (cui, a dire dello stesso, i predetti si rivolsero in data 4 agosto 1980 per ottenere con urgenza un documento falso per la donna), che, valutate senza l’attenta analisi della generale credibilità del soggetto e supportate fra l’altro da un vero travisamento di quanto affermato dalla Mambro sull’epoca della visita fatta al detto Sparti e dall’assai fragile argomento della non altrimenti spiegabile conoscenza, da parte del dichiarante, della presenza a Roma dei due giovani in quel periodo, si sarebbero dimostrate del tutto false, attraverso la smentita (derivante dalle deposizioni Ferretti, Basile, Cavallari e Simoncini e dalla dichiarazione di Fioravanti Cristiano del 5 agosto 1980) della riferita affermazione – cui la Corte bolognese ha maldestramente cercato di togliere importanza ‑ circa la tintura dei capelli della Mambro, il documentato mancato rinvenimento e utilizzo (parimenti disinvoltamente svalutato dalla Corte territoriale) del presunto documento falso fornito alla donna, l’interessata e comunque non collimante versione resa dal De Vecchi, la esclusione della possibilità cronologica dell’incontro ricavabile dalle dichiarazioni rese dalla Venanzi e dalla Torchia (già, rispettivamente, moglie e domestica dello Sparti) e l’acclarata inattendibilità della riferita circostanza circa un nuovo viaggio in Sicilia dei due giovani.

Motivo 5). Anche sull’alibi fornito dal Ciavardini e collimante con quello del Fioravanti e della Mambro si denunciano nel ricorso gli errori di valutazione compiuti dalla Corte bolognese, fornendosi una spiegazione, ritenuta più che attendibile, delle discrasie riscontrate tra le vane versioni rese, e richiamandosi le rilevanti circostanze costituite dalla documentata conferma dello svolgimento del mercato in Prato della Valle nella mattinata del 2 agosto 1980 e dalle dichiarazioni confermative dei fatti rese dal Digilio.

Motivo 6). Il ricorrente censura poi, denunciandone l’apoditticità ed evidenziando i molteplici elementi atti a confutarlo (mancata prova del tentato coinvolgimento del Mangiameli nella programmata organizzazione della strage, inattendibilità della ritenuta visita allo stesso in Sicilia, da parte di Fioravanti e Mambro, nell’agosto del 1980, tenore della sentenza di condanna per l’omicidio Mangiameli, modalità e autori dello stesso, dichiarazioni della Amico e del Vaccaro), l’assunto relativo alla individuazione del movente dell’uccisione di Mangiameli Francesco perpetrata dal Fioravanti in concorso con altri ‑ nel timore che la vittima, già inutilmente compulsata a unirsi al progetto della strage e incline a pericolose aperture all’esterno (come dimostrato dall’intervista di Amos Spiazzi su “L’Espresso” del 24 agosto 1980, in cui si alludeva a contatti con tale “Ciccio”, identificabile appunto nel Mangiameli, che stava organizzando i Nar romani), potesse confidare ad altri notizie compromettenti.

Motivo 7). Specifica critica è dedicata nel ricorso alla “sintesi” del complesso indiziario operata dalla Corte territoriale, ribadendosi l’illogicità di far discendere la prova della partecipazione di Ciavardini (qualificato apoditticamente e incomprensibilmente come di “organizzatore con funzione esclusivamente operativa”) alla strage di Bologna ‑ in una alla sua presunta “insostituibilità” nelle azioni militari ‑ dall’acclarata colpevolezza di Fioravanti e Mambro, supportata fra l’altro dal richiamo a inesistenti precedenti di carattere “stragista” del primo e da una valutazione delle dichiarazioni dello Sparti che, da un lato, contrasta con la descrizione, altrove

fatta, dello stesso Fioravanti come capo lucido, freddo e riservato, e dall’altro non tiene conto del singolare e sospetto trattamento carcerario di cui lo stesso Sparti ebbe poi a beneficiare.

Motivo 8). Quanto all’imputazione di banda annata, il Ciavardini denuncia mancanza e illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta qualifica di “organizzatore”, inosservanza ed erronea applicazione dell’articolo 306 Cp, per essersi la Corte territoriale, da un lato, diffusa nella descrizione dei delitti di eversione ai quali ebbe a partecipare Ciavardini, che tuttavia, lungi dal dimostrare che questi era un “organizzatore”, ne pone, al contrario, in evidenza le caratteristiche di “mero esecutore” (come ad es. confermato dall’episodio cruciale dello scambio di documenti, imposto dal capo Fioravanti al gregario Ciavardini), e, dall’altro, impegnata ‑ sul presupposto dell’assai opinabile tesi secondo la quale l’esecutore, quando sia “insostituibile”, diventa “organizzatore” ‑ nell’affermare a più riprese che il Ciavardini era diventato “insostituibile”, venendo peraltro clamorosamente smentita dalla circostanza che nell’agosto 1980 egli, a seguito di contrasti con Fioravanti, venne cacciato in malo modo dalla banda come “infame per stupidità”.

Motivo 9). Ancora, in ordine alla imputazione di banda armata, il ricorrente denuncia mancanza e illogicità della motivazione, inosservanza ed erronea applicazione dell’articolo 649 Cpp., per avere la sentenza della Corte d’appello ribadito l’inesistenza della preclusione da giudicato di cui all’articolo 649 Cpp. per effetto della sentenza 26 giugno 1986 del Tribunale di Minori di Roma, divenuta irrevocabile, attraverso una motivazione carente ed errata in quanto risolve il problema semplicemente in termini nominalistici, cioè “etichettando” con varie sigle e nominativi l’attività sostanzialmente unitaria, per l’identità della matrice ideologica e delle finalità eversive perseguite, di un modesto gruppo di persone e, in particolare, non considerando che l’attività di banda armata giudicata a Roma (per la quale fra l’altro il Ciavardini fu definito semplice partecipe e ottenne il riconoscimento della attenuante di cui all’ultima parte dell’articolo 114 Cp per avere agito seguendo le sollecitazioni e le direttive dei coimputati maggiorenni) e quella oggetto del presente giudizio si riferiscono allo stesso periodo storico e si articolano su fatti delittuosi in gran parte identici (omicidi Arnesano, Evangelista).

Motivo 10). Da ultimo, infine, il Ciavardini lamenta mancanza e illogicità della motivazione, inosservanza di norme processuali ex articolo 606, comma 1, lettera c) Cpp., mancata ammissione come teste del Pres. Onorario Sen. Francesco Cossiga, per avere la Corte d’appello, a conferma del divisamento del Tribunale Minorile, respinto la richiesta della difesa di sentire come teste il Sen. Francesco Cossiga, in base a una valutazione del tutto aprioristica e contraddittoria di superfluità e irrilevanza di tale deposizione, così altamente qualificata.

La difesa ha poi depositato note d’udienza.

Diritto

Delitto di banda armata

Il ricorso è infondato nella parte concernente il delitto di banda armata.

Riguardo, invero, all’eccezione di giudicato, l’impugnata sentenza ha illustrato con chiarezza che la precedente condanna inflitta al prevenuto dal Tribunale di Roma con sentenza del 26 giugno 1986, ormai definitiva, non può riferirsi alla banda del Fioravanti, avente una sua specifica identità di componenti, strategia e modalità di azione, in quanto attenne alla organizzazione denominata “Terza Posizione”, che, al di là di affinità ideologiche, concreti momenti collaborativi, e possibili coaffiliazioni, era indiscutibilmente distinta da quella e non fu, in particolare, coinvolta (a detta proprio della sentenza citata) negli omicidi Arnesano ed Evangelista.

Quanto poi al ruolo rivestito dal prevenuto nella banda, l’impugnata sentenza, partendo dalla corretta premessa in diritto che, in tema di banda armata, la qualità di “organizzatore” non implica il necessario svolgimento di compiti di coordinamento e di direzione dell’attività di altri (rientrando piuttosto i detti compiti in quelli propri dei “capi” e “dirigenti”), ma richiede soltanto che l’attività del soggetto, anche in fasi successive alla formazione dell’associazione (Cassazione 11 luglio 1987, Benacchio; 14 febbraio 1984, Ceriani; 31 gennaio 1984, Morlacchi;), abbia i requisiti, che possono sussistere anche indipendentemente dalla continuità della suddetta attività, della essenzialità e della infungibilità, intesa, quest’ultima, peraltro (col quale rilievo cade l’obiezione basata sulla circostanza che il prevenuto fu poi, in seguito ai gravi motivi che appresso si vedranno, estromesso dal sodalizio) in senso relativo, e cioè come non facile intercambiabilità e non come assoluta insostituibilità (Cassazione 10 maggio 1993, Algranati; 14 gennaio 1985, Andriani; 31 gennaio 1984, Morlacchi), ha posto ampiamente in evidenza come il Ciavardini, ebbe presto ad accrescere, grazie ad azioni che destarono ammirazione e clamore negli ambienti della destra eversiva, il suo peso e prestigio nella banda, venendo impiegato nelle operazioni più impegnative e rischiose, nelle quali assunse un ruolo determinante e spesso trainante, con dimostrazione di doti di audacia, coraggio, risolutezza e professionalità, che lo resero, in tali contesti di contenuto “militare”, indispensabile (nel senso relativo precisato), sì da fargli anche perdonare (fino a un certo limite, come si vedrà) il carattere “avventato e ciarliero”.

Va precisato, per completezza che, benché sia decorso il termine di cui al comb. disp. degli articoli 157, comma 1, n. 2), e 160, comma 3, Cp, applicabile nella specie in relazione alla previsione sanzionatoria di cui all’articolo 306, comma 1, Cp, il reato in esame non è prescritto, dovendosi considerare i periodi di sospensione, conseguenti a procedimenti di legittimità costituzionale, dal 12 dicembre 1994 al 20 maggio 1996 e dal 19 settembre 1997 al 2 novembre 1998.

Non può poi provvedersi direttamente in questa sede alla determinazione della pena, essendo stato a tal fine il reato, nella sentenza impugnata, posto in continuazione con quello, più grave, di strage, per il quale, come si vedrà, si deve disporre l’annullamento con rinvio.

Delitto di strage e reati connessi

Premessa

Riguardo al delitto di strage e reati connessi, deve anzitutto osservarsi che l’impugnata sentenza non ha automaticamente applicato le conclusioni definitive cui era pervenuto il giudizio a carico del Fioravanti e della Mambro, ma ha invece sottoposto (come del resto già il Tribunale) ad autonomo e rinnovato vaglio critico gli elementi probatori raccolti nei confronti dei due coimputati maggiorenni, pervenendo alla motivata conferma della loro responsabilità, sicuramente necessaria ai fini del presente giudizio, stante l’oggettivo e indiscutibile intreccio della loro posizione con quella del Ciavardini.

La responsabilità di quest’ultimo non è stata poi fatta automaticamente discendere da quella dei predetti coimputati, gravati da elementi di accusa sicuramente non riguardanti il Ciavardini (quali le dichiarazioni di Massimo Sparti e la deliberazione ed esecuzione dell’omicidio del Mangiameli), ma è stata ancorata a una ricostruzione specificamente personalizzata degli elementi a suo carico, ritenuti idonei dalla Corte di merito per il giudizio di colpevolezza.

Per meglio seguire e comprendere la disamina, che di qui a poco si andrà a svolgere (in precipua relazione alle doglianze formulate nel ricorso), delle concrete valutazioni operate dalla Corte di merito, e quello che sarà il suo esito, non è inutile ricordare, sul piano giuridico che, benché, nel caso di procedimento di natura indiziaria, da un lato la precisione degli indizi ne supponga la certezza (Cassazione 20 ottobre 1994, Oliveri) e, dall’altro, il rigoroso e obiettivo accertamento del dato ignoto debba essere lo sbocco necessitato e strettamente conseguenziale, sul piano logico-giuridico, delle premesse indiziarie in fatto (Cassazione, 24 giugno 1992, Re), cionondimeno anche il fatto indiziante può entrare nel patrimonio conoscitivo del giudice solo attraverso gli ordinari meccanismi di acquisizione probatoria, implicanti necessariamente un margine più o meno ampio di valutazione in ordine all’attitudine del mezzo probatorio di volta in volta assunto come dimostrativo di quel fatto ad assolvere alla funzione assegnatagli (Cassazione 28 giugno 1999, Capitani), e , in sede di giudizio rescissorio, il giudice di rinvio è libero di determinare autonomamente, il proprio apprezzamento di merito in ordine ai dati probatori e alla situazione di fatto concernenti i punti oggetto dell’annullamento, salvo l’obbligo di giustificare il proprio convincimento in maniera non incompatibile con quanto enunciato nella sentenza rescindente (Cassazione 22 febbraio 2000, Boccardo; 27 marzo 1991, Pm c. Schittino).

Movente della strage

Ciò chiarito, rilevasi che la Corte di merito (come già il Tribunale) ricostruisce anzitutto in maniera analitica, puntuale e immune da vizi logici, e attraverso il corretto utilizzo di convergenti emergenze processuali (indipendentemente dagli approdi giudiziari, a volte negativi, di singole vicende, in sé ovviamente non condizionanti e, quindi, malamente, oltre che genericamente, invocati dalla difesa), il contesto socio-ambientale in cui maturò il progetto di strage, individuandone la matrice nella ideologia eversiva di destra di quegli anni e la specifica ricollegabilità a esponenti di un gruppo romano, concretamente identificato in quello del Fioravanti, non tralasciando di evidenziare i molteplici elementi comprovanti la disponibilità in capo allo stesso di ingenti quantità di esplosivo.

Mancata audizione del Presidente Cossiga

La sentenza prende poi in considerazione, come già detto, gli ulteriori specifici, elementi di accusa esistenti nei confronti del Fioravanti e della Mambro e ne conferma, dopo approfondita valutazione, la validità anche ai fini del presente giudizio.

Prima di passare a esaminarli partitamente, in relazione in particolare alle doglianze sollevate dalla difesa, deve rilevarsi l’infondatezza del motivo col quale il ricorrente si duole della mancata ammissione come teste del Pres. Onorario Seri. Francesco Cossiga.

Al riguardo la Corte d’appello ha correttamente confermato l’insussistenza del presupposti per una utile audizione di Cossiga, rilevando che con le dichiarazioni prese a spunto per la richiesta di prova egli si è limitato a esprimere, sulla vicenda mere opinioni personali e valutazioni di carattere politico, e che inoltre, considerato il ruolo da lui rivestito, se avesse conosciuto fatti o persone che in qualunque modo avessero potuto servire alle indagini, ne avrebbe sicuramente informato le competenti autorità.

Dichiarazioni di Massimo Sparti

Ciò chiarito, può procedersi al dettagliato esame degli elementi a carico di Fioravanti e Mambro.

Per quanto concerne le dichiarazioni dello Sparti, va anzitutto ricordato che l’impugnata sentenza (pp. 187-190) richiama puntualmente i molteplici elementi di riscontro alle stesse, costituiti:

– dalla conferma del riferito viaggio a Milano dei due giovani in data 3 agosto 1980 (per l’esigenza di ottenere un documento per la Mambro);

– dalla conferma del viaggio a Roma in automobile (targata Milano e quivi rubata, falsamente intestata a Giuseppe e Flavio Caggiula);

– dalla sicura presenza dei due a Roma il 4 agosto: il riscontro vale e ha il suo peso, essendo peraltro puramente ipotetica la prospettata possibilità di conoscenza aliunde di tale circostanza da parte dello Sparti;

– dalla conferma da parte della Mambro della visita a Sparti (sia pure motivata con l’esigenza di ottenere documenti per Roberto Fiore e Gabriele Adinolfi) “prima” della rapina del 5 agosto (p. 190 sentenza): la contestazione, formulata a p. 52 del ricorso, di tale conferma, appare in dissonanza dal contenuto dell’interrogatorio reso dalla donna il 25 agosto 1984 (come riportato a p. 96 della sentenza di primo grado);

– dalla inattendibilità logica e cronologica del riferimento ‑ confermato anche da Valerio Fioravanti ‑ della richiesta di documenti al Fiore e all’Adinolfi (p. 190 s. di sentenza);

– dalla ammissione della Mambro del suo bisogno urgente di un documento immediatamente dopo la strage, in occasione del suo spostamento a Roma (p. 191 di sentenza);

– dalle dichiarazioni confermative del De Vecchi (su cui ampiamente appresso).

In relazione alla censura di omessa attenta analisi della credibilità dello Sparti, si rileva che la sentenza impugnata (pp. 178 e 180-186) affronta in modo ampio la questione risolvendola, con argomentazioni non illogiche (in riferimento in particolare alle ammissioni “contra se” fatte dal medesimo, ai vari delitti attribuiti al Fioravanti e poi dallo stesso progressivamente riconosciuti, alle valutazioni giudiziarie pregresse, ivi comprese quelle della decisione assolutoria della Corte d’assise d’Appello di Bologna del 18 luglio 1990: elementi considerati ragionevolmente prevalenti sulla mancata verifica di alcuni degli episodi narrati ‑ invocati in proprio favore dalla difesa a pp. 62 s. di ricorso ‑, come i rapporti col dr. Sica e gli attentati al negozio del dichiarante), nel senso dell’attendibilità dello Sparti (a cui favore va richiamata anche la costanza e sostanziale coerenza della sua versione, ricordata dal giudice di prime cure) e fornisce altresì congrua e piena spiegazione del trattamento carcerario ritenuto sospetto dalla difesa, nonché di qualche suo ondeggiamento circa la collocazione temporale dell’incontro.

Quanto alla presunta incompatibilità del racconto dello Sparti col carattere freddo e riservato del Fioravanti, la Corte bolognese sottolinea che tale argomento, basato su un ipotetico “dover essere”, e come tale palesemente inidoneo a ribaltare risultanze di carattere concreto, fu già efficacemente confutato dalla Corte di legittimità in sede di annullamento della sentenza della Corte d’assise d’appello di Bologna dei 18.07,1990, col rilievo che «il coinvolgimento dello Sparti nell’attività terroristica dei Nar e la sua complicità in molte imprese dei fratelli Fioravanti in particolare, potevano ragionevolmente giustificare, unitamente all’ascendente intimidatorio che il Valerio sapeva di avere su di lui, la disinvoltura e la schietta indifferenza con la quale egli aveva alluso alla strage e al suo transito per Bologna insieme alla Mambro, nella tranquilla sicurezza che mai il suo interlocutore avrebbe osato rivelare alcunché» (v. p. 186 della sentenza impugnata).

A confutazione del rilievo circa la interessata e comunque non collimante versione resa dal De Vecchi (persona a cui si rivolse lo Sparti per ottenere quanto richiesto dal Fioravanti), l’impugnata sentenza richiama (p. 192) espressamente ‑ oltre alla riferita significativa fretta di uno Sparti “terrorizzato” di avere i documenti falsi ‑ le ampie e non illogiche considerazioni esposte nella sentenza di pr. Gr. (pp. 78 ss.) a sostegno dell’attendibilità (in relazione in particolare all’assenza di qualunque tentennamento circa il “se”, il “quando” e il “perché” della richiesta dello Sparti) delle dichiarazioni confermative del De Vecchi e a efficace critica (col richiamo alle incertezze ed esitazioni avute sul punto, di cui si fornisce anche una ragionevole spiegazione col timore di un diretto coinvolgimento degli effettivi destinatari dei documenti) anche della presunta netta asserzione del medesimo di non aver mai fornito allo Sparti documenti per persone di sesso femminile.

Relativamente alle dichiarazioni rese dalla Venanzi e dalla Torchia (già, rispettivamente, moglie e domestica dello Sparti), la Corte d’appello ha dato (pp. 193 ss. della sentenza) ampia e non illogica spiegazione delle ragioni (dichiarazioni di Fioravanti Cristiano ‑ cui il ricorrente pretende di confèrire un senso opposto a quello derivante dall’effettivo tenore ‑, documentata prova del tentativo della Venanzi, motivato dall’esigenza di evitare qualsiasi coinvolgimento anche personale, di far cambiare versione al marito sui fatti inerenti alla strage) per cui fra le versioni rese dalle donne è senz’altro più credibile quella secondo cui la presenza dello Sparti a Roma il 4 agosto 1980 era ben possibile, facendo egli la spola (come, secondo Cristiano Fioravanti, le aveva riferito la Torchia) tra la capitale e il luogo di villeggiatura (Cura di Vetralla).

In ordine alla smentita (derivante dalle deposizioni Ferretti, Basile, Cavallari e Simoncini e dalla dichiarazione di Fioravanti Cristiano del 5 agosto 1980) della riferita affermazione circa la tintura dei capelli della Mambro, la Corte di merito ne ha correttamente preso atto, ma ha ritenuto che la questione non assume rilievo al fine di ingenerare dubbi sull’effettività (confermata dalle molteplici e convergenti risultanze emerse) dell’incontro avuto dai due giovani con lo Sparti il 4 agosto 1980, potendo agevolmente attribuirsi la frase del dichiarante alla suggestione indottagli dal Fioravanti col parlare del problema della tintura (che gli si era sicuramente affacciato all’indomani della strage) in un modo tale da fargli intendere, e percepire, che la stessa fosse stata fatta mentre non lo era. Essendo certo, a detta dello Sparti, che fu il Fioravanti a parlare della tintura, e non avendo, in precedenza, lo Sparti, conosciuto la Mambro (v. int.rio 11 aprile 1981, riportato a p. 61 della sentenza di primo grado), la spiegazione data dalla Corte territoriale non è affatto illogica e rende ben conto (inquadrandole come frutto del detto equivoco) di tutte le affermazioni fatte sul punto dal dichiarante, quali ampiamente riportate nel ricorso.

Anche delle circostanze inerenti al mancato rinvenimento e utilizzo del presunto documento falso fornito alla donna, la Corte di merito ha dato correttamente atto, ridendole parimenti non rilevanti al fine di ingenerare dubbi sull’effettività (confermata dalle molteplici e convergenti risultante emerse) dell’incontro avuto dai due giovani con lo Sparti il 4 agosto 1980, con una valutazione che non presenta vizi di manifesta illogicità, poto che, da un lato, il mancato rinvenimento è solo un mancato ulteriore riscontro, e non una smentita, dalle affermazioni di Sparti, e, dall’altro, il mancato utilizzo, all’Hotel Cicerone, del documento – oltre a poter effettivamente esser dovuto (come assume la Corte bolognese) ai motivi più vari, non esclusa (rilevasi qui “per incidens”) l’imperfezione stessa del documento, quale emergente da alcune dichiarazioni del De Vecchi (v. p. 73 sentenza di pr. Gr primi righi), che ben poteva logicamente sconsigliarne l’uso immediato, se non strettamente necessario – non fa venir meno il riscontro al narrato dello Sparti, costituito dalla convinzione dei due giovani (correlata alla oggettiva e pacifica circostanza che la Mambro doveva alloggiare e di fatto alloggiò all’Hotel Cicerone dal 5 agosto 1980) di trovarsi in una situazione che, potendo esigere l’esibizione del documento da parte della donna, ne imponeva l’urgente acquisizione.

La motivazione, infine, resa nella impugnata sentenza sulla attendibilità (contestata nel ricorso) della riferita circostanza circa un nuovo viaggio in Sicilia dei due giovani, è congrua e logica (col richiamo alle precise e circostanziate dichiarazioni di Fioravanti Cristiano e all’ammissione di Fioravanti Valerio), e resiste ai rilievi, aventi peraltro carattere fattuale e, in buona misura, ipotetico, sollevati nel ricorso.

Omicidio di Francesco Mangiameli

Per quanto concerne l’uccisione di Francesco Mangiameli, la Corte bolognese ha illustrato con coerenza e dovizia di argomenti le ragioni che militano a favore della tesi che ne individua il movente nei timori di un suo “tradimento”, indotti dall’intervista di Amos Spiazzi (tenore dell’intervista e sicuro e compromettente riferimento al Mangiameli, conoscenza della stessa da parte del Fioravanti e della Mambro, contatti fra questi e il Mangiameli in ordine alla strage e gravi dissensi emersi, pericoli anche per la moglie e la figlia del Mangiameli, fuga di quest’ultimo con la moglie, collegamenti dell’uccisione con la strage e con l’“allarme” suscitato dall’intervista, inaccettabilità delle indicate ragioni alternative).

Sul tentato coinvolgimento del Mangiameli nella programmata organizzazione della strage (che sarebbe, a detta della difesa. non provato), la Corte di merito ha motivato in modo non manifestamente illogico, sulla base di una serie di elementi convergenti, che del resto s’intrecciano logicamente alla complessiva ricostruzione della vicenda (collocazione cronologica della visita in relazione ai Programmi coltivati all’epoca dal Fioravanti, specifico interesse al coinvolgimento del Mangiameli, comprovato dissenso di quest’ultimo rispetto all’evento stragista, comprovata gravità del dissidio verificatosi fra le parti durante il soggiorno in Sicilia, oggettivo coinvolgimento in esso anche della moglie e della figlia del Mangiameli, assenza di valide ragioni alternative).

Quanto alla ritenuta visita (considerata inattendibile nel ricorso) al Mangiameli in Sicilia, da parte di Fioravanti e Mambro, nell’agosto del 1980, trattasi di circostanza sulla quale, come già ricordato, la motivazione resa nella impugnata sentenza è congrua e logica (col richiamo alle precise e circostanziate dichiarazioni di Fioravanti Cristiano e all’ammissione di Fioravanti Valerio), e resiste ai rilievi, aventi peraltro carattere fattuale e, in buona misura, ipotetico, sollevati dalla difesa.

In relazione all’invocato tenore della sentenza di condanna per l’omicidio Mangiameli e agli argomenti che il ricorrente pretende di trarre dalle modalità e dagli autori del delitto, si osserva che la Corte bolognese, dopo aver ricordato che la sentenza definitiva sull’omicidio Mangiameli, pronunciata dalla Corte d’assise di Roma il 16 luglio 1986, dando atto delle varie ipotesi prospettate dagli imputati (in un modo peraltro significativamente frammentario e incoerente), non ha preso posizione in merito, ha efficacemente sottolineato che le dette ipotesi alternative, talune delle quali vengono riprese nel ricorso con riferimento ad alcune frasi pronunciate dalla vittima “in articulo mortis” e a riferite dichiarazioni di Roberto Fiore, mal si conciliano con la mancata tempestiva ed esplicita rivendicazione del delitto e non spiegano l’intenzione di sopprimere anche la moglie e la figlia del Mangiameli. Quanto al luogo di esecuzione dell’omicidio, l’impugnata sentenza ne dà una logica spiegazione con la necessità di tenere segreto il delitto, che consigliava appunto il territorio di elezione della banda Fioravanti (il che spiega anche la partecipazione dei componenti la medesima, rimasti peraltro significativamente all’oscuro delle reali ragioni dell’uccisione).

Quanto infine alle invocate dichiarazioni di Rosaria Amico, moglie del Mangiameli, e del Vaccaro, la Corte di merito ha esposto con chiarezza le ragioni (desumibili dalle dichiarazioni della stessa Amico, del Volo e di Delfino Lorenzo, dall’attestata circostanza che erano in pericolo anche la moglie e la figlia del Mangiameli, e dalla lettera anonima scritta in realtà dal Volo, che il ricorrente tenta di liquidare come mero frutto di mitomania) che portano a ritenere con certezza togliendo così rilievo alle ragioni diverse (viaggio di Piacere) indicate nelle dichiarazioni “de relato” del Vaccaro (amico) e in quelle elusive e riduttive fatte dalla stessa Amico ‑ che il Mangiameli e la moglie, all’indomani dell’intervista dello Spiazzi (che aveva già in precedenza raccolto informazioni sui Nar e parlato del “Ciccio”, dandone peraltro una descrizione fisica volutamente fuorviante, poi inattendibilmente attribuita al Fiore: v. a proposito delle varie “mosse” dello Spiazzi, l’ampia e logica ricostruzione operata nella requisitoria del Pm di pr. gr., riportata e fatta propria dal primo giudice a p. 180 ss. della sua sentenza), si dettero a una vera e propria fuga, omettendo ogni avviso ai parenti e pignorando l’oro di famiglia, in quanto il Mangiameli si era identificato con il “Ciccio” dell’intervista e aveva ben compreso i rischi a cui era stato con la stessa esposto (dichiarazioni della Amico rese il 21 dicembre 1983, riportate a p. 228 della sentenza impugnata, confermate dalla donna il 5 gennaio 1990 e già logicamente considerate dal primo giudice ben più attendibili di quelle, palesemente evasive e minimizzatrici, rese all’udienza del 12 maggio 1997): rischi che purtroppo si concretizzarono di lì a poco nella sua soppressione (a opera del Fioravanti e della sua banda), la quale significativamente fu subito collegata con sicurezza, proprio negli ambienti palermitani di Terza Posizione, a lui vicinissimi sul piano politico e personale, con la strage e con l’intervista di Amos Spiazzi (v. volantino ricordato a p. 233 della sentenza).

Alibi per il 2 agosto 1980

Passando ora a esaminare gli elementi di accusa comuni alla coppia Fioravanti-Mambro e al Ciavardini e le relative doglianze della difesa, si osserva quanto segue.

Circa l’alibi per la mattinata del 2 agosto 1980 fornito dai tre soggetti, la Corte di merito ha ripercorso le incongruenze e le variazioni emergenti dalle versioni rispettivamente rese dal Ciavardini, dal Fioravanti, dalla Mambro e dal Cavallini, evidenziando come tale circostanza, considerata anche la straordinarietà dell’evento stragista e l’immediata percezione, sicuramente comprovata in capo a Fioravanti e Mambro, del pericolo di poterne essere accusati, costituisca di per sé elemento indiziante, in quanto ostativo (se non all’attendibilità del rilievo circa l’assenza collegata evidentemente anche alla fulmineità della decisione circa i tempi dell’attentato ‑ di una versione preconcordata sull’alibi, certamente) alla benevola interpretazione di una confusione indicativa di genuinità e spontaneità. Né nel ricorso si offre alcuna plausibile spiegazione delle difformi versioni rese in particolare dal Fioravanti.

Quanto al Ciavardini, la difesa allega, a spiegazione della prima versione falsa da lui resa (soggiorno in Sicilia presso il Mangiaameli), la volontà di tenere nascosto il rifugio di Treviso rappresentato dalla casa del Cavallini, all’epoca (ottobre 1980) ancora non noto. La spiegazione è ipotetica e non tiene conto della circostanza che il Ciavardini a Treviso prese rifugio in un luogo diverso dalla casa del Cavardini. In ogni caso, da un lato, resta il fatto che l’esclusione del luogo (Treviso) consentiva anche di escludere il contatto con gli altri soggetti (Fioravanti e Mambro) ivi parimenti presenti in quei giorni, e, dall’altro, permangono in tutta la loro valenza le altre gravi incongruenze sopra segnalate.

Circa l’effettivo svolgimento del mercato di Prato della valle in Padova nella giornata del 2 agosto 1980, la Corte di merito dà una congrua spiegazione sia del come i dichiaranti ne potessero essere agevolmente a conoscenza, sia del come la loro presenza ivi nella tarda mattinata di quel giorno non fosse neppure oggettivamente incompatibile con la partecipazione alla strage.

Quanto alle dichiarazioni del Digilio, la Corte evidenzia in modo chiaro l’inconsistenza, dal punto di vista logistico e cronologico, della presunta conferma, da parte sua, dell’incontro col Cavallini, riferito (assai tardivamente) da Fioravanti e Mambro (e smentito, peraltro, dallo stesso Cavallini).

Telefonata di Ciavardini

In ordine alla telefonata del Ciavardini intesa a spostare dal 2 al 4 agosto 1980 l’appuntamento che aveva fissato in Venezia con la fidanzata Venditti Elena e i suoi amici Loreti Cecilia e Pizzari Marco, che si trovavano in quel momento a Ladispoli, la Corte di merito (come già il Tribunale minorile) ricostruisce positivamente in modo analitico e logico gli importanti punti relativi al “se”, al “quando”, al “contenuto” e alle “modalità” della comunicazione, valorizzando argomentatamente, sulla base di un vaglio critico dei rispettivi presupposti e contesti e delle stesse ammissioni fatte dal Ciavardini, le dichiarazioni rese da Loreti Cecilia il 23 dicembre 1980 (secondo le quali la telefonata avvenne, tramite il padre del Pizzari, che a sua volta chiamò Loreti Luigi, zio della Cecilia, il 1° agosto 1980 ed ebbe a oggetto la richiesta di un rinvio per gravi problemi, poi specificati in una questione di documenti), di contro a quelle ‑ tese (al pari della contemporanea conferma di Pizzari Marco) a nulla far trapelare, tanto da collocare addirittura il rifugio del Ciavardini a Trieste anziché a Treviso, dei sospetti inerenti alla strage (il che spiega anche la proclamata ignoranza, inverosimile alla luce di quanto affermato dal Ciavardini e dalla Venditti, della presenza del Ciavardini ad attenderli al loro arrivo a Venezia) ‑ rese dalla stessa donna il 23 settembre 1980 e a quelle, divergenti sul non secondario particolare della data, spostata a dopo la strage (in evidente contrasto logico con la stessa motivazione del rinvio, indicata dal Ciavardini nello scambio di documenti avvenuto col Fioravanti all’arrivo dello stesso nella notte fra il 31 luglio e il 1° agosto 1980), rese dalla Venditti. A fronte di tali elementi e della specifica conferma, da parte della Venditti e del Ciavardini, delle modalità della comunicazione riferite dalla Loreti, non può reputarsi illogica l’attribuzione di irrilevanza al negativo riscontro della telefonata in questione da parte dei “tramiti” utilizzati, sentiti a distanza di circa vent’anni dai fatti (mentre non vi è concreta indicazione degli estremi di una asserita audizione di Loreti Luigi, avvenuta nel 1983 e parimenti comunque risoltasi in una neutra assenza di ricordo), e al mancato rinvenimento, sempre a tale distanza di anni, del numero di Loreti Luigi nell’agenda del padre di Pizzari Marco. Né il fatto che quest’ultimo avesse perso il figlio nel 1981 per mano di esponenti dei Nar comporta che egli dovesse per forza ricordare, senza mai essere stato precedentemente compulsato sul punto, una telefonata avvenuta tanto tempo prima e che, al momento, poté passare del tutto inosservata.

La Corte di merito (come già il Tribunale) ha poi anche dato congrua e logica spiegazione ‑ che validamente resiste a tutte le censure mosse nel ricorso ‑dell’inattendibilità della ragione del rinvio dell’appuntamento a Venezia, riferita dal Ciavardini, consistente in un problema di documenti, in relazione allo scambio, avvenuto all’arrivo di Fioravanti a Mambro a Treviso nella notte fra il 31 luglio e il primo agosto, del documento “buono”, intestato a Flavio Caggiula, con quello, rischioso, intestato ad Amedeo De Francisci. Tale spiegazione risiede nell’inoppugnabile circostanza che tale presunto problema non era affatto risolto quando il Ciavardini, il 4 agosto successivo, si incontrò con la Venditti e gli altri due amici, né gli impedì di muoversi durante quei giorni (salvo a evitare pernottamenti in albergo), ed è stata, inoltre, corroborata dal non secondario rilievo che lo stesso Ciavardini ha fornito anche un’altra versione del motivo del rinvio, individuandolo, questa volta, nel desiderio (della cui mancata immediata esternazione non si capirebbero, però, le ragioni) di stare un po’ con gli amici Fioravanti e Mambro a Treviso.

La ragione del rinvio, sorta con l’arrivo di Fioravanti e Mambro a Treviso, e già cessata qualche giorno dopo, è stata logicamente collegata dai giudici di merito, nel quadro degli altri gravi elementi convergenti in tale direzione, col fatto che la mattina del 2 agosto doveva verificarsi la strage alla stazione di Bologna.

Fra questi elementi deve in particolare ricordarsi la circostanza incontestata che sin da qualche giorno dopo la strage il Fioravanti e la sua banda decidono l’espulsione del Ciavardini e la sua soppressione. La gravità della decisione, la sua irriconducibilità alle precedenti, già note, imprudenze del soggetto, l’accusa di “infamia” e il riferimento fatto dal Fioravanti al fatto che il giovane aveva «messo a repentaglio la sicurezza degli altri per vantarsi con le sue ragazzine», hanno condotto sia il Tribunale che la Corte d’appello ad argomentare logicamente che l’elemento cruciale per la decisione, rafforzato dalle reiterate ulteriori manifestazioni di imprudenza del Ciavardini, era stata proprio la notizia (necessariamente riferita da lui stesso) della telefonata di rinvio fatta alla fidanzata e ai suoi amici.

In tale ricostruzione, il proposito omicidiario, ricollegandosi alla convinzione dell’incontrollabile imprudenza e inaffidabilità del Ciavardini, pur potendo presupporre anche la sola conoscenza, da parte sua, degli autori della strage, è evidentemente compatibile anche con una sua partecipazione all’evento.

Divergenze fra la sentenza del Tribunale e quella della Corte d’appello

Fino al collegamento fra il rinvio telefonico dell’appuntamento e la strage, le posizioni del Tribunale e della Corte d’appello sostanzialmente collimano. Da questo punto in poi esse però divergono.

il primo giudice, infatti, pur muovendo dal dati certi, e muniti di non lieve spessore indiziano, della responsabilità per l’attentato di Fioravanti e Mambro, della compresenza a Treviso di questi ultimi e del Ciavardini il giorno antecedente e quello successivo alla strage, del collegamento del rinvio dell’appuntamento a Venezia per il 2 agosto 1980 all’evento strage e alla connessa sicura conoscenza di ciò da parte del Ciavardini, degli alibi fasulli e progressivamente collimanti forniti da Fioravanti, Mambro e Ciavardini, dell’attiva e “proficua” appartenenza del Ciavardini alla banda armata del Fioravanti e della sua propensione caratteriale ad azioni violente, ha tuttavia, fra le tre ipotesi ricostruttive possibili – individuate nella partecipazione materiale diretta del Ciavardini alla strage, nel suo concorso al delitto attraverso una concertata “messa a disposizione”, e nella sua semplice a messa a conoscenza della strage con conseguente suo spontaneo “sentirsi a disposizione”-, ritenuto di escludere la prima in considerazione degli elementi che oggettivamente sconsigliavano una presenza fisica del giovane a Bologna (mancanza di un documento falso “sicuro” e residua presenza di una vistosa cicatrice al volto), e privilegiando poi la terza, rispetto alla seconda, per l’assenza di vincenti ragioni contrarie e anche per la più facile lettura in chiave difensiva della vicenda (comunque suscitante perplessità) del cosiddetto baratto fra le copertura offerta al Ciavardini per l’omicidio del giudice Amato e il suo silenzio sulla strage di Bologna.

La Corte d’appello, invece, ha ritenuto che il rilevante quadro indiziario emerso a carico del Ciavardini consente di addivenire con certezza alla conclusione della sua diretta e materiale partecipazione alla strage. La Corte aggiunge anzitutto, a tal fine, due elementi “positivi” alla ricostruzione operata dal Tribunale:

a) il ritenuto incontro a Palermo in data 13 luglio 1980 presso il Mangiameli, che già ospitava il Ciavardini, fra quest’ultimo e la coppia Fioravanti-Mambro – che era andata a cercare di coinvolgere nel progetto stragista il “leader” palermitano di Terza Posizione -, seguito dalla successiva immediata partenza del Ciavardini, che si trattenne poi a Treviso, per ragioni mai chiarite, dal 24 luglio al 6 agosto; b) la sicura esclusione, attraverso la precisa ricostruzione degli orari dei treni utili per il programmato viaggio a Venezia della Venditti e dei suoi amici, della possibilità di ricondurre la richiesta di rinvio dell’appuntamento fatta dal Ciavardini alla volontà di evitare alla fidanzata e ai suoi compagni qualsiasi possibile rischio connesso al transito per Bologna proprio il giorno della prevista strage.

La Corte poi si fa carico di confutare diffusamente gli elementi “negativi” valorizzati dal Tribunale (mancanza di un documento falso “sicuro”, residua presenza di una vistosa cicatrice al volto, inconsistenza accusatoria della tesi del “baratto”) per addivenire alla pronuncia assolutoria, e conclude, quindi, alla stregua del comprovato stare insieme del Ciavardini ai già condannati autori della strage nella giornata del 2 agosto 1980, dei compiti da lui svolti nella banda e dei suoi tratti caratteriali, per la sua diretta partecipazione all’esecuzione materiale del crimine.

Valutazione delle censure al “ribaltamento” della decisione di prime cure operato dal secondo giudice

Nel suo ricorso il Ciavardini sottopone a severa censura i passaggi che hanno permesso alla Corte bolognese di “ribaltare” il verdetto di primo grado.

Le censure in parola appaiono per vari aspetti fondate.

Partendo, invero, dai due elementi “positivi” succitati ‑ incontro a Palermo presso il Mangiameli e successivi movimenti del Ciavardini, assenza di rischi di viaggio nella giornata del 2 agosto 1980 per la fidanzata e gli amici ‑ rilevasi, quanto al primo, che se è vero che l’impugnata sentenza, fornisce (a p. 118) elementi validi (con riferimento a dichiarazioni dello stesso Ciavardini) a supporto dell’effettività dell’incontro a Palermo, e che l’assunto della permanenza del Gavardini a Treviso in funzione della preparazione dell’attentato di Bologna non sarebbe di per sé incompatibile con la circostanza dell’acquisizione della conoscenza, da parte sua, della data di compimento della strage solo alla fine di luglio 1980 (posto che tale tardiva acquisizione ben può riferirsi alla sola data e non anche alla decisione e preparazione generale dell’evento), tale compatibilità è tuttavia intaccata sul piano logico dalla falla motivazionale circa il concreto contenuto della prospettata attività preparatoria da parte del prevenuto: falla resa particolarmente rilevante dalla triplice considerazione che anche la predisposizione della presunta” base” a Treviso viene attribuita all’esclusiva cura del Cavallini (che peraltro non risulta allo stato rinviato a giudizio per la strage), che il Ciavardini ebbe modo in quel periodo (come già sottolineato dal primo giudice: v. p. 202 della sentenza del Tribunale) di effettuare (dal 21 al 24 luglio) e programmare (proprio dal 2 agosto) giri di svago con la sua fidanzata, e che sicuramente egli, in quanto latitante, aveva comunque allora bisogno di un rifugio.

Quanto poi alla analitica ricostruzione degli orari dei treni ‑ che la Venditti e gli amici dovevano prendere il 2 agosto e presero il 4 successivo per recarsi da Roma a Venezia ‑ che l’impugnata sentenza compie, al fine di escludere che il motivo del rinvio del viaggio sollecitato dal Ciavardini potesse consistere nell’intento di evitare alla fidanzata e agli amici di transitare per Bologna in concomitanza con la strage, non può non condividersi la censura di assoluta congetturalità della medesima, siccome basata su supposizioni interpretative assai fragili (impossibilità ‑ in relazione all’affermazione della Venditti sulla programmazione della partenza nella notte ‑ di considerare “notturno” l’orario di partenza delle 5,22) e su veri e propri assiomi (automatico e implicito mantenimento, anche per il 4, del supposto treno fissato per il 2; gratuita presunzione dell’arrivo in serata a Venezia, il giorno 4, dei treni partenti da Roma alle ore 5,22 e 5,44).

Fondate appaiono anche le censure inerenti alla confutazione, operata dalla Corte bolognese, degli elementi “negativi” valorizzati dal Tribunale (mancanza di un documento falso “sicuro”, residua presenza di una vistosa cicatrice al volto, inconsistenza accusatoria della tesi del “baratto”) per addivenire alla pronuncia assolutoria.

E infatti, quanto allo scambio di documenti fra il Fioravanti e il Ciavardini, avvenuto a Treviso proprio nell’imminenza della strage, è fuori dubbio che non c’è coerenza logica nel ritenere che il Fioravanti si preoccupasse in quel frangente di dotarsi di un documento “sicuro”, togliendolo al Ciavardini, a cui consegnò un documento “rischioso”, e poi portasse tranquillamente seco a Bologna il Ciavardini, così esposto, per la diretta partecipazione all’attentato. Né sono certo idonee a superare tale illogicità le considerazioni che la Corte fa sulla disinvoltura con cui i componenti della banda e in particolare lo stesso Ciavardini si muovessero e operassero anche con documenti falsi sentendosi protetti soprattutto dalla copertura del “gruppo”, perché è evidente che le preoccupazioni connesse all’evento stragista, positivamente attestate del resto dalle raccomandazioni e dalle iniziative del Fioravanti, erano di ben diverso spessore rispetto a quelle ordinariamente avvertite dalla banda.

Anche in ordine alle evidenti tracce della ferita al volto del prevenuto (conseguente all’azione terroristica perpetrata il 28 maggio 1980 davanti alla Scuola “Giulio Cesare” di Roma, sulla cui presenza all’epoca dei fatti il Tribunale ha ampiamente motivato (pp. 205 ss. della sentenza di prime cure), considerandola comunque un ulteriore deterrente alla sua personale partecipazione all’attentato, la Corte d’appello, oltre a riportare in modo sommario, e senza svilupparne approfonditamente le concrete inferenze ai fini del problema in discorso, le dichiarazioni del Ciavardini sulla sua copertura della ferita con occhiali da vista, incorre nella medesima illogicità di valorizzare ‑ non tenendo conto della menzionata consistente diversità delle situazioni e dei rischi connessi ‑ la disinvoltura con cui il giovane si era mosso in precedenza, citando anche, a mo’ di esempio, la sua partecipazione all’omicidio del giudice Amato nel giugno del 1980, senza farsi minimamente carico di confutare i pertinenti argomenti con cui il giudice di primo grado aveva motivato sull’irrilevanza del problema in quella circostanza (p. 207 sentenza del Tribunale).

Infine, sulla questione del c.d. “baratto”, la Corte di merito, dopo aver dato credito (per le convincenti ragioni già espresse dal Tribunale: v. p. 162 della relativa sentenza) alle dichiarazioni rese sul punto dall’Izzo e dalla Furiozzi, coerenti al dato pacifico della effettiva «copertura messa in atto dalla banda, non fornisce alcuna logica risposta alle obiezioni difensive, sostanzialmente condivise dal primo giudice (che peraltro ritiene poi alla fine più plausibile l’interpretazione del fatto in termini di mera suggestione paranoica), secondo le quali il timore ‑ per cui Fioravanti, Mambro e Cavallini s’indussero a “coprire” il Ciavardini dalla (poi pienamente accertata) sua responsabilità per l’omicidio Amato ‑ che il giovane, in caso di condanna per tale omicidio, potesse “crollare” e dire quanto sapeva sulla strage, appare conciliarsi meglio con l’ipotesi di una sua estraneità a tale crimine che non con quella, alla quale non può quindi servire da efficace supporto indiziario, di una sua partecipazione allo stesso».

I rilievi suesposti si riflettono in particolare, dando forza alle ulteriori censure sollevate al riguardo dal ricorrente, sul passaggio motivazionale con cui la Corte bolognese addiviene alla conclusione che il Ciavardini si recò a Bologna con Fioravanti e Mambro e quivi svolse un compito “direttamente connesso alla materiale esecuzione del crimine”.

Non c’è dubbio, invero, che una sua presenza e partecipazione “fisica” all’attentato deve fare i conti con l’ostacolo, che l’impugnata sentenza non è riuscita a superare, dei citati elementi del documento “insicuro” e della cicatrice al volto, e, inoltre, non può considerarsi (come ha illogicamente ritenuto la Corte bolognese) specificamente necessaria in relazione alla tipologia dell’azione da compiere, che, pur devastante negli effetti, non richiedeva a livello esecutivo (come esattamente osservato nel ricorso) quelle doti di audacia e speciale coraggio fisico che contraddistinguevano il Ciavardini, né una ampia partecipazione di persone.

Conclusione

In definitiva, l’impugnata sentenza presenta evidenti difetti argomentativi in ordine al punto essenziale nella relativa impostazione motivazionale, ai fini delle conclusioni assunte ‑ riguardante i compiti attribuiti al Ciavardini in riferimento, oltre che alla attività preparatoria (rimasta, per quanto lo riguarda, incerta e indefinita), alla fase propriamente esecutiva dell’attentato, nella quale è stato materialmente inserito attraverso un “iter” logico viziato.

Essa deve, pertanto, essere annullata, con rinvio al giudice del merito, che dovrà procedere a un nuovo giudizio sulla responsabilità dell’imputato per la strage e i reati connessi, attraverso un percorso valutativo-argomentativo indenne dai vizi sopra evidenziati e idoneo, per coerenza e completezza logica, a giustificare adeguatamente, al riguardo, una conclusione positiva (anche eventualmente in termini di non diretta partecipazione all’esecuzione materiale dell’evento delittuoso) ovvero una conclusione negativa.

PQM

Visti gli articoli 615 e 623 Cpp., annulla l’impugnata sentenza limitatamente ai reati di cui ai capi 2), 3), 4) e 5) e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di appello di Bologna, sezione per i minorenni.

Rigetta nel resto il ricorso.