Lavoro e Previdenza

Thursday 01 June 2006

L’ onere probatorio del datore di lavoro in materia di mobbing.

Lonere probatorio del datore di lavoro in materia di mobbing.

Cassazione Sezione lavoro sentenza 8 marzo-25 maggio 2006, n. 12445

Presidente Ciciretti Relatore De Luca

Pm Matera conforme Ricorrente Mastroianni Controricorrente Anmil

Svolgimento del processo

Con la sentenza ora denunciata, il Tribunale di Potenza confermava la sentenza del Pretore della stessa sede, che ‑ pronunciando sulla domanda proposta da Maria Mastroianni contro lAssociazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro (Anmil) ‑ sezione provinciale di Potenza, della quale era stata dipendente fino alle proprie dimissioni per giusta causa, e diretta ad ottenere il risarcimento dei danni (patrimoniali, psicologici e morali) subiti in dipendenza del comportamento vessatorio tenuto nei suoi confronto dal Presidente dellAssociazione, Picaroni Antonio ‑ aveva, bensì, riconosciuto il diritto della lavoratrice alla indennità sostitutiva del preavviso, in dipendenza delle dimissioni per giusta causa, mentre aveva rigettato le altre domande ‑ dirette ad ottenere il risarcimento dei danni ‑ essenzialmente, in base ai rilievi seguenti:

‑ la violazione della disposizione ‑ correttamente invocata dalla lavoratrice, in quanto idonea a tutelare la propria personalità morale ed integrità psico‑fisica (articolo 2087 Cc) ‑ è fonte di responsabilità contrattuale, in relazione alla quale la prova liberatoria, a carico del datore di lavoro, risulta particolarmente rigorosa, dovendo dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare levento dannoso;

‑ ora i fatti mobbizzanti, posti in essere dal Picaroni, hanno prodotto (alla lavoratrice) delle rilevanti conseguenze sul piano morale e psico‑fisico;

‑ tuttavia, come congruamente argomentato dal giudice di prime cure, detti fatti sono ascrivibili alla persona fisica (Picaroni), dimodoché non è ravvisabile in capo allAssociazione una diretta ed immediata responsabilità – infatti‑ non è possibile colpevolizzare lassociazione ‑ in base al criterio che il datore di lavoro «è tenuto a predisporre tutti i mezzi e ad adottare tutte le cautele richieste in generale dalla norma e da identificarsi in concreto, caso per caso, in base al criterio della diligenza, prudenza e perizia in quanto gli interventi della sede centrale della Associazione che (previa audizione della lavoratrice alle date del 22 febbraio, 7 e 23 maggio 1990) ha deferito il Picaroni al collegio dei probiviri ‑ sono da considerarsi tempestivi e, soprattutto, esaustivi degli obblighi contrattuali e dei doveri giuridici posti a carico del datore di lavoro a tutela del lavoratore» (infatti non risulta provato che la lavoratrice abbia informato, sin dal settembre 1989, la sede centrale dellAssociazione, nel difetto di qualsiasi timbro od altro elemento atto a dimostrare la data di spedizione del documento prodotto con lindicazione missiva della Mastroianni del, settembre 1989).

Avverso la sentenza dappello, Maria Mastroianni propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi ed illustrato da memoria.

Lintimata (Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro (Anmil ‑sezione provinciale di Potenza resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso ‑ denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (articolo 1228, 2087, 2104, comma 2, 2118, 2119, 2909 Cc, 2, 15, 32, 35 Costituzione, 4, 9 legge 300/70), nonché vizio di motivazione (articolo 360, n. 3 e 5, Cpc) ‑ Maria Mastroianni censura la sentenza impugnata ‑ per averle negato il risarcimento dei danni subiti, in dipendenza delle vessazioni del Presidente dellAssociazione dalla quale dipendeva (Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro ‑(Anmil ‑ sezione provinciale di Potenza) sebbene inducessero ad opposta decisione, tra laltro, le circostanze e le considerazioni seguenti:

il riconoscimento della natura contrattuale della dedotta responsabilità (per violazione dellarticolo 2087) e del nesso di causalità ‑ tra il comportamento del Presidente dellassociazione ed i danni (alla personalità morale ed allintegrità fisio‑psichica) ‑ nonché lassenza della prova liberatoria ‑ a carico del datore di lavoro ‑ di avere adempiuto i propri obblighi di tutela (della personalità morale, appunto e della integrità fisio‑psichica) del lavoratore, non potendosi considerare tali eventuali provvedimenti di repressione dei comportamenti illeciti dellautore delle vessazioni;

‑ comunque la responsabilità per fatto del terzo (articolo 1228 Cc) è una forma di responsabilità obiettiva, indipendente, cioè, dalla colpa del soggetto responsabile;

‑ peraltro la colpa del datore di lavoro risulta accertata ‑ con autorità di giudicato ‑ dalla sentenza di primo grado, laddove riconosce il diritto dellattuale ricorrente alla indennità sostitutiva del preavviso ‑ che suppone, appunto, la colpa del datore di lavoro ‑ in dipendenza delle dimissioni per giusta causa.

Con il secondo motivo ‑ denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (articolo 2087, 2697 Cc), nonché vizio di motivazione (articolo 360, n. 3 e 5, Cpc) ‑ la ricorrente censura la sentenza impugnata ‑ per averle negato il risarcimento dei danni subiti, in dipendenza delle vessazioni del Presidente dellAssociazione dalla quale dipendeva (Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro ‑ Anmil ‑ sezione provinciale di Potenza) ‑ sebbene sia pacifico che nessun controllo sia stato posto in essere dallAssociazione, che ‑ intervenuta a seguito di segnalazione della stessa lavoratrice ‑ si è limitata al deferimento del responsabile delle vessazioni al collegio dei probiviri, mentre non ne risulta neanche la sospensione.

Il ricorso è fondato.

2. Invero il diritto al risarcimento é subordinato alla sussistenza dei presupposti rispettivi ‑ almeno in parte diversi ‑ della responsabilità civile, contrattuale oppure extra contrattuale (vedi, per tutte, Cassazione 16250-2357/03, 15133-1114/002).

Infatti la colpa risulta, bensì, essenziale per qualsiasi tipo di responsabilità civile, ma ‑ solo per quella contrattuale ‑ vige il regime particolare (previsto dallarticolo 1218 Cc) per la ripartizione dellonere probatorio (vedi, per tutte, Cassazione 16250/03, 15133/02, 12763/98).

Ne risulta, infatti, stabilita ‑ in deroga ai principi generali nella stessa materia (di cui allarticolo 2697 Cc), applicabili invece ad ogni altro tipo di responsabilità ‑ la presunzione legale discolpa, appunto, a carico del (debitore inadempiente) responsabile del danno da risarcire (vedi, per tutte, Cassazione 16250, 2357/03, 15133/02, cit., 3162/002, 602/00, 9247, 7792/98, 4078/95).

Di conseguenza, risulta dispensato ‑ dallonere probatorio relativo ‑proprio il creditore danneggiato, che ‑ in quanto agisce per il risarcimento ‑ne sarebbe gravato in base ai principi generali in materia (di cui allarticolo 2897 Cc).

3. Ora ha natura contrattuale ‑ ad avviso della giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze 15133/02, cit., 9385/01, 2911/99 delle Su e 16250, 2357/03, 4129, 3162/02, 14469, 5491, 1307, 602/00, 7792/99, 12763, 9247, 3367/88 della sezione lavoro) ‑la responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dellobbligo di sicurezza (articolo 2087 Cc), che gli impone ladozione delle misure ‑ di sicurezza e prevenzione, appunto che, secondo la particolarità del lavoro, lesperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare lintegrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Daltro canto, nessun dubbio può sussistere sulla prospettata qualificazione giuridica della stessa responsabilità ‑ di natura contrattuale, appunto ‑ ove si consideri, da un lato, che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato ‑ per legge (ai sensi dellarticolo 1374 Cc) ‑ dalla disposizione che impone lobbligo di sicurezza (articolo 2087 Cc, cit., appunto) e, dallaltro, che la responsabilità contrattuale é configurabile tutte le volte che risulti fondata sullinadempimento di unobbligazione giuridica preesistente, comunque assunta dal danneggiante nei confronti del danneggiato.

4. Dalla prospettata natura contrattuale della responsabilità, la stessa giurisprudenza ricava, per quel che qui interessa, significative implicazioni sul piano della distribuzione degli oneri probatori relativi.

Come è già stato anticipato, infatti, la presunzione legale di colpa ‑ stabilita (dallarticolo 1218 Cc, cit.) a carico del datore di lavoro inadempiente allobbligo di sicurezza (di cui allarticolo 2087, cit.) ‑ deroga, parzialmente, il principio generale (articolo 2697 Cc), che impone ‑ a chi vuoi fare valere un diritto in giudizio ‑ lonere di provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.

Non ne risulta, tuttavia, una ipotesi di responsabilità oggettiva, né la dispensa, da qualsiasi onere probatorio, del lavoratore danneggiato:

Questi, infatti, resta gravato ‑ in forza del ricordato principio generale (articolo 2697 Cc, cit., appunto) ‑ dellonere di provare il fatto costituente inadempimento dellobbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra linadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre esula dallonere probatorio a carico del lavoratore ‑ in deroga, appunto, allo stesso principio generale ‑ la prova della colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento (come ad ogni altro rimedio contro il medesimo inadempimento).

È lo stesso datore di lavoro, infatti, ad essere gravato (ai sensi dellarticolo 1218 Cc) ‑ quale debitore, in relazione allobbligo di sicurezza, appunto ‑dellonere di provare la non imputabilità dellinadempimento.

In altri termini, la prova sullimputazione materiale e su quella psicologica del danno (secondo una classica bipartizione dottrinaria) ‑ anziché essere concentrata sul lavoratore (come, in genere, sul creditore) danneggiato, che agisca per ottenere il risarcimento ‑ risulta ripartita, in ipotesi di responsabilità contrattuale appunto, tra lo stesso lavoratore (ed, in genere, creditore) e, rispettivamente, il datore di lavoro (ed, in genere, il debitore).

5. Affatto diverso risulta, tuttavia, (anche) il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza ‑ asseritamente omesse ‑siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte parimenti vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici (quali le misure previste dal D.Lgs 626/94 e successive integrazioni e modifiche, come dal precedente Dpr 547/55), oppure debbano essere ricavate dalla stessa disposizione (articolo 2087 Cc, cit.) che impone lobbligo di sicurezza.

Nel primo caso ‑ di misure di sicurezza (o prevenzione), pero cosi dire, nominate ‑ il lavoratore ha lonere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa ‑ cioè i( rischio specifico, che sintende prevenire o contenere ‑ nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra linosservanza della misura ed il danno subito.

La prova liberatoria a carico del datore di lavoro, poi, parimenti si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore: negazione, cioè, dellobbligo o, comunque, dellinadempimento ‑ in relazione a quella stessa misura di sicurezza (o di prevenzione) ‑ nonché dà nesso di causalità tra inadempimento e danno.

È da escludersi, invece, che possa risultare parimenti liberatoria la prova della impossibilità sopravvenuta della prestazione di sicurezza ‑ che sia stata omessa ‑ risolvendosi la prestazione stessa, almeno di regola, nella messa a disposizione di beni generici, per i quali non é configurabile, appunto, listituto dellimpossibilità sopravvenuta.

Nel secondo caso ‑ di misure di sicurezza (o prevenzione), per cosi dire, innominate ‑ fermo restando lonere probatorio a carico del lavoratore, la prova liberatoria, a carico del datore di lavoro, risulta invece variamente definita in relazione alla quantificazione della diligenza (ritenuta) esigibile ‑nella predisposizione di quelle misure di sicurezza ‑ e perciò registra, anche in giurisprudenza, significative oscillazioni ‑ che non rilevano, tuttavia, per la decisione della presente controversia ‑ tra limposizione al datore di lavoro dellonere di provare ladozione di ogni misura idonea ad evitare linfortunio dedotto in giudizio (vedi, per tutte, Cassazione 9401/95) oppure soltanto ladozione di comportamenti specifici, non imposti dalla legge (o da altra fonte di diritto parimenti vincolante), ma suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, standard di sicurezza adottati normalmente o da altre fonti analoghe (vedi, per tutte, Corte costituzionale 312196, Cassazione 16250/03, 3740/95).

6. Il datore di lavoro, poi, é responsabile dei danni subiti dal proprio dipendente, non solo quando ometta di adottare idonee misure protettive, ma anche quando ometta di controllare e vigilare che di tali misure sia fatto effettivamente uso (anche) da parte dello stesso dipendente, con la conseguenza che ‑ secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze 16250, 2357/03, 15133/02, cit., 9304, 9016, 5024, 326/02, 7052/01, 13690/00, 6000/98, 4227/92) ‑ si può configurare un esonero totale di responsabilità, per il datore di lavoro appunto, solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dellabnormità e dellassoluta imprevidibilità (sullo specifico punto, vedi, per tutte, Cassazione 13690/00, 326/02, cit.).

Alla luce dei principi di diritto enunciati, la sentenza impugnata merita le censure ‑ che le vengono mosse dalla ricorrente ‑ non solo per violazione dei principi di diritto enunciati, ma anche sotto il profilo del vizio di motivazione (articolo 360, n. 5, Cpc).

7. Invero la denuncia di un vizio di motivazione in fatto, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dellarticolo 360, n. 5, Cpc) ‑ vizio nel quale si traduce anche la mancata ammissione di un mezzo istruttorio (vedi, per tutte, Cassazione 13730, 9290/04), nonché lomessa od erronea valutazione di alcune risultanze probatorie (vedi, per tutte, Cassazione 3004/04, 3284/03) ‑ non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico ‑ formale, le argomentazioni ‑ svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva laccertamento dei fatti, allesito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento ‑ con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere ‑ secondo lorientamento (ora) consolidato della giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le, sentenze 13045/97 delle Su e 8153, 7936, 7745, 4017, 3452, 3333, 236/05, 24219, 23411, 22838, 22751, 21826, 21377, 20272, 19306/04, 16213, 16063, 11936, 11918, 7635, 6753, 5595/03, 3161/02, 4667/01, 14858, 9716, 4916/00, 8383/99 delle sezioni semplici) dallesame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quei ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili dufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire lidentificazione del procedimento logico­giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti, né, comunque, una diversa valutazione dei medesimi fatti.

In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto ‑ consentito al giudice di legittimità (dallarticolo 360 n. 5 Cpc) ‑ non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dellopzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dallordinamento al giudice di legittimità.

Pertanto, ai giudice di legittimità non compete il potere di adottare una propria motivazione in fatto (arg. ex articolo 384, comma 2, Cpc) né, quindi, di scegliere la motivazione più convincente ‑ tra quelle astrattamente configurabili e, segnatamente, tra la motivazione della sentenza impugnata e quella prospettata dal ricorrente ‑ ma deve limitarsi a verificare se ‑ ne(la motivazione in fatto della sentenza impugnata, appunto ‑ siano stati dal ricorrente denunciati specificamente ‑ ed esistano effettivamente ‑ vizi che, per quanto si é detto, siano deducibili in sede di legittimità.

8. Tuttavia la motivazione in fatto della sentenza dappello ‑ che confermi, come nella specie, la sentenza di primo grado ‑ può risultare ‑ secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze 7182/97, 132196, 12035/95) ‑ dalla integrazione della parte motiva delle due sentenze.

Coerentemente, deve essere denunciato e verificato ‑ in relazione alla prospettata integrazione della parte motiva delle sentenze di primo e di secondo grado ‑ il vizio di motivazione in fatto (articolo 369, n. 5, Cpc).

Alla luce dei principi di diritto enunciati. la sentenza impugnata ‑ come è stato anticipato ‑ merita le censure ‑ che le vengono mosse dalla ricorrente ‑anche sotto il profilo del vizio di motivazione (articolo 360, n. 5, Cpc).

9. Infatti la sentenza impugnata ‑ come é stato ricordato in narrativa ‑ ha, tra laltro, accertato che i fatti mobbizzanti, posti in essere dal Picaroni, hanno prodotto (alla lavoratrice) delle rilevanti conseguenze sul piano morale e psico‑fisico.

E tale accertamento di fatto ‑ che conferma, (anche) sul punto, la sentenza di primo grado, disattendendo la domanda in senso contrario, riproposta in appello dallattuale resistente (ai sensi dellarticolo 346 Cpc) ‑ ha acquistato autorità di giudicato, non risultando investito da ricorso incidentale della stessa resistente (in tal senso, vedi, per tutte, Cassazione 3261, 100/03, 14075, 5357/02).

Coerente con la giurisprudenza di questa Corte (vedine le sentenze 8438/04 delle Su 6326/05 della sezione lavoro) risulta, poi, la qualificazione come contrattuale ‑ che la sentenza impugnata propone ‑della dedotta responsabilità del datore di lavoro (ed attuale resistente) per danno da mobbing, derivante da inadempimento dellobbligo di sicurezza (articolo 2087 Cc).

Né lo stesso datore di lavoro (ed attuale resistente) assolve lonere della prova liberatoria ‑ che, per quanto si è detto, è posto a suo carico ‑ in quanto, lungi dallallegare (e, tantomeno, dal dimostrare) ladozione di una qualsiasi misura idonea a prèvenire il dedotto evento dannoso, si limita alla deduzione di una propria iniziativa (quale il deferimento, al collegio dei probiviri, del responsabile dei fatti mobbizzanti, volta alla repressione ‑non già alla prevenzione ‑ degli stessi fatti mobbizzanti che ‑ come è stato accertato, con autorità di giudicato ‑ hanno prodotto (alla lavoratrice) delle rilevanti conseguenze sul piano morale e psico‑fisico.

Tanto basta per accogliere il ricorso.

10. Il ricorso, pertanto, deve essere accolto.

Per leffetto, la sentenza va cassata con rinvio ad altro giudice dappello ‑designato in dispositivo ‑ perché proceda al riesame della controversia ‑uniformandosi al principio, di diritto enunciato ‑ e provveda, contestualmente, al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione (articolo 385, comma 2, Cpc).

PQM

La Corte accoglie il ricorso; cassa al sentenza impugnata con rinvio alla Corte dappello di Salerno, anche per il regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione.