Penale

Monday 03 May 2004

Indagini difensive e misure cautelari. Nella fase di appello via libera alla allegazione di elementi probatori nuovi

Indagini difensive e misure cautelari. Nella fase di appello via libera alla allegazione di elementi probatori nuovi

Corte di cassazione Sezioni unite penali Sentenza 20 aprile 2004, n. 18399 RITENUTO IN FATTO

1.1. Il Gip del Tribunale di Milano, con provvedimento del 17 febbraio 2003, rigettava la richiesta del Pm di applicazione di misure coercitive a carico di numerosi indagati, in particolare della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di L. M. per i reati di associazione per delinquere finalizzata alla consumazione di una serie di truffe in danno di ditte orafe, truffa, ricettazione e falso in atti pubblici, e di quella degli arresti domiciliari nei confronti di D. M. P. per i reati di ricettazione e falso strumentali alla perpetrazione delle truffe, sul rilievo che “anche dando per ammessa in ipotesi la prospettazione d’accusa, non sarebbero comunque ravvisabili le esigenze cautelari”, poiché l’attività fraudolenta “risulta cessata alla data del 28-29 settembre 2001” e “per oltre un anno il sodalizio non ha compiuto alcuna ulteriore attività criminosa”. Il Pm, proposto appello avverso detta ordinanza, prima depositava in cancelleria documentazione sopravvenuta di attività di indagine, relativa ad episodi di truffa commessi nel 2000 e nel dicembre 2002 da alcuni degli indagati, con allegati verbali di perquisizioni e interrogatori, e poi, nel corso dell’udienza camerale del 9 aprile 2003, chiedeva di produrre ulteriore documentazione integrativa. Il Tribunale di Milano, sull’opposizione della difesa a siffatta produzione, rinviava l’udienza al giorno successivo per consentire ai difensori di consultare gli atti e infine, in parziale accoglimento dell’appello del Pm, sull’assunto che il materiale investigativo pervenuto nella disponibilità dell’accusa dopo la proposizione del gravame e da questa prodotto per l’udienza camerale fosse acquisibile e utilizzabile, disponeva con ordinanza del 10 aprile 2003 nei confronti del L. la misura della custodia in carcere (l’unica idonea a fronteggiare le esigenze cautelari) e nei confronti del D. quella meno grave dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Il Tribunale riteneva la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti contestati, sulla base dei risultati delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, dei servizi di pedinamento ed osservazione, dell’acquisita documentazione bancaria, delle dichiarazioni e dei riconoscimenti fotografici delle parti offese e delle dettagliate informative di polizia giudiziaria. Quanto alle esigenze cautelari, il Tribunale considerava fondato il pericolo di fuga per il L., domiciliato all’estero, nella cui abitazione aveva offerto rifugio ad uno dei coindagati, ed altresì concreto e attuale per entrambi gli indagati il pericolo di reiterazione di analoghe condotte criminose, poiché “non possono essere trascurate le risultanze dell’attività di indagine prodotte dal Pm l’8 e il 9 aprile 2003”, anche se non particolarmente significative per l’attività del D. di collaborazione con esponenti di spicco dell’organizzazione criminale. 1.2. Avverso la suddetta ordinanza hanno proposto distinti ricorsi per cassazione i difensori degli indagati articolando plurimi motivi di gravame. Il D. ha denunciato l’illegittimità della modifica dell’imputazione di ricettazione, illegittimamente estesa dal Tribunale a tutti gli assegni circolari elencati nel precedente capo riguardante le truffe, nonché la violazione dell’art. 310 c.p.p., in quanto la decisione di appello che ha disposto l’applicazione della misura cautelare è fondata, almeno in parte, su atti di indagine sopravvenuti e prodotti solo nel corso dell’udienza (mentre il Pm avrebbe dovuto porre i nuovi elementi di prova a base di un’autonoma richiesta ex art. 291), essendo stato così pregiudicato il diritto di difesa dell’indagato, il quale, a fronte del novum, sarebbe stato privato sia dell’opportunità di approntare idonee investigazioni difensive che di un grado di giudizio nel merito. Il ricorrente ha censurato altresì la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione, quanto allo specifico apprezzamento di gravità degli indizi di colpevolezza e di concretezza e attualità del periculum libertatis ai fini dell’applicazione della misura cautelare. Il L., ribadendo sostanzialmente le argomentazioni difensive già svolte nella memoria depositata in sede di appello, ha contestato la manifesta illogicità della motivazione circa i profili di effettiva concretezza e attualità delle esigenze cautelari di cui alle lettere b) e c) dell’art. 274 c.p.p. – ritenute emergenti dai comportamenti tenuti “sino ad epoca recentissima”, secondo le cennate indagini integrative del Pm -, e comunque di inadeguatezza della scelta della più afflittiva misura carceraria per far fronte alle stesse. 1.3. La quinta Sezione, rilevato che le censure formulate dai ricorrenti, relativamente al tema dell’acquisizione ed utilizzazione di elementi nuovi nel procedimento di appello cautelare, postulavano l’esame di questioni sulle quali si registrava un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di legittimità, ne ha rimesso con ordinanza del 13 novembre 2003 la decisione alle Sezioni Unite. Con decreto del 14 gennaio 2004 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza in camera di consiglio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

2. Le Sezioni Unite sono chiamate a risolvere la controversa questione “se, nel procedimento di appello contro le ordinanze in materia di misure cautelari personali, sia consentita l’acquisizione e l’utilizzazione di elementi probatori sopravvenuti all’adozione del provvedimento impugnato e addotti dalle parti” (precisandosi che, nella specie, si tratta di elementi indiziari nuovi, raccolti a carico dell’indagato e prodotti dal Pm nel procedimento di appello instaurato avverso il provvedimento del Gip di rigetto della richiesta cautelare): questione sulla quale si registra nella giurisprudenza di legittimità – ma anche in dottrina – un perdurante e radicato contrasto interpretativo. Secondo un primo indirizzo, nel procedimento d’appello avverso provvedimenti in materia di misure cautelari personali, l’oggetto risulta delimitato dai motivi e dagli elementi su cui è stata fondata la richiesta al giudice e su cui questi ha deciso, per cui il giudice dell’impugnazione non può assumere, a sostegno della propria decisione, elementi acquisiti dalle parti successivamente all’adozione del provvedimento cautelare e addotti nell’udienza camerale, atteso il mancato richiamo nell’art. 310.2 c.p.p. dei commi 6 e 9 dell’art. 309 sul riesame e dovendosi escludere l’applicazione analogica della disposizione eccezionale dell’art. 603 sulla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, mentre gli elementi nuovi ben possono essere posti a base di una nuova richiesta del Pm ex art. 291, ovvero proposti dall’indagato o dal Pm al giudice ai sensi dell’art. 299 (Cassazione, Sezione prima, 22 gennaio 1992, Galiazzo, rv. 189496; Sezione prima, 11 novembre 1992, Cuomo, rv. 192653; Sezione sesta, 1° febbraio 1995, Sarmino, rv. 200754; Sezione prima, 15 marzo 1995, D’Onofrio, rv. 201128; Sezione prima, 26 settembre 1995, Zanetti, rv. 202506; Sezione prima, 23 novembre 1995, Tripodi, rv. 203267; Sezione sesta 6 maggio 2003, Isola, rv. 226456). Il divieto non si estenderebbe peraltro agli atti interni ed ai provvedimenti resi nelle fasi pregresse del procedimento (Sezione sesta, 4 luglio 1992, De Benedetto, rv. 192279; Sezione quarta, 18 dicembre 1996, Zorzenon, rv. 206651). L’opposto e prevalente orientamento, seppure con differenti prospettazioni, attribuisce al giudice dell’appello de libertate, nell’ambito dei motivi prospettati e nel rispetto quindi del principio devolutivo, il potere di decidere su elementi diversi e nuovi rispetto a quelli utilizzati dall’ordinanza impugnata, riconoscendosi, da un lato, l’opportunità ex art. 299, commi 1 e 3, di assicurare la permanente attualità delle condizioni legittimanti il trattamento cautelare e, dall’altro, la possibilità di applicare in via analogica, a tal fine, la disciplina dettata per le prove sopravvenute nell’appello cognitivo dall’art. 603, commi 2 e 3 (Cassazione, Sezione sesta, 31 marzo 1992, Fiorini, rv. 190179; 26 maggio 1992, Ciccone, rv. 191318; Sezione terza, 27 maggio 1993, Pm in proc. Cavalli, rv 195862; Sezione sesta, 16 febbraio 1994, Zellino, rv. 197160; Sezione sesta, 7 febbraio 1995, Cerciello, rv. 200805; Sezione sesta, 24 agosto 1995, Lucarelli, rv. 202307; Sezione prima, 4 febbraio 1997, Ferro, rv. 206750; Sezione sesta, 22 gennaio 1998, Eliseo, rv. 209669; Sezione sesta, 12 marzo 1998, Schiavone, rv. 211140; Sezione seconda, 6 aprile 1999, Remini, rv. 214259; Sezione terza, 17 gennaio 2002, Federici, rv. 221152; Sezione quinta, 31 gennaio 2002, Cavalletti, rv. 221028; Sezione prima, 16 maggio 2002, Labate, rv. 221593; Sezione quinta, 5 luglio 2002, Pm in proc. Ricci, rv. 222396; Sezione sesta, 21 novembre 2002, Scarpetta, rv. 223006; Sezione quinta, 14 ottobre 2003, Cerfeda). In talune di queste decisioni si sottolinea l’esigenza che le nuove acquisizioni, oltre che circoscritte nei limiti del devolutum e conferenti in merito al thema decidendum, siano compatibili con la natura e i tempi del giudizio incidentale e che in ordine ad esse sia assicurato, a pena di nullità, il contraddittorio delle parti (Sezione sesta, Fiorini; Lucarelli; Sezione prima, Ferro; Sezione terza, Federici, citt.). Si segnala, infine, una posizione intermedia che, facendo leva su una sorta di “doppia identità” dell’appello cautelare, distingue a seconda che esso sia attivato dall’imputato o dal Pm: in quest’ultimo caso viene esclusa la possibilità da parte del giudice dell’appello di valutare elementi indiziari sopravvenuti alla formulazione dell’atto di impugnazione, sebbene fatti pervenire tempestivamente, potendo il Pm portarli alla cognizione del giudice della cautela mediante una nuova richiesta ex art. 291, mentre nell’ipotesi in cui appellante sia l’imputato tale preclusione non opererebbe in ossequio al principio del favor libertatis (Cassazione, Sezione quarta, 27 novembre 1997, Pm in proc. Cancellieri, rv. 210159). Il problema dell’utilizzabilità di dati probatori non presi in considerazione dal giudice a quo e allegati dall’impugnante ha pure costituito oggetto di dibattito nella fase di transizione dall’appello cosiddetto istruttorio a quello de libertate, dopo la profonda riforma istitutiva del riesame e dell’appello davanti al Tribunale della libertà (artt. 263, 263-bis, 263-ter e 263-quater c.p.p. 1930, modificati prima dalla l. 532/1982 e poi dalla l. 398/1984): ripercorrendosi le linee dell’appello istruttorio, che mutuava le principali regole dalla medesima fase istruttoria e non dall’art. 515 dettato per la fase del giudizio (Cassazione, Sezione terza, 10 gennaio 1975, Di Cecca, rv. 129603; Sezione prima, 21 gennaio 1980, Venturi, in Cassazione pen. 1981, 842), si sosteneva che fosse consentita a quel giudice la rivalutazione integrale della situazione cautelare anche sulla base di elementi non considerati dal primo giudice o posteriori alla sua decisione (Sezione prima, 24 ottobre 1989, Fecchio, rv. 183065). 3. La problematicità dell’esatta individuazione dell’ambito dei poteri di cognizione e di decisione del Tribunale investito dell’appello de libertate e il conseguente disagio ermeneutico dei giudici di legittimità sul tema dell’ampliamento della base probatoria hanno dunque radici profonde, nascendo per un verso dall’estrema laconicità dell’unica disposizione regolatrice dell’istituto e, per altro, dalla necessità per l’interprete di tenere conto, nello stesso tempo, del modello paradigmatico dell’appello cognitivo e delle peculiarità proprie di quel mezzo di gravame nella specifica materia della libertà personale, ispirata al principio del favor libertatis. 3.1. Il Collegio ritiene, innanzi tutto, di condividere la ratio decidendi della sentenza delle Sezioni Unite, 25 giugno 1997, Gibilras, secondo cui “l’appello nel processo di merito e l’appello nel procedimento incidentale in materia di libertà personale partecipano della stessa natura, poiché integrano lo stesso strumento di verifica del provvedimento del primo giudice”. Di talché, muovendosi lungo una linea di continuità strutturale e funzionale rispetto agli schemi tradizionali, “giustificata appare l’estensione all’appello de libertate delle regole dell’appello sul merito, tra le quali quella del tantum devolutum quantum appellatum … con tutte le sue implicazioni”, compresa quella per cui “la cognizione del giudice dell’appello incidentale sulla libertà è limitata ai punti della decisione impugnata attinti dai motivi di gravame (e a quelli con essi strettamente connessi o da essi dipendenti)”. Tale affermazione appare infatti coerente con la volontà del legislatore, quale s’evince con chiarezza dalla Relazione al progetto preliminare per il nuovo codice di rito (p. 78) laddove, nel tracciare i profili procedurali dell’appello cautelare, si sottolinea come “per il resto deve ritenersi implicito il rinvio alla disciplina dell’appello, in quanto non risulti diversamente disposto, ivi compresa la previsione dell’effetto limitatamente devolutivo, tipico del mezzo di impugnazione in oggetto”. Va dunque ribadito che la regola del tantum devolutum quantum appellatum prevista per l’appello cognitivo dall’art. 597.1 c.p.p., con una disposizione omologa a quella dell’art. 515 c.p.p. 1930 e all’evidenza restrittiva del perimetro della cognizione attribuita all’organo deputato alla revisione critica, al quale viene precluso l’esame dei “punti” della decisione di primo grado diversi da quelli oggetto di specifica censura, è applicabile all’appello de libertate, a differenza del riesame che ha invece carattere totalmente devolutivo. Mette inoltre conto di rilevare – a conferma della natura “ibrida” di questo tipo di impugnazione – che, se il thema decidendum viene identificato tramite la domanda di parte, essendo la cognizione limitata ai punti della decisione investiti dai motivi, il giudice di appello, nell’ambito del tema così individuato, non è tuttavia vincolato alle singole alternative decisorie prospettate dall’appellante, ma decide ex novo su tutte le questioni astrattamente ipotizzabili in ordine ai punti cui si riferiscono i motivi proposti. 3.2. È però pacifico, in dottrina e in giurisprudenza, che l’appello del Pm contro la sentenza assolutoria emessa dal giudice del dibattimento, salva l’esigenza di contenere la pronuncia nei limiti dell’originaria contestazione, attribuisce tradizionalmente al giudice ad quem gli ampi poteri decisori elencati negli artt. 515.2 c.p.p. 1930 e 597.2 lett. b) del vigente codice di rito (cfr., ex plurimis, Cassazione, Sezione quinta, 16 dicembre 1983, Trubia, rv. 162850; Sezione terza, 10 maggio 1985, Abdel Monen, rv. 169889; Sezione seconda, 28 aprile 1988, Caragioli, rv. 180676; Sezione quinta, 26 aprile 1993, Pg in proc. Basciano, rv. 194449), ed ha uguale effetto “pienamente devolutivo”, secondo l’art. 428.6 c.p.p., l’appello del Pm contro la sentenza di non luogo a procedere emessa dal Gup (Cassazione, Sezione seconda, 3 marzo 1994, Pg in proc. Devoto, rv. 198488). Con la conseguenza, da un lato, che il giudice dell’appello è legittimato a verificare tutte le risultanze processuali e a riconsiderare anche i punti della motivazione della sentenza di primo grado che non abbiano formato oggetto di specifica critica nell’atto d’impugnativa e, dall’altro, che l’imputato è rimesso nella fase iniziale del giudizio e può riproporre, anche se respinte, tutte le istanze difensive che concernono la ricostruzione del fatto e la sussistenza delle condizioni che configurano gli estremi del reato, in riferimento alle quali il giudice dell’appello ha l’obbligo di valutazione. Analogo principio, ribadito anche dalle Sezioni Unite in un icastico ma significativo inciso della sentenza Gibilras, è stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità, seppure con prospettazioni non sempre coincidenti, riguardo all’impugnazione del Pm avverso l’ordinanza del Gip di rigetto della richiesta cautelare. L’atto di impugnativa del Pm devolve infatti al Tribunale investito dell’appello una cognizione non limitata ai singoli punti oggetto di specifica censura, bensì estesa all’integrale verifica delle condizioni e dei presupposti richiesti dalla legge perché sia giustificata l’adozione di una misura restrittiva della libertà personale, secondo il modello di ordinanza cautelare previsto, a pena di nullità, dall’art. 292 c.p.p. (Cassazione, Sezione seconda, 14 gennaio 1991, Zacchetti, rv. 188013; Sezione sesta, 12 marzo 1993, Falzarano, rv. 195635; Sezione sesta, 12 maggio 1995, Ofreni, rv. 202979; Sezione quarta, 19 aprile 1996, Sow, rv. 205237; Sezione seconda, 13 febbraio 1997, De Maria, rv. 207556 ; Sezione quinta, 24 giugno 1999, Manocchio, rv. 214476; Sezione seconda, 14 marzo 2000, Moretti, rv. 216930; Sezione seconda, 10 aprile 2000, Piras, rv. 215900 ; Sezione sesta, 28 febbraio 2001, Nardo, rv. 218618; Sezione sesta, 14 giugno 2001, Patti, rv. 220310; Sezione sesta, 14 giugno 2001, Pm in proc. Giorgi, rv. 220398). Le singole censure racchiuse nei motivi di gravame del Pm segnano dunque le ragioni del disaccordo rispetto al provvedimento reiettivo e delimitano i confini dell’originaria domanda cautelare con specifico riguardo alle posizioni degli imputati e alle imputazioni, cioè ai fatti ed alle circostanze oggetto della contestazione, che non possono essere modificati in peius se non a seguito dell’esercizio da parte del Pm di una nuova e distinta azione cautelare ex art. 291 c.p.p. Limite, questo, desumibile dalla complessa disciplina dell’azione cautelare nel processo penale e dall’apparato di garanzie riservate all’imputato, la cui portata è stata riconosciuta dalle Sezioni Unite con sentenza 5 luglio 2000, Pm in proc. Monforte, dove si è affermato che non è configurabile l’automatico allineamento della contestazione cautelare agli sviluppi peggiorativi derivanti da aggravamenti dell’imputazione intervenuti nel giudizio di merito, occorrendo in tal caso un nuovo e aggiornato provvedimento restrittivo cui seguano l’interrogatorio e il riesame della misura. Ma, come si è visto, i poteri di cognizione e di decisione del giudice dell’appello de libertate, pur nel rispetto del perimetro disegnato dall’originaria domanda cautelare, si estendono, senza subire alcuna preclusione, all’intero thema decidendum, che è costituito dalla verifica dell’esistenza di tutti i presupposti richiesti per l’adozione di un’ordinanza applicativa della misura cautelare, poiché il Tribunale della libertà funge, in tal caso, non solo come organo di revisione critica del provvedimento reiettivo alla stregua dei motivi di gravame del Pm, ma anche come giudice al quale è affidato il potere-dovere di riesaminare ex novo la vicenda cautelare nella sua interezza, onde verificare la puntuale sussistenza delle condizioni e dei presupposti di cui agli artt. 273, 274, 275, 278, 280, 287 c.p.p. e, all’esito di siffatto scrutinio, di adottare infine, eventualmente, il provvedimento genetico della misura che, secondo lo schema di motivazione previsto dall’art. 292, risponda ai criteri di concretezza e attualità degli indizi e delle esigenze cautelari, nonché a quelli di adeguatezza e proporzionalità della misura. Devesi inoltre aggiungere che, al pari delle decisioni di riforma extra o ultra petita consentite nell’appello cognitivo in deroga all’effetto devolutivo e ispirate al favor rei (basti pensare all’obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità ai sensi degli artt. 152.1 c.p.p. abrogato e 129.1 vigente c.p.p.), anche il giudice dell’appello ex art. 310, che sia nello stesso tempo investito di una domanda cautelare del Pm, è, da un lato, vincolato al rispetto delle disposizioni di cui ai commi 1 e 3 dell’art. 299, le quali, nella logica del favor libertatis, esigono il costante e necessario adeguamento dello status libertatis dell’imputato alle risultanze del procedimento, mentre, dall’altro, non è in alcun modo legato allo specifico petitum dell’impugnativa di parte ed è comunque abilitato, oltre i confini del devolutum, ad intervenire anche d’ufficio pro libertate (Corte costituzionale, sentenza 89/1998). 4. La delimitazione dell’area dei poteri cognitivi e decisori del Tribunale della libertà quale giudice di appello consente di avviare a soluzione il problema sottoposto all’esame delle Sezioni Unite, concernente la definizione degli elementi probatori che, rispetto al thema decidendum oggetto del gravame, possono essere presentati dalle parti e utilizzati per la decisione: in particolare, se e in quali limiti possano essere allegati elementi “nuovi”, preesistenti o sopravvenuti, tali da modificare la situazione di fatto sulla quale si sia fondata l’ordinanza del primo giudice. Nonostante l’esplicito richiamo dell’art. 310.2 c.p.p. all’”ordinanza appellata” e agli “atti su cui la stessa si fonda” (“atti necessari per decidere sull’impugnazione”, secondo l’art. 101 n. att. c.p.p.) e, per contro, il mancato rinvio della medesima norma ai commi 6 e 9 dell’art. 309 siccome recanti disposizioni da ritenersi, per la peculiarità dei plurimi ed articolati aspetti, più propriamente attinenti al riesame, sembra infatti ragionevole affermare che (con riguardo all’impugnazione del Pm avverso il provvedimento del Gip di diniego della misura cautelare) al rilevato allargamento del devolutum a tutti i profili della domanda cautelare, indipendentemente dallo specifico petitum contenuto nei motivi di gravame, debba corrispondere una pari ampiezza del materiale cognitivo. 4.1. Circa la disciplina delle forme e modalità di produzione e di acquisizione del materiale informativo, l’art. 310.2 c.p.p. stabilisce che il procedimento di appello davanti al Tribunale si svolge in camera di consiglio “nelle forme previste dall’art. 127”, così rinviando alle regole di acquisizione probatoria e agli spazi istruttori riconosciuti nel rito camerale partecipato. Il tipico e più semplice modello di procedimento in camera di consiglio prevede che il materiale logico e argomentativo a supporto della decisione del giudice sia addotto ab externo dalle parti e che il dibattito si eserciti soltanto sugli elementi “precostituiti”, restando escluso il novero delle prove “costituende” da formare nel contraddittorio su richiesta di parte o d’ufficio. Infatti, al di fuori delle ipotesi eccezionali e tassative nelle quali è prevista un’attività di integrazione probatoria (cfr., ad esempio, gli artt. 32.1, 41.3, 48.1, 422, 441.5, 599.3 e 666.5), il paradigma procedimentale consente alle parti soltanto di depositare memorie e produrre documentazione recante elementi informativi “precostituiti”, frutto cioè di atti investigativi precedentemente o medio tempore compiuti. Né appare utile, in proposito, richiamare in via analogica le disposizioni dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 603 c.p.p. sulla “rinnovazione dell’istruzione dibattimentale” nell’appello cognitivo, che rivestono carattere derogatorio a fronte della presunzione di completezza del materiale probatorio già cristallizzatosi in primo grado nel contraddittorio delle parti. Ed invero, a prescindere dalla scarsa compatibilità dell’eccezionale meccanismo procedurale ivi previsto con le forme semplificate e snelle del rito camerale in esame, esso s’inquadra – com’è stato osservato in dottrina – nell’ambito di una “logica di non regressione” che contrassegna lo sviluppo dei gradi ulteriori di giudizio, a differenza del contesto magmatico in cui s’inserisce il gravame incidentale de libertate che resta estraneo a tale ottica. D’altra parte, le lacune o le contraddizioni del quadro probatorio, che nel giudizio di merito potrebbero determinare “allo stato degli atti” una situazione di stallo decisorio e la necessità per il giudice di appello di eliminarle mediante la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (nei casi previsti dai commi 1 e 3 dell’art. 603), si risolvono in ogni caso, nel giudizio cautelare, secondo il criterio di prevalenza delle ragioni della libertà per il principio del favor libertatis (v. Corte costituzionale, ordinanza 321/2001). Ma, a prescindere dalle “forme” procedurali dell’appello cautelare, che anche per quanto riguarda l’acquisizione del materiale informativo sono quelle previste dal modello camerale dell’art. 127, senza che s’avverta il bisogno di mutuare dal sistema delle impugnazioni la rinnovazione probatoria in appello di cui all’art. 603 c.p.p., non sembra tuttavia priva di rilievo, ai fini della soluzione del quesito interpretativo sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite, la diversità di presupposti e disciplina di detto fenomeno nell’ipotesi di cui al comma 2 della citata norma. Ed invero, il riconoscimento da parte del legislatore che, rispetto alle “nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado”, debba comunque essere assicurata la riespansione del diritto delle parti alla prova, nei limiti e secondo le regole degli artt. 495.1, 190.1 e 190-bis c.p.p., conferma i caratteri “ibridi” dell’appello, quanto agli spazi cognitivi del controllo nel merito e della revisione critica della decisione di primo grado. Caratteri che, nella cennata linea di continuità strutturale e funzionale, ben possono ritenersi comuni alle varie tipologie di gravame denominate “appello” e che si riflettono, in qualche misura, anche nella definizione dell’area del sindacato sulla libertà, proprio dell’appello cautelare. 4.2. Logico corollario dell’estensione della sfera dei poteri cognitivi e decisori del giudice dell’appello sulla domanda cautelare del Pm è innanzi tutto l’affermazione del principio secondo il quale le statuizioni reiettive del primo giudice non hanno per la difesa dell’indagato quell’efficacia preclusiva conseguente all’effetto limitatamente devolutivo dell’impugnazione. Non sembra dunque lecito dubitare che a quest’ultima (al pari di quanto avviene, a ben vedere, nell’ipotesi di appello avverso l’ordinanza applicativa di una misura interdittiva della quale non è ammesso il riesame: Cassazione, Sezione sesta, 26 maggio 1992, Ciccone, rv. 191318) sia consentito, dopo avere esaminato gli atti su cui si fonda l’ordinanza appellata e nel contraddittorio camerale, produrre a favore del proprio assistito la documentazione relativa a materiale informativo, sia preesistente che sopravvenuto, acquisito anche all’esito di investigazioni difensive ai sensi degli artt. 327-bis e 391-octies c.p.p. e comunque idoneo a contrastare gli specifici motivi di gravame del Pm, ovvero a dimostrare, più in generale, che non sussistono le condizioni e i presupposti di applicabilità della misura cautelare richiesta. E, se la misura negata sia quella interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, la giurisprudenza di legittimità pretende addirittura che il Tribunale della libertà, investito dell’appello del Pm avverso l’ordinanza reiettiva del Gip, adempia altresì, a pena di nullità, all’obbligo di procedere al preventivo interrogatorio di garanzia dell’indagato a norma dell’art. 289.2 c.p.p., modif. dall’art. 2 l. 234/1997 (Cassazione, Sezione seconda, 8 luglio 1998, Lo Burgio, rv. 211308; Sezione sesta, 15 maggio 2000, De Prisco, rv. 216236; Sezione sesta, 15 maggio 2000, Cecchetti, rv. 216776; Sezione sesta, 24 maggio 2000, Corea, rv. 217318; Sezione sesta, 24 maggio 2000, Scelso, rv. 217083; Sezione sesta, 5 dicembre 2002, Di Giorgio, rv. 223115; Sezione quarta, 15 ottobre 2003, Bruni, rv. 226732). Il principio di diritto che se ne trae è che “nel procedimento di appello, instaurato dal Pm avverso l’ordinanza del Gip di rigetto della richiesta di una misura cautelare personale, è consentito alla difesa dell’indagato, nel contraddittorio camerale, di produrre documentazione relativa ad elementi probatori “nuovi”, sia preesistenti che sopravvenuti, acquisiti anche all’esito di investigazioni difensive e idonei a contrastare i motivi di gravame del Pm, ovvero a dimostrare che non sussistono le condizioni e i presupposti di applicabilità della misura cautelare richiesta”. 4.3. E però, perché sia valorizzato effettivamente il contraddittorio camerale in posizioni di parità tra le parti e sia consentito al giudice dell’appello de libertate di pronunciarsi causa cognita sulla vicenda cautelare, tenendo in debito conto anche gli sviluppi probatori più recenti ed evitando così epiloghi incoerenti o addirittura inutili quanto ai cennati profili di concretezza, attualità e adeguatezza della misura, deve convenirsi circa l’ammissibilità, pur nel rispetto dei confini dall’originaria domanda cautelare (con riguardo alle posizioni degli imputati e alle imputazioni contestate, che altrimenti non possono essere modificate in peius se non a seguito dell’esercizio di una rinnovata azione cautelare ex art. 291 c.p.p.), della produzione di “nova” anche da parte del Pm. Quest’ultimo, infatti, ben potrebbe disporre di elementi informativi “preesistenti” e già allegati alla richiesta ma non presi affatto in esame dall’ordinanza reiettiva, perciò “nuovi” rispetto agli “atti su cui la stessa si fonda”, o di elementi “preesistenti” e non allegati alla richiesta perché allora ritenuti inconferenti ma divenuti poi rilevanti alla luce della ratio decidendi dell’ordinanza impugnata e dei rilievi della difesa, ovvero, infine, di elementi “sopravvenuti” in senso stretto, frutto cioè di indagini compiute medio tempore, idonei a dimostrare la fondatezza della prospettazione accusatoria per il profilo indiziario e per le esigenze cautelari, oppure a contraddire il contenuto della documentazione degli atti delle investigazioni difensive. Orbene, negare l’ingresso nel procedimento incidentale alla documentazione di tale materiale informativo significherebbe, da un lato, depotenziare irragionevolmente l’efficiente esercizio della funzione di controllo critico del provvedimento impugnato da parte del giudice di appello, il quale è investito altresì della decisione sulla domanda cautelare, e dall’altro avallare l’idea di un contraddittorio camerale “dimidiato”, che sia aperto esclusivamente ai contributi della difesa mentre resta inesorabilmente chiuso a quelli dell’accusa che sarebbe, essa soltanto, vincolata all’immutabilità dello “stato degli atti” preesistenti, cioè di quelli allegati alla richiesta e posti a fondamento dell’ordinanza reiettiva. D’altra parte, le cadenze non rigide stabilite per il procedimento di appello de libertate dall’art. 310.2 c.p.p., a differenza di quelle perentorie del riesame, consentono al Tribunale di modulare, di volta in volta, gli spazi del contraddittorio camerale fra le parti, concedendo alla difesa un congruo termine per esaminare e confutare l’efficacia dimostrativa dei “nova” tardivamente prodotti dall’accusa. 5. Considerato che la ritenuta utilizzabilità dei dati probatori sopravvenuti è coerente – come si è visto – con la logica dell’appello cognitivo, sembra doveroso a questo punto dare una risposta all’obiezione di fondo mossa dalla difesa e fatta propria dal Pg, secondo cui l’indagato, qualora si riconosca al Pm la facoltà di produrre nel procedimento di appello avverso il diniego della misura cautelare elementi sopravvenuti in itinere rispetto all’originario quadro probatorio, anziché presentarli al Gip con una rinnovata richiesta, sarebbe privato della duplice garanzia dell’interrogatorio e del riesame nel merito, che gli sarebbero invece assicurati dopo l’eventuale adozione da parte del Gip di un’ordinanza cautelare sulla base di detti elementi. Siffatta obiezione è sopravanzata dal vicario, e però ampio, spettro delle garanzie di cui il legislatore – in ossequio al favor libertatis – ha permeato il procedimento di appello instaurato dal Pm avverso l’ordinanza del Gip reiettiva della richiesta cautelare. Rivestono, in proposito, significativo rilievo: – l’utile discovery degli atti di indagine posti a fondamento della richiesta (cui non segue quindi il provvedimento “a sorpresa”); – il previo contraddittorio delle parti (non differito all’esecuzione della misura) in merito all’intero thema decidendum che ha per oggetto la vicenda cautelare; – la possibilità di allegare memorie e documentazione di atti delle investigazioni difensive ex artt. 327-bis e 391-octies c.p.p., purché conferenti e rilevanti rispetto al tema decisorio; – l’interrogatorio dell’indagato da parte del Tribunale nel caso di applicazione della misura interdittiva di cui all’art. 289 c.p.p.; – la scansione temporale, non rigida, del procedimento camerale che, essendo i termini ex art. 310 di carattere ordinatorio, abilita il Tribunale a dilazionare la decisione anche mediante la concessione di congrui termini a difesa, onde consentire, nell’ambito del “giusto processo” cautelare, di controdedurre all’ipotesi antagonista; – il divieto di immutazione peggiorativa o aggravatoria del perimetro soggettivo e oggettivo delineato nell’originaria richiesta, rappresentativa dei confini del devolutum quanto al tema investito dal gravame (nel rispetto, quindi, del dictum della citata sentenza Monforte delle Sezioni Unite); – il pacifico dispiegarsi sia nella fase cognitiva che in quella decisoria delle ragioni pro libertate, cui s’ispirano le disposizioni di cui ai commi 1 e 3 dell’art. 299 c.p.p. in tema di costante adeguamento del trattamento cautelare; – il persistente status libertatis dell’indagato, nel giudizio di appello e fino a quando non diventi definitiva la decisione che, nell’accogliere l’appello del Pm, disponga una misura, la cui esecuzione è sospesa a norma del terzo comma dell’art. 310 (Corte costituzionale, ordinanza 324/1994); – la maggior garanzia derivante dalla collegialità dell’organo giurisdizionale preposto al gravame; – infine, la ricorribilità per cassazione del provvedimento applicativo della misura cautelare, in caso di accoglimento dell’appello del Pm. Profili di garanzia, tutti quelli sopra elencati, i quali, non disgiunti da ragioni di semplificazione e di efficienza del procedimento incidentale, sembrano peraltro ispirare le linee dei più recenti progetti di riforma dell’odierna struttura bifasica (atto a sorpresa e contraddittorio differito) del procedimento applicativo delle misure cautelari personali. Può in conclusione affermarsi il principio di diritto per il quale “nel procedimento di appello, instaurato dal Pm avverso l’ordinanza del Gip di rigetto della richiesta di una misura cautelare personale, è consentito al Pm di produrre documentazione relativa ad elementi probatori “nuovi”, preesistenti o sopravvenuti, sempre che tali elementi riguardino lo stesso fatto contestato con l’originaria richiesta cautelare e, in ordine ad essi, sia assicurato nel procedimento camerale il contraddittorio delle parti anche mediante la concessione di un congruo termine a difesa”. 6. Quanto al paventato rischio di “interferenze tra competenze funzionali diversificate” che potrebbero derivare, per un verso, dall’intensità di penetrazione dei poteri cognitivi del Tribunale della libertà quale giudice d’appello ex art. 310 e, per altro, dalla discrezionale opzione del Pm – a fronte dei “nova” – di ricominciare l’azione cautelare con una nuova richiesta al Gip ai sensi dell’art. 291, ovvero di proseguire nell’esercizio della stessa adducendo nel procedimento incidentale di appello il materiale probatorio inedito, preesistente o sopravvenuto, ritiene il Collegio, alla luce di una complessiva lettura delle linee logico-sistematiche sia del fenomeno cautelare che della categoria delle preclusioni endoprocedimentali, che il rapporto fra le due soluzioni non si configuri in termini di “concorrenza”, bensì di “alternatività “. S’intende cioè sostenere il principio per cui, qualora il Pm si determini a coltivare contemporaneamente entrambe le vie (da un lato rinnovando al Gip la richiesta di misura cautelare, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, mediante l’allegazione di elementi “nuovi”, e dall’altro insistendo nell’appello avverso il provvedimento reiettivo), al Gip sia preclusa, in pendenza dell’appello avverso la sua prima decisione, la potestà di statuire ancora in ordine alla medesima domanda devoluta in sede di gravame al vaglio del Tribunale della libertà. Non può invero consentirsi all’organo dell’accusa, nell’investire della decisione sulla stessa azione cautelare diversi giudici, di perseguire l’abnorme risultato di un duplice, identico, titolo, l’uno “a sorpresa” e immediatamente esecutivo, l’altro disposto all’esito di contraddittorio camerale e del quale resta sospesa l’esecutività fino alla decisione definitiva. Quando l’appello instaurato dal Pm contro l’ordinanza del Gip di rigetto della richiesta di una misura cautelare sia esitato in decisione definitiva si realizza, infine, una situazione di relativa stabilità del decisum, nel senso che esso spiega una limitata efficacia preclusiva endoprocedimentale, “allo stato degli atti”, in ordine alle questioni in fatto e in diritto esplicitamente o implicitamente dedotte – ma non anche a quelle deducibili – in quel giudizio (Cassazione, Sezioni Unite, 12 ottobre 1993, Durante; Sezioni Unite, 8 luglio 1994, Buffa). Di talché, le medesime questioni, nella carenza di deduzione da parte del Pm di nuove e significative acquisizioni che implichino un mutamento della situazione di riferimento, sulla quale la decisione di appello era fondata, restano precluse in sede di adozione da parte del Gip di un successivo provvedimento cautelare richiesto dal Pm nei confronti dello stesso soggetto e per lo stesso fatto. Dalla suesposta soluzione interpretativa possono dunque trarsi i seguenti, ulteriori principi di diritto: – “qualora il Pm, mentre sia pendente l’appello avverso l’ordinanza del Gip di rigetto della richiesta di una misura cautelare personale, richieda nuovamente la misura nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, allegando elementi probatori “nuovi”, preesistenti o sopravvenuti, è preclusa al Gip, in pendenza del procedimento di appello, la potestà di decidere in merito alla medesima domanda cautelare”; – “la decisione definitiva, emessa sull’appello instaurato dal Pm avverso l’ordinanza del Gip di rigetto della richiesta di una misura cautelare personale, spiega un’efficacia preclusiva “allo stato degli atti” in ordine alle questioni in fatto o in diritto esplicitamente o implicitamente dedotte – ma non anche a quelle deducibili – in quel giudizio; sì che le medesime questioni, in difetto di nuove acquisizioni probatorie che implichino un mutamento della situazione di fatto sulla quale la decisione era fondata, restano precluse in sede di adozione da parte del Gip di un successivo provvedimento cautelare richiesto dal Pm nei confronti dello stesso soggetto e per lo stesso fatto”. 7. Ritenuta così infondata l’eccezione in rito sollevata dalla difesa, ritiene il Collegio che siano destituiti di fondamento anche gli ulteriori motivi di gravame, con i quali i difensori degli indagati hanno censurato l’impugnata ordinanza per violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione, quanto al positivo apprezzamento di gravità del quadro indiziario e di concreta sussistenza delle esigenze cautelari, ed altresì, quanto al L., di esclusiva adeguatezza della più grave misura custodiale. Va premesso che il Tribunale della libertà, senza affatto violare il principio della domanda cautelare, ha legittimamente ritenuto contestata dal Pm l’imputazione di ricettazione di cui al capo B) con riferimento a tutti gli assegni circolari, provenienti da rapina e dati in pagamento alle ditte truffate, analiticamente elencati nel precedente capo riguardante le truffe, poiché dal contesto motivazionale della richiesta cautelare e dall’esplicito nesso teleologico di tali fatti con le plurime truffe, ai sensi dell’art. 61, n. 2, c.p., si desume che la contestazione della ricettazione concerne tutti gli assegni e non un solo assegno, come indicato per mero errore materiale nel suddetto capo d’imputazione. Il giudice dell’appello ha dato altresì conto, con puntuale e adeguato apparato argomentativo cui si è fatto cenno, delle ragioni del giudizio positivo sulla gravità del quadro indiziario e sulla sussistenza delle esigenze cautelari – per il L. anche sull’esclusiva adeguatezza della disposta misura coercitiva -, enunciando analiticamente gli elementi e le circostanze rilevanti a tal fine ed apprezzandone la significativa convergenza nel senso della qualificata probabilità di colpevolezza degli indagati. Motivazione del tutto coerente con la ricostruzione fattuale degli episodi criminosi e con i delineati aspetti della personalità degli indagati, non sindacabile in sede di controllo di legittimità dell’ordinanza impugnata, soprattutto quando i ricorrenti, reiterando deduzioni già svolte e disattese, si sono sostanzialmente limitati a sollecitare un non consentito riesame del merito attraverso la rilettura del materiale investigativo. I ricorsi vanno pertanto respinti con le conseguenze di legge.

P.Q.M.

La Corte suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, rigetta i ricorsi di D. M. P. e L. M., che condanna al pagamento in solido delle spese del procedimento.