Penale

Tuesday 14 September 2004

La Cassazione approfitta della querelle Ariosto – Sgarbi per discettare di diffamazione e ingiuria. Cassazione – Sezione quinta penale (up) – sentenza 2 luglio-8 settembre 2004, n. 36086

La Cassazione approfitta della querelle Ariosto – Sgarbi per discettare di
diffamazione e ingiuria

Cassazione – Sezione quinta penale
(up) – sentenza 2 luglio-8 settembre 2004, n. 36086

Presidente Foscarini
– Relatore Marini

Pg Ciampoli –
ricorrente Ariosto ed altri

La
Corte
osserva

Ariosto Stefania veniva
tratta a giudizio innanzi il Tribunale di Como per rispondere del reato di
diffamazione a mezzo della stampa, con attribuzione di fatti determinati, per
avere rilasciato una intervista, pubblicata sul periodico “La Provincia” in
data 30 gennaio 1997, nel corso della quale si era espressa, nei confronti
dell’Onorevole Sgarbi Vittorio, nei seguenti termini:

a) «…accusa me di avere venduto
oggetti falsi ma sotto processo per una perizia su un certo quadro è finito
proprio Sgarbi»;

b) «…la cortigiana sarei io che da Berlusconi non ho mai preso una lira…non pare che lui possa
dire altrettanto»;

c) «…se non lo condannano mi faccio
giustizia da sola, lo prendo a schiaffi come ha fatto Teodoro Bontempo con il giornalista Giancarlo Perna».

Il giudice di primo grado, con
sentenza 30 marzo 2001, assolveva l’imputata, relativamente
alla frase sub a) con formula perché il fatto non costituisce reato e,
in ordine alla frase sub b), con formula perché il fatto non sussiste;
dichiarava l’imputata, viceversa, in ordine alla frase sub c), responsabile di
minaccia, così diversamente qualificato il fatto e, per l’effetto, condannava
l’Ariosto alla pena di lire 30.000 di multa oltre al risarcimento dei danni in
favore della parte civile.

Investita dell’impugnazione della imputata quanto alla condanna per il fatto sub c),
nonché della parte civile quanto al giudizio sulla intera imputazione, la Corte
di appello di Milano, con sentenza 23 ottobre 2003, fermo il giudizio assolutorio
quanto alla frase sub a), affermava viceversa la responsabilità della imputata
per il reato di diffamazione in ordine alla frase sub b), nonché in ordine a
quella sub c), restituito il fatto ivi descritto alla qualificazione giuridica
originaria; rideterminava, quindi, la pena
complessiva, ritenute equivalenti le attenuanti generiche rispetto
all’aggravante dell’attribuzione del fatto determinato con l’espressione sub
c), in euro 600 di multa.

L’imputata ricorre per cassazione, a mezzo del proprio difensore, deducendo:

1. erronea applicazione della legge
per mancata rilevazione della condizione di improcedibilità
quanto alla espressione sub c), sul rilevo che la querela era stata
espressamente proposta in ordine al delitto di minaccia;

2, erronea applicazione
della legge penale, con riferimento alla qualificazione del fatto sub c);

3. omessa motivazione in ordine alla paternità dell’espressione sub c) (sul
rilievo che la stessa, per nulla offensiva, sarebbe stata giornalisticamente
adattata dall’intervistatore);

4. mancanza di motivazione ovvero
manifesta illogicità della medesima quanto al giudizio di colpevolezza in ordine alla frase alla lettera b), sul rilievo di una
viziata lettura della medesima;

5. erronea
applicazione della legge penale quanto al giudizio di “carica diffamatoria”
della frase alla lettera b);

6. erronea applicazione della legge
penale, con riferimento ad “omessa valutazione della scriminante della
reciprocità”, sul rilievo che l’intervista era stata rilasciata nell’attesa di una udienza relativa a procedimento penale a carico
dell’onorevole Sgarbi per diffamazione nei confronti della stessa imputata
(qualificata essa stessa come “cortigiana”);

7. erronea
applicazione
della legge penale ovvero contraddittorietà della motivazione quanto
all’aggravante dell’attribuzione del fatto determinato.

Il ricorso non può trovare
accoglimento.

In ordine al monito sub 1), infatti,
evidentemente non rileva che il querelante abbia ipotizzato nei fatti
illustrati nell’atto anche, o soltanto, un reato di minaccia; noto, invero, il
principio del giudizi di legittimità secondo cui in ogni caso la querela
contiene la notizia di reato con l’istanza di punizione e spetta poi al giudice
il potere di qualificazione giuridica del fatto storico, indipendentemente da
quella attribuitagli dal querelante.

Il motivo sub 2), poi, prospetta poco
più che una censura di merito in punto di apprezzamento
della frase di cui alla lettera c) e, peraltro, il giudizio che tale frase,
priva di reale efficacia intimidatoria, abbia invece realmente aggredito la
figura morale del destinatario, non può dirsi il prodotto di un error in iudicando; derivando, invero, dal dato descrittivo, in
termini che richiamano una espressione gergale (“faccia da schiaffi”) ormai
entrata nella comprensione di ognuno, di un soggetto meritevole di disprezzo
(attraverso schiaffi già ricevuto in altra circostanza).

Il motivo sub 3), ancora, si risolve
nella richiesta, inammissibile nella presente sede, di nuovo esame degli
elementi di prova in punto alla paternità della frase
alla lettera c) e, ciò, peraltro, a fronte di sentenza che ha segnalato come
mai, il punto fosse stato messo in discussione dall’imputata e che, infine, ha incensurabilmente acquisito in fatto espressioni proprie
del soggetto intervistato (e non, dunque, modificate o enfatizzate
dall’intervistatore).

Infondato, poi, è il motivo sub 4):
il giudizio di valenza diffamatoria delle espressioni di cui alla lettera b),
infatti, risulta esaustivamente motivato, con rinvio
all’apprezzamento della intera frase, ritenuta non illogicamente
rappresentativa, in termini allusivi ma eloquenti, di una persona che,
diversamente dalla intervista, si sarebbe prestata, per mera cortigianeria, a
ricevere danaro “da Berlusconi”.

Il collegato motivo sub 5), poi,
torna a qualificarsi come censura di merito, perché pretende unicamente
assegnare inidoneità lesiva dell’altrui reputazione alla espressione
“cortigiano” mutilata di parte essenziale della intera frase – allusiva alla
percezione di danaro “da Berlusconi” – e, dunque, pretermette il puntuale richiamo del giudice di appello al
senso spregiativo proprio dell’espressione comunemente avvertibile (in termini
di soggetto adulatore ovvero in qualche servile, per danaro, nei riguardi di un
potente) in una simile rappresentazione del fatto.

Infondato è il motivo sub 6), poiché la ricorrente con tale mezzo invoca, deducendo la
reciprocità, l’esimente della ritorsione che è applicabile al diverso reato di
ingiuria (articolo 599 comma 1 Cp); né il testo
dell’impugnata sentenza, laddove riconosce «l’agitato stato d’animo
dell’imputata, effetto almeno parziale del comportamento burrascoso del
querelante pure in tutt’altre circostanze»
(valorizzato in punto di trattamento sanzionatorio), autorizza minimamente che
sia ravvisabile una diffamazione commessa “subito dopo” il fatto ingiusto
dell’offeso (articolo 599 comma 2 Cp).

Infondato è anche il superstite
motivo sub 7).

Ricorre l’aggravante
dell’attribuzione del fatto determinato, infatti, allorché il fatto risulti sufficientemente delineato nei suoi essenziali
elementi, in modo che ne derivi quell’aspetto di
maggior credibilità in cui si sostanzia la ratio della aggravante, senza che
peraltro occorra la rappresentazione degli estremi circostanziali di luogo,
tempo e modo in cui l’azione è stata tenuta; nella specie, l’allusione alla
disonorevole condotta «di avere preso i soldi da Berlusconi»
quale suo “cortigiano”, è stata non illogicamente apprezzata come idonea a
configurare l’aggravante, risultando infatti evocata, alla comprensione del
lettore l’immagine reale di un soggetto foraggiato, più o meno sistematicamente
e quale corrispettivo di cortigianeria, da un bene individuato soggetto
politico, derivandone così un maggior pregiudizio della reputazione.

Alla reiezione del ricorso consegue
la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e
condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.