Lavoro e Previdenza

Thursday 30 March 2006

La prova del danno esistenziale da demansionamento.

La prova del danno esistenziale
da demansionamento.

Cassazione – Sezioni unite civili – sentenza 2 febbraio-24 marzo 2006, n. 6572

Presidente Carbone – Relatore La
Terza

Pm Martone – difforme –
Ricorrente Rete Ferroviaria Italiana Spa

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 31 gennaio
2000, il Tribunale del lavoro di Roma dichiarava la nullità del licenziamento
intimato dalle Ferrovie dello Stato Spa a Franco Capanna e per l’effetto
condannava la società suindicata alla reintegrazione nel posto di lavoro e al
risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del
licenziamento a quella della effettiva reintegra,
nonché al risarcimento del danno derivante dal demansionamento, che faceva
decorrere dal 1992, pari a lire 486.660.000.

A seguito dell’impugnazione dalla
società, la Corte di appello di Roma, in parziale
riforma della sentenza di primo grado, dichiarava nullo, per violazione
dell’articolo 112 Cpc, il capo di sentenza concernente la reintegra nel posto
di lavoro perché ad essa il ricorrente aveva rinunciato e dichiarava
inammissibile, perché nuova, la domanda di reintegra proposta in grado di
appello; dichiarava altresì l’illegittimità del licenziamento intimato il 29
maggio 1998 e condannava la società a pagare al Capanna, a titolo di
risarcimento danni derivanti dall’illegittimo licenziamento, una somma pari a
24 mensilità dell’ultima retribuzione; ravvisata altresì l’esistenza del
demansionamento, che faceva decorrere dal 1996, condannava la società
appellante al pagamento della somma, pari a sei mensilità di retribuzione, di
lire 186.696.000, in luogo della maggior somma liquidata a tale titolo in primo
grado, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal dì della
maturazione, i primi sino al saldo, la seconda sino alla data della sentenza.

In punto di danno da
demansionamento, la Corte di appello riteneva
indiscutibile che l’inattività del Capanna avesse prodotto una serie di
risultati negativi i quali – ancorché non direttamente attinenti alla sfera
economica – si presentavano come conseguenze patrimoniali di un danno di
diversa natura ed erano, quindi, legittimamente suscettibili di valutazione. In
particolare, la Corte di appello indicava la lesione
della personalità professionale e morale del prestatore, il discredito che
l’avvenuto declassamento aveva comportato a suo carico nell’ambiente di lavoro
e il pregiudizio che tutta la vicenda, la cui responsabilità era da ascrivere
alla società appellante, aveva comportato sul curriculum vitae e sulla carriera
del Capanna, quali circostanze che, pur non avendo un immediato prezzo
economico, si ripercuotevano indubbiamente, oltre che nell’ambito personale e
morale, anche sotto il profilo patrimoniale. Nella specie – attese le
caratteristiche del pregiudizio e considerato che l’impossibilità di prova di
cu parla l’articolo 1226 Cc, va’intesa in senso relativo e con riferimento ai
mezzi e facoltà di cui la parte è fornita – il danno doveva essere
necessariamente oggetto di valutazione equitativa da parte del giudice, ed a tal
fine la Corte territoriale faceva ricorso, come chiesto dal lavoratore, al
disposto dell’articolo 9 del contratto collettivo, il quale prevede,
nell’ipotesi di mutamento di funzioni, il diritto del dirigente, di risolvere
il rapporto con diritto ad una indennità pari a quella
sostitutiva del preavviso, che doveva essere limitata, stante il minore periodo
di dequalificazione riconosciuto rispetto alla sentenza di primo grado, in
misura pari a sei mensilità.

Per la cassazione di questa
sentenza ha proposto ricorso Rete Ferroviaria Italiana Società per azioni, già
Ferrovie dello Stato di Trasporti e Servizi per azioni, sulla
base di quattro motivo, cui ha resistito con controricorso Franco
Capanna, il quale ha proposto altresì ricorso incidentale affidato a quattro
motivi, cui la società ha risposto con controricorso. Entrambe le parti hanno
depositato memorie.

La trattazione dei ricorsi è
stata rimessa alle Su per la risoluzione del contrasto
di giurisprudenza concernente la questione dell’onere probatorio in caso di
domanda di risarcimento danni del demansionamento professionale del lavoratore
prospettata con il quarto motivo del ricorso principale.

Motivi della decisione

Con il primo motivo del ricorso principale la società ricorrente deduce violazione e falsa
applicazione dell’articolo 112 Cpc, in relazione agli articoli 99, 414, 420,
436 e 437 Cpc, in ordine al capo della sentenza relativo alla liquidazione, in
conseguenza della ravvisata illegittimità del licenziamento, dell’indennità
supplementare di cui all’articolo 30, comma 10, del Ccnl Dirigenti Ferrovie
dello Stato 29 maggio 1990, giacché la domanda in tal senso, non contenuta nel
ricorso introduttivo, sarebbe stata inammissibilmente proposta dal Capanna solo
nelle note autorizzate dal giudice di primo grado.

Con il secondo motivo, la
ricorrente denuncia, ai sensi dell’articolo 360 n. 5 Cpc, insufficiente,
contraddittoria e omessa motivazione su punto determinante
della controversia in tema di criteri di liquidazione della indennità
supplementare.

Con il terzo motivo si deduce
violazione e falsa applicazione degli articoli 416, 115 e 116 Cpc, in relazione all’articolo 2697 e all’articolo 2103 Cc e
difetto di motivazione. La censura si riferisce all’accertamento del giudice di appello circa l’avvenuto demansionamento del Capanna nel
periodo successivo al 1996. In proposito, ricorda che sin dall’atto della sua
costituzione in giudizio aveva formulato articolate
deduzioni circa il riassetto dell’organigramma di Fs del 1997, richiedendo in
proposito prova per interpello del ricorrente e per testi, al fine di
dimostrare l’effettività e la dimensione del processo ristrutturativi in atto
dal 1997 in poi, il coinvolgimento dei settori cui il Capanna era stato
preposto, il suo esito con ridefinizione dell’organigramma e dei compiti di
tutta la struttura coinvolta, l’evidenza, all’esito, di eventuali posizioni di
esubero, quale quella del Capanna e l’incollocabilità del medesimo in posizioni
consimili, nonché l’attività svolta dal Capanna in tale periodo presso la
società Metropolis. La Corte d’appello aveva considerato del
tutto generiche e infondate le difese di essa società concernenti il processo di
ristrutturazione aziendale in atto nell’anno 1997, senza però palesare,
sostiene la società ricorrente, i motivi per i quali i fatti esposti e dedotti
ad oggetto di prova sarebbero generici, e, soprattutto, perché le relative
difese sarebbero infondate.

Con il quarto motivo ha dedotto
violazione e falsa applicazione degli articoli 115, 116, 414 e 420 Cpc, in relazione all’articolo 2697 Cc e agli articoli 432 Cpc e
1226 Cc. Si assume che nessuna prova era stata
offerta, né tanto meno nessun fatto specifico era stato allegato in linea
assertiva in ordina alla dimostrazione di un qualsivoglia danno derivante a
carico del Capanna per la lamentata dequalificazione, e comunque nessuna
domanda poteva essere accolta a tale titolo per difetto di prova. La sentenza,
prosegue la ricorrente, sarebbe errata per avere individuato il presupposto
della condanna risarcitoria non già sulla base delle allegazioni della parte,
che difettavano completamente (rasentando il ricorso
la nullità assoluta), ma in vere e proprie “illazioni imperscrutabili e
putative”. Inoltre, la motivazione sarebbe assolutamente apparente, o comunque insufficiente, non consentendo di verificare da
quali elementi del processo il giudice avrebbe tratto il convincimento della
verificazione del pregiudizio. Tali ipotesi (non suffragate da fatti di sorta,
né da prova di essi) nella loro genericità ed
astrattezza non integrerebbero la prova specifica del danno – il cui onere
gravava a carico del ricorrente – e quindi del presupposto che consente di
ricorrere, nella determinazione del quantum, alla valutazione equitativa,
vigendo anche nella giurisprudenza relativa all’articolo 1226 Cc il principio
secondo il quale l’equità è solo un criterio di determinazione di una
riconosciuta pretesa. In subordine, con il medesimo motivo di ricorso, la
ricorrente censura anche l’applicazione dei criteri liquidativi del danno con
ricorso all’equità ex articoli 432 Cpc e 1226 Cc.

Con il primo motivo, il
ricorrente incidentale deduce, ai sensi dell’articolo 360 n. 3 e 5, Cpc
violazione e/o falsa applicazione degli articoli 420 e 416 Cpc, in relazione agli articoli 2696 e 2103 Cc, sulla valutazione
del danno da demansionamento con riferimento all’articolo 9 Ccnl dirigenti Fs,
nonché omessa o contraddittoria motivazione in relazione agli articoli 2103 e
2087 Cc, in ordine alla determinazione del medesimo e omessa insufficiente o
contraddittoria motivazione su un punto determinante della controversia, per
avere escluso il demansionamento, pure riconosciuto dal giudice di primo grado,
per il periodo 1992-1996; per avere ritenuto compensativi incarichi privi di
contenuto operativo; per avere disatteso la clausola del Ccnl (articolo )) pur
ad essa facendo riferimento; per non avere tenuto conto del danno emergente
consistente nella perdita, conseguente alla rimozione dell’incarico di
direttore finanziario, dei premi ex articolo 38 Ccnl e dell’indennità di
funzione ex articolo 37 del medesimo Ccnl.

Con il secondo motivo, il Capanna deduce violazione o falsa applicazione
dell’articolo 112 Cpc, sulla domanda di reintegra nel posto di lavoro,
contestando che in alcun atto vi è stata rinuncia a tale domanda da parte di
esso ricorrente, né valida rinuncia da parte del procuratore.

Con il terzo motivo si deduce la
nullità del licenziamento in relazione al difetto di
poteri del funzionario che lo aveva disposto. La inefficacia
della procura al direttore delle risorse umane 27 luglio 1997 in materia di
assunzione e licenziamento dei dirigenti con contratto a tempo indeterminato
regolato dalla contrattazione collettiva.

La violazione e falsa
applicazione dell’articolo 435 Cpc in relazione agli
articoli 416 e 420 Cpc e all’articolo 2697 Cc. Insufficiente, omessa e
contraddittoria motivazione su un punto determinante
della controversia.

Con il quarto motivo si lamenta,
ai sensi dell’articolo 360 nn. 3 e 5 Cpc, violazione o falsa
applicazione dell’articolo 429 comma 3 Cpc, in materia di rivalutazione
monetaria e interessi su somme dovute a titolo di risarcimento del
danno. Omessa motivazione su un punto determinante
della controversia.

Appare logicamente preliminare –
rispetto alla questione oggetto del contrasto, di cui al quarto motivo del
ricorso principale ed al primo motivo del ricorso incidentale – la trattazione
del terzo motivo del ricorso principale, perché con esso
si critica la sentenza per avere ravvisato l’esistenza, dal 1996, del dedotto
demansionamento e quindi il presupposto stesso da cui è stato fatto discendere
il diritto al risarcimento del danno.

Il motivo non è fondato.

In primo luogo in ricorso non si
contesta una circostanza decisiva affermata nella sentenza impugnata, e cioè essere pacifico – avendolo ammesso la stessa società –
che il Capanna, una volta dimessosi da tutte le cariche precedentemente
rivestite, lasciata la società Metropolis e rientrato presso le Ferrovie dello
Stato, era rimasto del tutto inoperoso. La società invero si giustifica
allegando, e lamentando la mancata ammissione di prova sul punto, il profondo
riassetto organizzativo, delinea compiutamente in
ricorso il nuovo organigramma, con l’indicazione di tutte le numerose direzioni
e del personale che ne era rispettivamente a capo, al fine di dimostrare una
sorta di impossibilità sopravvenuta di assegnare al Capanna una qualsiasi
mansione. Ma il riassetto organizzativo che si intende
provare non appare però decisivo per infirmare le conclusioni cui sono
pervenuti i giudici di merito, giacché proprio la complessità della
organizzazione, la pluralità di settori di intervento, con articolazione in
molteplici direzioni (che comprendevano l’amministrazione, la finanza operativa
e straordinaria, gli acquisti, il patrimonio, il settore legale, la tesoreria,
il bilancio, la contabilità, il settore
fiscale ed altro) portano invece logicamente ad escludere l’esistenza di detta
impossibilità, rendendo poco credibile che non si fosse in condizione di
reperire – nell’ambito di un ragionevole periodo di tempo quale è quello
trascorso dal 1996 al licenziamento del maggio 1998 – una posizione compatibile
con la qualifica e le competenze professionali del Capanna. In particolare,
mentre si deduce che il medesimo era esperto in materia fiscale, non si spiega
in ricorso il motivo per cui il medesimo non potesse
trovare utile collocazione in detto settore, che pure risulta essere stato
variamente articolato (adempimenti fiscali, imposte dirette, Iva ed altre
imposte indirette e contenzioso).

Il terzo motivo del ricorso
principale è quindi infondato.

Parimenti infondato
è il primo motivo del ricorso incidentale, con cui si lamenta che non sia stato
ravvisato il demansionamento fin dal 1992, allorquando il
Capanna era stato rimosso dalla posizione di direttore dell’area
finanziaria e patrimonio, avente un peso che non sarebbe stato adeguatamente
valutato dai giudici di merito.

La prospettiva in cui si muove il
ricorrente appare invero erronea, non potendosi il demansionamento ritenere
integrato solo dalla revoca di un incarico di direzione, ancorché prestigioso, e remunerativo, essendo pur sempre rimesso al
datore il cosiddetto ius variandi, ossia l’assegnazione a mansioni diverse,
purché equivalenti a quelle svolte da ultimo; ed infatti, diversamente
opinando, ne conseguirebbe la impossibilità di modificare in alcun modo
l’organizzazione aziendale, il che però si porrebbe in patente contrasto con i
poteri riservati all’imprenditore dall’articolo 2094 Cc ed anche con i principi
di rango costituzionale (articolo 41 Costituzione). E quanto alla
equivalenza delle nuove mansioni, assegnate dopo la revoca di
quell’incarico, nella sentenza impugnata sono state puntualmente indicate le
funzioni di vertice svolte dal 1992 al 1996 (dal 30 aprile 1992 al 30 aprile
1994, era stato assistente dal presidente per la diversificazione delle
attività ferroviarie e responsabile per le Diversificate e il Patrimonio;
contemporaneamente era stato consigliere di amministrazione di Metropolis fino
al 18 novembre 1996 e vice presidente della medesima società del 18 maggio 1993
al 28 giugno 1996); inoltre non si indicano in ricorso gli elementi comprovanti
la tesi difensiva svolta, per cui detti incarichi sarebbero stati privi di
contenuti operativi e che la società Metropolis avrebbe agito solo sulla carta,
per cui non si può ascrivere alla sentenza impugnata né di averli pretermessi,
né di averli incongruamente valutati.

Il primo motivo del ricorso
incidentale va quindi rigettato.

Quanto al quarto motivo del
ricorso principale, concernente i danni derivanti dal demansionamento per il
periodo dal 1997 al 1998 ravvisati e liquidati dai giudici di merito, è effettivamente
sussistente un contrasto nella giurisprudenza della sezione
lavoro di questa Corte. La questione è la seguente: se, in caso di
demansionamento o di dequalificazione, il diritto del lavoratore al
risarcimento del danno, soprattutto di quello cosiddetto
esistenziale, suscettibile di liquidazione equitativa, consegua in re ipsa al
demansionamento, oppure sia subordinato all’assolvimento, da parte del
lavoratore, all’onere di provare l’esistenza del pregiudizio.

Invero entrambi gli indirizzi
convergono nel ritenere che la potenzialità nociva del comportamento datoriale
può influire su una pluralità di aspetti
(patrimoniale, alla salute e alla vita di relazione) e concordano sulla
risarcibilità anche del danno non patrimoniale, ammettendo il ricorso alla
liquidazione equitativa, ma divergono o presentano una inconciliabile diversità
di accenti e di sfumature quanto al regime della prova.

Sono ascrivibili al primo
indirizzo le pronunce di cui a Cassazione 13299/92, 11727/99, 14443/00,
13580/01, 15868/02, 8271/04, 10157/04, le quali, ancorché con motivazioni
diversamente articolate alla stregua delle pronunzie oggetto di
esame, hanno ritenuto che «In materia di risarcimento del danno per
attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle in relazione alle quali era stato assunto, l’ammontare di
tale risarcimento può essere determinato dal giudice facendo ricorso ad una
valutazione equitativa, ai sensi dell’articolo 1226 Cc, anche in mancanza di
uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la
liquidazione può essere operata in base all’apprezzamento degli elementi
presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all’entità e alla
durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze dal caso concreto».

Sono ascrivibili al diverso
indirizzo che richiede la prova del danno Cassazione 7905/98,
2561/99, 8904/03, 16792/03, 10361/04, le quali enunciano il seguente principio
«Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del
datore di lavoro al risarcimento del danno (anche sulla sua eventuale
componente di danno alla vita di relazione e di cosiddetto danno biologico)
subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione
lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a
determinare la dequalificatine del dipendente stesso, deve fornire la prova
dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento,
prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una
valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza
automatica di ogni comportamento illegittimo
rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la
mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che
denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui
all’articolo 2697 Cc». Con dette pronunzie si sono generalmente confermate le
sentenze di merito che avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno
per essere stata la dequalificatine fatta
genericamente derivare dalla privazione di compiti direttivi, per non essere
stati precisati i pregiudizi di ordine patrimoniale ovvero non patrimoniale
subiti, e per non essere stati forniti elementi comprovanti una lesione di
natura patrimoniale, non riparata dall’adempimento dell’obbligazione
retributiva, ovvero una lesione di natura non patrimoniale.

Le Su ritengono di aderire a
quest’ultimo indirizzo.

1. La tesi maggioritaria in
dottrina e in giurisprudenza è quella che prospetta la responsabilità datoriale
come di natura contrattuale. Ed infatti, stante la
peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, e cioè
sia quello che attiene alla lesione della professionalità, sia quello che
attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore, si
configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano
contrattuale: nel primo caso il danno deriva dalla violazione dell’obbligo di
cui all’articolo 2103 (divieto di dequalificazione), mentre nel secondo deriva
dalla violazione dell’obbligo di cui all’articolo 2087 8tutela dell’integrità
fisica e della personalità morale del lavoratore) norma che inserisce,
nell’ambito del rapporto di lavoro, i principi costituzionali. In entrambi i
casi, giacchè l’illecito consiste nella violazione dell’obbligo derivante dal
contratto, il datore versa in una situazione in inadempimento contrattuale
regolato dall’articolo 1218 Cc, con conseguente esonero dall’onere
della prova sulla sua imputabilità, che va regolata in stretta
connessine con l’articolo 1223 dello stesso codice. Vi è da aggiungere che
l’ampia locuzione usata dall’articolo 2087 Cc (tutela della integrità
fisica e della personalità morale del lavoratore) assicura il diretto accesso
alla tutela di tutti i danni non patrimoniali, e quindi non è necessario, per
superare le limitazioni imposte dall’articolo 2059 Cc (sulla evoluzione di
detta tematica vedi Corte costituzionale 233/03 e l’indirizzo inaugurato da
Cassazione 7283/03), verificare se l’interesse leso dalla condotta datoriale
sia meritevole di tutela in quanto protetto a livello costituzionale, perché la
protezione è già chiaramente accordata da una disposizione del Cc.

2. Dall’inadempimento datoriale
non deriva però automaticamente l’esistenza del danno, ossia questo non è,
immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell’atto
illegittimo. L’inadempimento infatti è già sanzionato
con l’obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che
si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma, non può infatti
non valere, anche in questo caso, la distinzione tra “inadempimento” e “danno
risarcibile” secondo gli ordinari principi civilistici di ci all’articolo 1218
e 1223, per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che
siano “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento, lasciando così
chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli
articoli 2087 e 2103 Cc, da quello, solo eventuale, della produzione del
pregiudizio (in tal senso chiaramente si è espressa la Corte costituzionale
372/94). D’altra parte – mirando il risarcimento del danno alla reintegrazione
del pregiudizio che determini una effettiva
diminuzione del patrimonio del danneggiato, attraverso il raffronto tra il suo
valore attuale e quello che sarebbe stato ove la obbligazione fosse stata
esattamente adempiuta – ove diminuzione non vi sia stata (perdita subita e/o
mancato guadagno) il diritto al risarcimento non è configurabile. In altri termini
la forma rimediale del risarcimento del danno opera solo in funzione di
neutralizzare la perdita sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre
l’attribuzione ad essa di una somma di denaro in
considerazione del mero accertamento della lesione, finirebbe con il
configurarsi come somma-castigo, come una sanzione civile punitiva, inflitta
sulla base del solo inadempimento, ma questo istituto non ha vigenza nel nostro
ordinamento.

3. È noto poi che
dall’inadempimento datoriale, può nascere, astrattamente, una pluralità di
conseguenze lesive per il lavoratore: danno professionale, danno all’integrità
psico-fisica o danno biologico, danno all’immagine o alla vita di relazione,
sintetizzati nella locuzione danno cosiddetto esistenziale, che possono anche coesistere l’una con l’altra.

Prima di scendere all’esame
particolare, occorre sottolineare che proprio a causa
delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende
indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore
(come sottolineato con forza dal secondo degli indirizzi giurisprudenziali
sopra ricordati), che deve in primo luogo precisare quali di essi ritenga in
concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le
peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la
prova del danno. Non è quindi sufficiente prospettare l’esistenza della
dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non
potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e
valendo il principio generale per cui il giudice – se
può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed
anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall’articolo
421 Cpc – non può invece mai sopperire all’inere di allegazione che concerne
sia l’oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova
supporto (tra le tante Cassazione Su 1099/98).

4. Passando ora all’esame delle
singole ipotesi, il danno professionale, che ha contenuto patrimoniale, può
verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante
dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e
dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito
per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità
di guadagno.

Ma questo pregiudizio non può
essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza
di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di
qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata
da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in
conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo.

Nella stessa logica anche della
perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità
occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in
concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che
sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto,
siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In
mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad
opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla
professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore
può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del
trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di
svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore.

5. Più semplice è il discorso sul
danno biologico, giacchè questo, che non può prescindere dall’accertamento
medico legale, si configura tutte le volte in cui è riscontrabile una lesione
dell’integrità psico fisica medicalmente accertabile, secondo la definizione
legislativa di cui all’articolo 5 comma 3 della legge 57/2001 sulla
responsabilità civile auto, che quasi negli stessi termini era stata anticipata
dall’articolo 13 del D.Lgs 38/2000 in tema di
assicurazione Inail (tale peraltro è la locuzione usata dalla Corte
costituzione con la sentenza 233/03).

6. Quanto al danno non
patrimoniale all’identità professionale sul luogo di lavoro, all’immagine o
alla vita di relazione o comunque alla lesione del
diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua
personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli articoli 1 e 2 della
Costituzione (cosiddetto danno esistenziale) è in relazione a questo caso che
si appunta maggiormente il contrasto tra l’orientamento che propugna la
configurabilità del danno in re ipsa e quello che ne richiede la prova in
concreto.

Invero, stante la forte valenza
esistenziale del rapporto di lavoro, per cui allo
scambio di prestazioni si aggiunge il diretto coinvolgimento del lavoratore
come persona, per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito
datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini
di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua
quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione
della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si
fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto
danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di
vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato
l’evento dannoso.

Anche in
relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla allegazione
che ne fa l’interessato sull’oggetto e sul modo di operare dell’asserito
pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di indicazione in tal senso
nell’atto di parte, facendo ricorso a formule standardizzate, e sostanzialmente
elusive della fattispecie concreta, ravvisando immancabilmente il danno
all’immagine, alla libera esplicazione ed alla dignità professionale come
automatica conseguenza della dequalificazione. Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, e
quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema gabellare –
al quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità
dei criteri medico legali applicabili in relazione alla lesione dell’indennità
psico fisica – necessità imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il
soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti
l’alterazione delle sue abitudini di vita.

Non è dunque sufficiente la prova
della dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità,
dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, perché
questi elementi integrano l’inadempimento del datore ma,
dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò,
concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore,
alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita. Non può infatti
escludersi, come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali,
connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non
provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del
lavoratore, essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla
prestazione retributiva; se è così sussiste l’inadempimento, ma non c’è
pregiudizio e quindi non c’è nulla da risarcire, secondo i principi ribaditi
dalla Corte costituzionale con la sentenza 378/94 per cui «È sempre necessaria
la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la
dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello
indicato dall’articolo 1223 Cc, costituita dalla diminuzione o privazione di un
valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere
(equitativamente) commisurato».

6. Ciò considerato in tema di allegazioni e passando ad esaminare la questione della
prova da fornire, si osserva che il pregiudizio in concreto subito dal
lavoratore potrà ottenere pieno ristoro, in tutti i suoi profili, anche senza
considerarlo scontato aprioristicamente. Mentre il danno biologico non può
prescindere dall’accertamento medico legale, quello esistenziale può invece
essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che
dimostri nel processo “i concreti” cambiamenti che l’illecito ha apportato, in
senso peggiorativo, nella qualità di vita del
danneggiato. Ed infatti – se è vero che la stessa
categoria del “danno esistenziale” si fonda sulla natura non meramente emotiva
ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale: non
meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero
adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso – all’onere probatorio può
assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a
disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali
circostante di congiunti e colleghi di lavoro. Considerato che il pregiudizio
attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo
di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall’ordinamento
in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far
ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cassazione 9834/02) per la
formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all’articolo
2727 Cc venga offerta una serie concatenata di fatti
noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta
(e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all’interno ed
all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di
(precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali
reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta
lesione dell’interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nelle
abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostante, il cui artificioso
isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante
Cassazione 13819/03) complessivamente considerate attraverso un prudente
apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia
all’esistenza del danno, facendo ricorso, ex articolo 115 Cpc a quelle nozioni
generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento
presuntivo e nella valutazione delle prove.

D’altra parte, in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno
esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma
equitativa, perché questa, per non trasmodare nell’arbitrio, necessità di
parametri a cui ancorarsi.

7. Applicando detti criteri al
caso di specie, la Corte territoriale afferma essere indiscutibile che il
dedotto demansionamento ha sicuramente prodotto una serie di risultati negativi
ed indica a tale fine la lesione della personalità professionale e morale, il
discredito derivante dal declassamento nell’ambiente di lavoro ed il
pregiudizio sul cv e sulla carriera dell’istante.

In primo luogo detti rilievi
prescindono integralmente dalle allegazioni del ricorrente, perché non se ne
riporta in alcun modo il tenore, anzi l’espressione usata «Si pensi alla
lesione della personalità professionale e morale al “discredito” nell’ambiente
di lavoro» sembra alludere a conclusioni cui il Giudice è pervenuto
autonomamente, in altri termini, non risultano posti a base della decisione
fatti introdotti dalla parte nel processo, così contravvenendo all’obbligo di
decidere iuxta alligata ed provata di cui all’articolo
115 Cpc.

Inoltre ciò di cui si da conto è, non già – come si dovrebbe – il danno
conseguenza della lesione, e cioè l’esistenza dei riflessi pregiudizievoli
prodotti nella vita dell’istante attraverso una negativa alterazione dello
stile di vita, ma l’esistenza della lesione medesima, essendosi fatto ricorso
ad una formula standardizzata, tale da potersi utilizzare in tutti i casi di
dedotta dequalificazione, con conseguente rischio di risolvere dette
controversie con l’apposizione di un formulario “fisso” e quindi con elusione
delle specificità delle singole fattispecie. Del tutto generico e immotivato è
poi il riferimento al pregiudizio al cv ed alla carriera, non facendosi alcuna indicazione sulle concrete aspettative
dell’interessato nel futuro svolgimento della vita professionale che sarebbero
state frustrate dall’inadempimento datoriale, né alla conoscenza della vicenda
al di fuori dell’ambiente di lavoro, né alla perdita di [omissis] del ricorso
principale e il primo motivo del ricorso incidentale. La causa va poi rimessa
alla sezione lavoro per la decisione sugli altri
motivi.

PQM

La Corte riunisce i ricorsi;
accoglie il quarto motivo del ricorso principale e cassa la sentenza impugnata in relazione al medesimo motivo. Rigetta il terzo motivo del
ricorso principale ed il primo motivo del ricorso incidentale. Rimette la causa alla Sezione lavoro per la decisione sugli
altri motivi.