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Thursday 07 October 2004

Incompatibilità dei Giudici di Pace. La decisione alla Corte Costituzionale. Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione I, ordinanza n. 10125/2004

Incompatibilità dei Giudici di Pace. La decisione alla Corte Costituzionale

Tribunale Amministrativo Regionale
del Lazio, Sezione I, ordinanza n. 10125/2004

IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
DEL LAZIO – SEZIONE I^ –

composto dai Signori Magistrati:

CORRADO CALABRÒ, PRESIDENTE

NICOLA GAVIANO, CONSIGLIERE

CARLO MODICA DE MOHAC, CONSIGLIERE – RELATORE

ha pronunziato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso n. reg. gen.
2538-2002, proposto dalla Dott.ssa G. M.,
rappresentata e difesa dagli Avv.ti Giuseppe Alibrandi e Roberto Righi, ed
selettivamente domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma, Via G.
Calducci n.4;

contro

– il Ministero della Giustizia in
persona del Ministro p.t. rappresentato e difeso
dall’Avvocatura Generale dello Stato presso la cui sede, in Roma, Via dei
Portoghesi n.12, è ex lege
domiciliato;

– il Consiglio Superiore della
Magistratura in persona del legale rappresentante p.t., come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;

– la Presidenza del
Consiglio dei Ministri in persona del Presidente in
carica, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;

per l’annullamento,

previa sospensione

– del decreto del 6.7.2001 del
Ministro della Giustizia, con il quale la ricorrente è stata dichiarata
decaduta per causa di sopravvenuta incompatibilità – ai sensi dell’art. 8,
comma I, lett. "c" bis della L.n.374/1991 come modificato dall’art.6
della L. n.468/1999- dall’incarico di Giudice di Pace
presso l’Ufficio del Giudice di Pace di Pistoia;

– della conforme deliberazione del
14.6.2001 del Consiglio Superiore della Magistratura;

– ove occorra, della Circolare del
19.1.2000 del Consiglio Superiore della Magistratura relativa
alle incompatibilità dei Giudici di Pace;

– dell’art.17,
comma 9°, del D.P.R. 10.6.2000 n.198, nella parte in
cui non prevede che il termine per l’avvio del procedimento (volto alla
pronunzia della decadenza) decorra dalla conoscenza, da parte
dell’Amministrazione, della situazione di incompatibilità;
e nella parte in cui non prevede che entro il termine annuale ivi stabilito (a
pena di estinzione) per la conclusione del procedimento, debba intervenire
anche la notificazione all’interessato del provvedimento.

Visti gli atti depositati dalla
ricorrente;

visti gli atti di costituzione in giudizio
e la memoria delle Amministrazioni resistenti;

visti gli atti tutti della causa;

designato relatore il Consigliere Avv. Carlo
Modica;

udito, alla pubblica udienza del
28.4.2004, l’Avv. F. Paoletti
su delega dell’avv. R. Righi;

ritenuto in fatto e considerato in diritto
quanto segue:

FATTO

Con ricorso
notificato il 19.2.2002 e depositato il 6.3.2002, la Dott.ssa
G. M. impugna i
provvedimenti indicati in epigrafe, esponendo quanto segue.

Nel 1995 la ricorrente veniva nominata Giudice di Pace.

Nel 1999 entrava in vigore la L.n.468/1999
che (con l’art..6) ha modificato l’art.8 della L. n.374/1991, introducendo nuove
cause di incompatibilità per i Giudici di Pace.

In particolare, il "nuovo"
art.8 della L.n.374/1991
stabilisce che non possono esercitare le funzioni di Giudice di Pace
"coloro che svolgono attività professionale per imprese di
assicurazione o banche oppure hanno il coniuge, convivente, parenti fino
al secondo grado o affini entro il primo grado che svolgono abitualmente tale
attività".

L’art.24 della
L.468/99 cit., ha poi accordato ai Giudici di Pace che alla data della
sua entrata in vigore (avvenuta il 21 dicembre 1999) fossero già in servizio,
il termine di sessanta giorni (decorrenti dalla predetta data) per rimuovere le
sopravvenute situazioni di incompatibilità.

Alla fine del primo quadriennio dalla
nomina a Giudice di Pace ed al fine di ottenerne la conferma (a seguito del
prescritto giudizio di idoneità), con nota del
10.1.2000 la ricorrente rappresentava al competente Consiglio Giudiziario che i
suoi due figli svolgevano entrambi attività professionale di "Agente
assicurativo" per conto della Compagnia "RAS"; e si impegnava
"ad astenersi da tutte la cause in cui sia parte la predetta
compagnia".

Successivamente, il 14.2.2000 la ricorrente trasmetteva
al Consiglio Superiore della Magistratura una nota nella quale chiedeva di
essere confermata nell’incarico di Giudice di Pace ed assegnata – proprio al
fine di evitare situazioni di incompatibilità eventualmente scaturenti
dall’attività professionale svolta dai figli – alla trattazione delle sole
cause di opposizione alle ordinanze-ingiunzioni.

In data 15.3.2000 l’Assemblea
Plenaria del C.S.M., previa
acquisizione del giudizio di idoneità espresso dal Consiglio Giudiziario, la
confermava nell’incarico.

Senonchè in data 8.8.2000 la Commissione per i
Magistrati Onorari presso il C.S.M. comunicava alla ricorrente di aver avviato
il procedimento volto alla "eventuale declaratoria di decadenza
dall’ufficio di giudice di pace ai sensi dell’art.9 della Legge 21 novembre 1991 n.374
e succ. mod. per motivi di incompatibilità ex art.8, comma 1, lett. C-bis, della
stessa legge, a seguito della dichiarazione da Lei resa in data 10 gennaio
2000, non risultando … l’avvenuta rimozione delle suddette cause di incompatibilità".

A seguito di tale contestazione, con
nota del 14.8.2000 la ricorrente trasmetteva al C.S.M. le proprie controdeduzioni, nelle quali faceva rilevare – tra l’altro
– che inspiegabilmente la causa di incompatibilità a
cagione della quale rischiava di essere dichiarata decaduta dalle funzioni, non
era prevista anche per i Magistrati Ordinari.

Lamentando, pertanto, che una interpretazione puramente letterale dell’art.8 cit. ne avrebbe evidenziato la
illegittimità costituzionale (risultando vietato ai Giudici di Pace ciò che
invece è consentito ai Magistrati Ordinari), la ricorrente proponeva una
interpretazione più flessibile, e sistematicamente più logica, della norma in
questione.

In particolare la ricorrente
sosteneva (e sostiene):

– che "l’agente di assicurazione non ha alcun interesse economico alla
gestione della società assicuratrice se non con riguardo esclusivo alla stipula
delle polizze"; e che, conseguentemente, in caso di lite fra assicurato e
compagnia assicuratrice l’agente non è direttamente e personalmente
interessato, ragion per cui è statisticamente molto raro (se non addirittura
impossibile) che un Giudice di Pace che abbia un congiunto Agente assicurativo
si trovi effettivamente in situazione di incompatibilità (che gli impedisca di
giudicare serenamente) nelle cause insorte fra la compagnia assicuratrice
(della quale il detto congiunto sia Agente) e l’assicurato;

– che l’unico caso
in cui può sorgere conflitto fra l’Agente e l’assicurato è quello della mancata
riscossione del premio; e che in tali casi la garanzia dell’imparzialità del
giudizio (per l’ipotesi in cui il Giudice di Pace abbia "legami" con
l’Agente) è assicurata dall’istituto dell’"astensione" (e dalla
normativa che lo regola);

– e che
pertanto con l’art.8 cit. il
Legislatore non ha inteso riferirsi anche agli Agenti di assicurazione.

Il 29.3.2001 il Consiglio Giudiziario
di Firenze udiva personalmente la ricorrente, la quale dichiarava di non aver
rimosso la causa di incompatibilità; e insisteva nella
sua tesi interpretativa sostenendo ancora la non sussistenza di alcun conflitto
di interesse.

Ma l’interpretazione proposta non ha
convinto il Consiglio Giudiziario che ha proposto l’adozione del provvedimento
di decadenza; né il C.S.M. che con la deliberazione del 14.6.2001 ha accolto la
proposta.

Infine con il Decreto ministeriale
del 5.7.2001 la ricorrente è stata definitivamente
dichiarata decaduta dall’ufficio e dalle funzioni di Giudice di Pace.

Impugnato il predetto provvedimento e
gli atti ad esso connessi, la ricorrente lamenta:

1) violazione degli artt. 2, 3 e 97 della Costituzione; violazione dei principii
desumibili dagli artt.1, 2 e 29 della L. 7.8.1990 n.241; degli artt.
8 e 9 della L. 21.11.1991 n.374 (nel testo modificato dagli artt. 6 e 7 della L. 24.11.1999 n.468) e degli
artt. 17 e 19 del D.P.R. 10.6.2000 n.198, nonché eccesso di potere per violazione del giusto
procedimento;

2) ulteriore
violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione; violazione degli artt. 102,
106, 107 e 108 della Costituzione; ulteriore
violazione dell’art.8 della L.
21.11.1991 n.374 (nel testo modificato dagli artt. 6
e 7 della L. 24.11.1999 n.468)
anche in relazione all’at. 1903 del codice civile; nonché illegittimità derivata del provvedimento impugnato
dalla illegittimità costituzionale dell’art.8, comma
1°, lett. "C-bis", della Legge 21 novembre
1991 n.374 (nel testo introdotto con l’art.6 della Legge 24 novembre 1999 n.468),
per contrasto con gli artt. 3, 97, 102, 106, 107 e 108 della Costituzione.

Ritualmente costituitasi con fascicolo
depositato il 22.3.2002, l’Amministrazione si è opposta all’accoglimento del
ricorso.

Con ordinanza n.1769
del 27.3.2002 di questo T.A.R.,
l’istanza cautelare avanzata dalla ricorrente è stata respinta.

All’udienza del 28.4.2004, uditi i
Difensori delle parti, i quali hanno insistito nelle rispettive richieste,
deduzioni ed eccezioni, la causa è stata posta in decisione.

DIRITTO

1. La questione di legittimità
costituzionale sollevata dalla Difesa della ricorrente appare rilevante ai fini
della decisione e non manifestamente infondata per le ragioni che si passa ad
esporre.

1.1.Con il primo profilo di doglianza di cui
al secondo motivo di gravame del ricorso in epigrafe – motivo che va esaminato
con precedenza, atteso il suo carattere pregiudiziale ed assorbente – la
ricorrente lamenta, innanzitutto, la violazione – per erronea applicazione –
dell’art.8, comma 1°, lett. "c-bis", della
Legge 21 novembre 1991 n.374 (nel testo introdotto
con l’art.6 della Legge 24 novembre 1999 n.468), deducendo:

– che di regola gli agenti di assicurazione non vengono a trovarsi in situazione di
conflitto con terzi a causa dell’attività svolta; e ciò in quanto non hanno
alcun diretto interesse economico nella gestione dei sinistri, e non hanno comunque
la rappresentanza legale della compagnia nel caso di contenzioso cagionato da
sinistri;

– che, dunque, nel precludere
l’assunzione delle funzioni di Giudice di pace a "coloro
che svolgono attività professionale per imprese di assicurazione" o
che abbiano congiunti che svolgano abitualmente tale attività, l’art.8, comma 1, lett. "C bis" della L. n.374/1991 non ha certamente
inteso riferirsi anche agli "agenti di assicurazione";

– e che pertanto l’Amministrazione ha
errato nel ritenere che essa (ricorrente) fosse in situazione di assoluta incompatibilità all’esercizio della funzione di
Giudice di pace a causa dell’attività di agenti di assicurazione svolta dai
figli.

La doglianza non merita accoglimento.

Essa si fonda sul presupposto errato
che nell’esercizio delle sue funzioni e della sua attività, l’agente di assicurazione non entri in conflitto con terzi; e che non
abbia un interesse economico congiunto o comunque convergente con quello della
compagnia da cui riceve il mandato (e nel cui nome agisce).

Vero è, invece, l’esatto contrario; e
cioè che nell’esercizio della sua attività e nella sua
qualità di mandatario, l’agente può entrare in conflitto e trovarsi in lite
giudiziaria con gli assicurati (proprio in ragione del rapporto contrattuale
che con essi si instaura); e che, quand’anche non sia parte formale in
giudizio, egli ha tutto l’interesse a che il contenzioso instaurato dagli
assicurati si risolva favorevolmente per la compagnia assicurativa.

1.2. Con il secondo profilo di
doglianza di cui al secondo motivo di gravame la ricorrente lamenta la illegittimità derivata del provvedimento impugnato
(decreto ministeriale di pronunzia della decadenza, per incompatibilità,
dall’ufficio e dalle funzioni di giudice di pace) dalla illegittimità costituzionale
dell’art.8, comma 1°, lett. "c-bis", della
Legge 21 novembre 1991 n.374 (nel testo introdotto
con l’art.6 della Legge 24 novembre 1999 n.468), per contrasto con gli artt. 3, 97, 102, 106, 107 e
108 della Costituzione, deducendo:

– che mentre per gli Avvocati che
svolgano anche funzioni di Giudice di Pace (d’ora innanzi, per comodità
espositiva, denominati "Giudici di Pace – Avvocati") la contestata
norma ha previsto la possibilità di richiedere il trasferimento ad altra sede
(evitando così la pronunzia di decadenza dall’ufficio), la stessa facoltà non è
stata accordata ai Giudici di Pace che non svolgono la professione forense
(d’ora innanzi, per comodità espositiva, denominati "Giudici di Pace
"semplici"") ma che vengano parimenti a
trovarsi – a cagione del concomitante svolgimento di un’altra attività a
carattere professionale – in posizione di sopravvenuta incompatibilità;

– che mentre per i Giudici di Pace
"semplici" che vengano a trovarsi in
situazione di incompatibilità a cagione della circostanza che coniuge,
convivente, parenti entro il secondo o affini entro il primo grado (d’ora in
poi, per comodità espositiva, denominati semplicemente "congiunti")
esercitano nel circondario la professione forense, la contestata norma ha previsto
la facoltà di astenersi dal giudizio (facoltà che li pone "al riparo"
dalla pronunzia di decadenza); identica facoltà non è stata accordata ai
colleghi – anch’essi Giudici di Pace "semplici" – che si trovino in
posizione di incompatibilità a cagione della circostanza che i loro
"congiunti" esercitano una professione diversa da quella legale
(nella specie: agente assicurativo);

– e che tali differenze di
trattamento, non giustificandosi sul piano della ragionevolezza, violano l’art.3 della Costituzione e contrastano con il principio di eguaglianza ivi predicato.

1.2.1. La "rilevanza" della
sollevata questione di legittimità costituzionale ai fini della decisione della causa introdotta dal ricorso in esame, appare – per il
profilo in esame – evidente.

Se, infatti, l’art.8
fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo, ne conseguirebbe
"automaticamente" la "illegittimità derivata" del
provvedimento impugnato che è stato adottato proprio in applicazione della
suddetta norma.

1.2.2. La questione appare, inoltre,
"non manifestamente infondata" per le seguenti ragioni.

L’art. 8 in esame ha previsto che i
"Giudici di Pace – Avvocati" che (per effetto delle innovazioni
previste dalla stessa norma) vengano a trovarsi in
posizione di sopravvenuta incompatibilità in ragione del potenziale conflitto
d’interesse scaturente proprio dalla contestuale posizione di Giudice e di
Avvocato, possano chiedere il trasferimento presso altro Ufficio per continuare
a svolgere entrambe le funzioni. In tal caso, l’esercizio della predetta facoltà
(id est: la pura e semplice proposizione della istanza di trasferimento) costituisce "rimozione
della causa di incompatibilità" e preclude l’avvio del procedimento volto
alla pronuncia della "decadenza".

Analoga facoltà non è stata
accordata, però, anche ai Giudici di Pace "semplici" che per il
medesimo titolo (l’entrata in vigore della nuova legge) vengano
a trovarsi in analoga posizione di incompatibilità (per conflitto di
interesse), a causa dell’esercizio da parte loro, o di "congiunti",
di professioni diverse da quella forense.

E’ questa, dunque, la prima disparità
di trattamento, fra "Giudici di Pace – Avvocati" e "Giudici di
Pace "semplici"", che viene in
evidenza.

V’è inoltre un’altra disparità da
mettere in luce; forse meno evidente ma che introduce una discriminazione
ulteriore, addirittura in seno alla categoria dei "Giudici di Pace
"semplici"".

Il "sistema" delineato dal
combinato disposto dell’art.8 e dell’art.10 della L. n.374/1991
(così come novellato dalla L. n.468/1999)
prevede per i Giudici di Pace "semplici" (id
est: "i giudici non avvocati") che vengano a
trovarsi in situazione di incompatibilità a cagione della circostanza che loro
coniuge, convivente, parenti entro il secondo grado o affini entro il primo
grado (d’ora innanzi denominati "congiunti") esercitano nel
circondario la professione forense, la facoltà di astenersi di volta in volta
dallo specifico giudizio che li vede coinvolti; facoltà che li pone al riparo
dalla pronunzia di decadenza.

Ancora una volta, però, analoga
facoltà non è stata accordata ai colleghi – anch’essi Giudici di Pace
"semplici" – che si trovino in posizione di
incompatibilità a cagione della circostanza che i loro "congiunti"
esercitano nel circondario una professione diversa da quella legale (ad esempio,
come nel caso specie, quella di agente assicurativo).

Il che significa:

– che il"Giudice di Pace –
Avvocato" o il "Giudice di Pace "semplice""
che abbiano un "congiunto" Avvocato, hanno la facoltà di astenersi
allorquando si trovino in situazione di conflitto di interesse;

– ma che la stessa facoltà non è
stata riconosciuta a chi pur essendo parimenti Giudice di Pace non abbia la
ventura di svolgere contestualmente la professione forense, o di essere
"congiunto" di un soggetto che la svolga; e che pertanto il predetto
– meno impegnato – Giudice di Pace deve dimettersi dalla carica
giurisdizionale, ovvero rimuovere "in
radice" la situazione di incompatibilità, evidentemente
"convincendo" il proprio "congiunto" a cambiare professione
(non essendo previsto il trasferimento del Giudice di Pace ad altro Ufficio
giudiziario; né essendo sufficiente che il suo "congiunto" cambi
sede); e ciò a pena di essere dichiarato decaduto.

In conclusione, non appare revocabile
in dubbio:

– che il sistema normativo descritto
abbia accordato un trattamento di miglior favore agli Avvocati e comunque ai Giudici di Pace – Avvocati, rispetto a quello
riservato agli altri professionisti, o ai Giudici di Pace "semplici"
o "congiunti" con professionisti non esercenti la professione forense
(o, il che esprime il medesimo concetto, non congiunti con Avvocati);

– e che tale trattamento non trova alcuna giustificazione sul piano della ragionevolezza,
non essendo comprensibile la ragione per la quale situazioni sostanzialmente eguali
(di incompatibilità per conflitto d’interesse, talvolta potenziale talaltra
effettivo) siano state trattate in maniera così diversa; e sì penalizzante
esclusivamente per alcuni fra più soggetti appartenenti ad una unica categoria
(trattasi – infatti – sempre e comunque di Giudici di Pace, nell’un caso
svolgenti anche la professione di Avvocato o "congiunti" di soggetti
che la svolgono; e nell’altro caso non svolgenti tale professione o non
congiunti di soggetti che la svolgano).

Ma v’è di più.

Il riconoscimento del predetto
trattamento di favore appare intrinsecamente contraddittorio con la ratio della stessa norma che lo ha introdotto, oltrecchè – come già visto – ingiustificabile sul piano
della ragionevolezza.

La ratio della introduzione
delle nuove (e più rigide) ipotesi di incompatibilità all’esercizio di funzioni
giurisdizionali (nella specie: all’esercizio delle funzioni di Giudice di Pace)
riposa, infatti, nella esigenza di garantire (agli utenti dell’ordinamento
giustiziale) che i giudicanti mantengano – e siano comunque obbligatoriamente e
manifestamente posti nelle più obiettive e migliori condizioni per farlo – il
massimo del distacco e della serenità d’animo nell’espletamento dei loro
compiti; e ciò in modo da assicurare la necessaria e prescritta equidistanza
dalle parti e, in ultima analisi, la imparzialità di giudizio alla quale ogni
Ordinamento aspira.

Se così è, come indubitabilmente
appare, è evidente che nell’ambito del "corpo" dei Giudici di Pace, i
soggetti maggiormente "esposti" – anche dal punto di vista statistico
– alla obiettiva possibilità di trovarsi ad esercitare
le funzioni giudicanti in condizioni di conflitto d’interesse con una delle
parti, sono proprio gli Avvocati.

E ciò, beninteso, non già (o non
tanto) per tendenza psicologica, ma per fisiologiche ragioni intrinsecamente
connesse alle funzioni ed all’attività ordinariamente svolte,
consistenti nella quotidiana e diffusa assunzione a titolo di
prestazione professionale – e dunque in forza di mandato o procura, e verso
corrispettivo di onorario – della difesa e della tutela in giudizio degli
interessi patrocinati; interessi che possono spaziare in ambiti settoriali
molto estesi, e che possono venire a contrastare, o a coincidere, con quelli di
parti processuali coinvolte nelle cause in cui essi stessi – i predetti
"Giudici – Avvocati" – devono giudicare.

Sicchè la salvaguardia
loro accordata anche e proprio in sede di svolgimento di funzioni giudicanti
non appare agevolmente giustificabile, se non in un quadro ordinamentale
ispirato all’esigenza del minimo sacrificio delle opportunità professionali dei
congiunti dei Giudici di pace e di questi stessi.

Ora, in tale contesto,
del tutto irragionevole ed ingiustificata risulta la maggior rigidità riservata
– invece – agli "altri" Giudici di Pace (i cc.dd.
Giudici di pace "semplici"), i quali:

– non svolgono contestualmente
funzioni ed attività di Giudice e di Avvocato;

– non hanno accesso ad aule
giudiziarie se non per l’esercizio di funzioni giudicanti;

– hanno meno probabilità statistica
di trovarsi in situazione di conflitto d’interesse con una parte processuale,
rispetto a quanto può accadere ai colleghi coinvolti nell’esercizio della
professione forense o i cui congiunti esercitino tale professione;- sono, in definitiva, meno "esposti", a
pressioni esterne o interne (id est: psicologiche)
percepibili o inconsce;

– e dunque appaiono tendenzialmente
in grado di assicurare, quantomeno a livello di probabilità, maggiori
garanzie di indipendenza e di serenità di giudizio – anche laddove siano
"congiunti" (come nel caso dedotto in giudizio) di soggetti esercenti
professioni diverse (nella specie: Agente assicurativo) da quella forense –
rispetto ai colleghi Avvocati.

1.3. Con il terzo profilo di
doglianza di cui al secondo motivo di gravame, la
ricorrente deduce che in forza del sistema normativo vigente (scaturente
dall’art.8, comma 1°, lett. "c-bis", L.21.11.1991 n.374 come novellata
dall’art.6 L.24.11.1999 n.468, applicabile ai Giudici di Pace, e dagli artt.16 e 17 del R.D. 30.1.1941 n.12,
applicabili ai Magistrati Ordinari):

– una identica
situazione viene considerata causa di incompatibilità per i Giudici di Pace, e
non – invece – per i Magistrati Ordinari;

– che tale
disparità di trattamento, a fronte di situazioni eguali, non si giustifica sul
piano della ragionevolezza;

– e che pertanto la norma in esame
(l’art.8 cit.) è costituzionalmente illegittima anche
per questo aspetto.

1.3.1. La"rilevanza"
della sollevata questione di legittimità costituzionale ai fini della decisione
della causa introdotta dal ricorso in esame, è – ancora una volta, ed anche per
il profilo adesso in esame – evidente; e si basa sulla medesima considerazione
già svolta nel capo 1.1.1.

Infatti, se l’art.8
fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo anche solamente per questo
secondo profilo di censura, ne conseguirebbe "automaticamente" la
"illegittimità derivata" del provvedimento impugnato, il quale – come
si è detto – è stato adottato proprio in applicazione della suddetta norma.

1.3.2. La questione appare, altresì,
"non manifestamente infondata".

Ed invero:

– mentre ai sensi dell’art.8, comma 1°, lett. "c-bis", L.21.11.1991
n.374 come novellata dall’art.6
L.24.11.1999 n.468, i
Giudici di Pace che abbiano coniuge, convivente, parenti fino al secondo grado
o affini entro il primo grado (d’ora innanzi denominati, tout court,
"congiunti") che svolgono attività professionale per imprese di assicurazione o banche, sono considerati
"incompatibili" con l’esercizio delle funzioni giurisdizionali;

– identica soluzione, a fronte della
medesima situazione, non è prevista per i Magistrati Ordinari dalle norme
dell’Ordinamento giudiziario.

Ne consegue che se la ricorrente
fosse stata un Magistrato Ordinario, la circostanza che due suoi
figli svolgono attività di Agenti di assicurazione (ed uno nella stessa
circoscrizione dell’ufficio giudiziario presso cui lei è applicata), sarebbe
stata considerata irrilevante e non avrebbe determinato alcuna situazione di
incompatibilità.

Il che è ingiustificato e
irrazionale.

Non appare dunque revocabile in
dubbio:

– che il
sistema normativo descritto abbia accordato un trattamento deteriore ai Giudici
di pace rispetto ai Magistrati Ordinari;

– e che tale trattamento non trova
alcuna giustificazione sul piano della ragionevolezza, non essendo
comprensibile la ragione per la quale situazioni sostanzialmente eguali (di incompatibilità per potenziale conflitto d’interesse)
siano state trattate in maniera così diversa; e sì penalizzante esclusivamente per
alcuni soltanto fra più soggetti appartenenti ad una unica categoria (trattasi
– infatti – sempre e comunque di Giudici, svolgenti la funzione giurisdizionale
e sottoposti ai medesimi doveri fondamentali).

Il riconoscimento del predetto
trattamento di favore appare, inoltre, intrinsecamente contraddittorio con la ratio della stessa norma che lo ha introdotto; e ciò per
ragioni analoghe a quelle esposte nel capo 1.1.2.

Se, infatti, la ratio delle norme
introduttive di ipotesi di incompatibilità all’esercizio
di funzioni giudicanti riposa – com’è indubitabile – nella esigenza di
garantire agli utenti dell’ordinamento giustiziale che i giudicanti mantengano
– e siano comunque obbligatoriamente e manifestamente posti nelle più obiettive
e migliori condizioni per farlo – il massimo del distacco e della serenità
d’animo nell’espletamento dei loro compiti (in modo da assicurare la necessaria
e prescritta equidistanza dalle parti e, in ultima analisi, la imparzialità di
giudizio), non appare agevole comprendere la ragione per cui tale esigenza sia
stata ritenuta sussistente solamente nella cause soggette alla giurisdizione
dei Giudici di Pace.

A meno che la norma in esame non abbia dato per
presupposto che i Giudici di Pace:

– siano "per naturale
tendenza" inclini a subire influenze (si noti: con la sola eccezione
proprio di quelli che svolgono la professione forense; il che è ulteriormente
contraddittorio e certamente improbabile per quanto precedentemente
osservato);

– ovvero, abbiano un tasso di
resistenza alle influenze (e dunque una soglia di indipendenza
e/o di imparzialità) nettamente inferiore rispetto ai Giudici ordinari;

– o,
quantomeno, siano obiettivamente più "esposti" rispetto agli altri
Giudici – per la natura o per il numero delle cause trattate – a trovarsi in
situazioni conflittuali, per motivi d’interesse, con una delle parti del
giudizio.

Ma, fermo restando che una
presupposizione di tal genere evidenzierebbe una situazione che giammai
potrebbe essere considerata fisiologica (anzichè patologica)
e costituzionalmente accettabile, l’interpretazione della norma volta a
valorizzare la tesi della "differenza ontologica" fra i due ordini (rectius sed non recte: fra le due "categorie") di giudici non
sembra obiettivamente e ragionevolmente sostenibile, non ravvisandosi alcuna
logica ed obiettiva ragione per ritenere che il sistema concorsuale di accesso alla Magistratura Ordinaria, così come del resto
quello per l’accesso alle altre Magistrature (Amministrativa, Contabile,
Militare, Tributaria etc.), offra maggiori garanzie di selezionare soggetti non
solo forniti di più vagliata preparazione ma altresì muniti di maggiori doti di
indipendenza rispetto ai Giudici di pace.

La disparità a danno di questi ultimi
appare pertanto lesiva del principio di eguaglianza
fissato dall’art.3 della Costituzione, in quanto per
i Giudici di Pace è stato previsto un corpus di "prerogative di
status" differente rispetto a quella accordato – anche di fronte a
situazioni sostanzialmente eguali – agli altri Giudici della Repubblica.

E ciò non ostante abbiano
tutti il medesimo status magistratuale.

1.3.3. Non manifestamente infondata
appare altresì la denuncia di contrasto con il disposto degli artt.102, primo comma, e 107, primo
e terzo comma, della Costituzione, in quanto tali norme disegnano un sistema
nel quale i Giudici si differenziano solamente per le funzioni e non anche per
la dignità della carica e dunque per le prerogative di status accordabili.

E poiché il sistema introdotto dal
Legislatore per i Giudici di Pace – quanto a prerogative di astensione
ed a cause di decadenza – è differente e notevolmente deteriore rispetto a
quello che regola lo status degli altri Giudici, ancora una volta il dettato
costituzionale non sembra sia stato rispettato.

2.
In
conclusione, non appare dunque giustificabile – sotto il profilo della
ragionevolezza – il trattamento di disfavore riservato ai Giudici di Pace che
non siano anche Avvocati (o che non abbiano
"congiunti" Avvocati); ed allo stesso modo non appare giustificabile
il trattamento deteriore riservato ai Giudici di Pace rispetto ai Magistrati di
carriera. Tali disparità contrastano con il disposto e con i principii posti dagli artt. 3, 102, 107 (primo e terzo
comma) della Costituzione.

Per tali ragioni va sollevata la
questione di legittimità costituzionale dell’art.8,
comma 1°, lett."c-bis" della legge 21
novembre 1991, n.374 nel testo novellato dall’art.6 della legge 24 novembre 1999, n.468
per contrasto con gli artt. 3, 102, 107 (primo e terzo comma) della Costituzione
(o comunque per contrasto della predetta norma di
legge anche con una sola delle citate norme costituzionali).

Va disposta, pertanto, la
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, con conseguente sospensione
del giudizio ai sensi dell’art. 21 della legge 11 marzo 1953 n. 87, per la
relativa pronuncia sulla legittimità costituzionale della indicata
norma.

P. Q. M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale
del Lazio, Sezione I, dichiara rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.8, comma 1°, lett."c-bis"
della legge 21 novembre 1991, n.374 nel testo
novellato dall’art.6 della legge 24 novembre 1999, n.468 per contrasto con gli artt. 3, 102,107, comma I e III,
della Costituzione .

Dispone l’immediata trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale e la sospensione del presente giudizio.

Ordina che, a cura della Segreteria,
la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del
Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai Presidenti della Camera e del
Senato.

Così deciso in Roma, nella Camera di
Consiglio del 28.4.2004.

CORRADO CALABRÒ, Presidente;

CARLO MODICA DE MOHAC, Consigliere – estensore.

Depositata in Segreteria il 4 ottobre
2004