Ambiente

Saturday 04 December 2004

Il TAR Lazio dà il vai libera alla vendita di prodotti derivanti da mais ogm.

Il TAR Lazio dà il vai libera alla vendita di prodotti derivanti da mais ogm.

Tribunale Amministrativo
Regionale del Lazio, Sezione I, sentenza n. 14477/2004

Il Tribunale Amministrativo
Regionale per il Lazio, Sezione I,

composto
dai Signori:

1) dott. Corrado Calabrò
Presidente

2) dott. Nicola Gaviano
Consigliere relatore

3) dott. Mario Alberto di Nezza
Referendario

ha
pronunciato la seguente

SENTENZA

sul
ricorso n. 19769 del 2000 Reg. Gen. proposto da
Monsanto Agricoltura Italia S.p.a., in persona del legale rappresentante p.t.,
Monsanto Europe S.A., in persona del legale rappresentante p.t., Novartis Seeds
S.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., Novartis Seeds A.G., in
persona dei legali rappresentanti p.t., Pioneer Hi Bred Italia S.p.a., in
persona del legale rappresentante p.t., Pioneer Overseas Corporation, in
persona del legale rappresentante p.t., e da Assobiotec – Associazione
Nazionale per lo Sviluppo delle Biotecnologie, in persona del legale
rappresentante dr. Sergio Dompè, tutte rappresentate e
difese dagli avv.ti Giuseppe Franco Ferrari, Enrico
Adriano Raffaelli e Paolo Todaro, presso quest’ultimo elettivamente domiciliate
in Roma, alla Via Gregoriana n. 5 (Studio Ruccellai & Raffaelli);

CONTRO

– il Consiglio dei Ministri, in
persona del Presidente p.t.;

– la Presidenza del Consiglio dei
Ministri, in persona del Presidente p.t.;

– il Ministero della Sanità, in
persona del Ministro p.t.;

rappresentati
e difesi ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici
sono pure legalmente domiciliati, in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12;

– il Ministero per le Politiche
comunitarie, in persona del Ministro p.t., non
costituito in giudizio;

– l’Istituto Superiore della
Sanità, in persona del legale rappresentante p.t., non
costituito in giudizio;

– il Consiglio Superiore di
Sanità, in persona del legale rappresentante p.t., non
costituito in giudizio;

per
l’annullamento

– del D.P.C.M. 4/8/2000,
pubblicato in G.U.R.I. n. 184
dell’8/8/2000, recante "sospensione cautelativa della commercializzazione
e dell’utilizzazione di taluni prodotti transgenici sul territorio
nazionale, a norma dell’art. 12 del regolamento C.E. n. 258/97", che ha
disposto la sospensione della "commercializzazione
e … utilizzazione dei prodotti transgenici Mais BT11, Mais MON 810, Mais MON
809 …";

– di ogni
altro atto e comportamento preordinato, consequenziale e connesso, ed in
particolare degli avvisi espressi dai Ministri per le Politiche comunitarie e
della Sanità, delle note del Ministro della Sanità del 23/12/99 prot. n. 100/338.7/13126 e del 5/6/2000 prot. n.
100/338.7/6717, dei pareri del Consiglio Superiore di Sanità del 16/12/1999 e
dell’Istituto Superiore di Sanità del 28/7/2000, ed infine della deliberazione
del Consiglio dei Ministri resa nella riunione del 4/8/2000;

per la
dichiarazione

del
diritto delle società ricorrenti di ottenere il risarcimento del danno ingiusto
subìto ai sensi e e per gli effetti di cui agli artt. 33 e ss. del D.lgs. n. 80/98, e per l’effetto

per la
condanna

delle
amministrazioni resistenti all’integrale risarcimento del danno : a) in forma
specifica mediante autorizzazione giudiziale all’immissione in commercio dei
prodotti de quibus anche in applicazione della legge n. 205/00; b) in ogni caso
per equità, da liquidarsi anche ai sensi dell’art. 1226 c.c..

VISTO il ricorso in epigrafe;

VISTI gli atti di costituzione in
giudizio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e
del Ministero della Sanità;

VISTE le
memorie presentate dalle parti costituite a sostegno delle rispettive difese;

VISTI tutti gli atti di causa;

UDITI alla pubblica udienza del
27102004 il relatore ed altresì gli avv.ti Ferrari, Raffaelli e Giubileo, nonché l’avv. dello Stato Fiorilli;

RITENUTO e considerato in fatto e
in diritto quanto segue:

FATTO e DIRITTO

Con atto notificato in data
13/11/00 e depositato il successivo 22/11 le società e l’associazione in
epigrafe impugnavano il D.P.C.M. 4/8/2000, pubblicato nella G.U.R.I.
dell’8/8/00, con il quale era stata sospesa cautelativamente la
commercializzazione dei prodotti transgenici Mais BT 11, Mais MON 810, Mais MON
809 e Mais T 25.

Esponevano le ricorrenti che
Monsanto Services International, per conto di Monsanto Europe S.A., Novartis Seeds AG e Pioneer Overseas Corporation,
utilizzando la procedura semplificata di cui all’art. 5 del Regolamento C.E. n.
258/97, aveva provveduto a notificare alla Commissione
europea tra il 1997 ed il 1998 l’immissione in commercio di alimenti o
ingredienti alimentari derivanti rispettivamente dalle linee di granturco MON
810, BT11 e MON 809.

Le ricorrenti lamentavano che,
sebbene il parere tecnico in data 28/7/2000 dell’Istituto Superiore di Sanità,
rilevata la presenza, nei loro prodotti, di livelli di proteine derivanti da
modificazioni genetiche compresi tra 0,04 e 30 parti per milione, avesse concluso che "alla luce delle conoscenze scientifiche
attuali, non risultano esistere rischi per la salute umana ed animale a seguito
dei consumi dei derivati dei predetti O.G.M.", con il provvedimento
gravato ne era stata sospesa la commercializzazione, che pure era ormai in atto
da oltre due anni senza avere dato adito ad alcuna segnalazione negativa.

A sostegno del ricorso venivano dedotti i seguenti motivi di diritto : violazione e
falsa applicazione del Regolamento C.E. n. 258/97 del Parlamento e del
Consiglio del 27/1/97, con specifico riferimento all’art. 12 [1], nonché agli artt. da 1 a 7;
violazione e falsa applicazione del "principio di precauzione",
formalizzato dall’art. 15 della Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992,
nonché dall’art. 174 del Trattato C.E. [2], come interpretato dalla
Comunicazione della Commissione europea del 18/2/2000; violazione e falsa
applicazione degli artt. 3, 9, 10, 11, 32, 41, 97 e 98 della
Costituzione; violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 3 e 6della
legge n. 241/90 [3]; violazione e falsa applicazione della direttiva del
Consiglio n. 90/220/CEE del 23/4/1990, recepita in
Italia con D.lgs. 3/3/1993, n. 92; violazione e falsa applicazione della
Raccomandazione della Commissione europea n. 97/618/CE del 29/7/1997;
violazione e falsa applicazione delle linee guida OECD – Safety Evaluetion of
Foods Derived by Modernes Biotecnology del 1993; violazione e falsa
applicazione degli artt. 163 e 174 del Trattato C.E.;
violazione e falsa applicazione della Comunicazione della Commissione europea
del 18/2/2000; violazione e falsa applicazione del principio di proporzionalità
dell’azione amministrativa; eccesso di potere per sviamento, travisamento dei
presupposti di fatto e di diritto, difetto di istruttoria, difetto di
motivazione, illogicità, irragionevolezza, disparità di trattamento,
contraddittorietà.

Con tali doglianze si assumeva,
in sintesi, quanto segue.

Premesso che il Regolamento C.E.
n. 258/97 prevede due procedure alternative per l’immissione
in commercio di nuovi alimenti, vale a dire la procedura ordinaria,
disciplinata dagli artt. 4, 6 e 7 di tale fonte, e la procedura c.d.
semplificata, cui si è fatto ricorso nel caso di specie, ad avviso dei
ricorrenti appariva illegittimo ed ingiustificato l’esercizio mediante il
provvedimento gravato dei poteri di cui all’art. 12 del predetto Regolamento
(che consente la sospensione della commercializzazione ed utilizzazione dei
prodotti allorché, a seguito di nuove informazioni
o di una nuova valutazione di informazioni
già esistenti, sussista fondato motivo di ritenere che l’utilizzazione degli
stessi presenti rischi per la salute umana o per l’ambiente), in quanto non
sarebbero esistite le condizioni per l’adozione di una simile misura.

Sotto altro profilo, veniva precisato che l’applicazione della procedura
semplificata richiede, ai sensi del predetto regolamento C.E., due presupposti
: a) che vengano in rilievo prodotti ed ingredienti alimentari ricavati a
partire da organismi geneticamente modificati, ma che non li contengano; b) che
tali prodotti siano "sostanzialmente equivalenti" ai propri
corrispondenti tradizionali, e ciò venga certificato da un organismo di uno
Stato membro preposto alla valutazione dei prodotti alimentari. Ebbene, nel
caso di specie sarebbero esistiti entrambi tali presupposti, in quanto i
prodotti in questione non contengono OGM (ma
evidenziano solo dei livelli di proteine derivanti da modificazioni genetiche),
e, al contempo, la "sostanziale equivalenza" tra essi ed i loro
omologhi tradizionali è stata ufficialmente certificata dall’Ente scientifico
del Ministero dell’Agricoltura britannico (ACNFP).

Né potrebbe invocarsi a sostegno
del provvedimento impugnato –sempre secondo le ricorrenti- il
principio di precauzione, consacrato in occasione della Conferenza delle
Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992
con l’art. 15 della relativa Dichiarazione, in quanto a carico dei prodotti in
questione non sarebbero mai emerse né serie minacce di danni gravi ed
irreversibili né segnalazioni negative di alcun genere, in oltre due anni di
commercializzazione in tutto il territorio comunitario.

Lo stesso Comitato Scientifico
dell’alimentazione umana, interpellato dal Commissario europeo su
sollecitazione del Governo nazionale, nella riunione del 6 – 7/9/2000 aveva
evidenziato che il Consiglio Superiore di Sanità italiano, con il suo parere
del 16/12/99, non aveva fornito in concreto nessuna informazione specifica
circa i problemi che avrebbero potuto verificarsi con l’uso dei prodotti in
questione, ed aveva concluso che allo stato attuale delle conoscenze
scientifiche non esisteva alcuna prova che il consumo dei derivati degli OGM
mettesse a rischio la salute umana, né motivo per ritenere tanto.

Doveva essere infine considerato,
secondo le tesi svolte in ricorso, che la sospensione
della commercializzazione dei prodotti per cui è causa aveva di fatto impedito
il loro uso, sia se destinato all’impiego industriale e all’alimentazione
animale, sia ove destinato all’alimentazione umana: il che avrebbe
concretizzato non solo una violazione dell’art. 1 della direttiva 90/220/CEE
(poiché limitatamente al settore industriale e all’alimentazione animale la
circolazione dei prodotti di cui si tratta doveva ritenersi già da tempo
autorizzata), ma anche una lesione del principio di proporzionalità dell’azione
amministrativa, il quale impone un bilanciamento fra gli interessi in giuoco, e
comunque un rapporto ragionevole tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito.

Si costituivano in giudizio in
resistenza al ricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero
della Sanità. Le resistenti con le loro prime tre memorie difensive
contestavano, in particolare, che nella vicenda in esame sussistessero i presupposti
per accedere alla procedura semplificata di immissione
sul mercato dei nuovi prodotti alimentari, in quanto, in assenza di
"identità analitica" (stante la diversità di composizione dei
prodotti a confronto), non avrebbe potuto ravvisarsi la "sostanziale
equivalenza" dei nuovi prodotti a quelli preesistenti. In modo del tutto
legittimo, conseguentemente, il Governo italiano aveva fatto ricorso al potere
conferitogli dall’art. 12 del Regolamento n. 258/97, mancando la prova della
sicurezza dei nuovi prodotti per la salute umana.

Le ricorrenti, dal canto loro,
sviluppavano le loro doglianze con una successiva
memoria, controdeducendo alle difese erariali.

Interveniva, quindi l’ordinanza
n. 3769 del 3/5/2001, con la quale la Sezione sospendeva il presente processo e
disponeva un rinvio pregiudiziale, investendo la Corte di Giustizia delle
Comunità europee di diverse questioni di interpretazione
e di validità di atti comunitari.

La domanda pregiudiziale oggetto
del rinvio ex art. 234 (già 177) del Trattato C.E.,
così come interpretata dalla Corte di Giustizia attraverso la sentenza 9/9/2003
in causa C-236/01, verteva sulle seguenti questioni :

1) se l’art. 3, n. 4, primo
comma, del Regolamento n. 258/97 debba essere interpretato nel senso che i prodotti
e gli ingredienti alimentari contemplati dall’art. 1, n. 2, lett. b) del citato
Regolamento (id est : prodotti e ingredienti
alimentari prodotti a partire da organismi geneticamente modificati, ma che non
li contengono) possano essere considerati sostanzialmente equivalenti a
prodotti o a ingredienti alimentari esistenti, e possano conseguentemente
essere immessi sul mercato in base alla procedura semplificata per effetto di
una notifica anche nell’ipotesi in cui in tali prodotti e ingredienti alimentari
siano presenti residui di proteine transgeniche;

2) in caso di soluzione negativa
della prima questione, e, quindi, di illegittima
applicazione, nel caso di specie, della procedura semplificata, quali
conseguenze derivino, in particolare, in relazione : – al potere degli Stati
membri di adottare, in forza del principio della precauzione, di cui l’art. 12
del Regolamento n. 258/97 costituisce una specifica applicazione, misure come
il decreto 4/8/2000; – alla distribuzione dell’onere della prova dei rischi per
la salute umana e per l’ambiente che il nuovo prodotto comporta;

3) se una soluzione affermativa
del problema se la natura della procedura semplificata implichi un consenso
tacito della Commissione all’immissione sul mercato dei prodotti che ne costituiscono
oggetto incida sulla soluzione della seconda questione, nel senso che lo Stato
membro considerato debba previamente mettere in
discussione la legittimità di tale consenso tacito;

4) in caso di soluzione
affermativa della prima questione, se l’art. 5 del Regolamento n. 258/97 sia
compatibile con gli artt. 153 C.E. e 174 C.E., nonché
con il principio della precauzione e con i principi di proporzionalità e di
ragionevolezza, nonostante che : – esso non richieda una valutazione completa
della sicurezza dei prodotti e degli ingredienti alimentari in relazione ai
rischi per la salute umana e per l’ambiente e non garantisca l’informazione
e la partecipazione degli Stati membri e dei loro enti scientifici, benché tale
intervento risulti irrinunciabile per tutelare i predetti beni, come sta a
dimostrare la procedura ordinaria prevista dagli artt. 6 e seguenti del citato
regolamento; – siffatta procedura semplificata possa essere applicata, per
semplici ragioni di celerità e di semplificazione dell’azione amministrativa,
all’immissione sul mercato di prodotti e ingredienti alimentari rispetto ai
quali, attesa la presenza in essi di residui di
proteine transgeniche, non si dispone di informazioni
complete su tutti i loro effetti sulla salute dei consumatori, sul consumo
umano e sull’ambiente, come può desumersi, in via generale, dalla
raccomandazione 97/618/CE.

Ai quesiti così posti dal giudice
nazionale la Corte di Giustizia dava, con la sentenza 9/8/2003, le seguenti
soluzioni :

1) l’art. 3, n. 4, del
regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 27/1/1997,
n. 258, sui nuovi prodotti e i nuovi ingredienti alimentari, dev’essere
interpretato nel senso che la mera presenza, all’interno di nuovi prodotti
alimentari, di residui di proteine transgeniche a determinati livelli non osta
a che tali prodotti alimentari siano considerati come sostanzialmente
equivalenti a prodotti alimentari esistenti, e, pertanto, non osta al ricorso
alla procedura semplificata per l’immissione sul mercato di detti nuovi
prodotti alimentari. Ciò tuttavia non vale qualora le conoscenze scientifiche
disponibili all’epoca della valutazione iniziale permettano di individuare
l’esistenza di un rischio di effetti potenzialmente
pericolosi per la salute umana. Spetta al giudice del rinvio verificare se sia
soddisfatta tale condizione.

2) In linea di principio, la
questione della regolarità del ricorso alla procedura semplificata di immissione sul mercato di nuovi prodotti alimentari,
prevista dall’art. 5 del regolamento n. 258/97, non incide sul potere degli
Stati membri di adottare misure ai sensi dell’art. 12 del citato regolamento,
quale il decreto 4/8/2000, di cui trattasi nella causa principale. Poiché la
procedura semplificata non implica alcun consenso, ancorché tacito, della
Commissione, uno Stato membro non è tenuto, al fine di adottare tali misure, a
mettere previamente in discussione la legittimità di
tale consenso. Tuttavia, tali misure possono essere adottate solamente se lo
Stato membro ha previamente svolto una valutazione dei
rischi quanto più possibile completa, tenuto conto delle circostanze specifiche
del caso di specie, valutazione da cui risulti che, con riferimento al
principio di precauzione, l’attuazione di tali misure è necessaria a garantire,
ai sensi dell’art. 3, n. 1, primo trattino, del regolamento n. 258/97, che i
nuovi prodotti alimentari non presentano rischi per il consumatore.

3) L’esame della quarta questione
non ha messo in luce alcun elemento atto a inficiare
la validità dell’art. 5 del regolamento n. 258/97, per quanto riguarda in
particolare il presupposto applicativo di tale disposizione relativo
all’equivalenza sostanziale, ai sensi dell’art. 3, n. 4, primo comma, di tale
regolamento.

La Sezione aveva modo di
rilevare, dunque, con la propria successiva ordinanza n. 2028 del 332004, che
dalla sentenza della Corte di Lussemburgo si evinceva che questa aveva ritenuto
regolare il ricorso alla procedura semplificata per l’immissione sul mercato
dei prodotti alimentari contenenti residui di prodotti transgenici, e
riconosciuto, al contempo, (sottolineando la
corrispondenza tra i due mezzi) il potere degli Stati membri di adottare misure
di salvaguardia ai sensi dell’art. 12 del Regolamento ove da una valutazione
dei rischi quanto più possibile completa fossero emersi motivi fondati per
ritenere che un prodotto presentava rischi per la salute umana o per
l’ambiente.

Dopo la decisione della Corte di Giustizia la Sezione riteneva, quindi, che profilo decisivo
per le sorti della controversia fosse quello di verificare se le conoscenze
scientifiche disponibili all’epoca dell’immissione in commercio dei prodotti in
esame, come pure al tempo dell’adozione dell’impugnato D.P.C.M. che aveva
sospeso la loro commercializzazione, consentissero (o meno) di individuare
l’esistenza di un rischio di effetti pregiudizievoli per la salute.

La risoluzione di tale questione veniva reputata essenziale anche in considerazione del fatto
che la Corte di Giustizia aveva affermato expressis verbis (punti nn. 112 e 113
della sentenza) che le misure di cui all’art. 12 del Regolamento, interpretato
alla luce del principio di precauzione, possono essere adottate anche ove una
valutazione scientifica completa dei rischi si riveli impossibile a causa della
limitatezza dei dati disponibili, dovendosi in tale caso ritenere sufficiente
l’esistenza di indizi specifici (alla stregua delle
risultanze della ricerca internazionale) della potenziale pericolosità per la
salute umana dei nuovi prodotti.

La Sezione, perciò, con
l’ordinanza n. 20282004 stabiliva di integrare l’istruttoria con una
verificazione tecnica, affidata al Presidente dell’Istituto Superiore di
Sanità, affinchè, in contraddittorio con un esperto designato dal Consiglio
Superiore di Sanità, un esperto designato dal Comitato Scientifico
dell’Alimentazione Umana istituito presso la Commissione dell’Unione europea,
un altro designato dall’Ente Scientifico del Ministero dell’Agricoltura
britannico (ACNFP) ed un ultimo designato dalle ricorrenti, fornisse un
motivato parere sul seguente quesito : "se le
conoscenze scientifiche disponibili all’epoca della adozione dell’impugnato
provvedimento, o successivamente, permettevano o permettono di individuare
l’esistenza di un rischio di effetti potenzialmente pericolosi per la salute
umana, connessi all’immissione nel mercato di nuovi prodotti alimentari
contenenti la presenza di proteine transgeniche, in particolare nella misura
compresa tra 0,04 e 30 parti per milione".

In seguito, con nota del 27
aprile 2004 il Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, nel far presente
che il Comitato Scientifico dell’Alimentazione Umana presso la Commissione
europea non era più operativo, chiedeva di conoscere a quale organo fare
riferimento, in sostituzione del suddetto Comitato, ai fini della designazione
dell’esperto che lo stesso avrebbe dovuto esprimere. Sicché con ordinanza
presidenziale n. 2462004 e successiva ordinanza collegiale n. 62532004 la
Sezione stabiliva che la designazione avrebbe dovuto
essere richiesta, in luogo del detto Comitato, all’Autorità Europea per la
Sicurezza Alimentare.

Poco dopo, con una nuova nota del
Presidente dello stesso Istituto Superiore veniva
rappresentata l’esistenza di ulteriori impedimenti, per cui la Sezione con
l’ordinanza n. 3792004 disponeva che la verificazione de qua fosse effettuata
dal medesimo Presidente esclusivamente con l’esperto designato dal Consiglio
Superiore di Sanità e con quello scelto dalle ricorrenti, attesa
l’indisponibilità degli altri inizialmente previsti.

All’esito, la verifica richiesta veniva depositata.

Nel frattempo, le parti
costituite presentavano nuove memorie ad ulteriore
illustrazione delle rispettive ragioni.

Alla pubblica udienza del
27102004, sentiti i legali di parte, la causa è stata conclusivamente
trattenuta in decisione.

Osserva la Sezione che
l’impugnativa del provvedimento è fondata; per converso, la domanda di
risarcimento del danno avanzata dalle ricorrenti deve essere respinta.

A) Giova ricordare le ragioni
addotte dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri a giustificazione del decreto oggetto di gravame.

Con il provvedimento vengono espressi, in primo luogo, dei dubbi sulla
legittimità del ricorso alla procedura semplificata per l’immissione in
commercio dei prodotti di cui si tratta, in relazione alla configurabilità del
presupposto della "sostanziale equivalenza" -degli stessi prodotti
rispetto ai loro omologhi tradizionali- richiesto dall’art. 3, comma 4, del
Regolamento; viene altresì segnalata l’ambiguità della relativa espressione.

Vengono
richiamati, inoltre, il parere reso dal Consiglio Superiore di Sanità il
16121999 (contenente l’auspicio che prima dell’immissione in commercio siano
intraprese delle ricerche mirate ad approfondire la conoscenza delle
conseguenze delle modificazioni genetiche), e quello dell’Istituto Superiore di
Sanità del 2872000, recante l’avviso che la documentazione tecnica disponibile
non avrebbe permesso di ravvisare una sostanziale identità dei prodotti in
questione rispetto alle loro controparti tradizionali dal punto di vista delle
rispettive composizioni.

In questo quadro, la misura
impugnata è stata motivata, segnatamente, con la "carenza
di elementi informativi richiesti a più
riprese dalle autorità italiane" alla Commissione europea, e con la
circostanza dell’avvenuta sottoposizione, su iniziativa del competente
Commissario, degli elementi forniti dalle autorità italiane sugli effetti degli
organismi modificati ad un ulteriore vaglio tecnico da parte del Comitato
scientifico dell’alimentazione umana.

B Detto questo, il Tribunale deve
immediatamente disattendere l’eccezione di inammissibilità
del ricorso opposta dalla difesa erariale nella sua ultima memoria (pagg.
10-11).

L’eccezione muove dal presupposto
che i provvedimenti cautelari del genere di quello impugnato si trovano
inseriti dal Regolamento in un complesso procedimento (avente la finalità di
tutelare la salute pubblica e garantire nel contempo la libera circolazione dei
prodotti alimentari), nel cui ambito è prevista una
verifica successiva a livello comunitario del buon fondamento della singola
misura adottata (artt. 12 n. 2 e 13 del Regolamento più volte
citato).

Ora, con riguardo al caso di
specie si fa notare che il procedimento inteso alla verifica del D.P.C.M. in
epigrafe non è stato portato a compimento.

Tale circostanza, tuttavia, non
potrebbe in alcun modo giustificare la conclusione della difesa erariale -del
resto, da questa in pratica neppure motivata- secondo la quale nella vicenda
non vi sarebbe spazio per un accertamento in via principale dinanzi al giudice
nazionale dell’illegittimità (comunitaria) del decreto.

Una posizione simile porterebbe,
infatti, senza ragione, all’inammissibile conseguenza di disconoscere ogni
possibilità di accesso alla tutela giurisdizionale
alle imprese colpite da provvedimenti come quello per cui è causa. Ciò laddove
la possibilità del giudice statale di esercitare il proprio sindacato sarebbe
suscettibile di discussione, semmai, nell’ipotesi opposta a quella
qui corrente, vale a dire nel caso in cui le Istituzioni comunitarie
avessero concluso il procedimento, data la problematicità di un’estensione del
controllo giudiziale nazionale, in tale ipotesi, sulla determinazione
conclusiva del relativo iter.

C Tanto premesso, il Tribunale
ritiene di dovere subito affrontare il controverso tema dell’applicabilità,
nella fattispecie, della procedura semplificata.

Il punto, come si è visto, ha
fornito materia di uno specifico quesito pregiudiziale
(riportato nella precedente pag. 8 al n. 1), alla Corte di Giustizia, la quale
ha disatteso, in proposito, la tesi sostenuta dall’Amministrazione statale.

La Corte, difatti, ha concluso (con pronuncia che, proprio per il fatto di essere
stata resa su un quesito pregiudiziale sollevato nell’ambito del presente
giudizio, è per definizione applicabile, non disponendo il contrario, alla
fattispecie) che le norme comunitarie di settore devono essere interpretate nel
senso che la mera presenza, all’interno di nuovi prodotti alimentari, di
residui di proteine transgeniche a determinati livelli non osta a che tali
prodotti siano considerati come "sostanzialmente equivalenti" ai loro
omologhi esistenti, e, pertanto, che la circostanza indicata non impedisce di
per sé il ricorso alla procedura semplificata per l’immissione sul mercato di
nuovi prodotti alimentari.

Con questa indicazione,
può notarsi, è stata inequivocabilmente superata l’interpretazione
dell’Amministrazione statale che legava, invece, la "equivalenza
sostanziale" all’identità di composizione chimica dei prodotti a
confronto.

L’indicazione esposta, peraltro,
non vale più, secondo la stessa Corte, qualora le conoscenze scientifiche disponibili
all’epoca della valutazione iniziale permettano di individuare l’esistenza di
un rischio di effetti potenzialmente pericolosi per la
salute umana (condizione il cui accertamento rispetto alla fattispecie è stato
rimesso al giudice del rinvio).

Osserva la Sezione, dunque, che
soltanto la ricorrenza di quest’ultima condizione potrebbe permettere di negare
la regolarità dell’applicazione nella presente vicenda della procedura
semplificata (anche perché la Corte di Lussemburgo, con la propria pronunzia,
non ha condiviso le perplessità che il Tribunale aveva avanzato, nel suo
quesito n. 4, sulla validità intrinseca della stessa procedura).

Per il resto, ai fini
dell’applicabilità della procedura il Regolamento esige che il prodotto non
contenga OGM, dovendo trattarsi solo di "prodotti e ingredienti alimentari
prodotti a partire da organismi geneticamente modificati, ma che non li
contengono" (l’art. 3 comma 4 del Regolamento menziona
infatti la lett. b), ma non la a), dell’art. 1 comma 2). Ma nessuna precisa obiezione è stata mossa all’affermazione
delle ricorrenti (che neppure risulta essere stata messa seriamente in dubbio
nei pareri scientifici in atti) che i "livelli di proteine derivanti da
modificazioni genetiche" riscontrati nei loro prodotti non costituiscono
OGM. Ed è plausibile ritenere, effettivamente, che i primi non siano
suscettibili di integrare la definizione data ai secondi dall’art. 2 n. 1 della
direttiva 2341990 n. 90/220 (richiamata dall’art. 1 comma 2 lett. a) del
Regolamento), la quale fa riferimento ad una
"entità biologica capace di riprodursi (ad esempio, un seme) o di
trasferire materiale genetico", per il fatto di avere perduto la
possibilità di comportarsi come organismi viventi e di non possedere le
suddette capacità di riproduzione o di trasferimento (la posizione di parte
ricorrente è corroborata anche dalla nota del Ministero dell’Ambiente del
22122000 allegata alla terza memoria dell’Avvocatura Generale dello Stato,
nonché dal parere del Comitato Nazionale per la biosicurezza e le biotecnologie
dell’842002 in all. n. 22 al ricorso, al punto 2 delle sue conclusioni).

D L’indicata condizione
dell’individuabilità di un rischio per la salute nell’ambito della presente
controversia ha una rilevanza ancora più centrale.

Il provvedimento in contestazione
dovrebbe rinvenire il proprio fondamento nella
previsione dell’art. 12 del Regolamento.

Questo, come si è visto, consente
la sospensione della commercializzazione ed utilizzazione dei prodotti
allorché, a seguito di nuove informazioni,
oppure di una nuova valutazione di informazioni
già esistenti, emergano "fondati motivi" per ritenere che
l’utilizzazione dei medesimi presenti rischi per la salute umana o per
l’ambiente.

La Corte di Giustizia ha
puntualizzato, peraltro, che una misura siffatta può essere adottata solamente
se lo Stato membro interessato abbia previamente svolto
"una valutazione dei rischi quanto più possibile completa" (la quale
possa dimostrare, appunto, la necessità della misura), non potendo essere
considerata valida una motivazione di carattere generico, oppure basata su
"un approccio puramente ipotetico" al rischio, fondato su
"semplici supposizioni non ancora accertate scientificamente". La
Corte ha ulteriormente precisato che occorre quanto meno il supporto di
"indizi tali da rivelare l’esistenza di un rischio specifico", vale a
dire di "indizi specifici i quali, senza escludere l’incertezza
scientifica, permettano ragionevolmente di concludere,
sulla base dei dati scientifici disponibili che risultano maggiormente
affidabili e dei risultati più recenti della ricerca internazionale, che
l’attuazione di tali misure è necessaria" (parr. nn. 106, 107, 109 e 113
della decisione).

Da quanto esposto si desume,
quindi, che la non individuabilità, all’epoca, di un rischio di
effetti potenzialmente pericolosi per la salute, non solo denoterebbe la
regolarità del ricorso alla procedura semplificata fatto dalle ricorrenti, ma
sancirebbe per ciò stesso anche la carenza dei presupposti per l’adozione della
misure astrattamente consentite dall’art. 12 cit..

E Risulta
confermato, pertanto, che il punto decisivo per le sorti della controversia è
quello di stabilire se le conoscenze scientifiche disponibili all’epoca della
notifica di immissione in commercio dei prodotti alimentari in questione, come
pure al tempo dell’adozione dell’impugnato decreto, consentissero o meno di
delineare l’esistenza di un rischio di effetti pregiudizievoli per la salute.

E nel
quadro normativo pertinente alla causa il relativo onere probatorio non può che
essere ascritto all’Amministrazione resistente. Ciò non solo perché su questa
incombeva la dimostrazione della consistenza dei dubbi da essa
enunciati in ordine alla regolarità della procedura semplificata seguita: ma
anche, e soprattutto, perché la stessa Amministrazione si è avvalsa di una
misura, quella impugnata, la cui adozione postula proprio l’esistenza di rischi
per la salute umana o per l’ambiente (cfr. il n. 108
della decisione della Corte UE).

Del resto, l’opposta convinzione
della difesa erariale, incline a ribaltare l’onere probatorio sulle
controparti, trovava il proprio fondamento nel presupposto, il quale è stato ormai superato dalla Corte di Giustizia, che
la diversità di composizione dei prodotti in questione rispetto alle loro
controparti tradizionali avrebbe inevitabilmente interdetto loro l’accesso alla
procedura semplificata, ponendoli in una condizione di flagrante irregolarità.

F Tutto ciò posto, la Sezione
deve osservare che le risultanze processuali non sono
suscettibili di permettere l’individuazione di un rischio -connotato nei
termini visti alla lettera D- di effetti potenzialmente pericolosi.

A parte la circostanza, già non
proprio trascurabile, che negli oltre due anni di commercializzazione in tutto
il territorio comunitario (e sei negli USA) non sono
emerse, a carico dei prodotti in discorso, né serie minacce di danni gravi ed
irreversibili, né segnalazioni negative di alcun genere, si deve notare quanto
segue.

Il provvedimento impugnato, come
hanno fondatamente lamentato le ricorrenti, non ha evidenziato alcun preciso
profilo di pericolosità ricollegabile ai prodotti di cui si tratta,
evidenziando, piuttosto, essenzialmente una carenza di
elementi informativi in merito ad essi.

Aspetti di pericolosità degli
stessi prodotti tanto meno potrebbero essere rinvenuti
nei pareri menzionati dal provvedimento.

In realtà, i dati e gli argomenti
acquisiti dall’Amministrazione mettevano in luce, ben più che una pericolosità
delle sostanze in discorso (adombrata talvolta, ma solo su un piano puramente
ipotetico e teorico), delle perplessità sull’applicabilità della procedura
semplificata ai prodotti derivanti da OGM. Invero l’Istituto Superiore di
Sanità aveva precisato, già all’epoca, che "non risultano
sussistere rischi per la salute umana ed animale derivanti dal consumo dei
derivati degli O.G.M. indicati". Se è esatto, quindi, che, come oppone la
resistente difesa, non occorre ai fini del provvedere ex art. 12 cit. una prova di dannosità, sufficiente essendo il sospetto di un pericolo
di danno, è altrettanto sicuro alla luce dei parametri offerti dalla
decisione della Corte di Giustizia che questo debba avere un fondamento
oggettivo, concreto e specifico. E da quanto si è esposto risulta
che nella vicenda un simile presupposto fa difetto.

Non solo, infatti,
l’Amministrazione non ha ottemperato all’onere probatorio che proprio su di essa, come si è visto, gravava: vi sono, al contrario, evidenze
documentali di contenuto esattamente opposto, che depongono appunto per la
sicurezza dei prodotti di cui si tratta.

La sicurezza di questi ultimi
trova infatti conferma: nelle valutazioni compiute a
suo tempo dall’Ente Scientifico del Ministero dell’Agricoltura britannico
(ACNFP); nel giudizio del 2872000 dello stesso Istituto Superiore di Sanità,
che ha affermato che "alla luce delle conoscenze scientifiche attuali non
risultano esistere rischi per la salute umana e animale a seguiti dei consumi
dei derivati dei predetti OGM"; nell’avviso del Comitato Scientifico
dell’Alimentazione Umana, interpellato dal Commissario europeo Byrne su
sollecitazione del Governo italiano, che nel suo parere del 792000 ha osservato
che dalle informazioni pervenute dalle autorità
italiane non era desumibile alcun motivo scientifico per ritenere che l’uso dei
prodotti in questione costituisse ragione di pericolosità per l’uomo;
nell’analogo parere del Comitato Nazionale per la biosicurezza e le
biotecnologie dell’842002 (all. n. 22 al ricorso, punto 3 delle conclusioni);
nel parere, infine, del Consiglio Superiore di Sanità del 2511-5122003, che non
solo ha escluso che elementi comprovanti situazioni di rischio si profilassero
all’epoca del provedimento in contestazione, ma ha altresì rimarcato che dalla
letteratura internazionale e dal dibattito scientifico non emergevano nuovi
dati tali da mettere in evidenza danni per la salute
umana, né nuove interpretazioni dei dati già noti che potessero indurre
preoccupazioni.

Il coerente quadro indiziario
esposto riceve, infine, una decisiva convalida dagli esiti della verificazione
disposta dal Tribunale, la quale ha attestato la convergenza delle posizioni
del Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, e degli altri esperti espressisi,
sulla conclusione che le conoscenze scientifiche disponibili, sia all’epoca
dell’adozione del D.P.C.M. 482000 che attualmente,
indicavano, così come indicano, che non risultano esistere rischi per la salute
umana ed animale ricollegabili ai prodotti cui la controversia si riferisce.

G Per quanto si è fin qui detto, risultano in definitiva fondati gli assorbenti motivi svolti
ai nn. 3.1, 3.2, 3.3 e 3.4 del presente ricorso.

Il primo di essi,
con il quale è stata dedotta l’erroneità dell’applicazione della procedura
delineata dall’art. 12 del Regolamento, in quanto –anche a voler ammettere che
da parte dell’Esecutivo nazionale vi sia stata una vera e propria "nuova
valutazione di informazioni già
esistenti", in ogni caso- alla base del provvedimento in contestazione fa
difetto l’indispensabile condizione dell’esistenza di "motivi fondati per
ritenere che l’utilizzazione di un prodotto … conforme al presente Regolamento
presenti rischi per la salute umana o per l’ambiente".

Il secondo, con il quale è stata denunziata una violazioneerronea applicazione
del principio di equivalenza sostanziale, giacchè alla stregua del chiarimento
ermeneutico fornito dalla Corte di Giustizia occorre riconoscere che nella
fattispecie sussistevano i presupposti per l’applicazione della procedura di
immissione in commercio semplificata ai sensi dell’art. 5 del Regolamento,
atteso che la mera presenza, all’interno di nuovi prodotti alimentari, di
residui di proteine transgeniche a determinati livelli non osta, come ha indicato
appunto la Corte, a che tali prodotti siano considerati come sostanzialmente
equivalenti a quelli già esistenti, e non è emerso, inoltre, che le conoscenze
scientifiche disponibili all’epoca della valutazione iniziale permettessero di
ravvisare l’esistenza di un rischio di effetti potenzialmente pericolosi per la
salute umana.

Il terzo, in
ordine alla violazione del principio di precauzione, siccome, giusta
quanto si è detto, non solo l’equivalenza sostanziale dei prodotti in questione
ai loro omologhi tradizionali era stata riconosciuta dall’autorità britannica
ACNEFP, ma nella specie non erano neppure emerse delle effettive minacce di
danni che potessero giustificare la misura.

Il quarto, in
relazione alle doglianze di difetto di istruttoria e di travisamento dei
presupposti di fatto e di diritto, in quanto anche tali doglianze, in forza di
quanto esposto, si appalesano fondate.

H Mentre il provvedimento
impugnato non può sfuggire, per le ragioni innanzi illustrate,
all’invalidazione, la pretesa risarcitoria avanzata dalle ricorrenti deve
essere invece respinta.

E’ pacifico che l’imputazione di
un obbligo risarcitorio a carico di una Pubblica Amministrazione non
rappresenti una conseguenza automatica e costante dell’annullamento di un suo
atto in sede giurisdizionale, e quindi non possa essere mossa sulla base del
puro dato oggettivo della riscontrata illegittimità di un provvedimento, ma
richieda pur sempre, secondo i principi, la positiva
verifica del concorso di tutte le specifiche condizioni all’uopo previste dalla
legge. Essa presuppone, perciò, che sia autonomamente accertato l’elemento
della colpa, oltre, naturalmente, al danno e alla sua riconducibilità causale
all’operato della P.A., pacifico essendo, in
particolare, che né dolo né colpa siano passibili di configurazione dove
all’Amministrazione non possano essere mosse critiche sul piano della diligenza
e della perizia (per questi principi cfr. ad es.
C.d.S., IV, n. 924 del 1522002; V, n. 1562 del 1832002; VI, n. 4007 del
1972002; C.G.A., n. 202 del 2242002).

Non vi è dubbio, inoltre, sempre
secondo le regole generali, che incomba al preteso
danneggiato l’onere della prova circa la sussistenza di tutti gli elementi
costitutivi dell’illecito allegato come titolo della sua domanda risarcitoria.

Orbene, le ricorrenti non possono
dirsi ottemperanti a tale onere.

A carico dell’Amministrazione
nazionale non sembra invero possibile, nella fattispecie, né ravvisare un
atteggiamento doloso, né muovere addebiti in termini di colpa.

Infatti, come risulta
dagli atti di causa, l’Amministrazione ha svolto la propria attività istruttoria
e deliberativa dando dimostrazione di agire in buona fede a difesa della salute
collettiva, e di voler operare nel rispetto della legge. E se è vero che
l’esercizio delle sue attribuzioni è sfociato, come si è visto, in una
determinazione che deve essere considerata illegittima, non è meno vero, però,
che, in una materia che conosceva indicazioni normative solo di larga massima,
e decisamente ambigue, e che non poteva contare ancora
su precise indicazioni giurisprudenziali, rimanendo quindi sostanzialmente
affidata alla prudenza di apprezzamento dell’organo pubblico, non potrebbe
essere disconosciuto all’iter logico da questo seguito quel minimum di dignità
logico-argomentativa che, mentre non impedisce di ritenerlo errato, non
consente di qualificarlo come arbitrario.

Soprattutto, occorre soffermarsi
sull’incertezza obiettivamente esistente in ordine al
corretto modo di intendere il presupposto della "sostanziale
equivalenza" (richiesto ai fini della procedura semplificata), e risalente
al carattere impreciso e sfuggente della relativa nozione. Incertezza
riconosciuta non solo nel parere del 16121999 del Consiglio Superiore di Sanità
e nella nota dell’Istituto Superiore di Sanità del 2872000, ma pure
nella nota del 1072000 del Commissario europeo (menzionata dal provvedimento in
esame), e dissipata solo, sul piano giuridico-formale, dal successivo
intervento della Corte di Giustizia.

Non sembra poi irrilevante
aggiungere (anche a conferma di quanto appena detto) che, nel periodo in cui il
provvedimento fu assunto, sia il modo di intendere il concetto di
"equivalenza sostanziale", sia lo stesso
atteggiamento degli Stati membri e delle Istituzioni comunitarie in materia,
andavano rapidamente evolvendosi. Gli Stati avevano convenuto, infatti, di non
ricorrere più, già a partire dal gennaio 1998, alla procedura semplificata per
prodotti alimentari quali quelli di cui si tratta. Ed è pure significativo
che la Commissione, nella presente vicenda, si sia astenuta dall’adire il
Consiglio per chiudere il procedimento comunitario assumendo nei confronti del
decreto in epigrafe le misure previste dagli artt. 12 (n. 2) e 13 del
Regolamento, a causa delle perplessità avvertite dagli Stati membri sulla
portata del concetto di equivalenza sostanziale, e,
per ragioni analoghe, abbia previsto nella sua proposta di un nuovo Regolamento
della materia la soppressione della procedura semplificata per i prodotti di
cui all’art. 1, n. 2, lett. b), del regolamento n. 258/97 (cfr. i punti nn. 66-67 della sentenza della Corte).

In definitiva ha dunque ragione
la difesa erariale quando descrive e qualifica la condizione antecedente e
(almeno immediatamente) successiva all’adozione del decreto impugnato come una
situazione "di estrema incertezza". E ciò
rende certamente ragione quanto meno dell’insufficienza di prove a sostegno di
un addebito di elementi di colpa all’Esecutivo
nazionale, e comporta il conseguente rigetto della domanda risarcitoria.

I Per le ragioni esposte, in
conclusione, mentre l’impugnativa del provvedimento in epigrafe deve essere
accolta, con l’assorbimento dei motivi di ricorso non espressamente
considerati, la domanda risarcitoria congiuntamente proposta dalle ricorrenti
deve essere disattesa.

Si rinvengono ragioni tali da
giustificare la compensazione delle spese processuali tra le parti in causa.

P Q M

Il Tribunale Amministrativo
Regionale per il Lazio, Sezione I, accoglie
l’impugnazione e, per l’effetto, annulla il provvedimento in epigrafe.

Respinge la domanda di
risarcimento del danno.

Spese compensate.

La decisione sarà eseguita
dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, Camera di
consiglio del 27 ottobre 2004.

Il Presidente

L’estensore