Enti pubblici
IL DOCUMENTO DI PROGRAMMAZIONE ECONOMICO-FINANZIARIA 2004-2007 (I parte). Approvato dal Consiglio dei ministri del 16.7.2003.
IL DOCUMENTO DI PROGRAMMAZIONE ECONOMICO-FINANZIARIA 2004-2007 (I parte). Approvato dal Consiglio dei ministri del 16.7.2003 (area enti pubblici cz)
INDICE
Premessa
I – IL CONTESTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO
I.1 La congiuntura economica
I.2 Le prospettive di medio termine
I.3 Il processo di allargamento dell’Unione Europea
II – L’EVOLUZIONE DELL’ECONOMIA ITALIANA
II.1 L’economia italiana nel 2003
II.1.1 Le tendenze economiche territoriali nel 2003
II.2 La finanza pubblica nel 2003
II.3 L’andamento tendenziale dell’economia italiana nel medio periodo
(2004-2007)
II.3.1 Le tendenze economiche territoriali nel 2004-2007
II.4 Il quadro tendenziale della finanza pubblica 2004-2007
III – GLI OBIETTIVI PROGRAMMATICI PER IL 2004 E IL MEDIO PERIODO
III.1 L’espansione del ciclo vitale e l’equilibrio tra risorse e spesa sociale
III.2 Il rilancio del sistema delle piccole imprese
III.2.1 L’innovazione tecnologica
III.2.2 Il potenziamento delle infrastrutture
III.3 Il quadro macroeconomico programmatico 2004-2007
III.3.1 Il quadro programmatico territoriale
III
DOCUMENTO DI PROGRAMMAZIONE ECONOMICO-FINANZIARIA 2004-2007
III.4 Il quadro programmatico di finanza pubblica
III.5 Gli obiettivi del semestre italiano di presidenza dell’Unione Europea
III.5.1 Le azioni per la crescita europea
III.5.2 Integrazione commerciale e nuove vie dello sviluppo
IV – LA STRATEGIA PER LE AREE SOTTOUTILIZZATE:
UNMEZZOGIORNO COMPETITIVO
IV.1 Tendenze e obiettivi programmatici
IV.2 La quantità e l’utilizzo delle risorse finanziarie per gli investimenti
pubblici
IV.3 La qualità degli investimenti attraverso la cooperazione tra regioni e
Stato centrale
IV.3.1 Gli accordi di Programma Quadro
IV.3.2 Il Quadro comunitario di sostegno
IV.3 Gli accordi di Programma Quadro
IV.4 Modernizzazione e rafforzamento delle capacità delle Amministrazioni
pubbliche
IV.5 Incentivi, marketing territoriale e credito
V – UN ACCORDO PER RIFORME, COMPETITIVITÀ,
SVILUPPO ED EQUILIBRIO FINANZIARIO
INTRODUZIONE E SINTESI
Il Documento di Programmazione contiene le grandi linee della politica economica e finanziaria per gli anni 2004-07 e rappresenta la premessa per aprire una stagione di dialogo sociale e istituzionale mirata a realizzare riforme strutturali finalizzate a rilanciare uno sviluppo sostenuto e duraturo.
L’obiettivo è giungere ad un “Accordo per Riforme, Competitività, Sviluppo ed Equilibrio finanziario” da tradurre in termini normativi nella prossima legge finanziaria, verificando gli indirizzi politici elaborati dalle singole Amministrazioni che verranno posti a base del dialogo con tutte le parti sociali e i rappresentanti delle
autonomie locali.
Questo “Accordo” deve partire dalla conferma degli impegni sottoscritti con il “Patto per l’Italia” e deve raccogliere il contributo del più recente “Patto per la competitività” siglato da CGIL, CISL, UIL e Confindustria. Gli interventi proposti in questo DPEF mantengono la continuità con gli indirizzi
programmatici che questo Governo ha adottato fin dal suo insediamento, pur tenendo conto di un quadro economico internazionale meno favorevole rispetto alle attese. L’obiettivo è di rafforzare lo sviluppo economico e sociale del paese, fondato su alcuni pilastri fondamentali, comuni ai grandi paesi europei:
una politica di riforme strutturali socialmente compatibili, in grado di adeguare le istituzioni dell’economia ai trend demografici e all’allungamento delle fasi del ciclo vitale: età scolare, età del lavoro, terza età;
una politica di investimenti in capitale fisico e umano e in tecnologia, finalizzata ad innalzare la produttività e la competitività e, quindi, la crescita del paese, rendendo l’economia italiana pronta a cogliere pienamente gli stimoli della ripresa quando si manifesterà a livello globale e europeo; una politica macroeconomica e finanziaria atta a coniugare rigore e sviluppo, in linea con gli impegni europei. Riforme, investimenti e consolidamento di bilancio sono obiettivi essenziali e strettamente integrati: il rispetto dei vincoli del patto di stabilità e crescita ha il duplice effetto di rassicurare i mercati e evitare che, per un paese ad alto debito come l’Italia, condizioni finanziarie troppo gravose soffochino la ripresa.
Il quadro economico internazionale
Le previsioni contenute nel documento si basano su un quadro internazionale di riferimento molto prudente, coerente con gli scenari delineati dalle istituzioni internazionali e dai principali centri di ricerca. La crescita mondiale è ancora modesta ma è prevista accelerare gradualmente nel 2004 e negli anni successivi. La crescita in Europa risente sia degli effetti dell’apprezzamento dell’euro, sia delle difficoltà dell’economia tedesca: il PIL dell’area dell’euro è atteso aumentare dell’1,9 per cento nel 2004 per poi attestarsi leggermente sopra il 2 per cento nel medio periodo. Lo scenario delineato potrebbe risultare, tuttavia, alterato dal riacutizzarsi dei fattori di instabilità geo-politica che incidono sul clima di fiducia degli operatori.
Le quotazioni del petrolio sono previste mantenersi, nell’arco previsivo intorno ai 25 dollari a barile; mentre i prezzi delle altre materie prime e dei manufatti dovrebbero aumentare in misura moderata. Si prevede un ulteriore, lieve apprezzamento dell’euro nel 2004 e poi una sostanziale stabilità. Nel medio periodo continuano a ridursi le pressioni inflazionistiche. Il rischio di un fenomeno generalizzato di deflazione rimane remoto. Tra i principali paesi industrializzati, solo in Giappone i prezzi continueranno a ridursi nel medio periodo.
Il quadro macroeconomico interno Si stima che il PIL aumenti, in media nel 2003, dello 0,8 per cento, un valore in linea con quello atteso per l’area dell’euro.
Tenuto conto dei problemi strutturali e degli stringenti vincoli di bilancio che condizionano fortemente la crescita dell’economia italiana, il quadro programmatico per il medio periodo è improntato alla cautela.
L’obiettivo del Governo è quello di innalzare il potenziale di sviluppo, attraverso le riforme strutturali e il sostegno agli investimenti, in un contesto di equilibrio finanziario. Gli effetti delle riforme si esplicheranno gradualmente nei prossimi anni; pertanto, nello scenario programmatico, la crescita del PIL prevista per il biennio 2004-05 sarà solo lievemente superiore a quella delineata nel quadro tendenziale (rispettivamente, 2 e 2,3 per cento contro 1,8 e 2,1). Il divario aumenterà progressivamente negli anni successivi, man mano che le riforme strutturali esplicheranno pienamente i loro effetti. Nel 2007, il tasso di sviluppo raggiungerà il 2,6 per cento, rispetto al 2,1 per cento del tendenziale.
In questo quadro, la crescita viene sostenuta dalla domanda interna, con il fondamentale contributo degli investimenti, che beneficeranno delle politiche varate dal Governo, in particolare dell’avvio delle opere infrastrutturali, con finanziamento italiano e europeo, e dell’accelerazione degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno. Il tasso di disoccupazione, previsto pari all’8,8 per cento nell’anno in corso, si ridurrebbe progressivamente, attestandosi al 7,5 per cento nel 2007. Nello stesso anno il tasso di occupazione si collocherebbe intorno al 60 per cento, valore prossimo all’obiettivo fissato per il 2010 (61,3 per cento).
Nonostante la crescita del PIL risulti superiore a quella indicata nel quadro
tendenziale, le pressioni inflazionistiche dovrebbero attenuarsi durante tutto il periodo
della previsione per effetto dell’accresciuta produttività, con conseguenze positive sul
potere d’acquisto dei lavoratori. La riduzione dell’inflazione sarà ulteriormente
agevolata dalla moderazione dei prezzi internazionali: in tale contesto, i tassi
programmati di inflazione risultano pari all’1,7 per cento nel 2004, 1,5 per cento nel
2005, 1,4 per cento nel biennio 2006-2007.
Il processo di consolidamento finanziario
Per l’anno in corso l’indebitamento netto delle Pubbliche Amministrazioni si
collocherebbe al 2,3 per cento del PIL. Le misure adottate dal Governo, incluse quelle
una tantum, si stanno rivelando molto efficaci. Rispetto al 2002, si registrerebbe una
correzione del saldo strutturale di circa 0,3-0,4 punti percentuali, poco meno di quanto
concordato nell’Eurogruppo. L’obiettivo, per il 2004 e per gli anni successivi, è di
ridurre l’indebitamento strutturale di 0,5 per cento all’anno. Per conseguire questo
risultato nel 2004 è necessaria una riduzione del disavanzo all’1,8 per cento del PIL,
dato che, in assenza di manovra, il disavanzo tendenziale si attesterebbe intorno al 3,1
per cento. Una posizione prossima al pareggio si otterrebbe nel 2006.
La strategia finanziaria del Governo si basa sulla riduzione progressiva delle
misure one-off: un terzo della manovra prevista per il 2004 dovrà essere assicurato da
misure a carattere permanente. La proporzione aumenta a due terzi l’anno successivo
fino alla completa sostituzione nel 2006. Le misure strutturali si concentreranno: dal
lato delle entrate, su interventi di contrasto all’evasione e al sommerso; dal lato delle
spese, su interventi di riduzione di regimi speciali di favore, sull’applicazione del patto
di stabilità interno in coerenza con le prescrizioni europee, sulla razionalizzazione
degli acquisti di beni e servizi da parte delle Pubbliche Amministrazioni, sulla entrata a
regime del Piano Europeo di Azione per la crescita. Le misure”one-off” per il 2004-05
si concentreranno sul settore immobiliare e del real estate.
QUADRO MACRO TENDENZIALE – SINTESI
2003 2004 2005 2006 2007
Pil reale 0,8 1,8 2,1 2,2 2,1
Pil nominale 3,6 3,7 4,0 4,1 4,0
Tasso di inflazione 2,4 1,9 1,7 1,6 1,6
Tasso di disoccupazione 8,8 8,5 8,3 8,1 8,0
indebitamento P.A (%PIL) -2,3 -3,1 -3,2 -2,8 -2,4
indebitamento strutturale P.A (%PIL) -1,8 -2,7 -3,0 -2,7 -2,4
avanzo primario (%PIL) 3,0 1,9 1,8 2,2 2,7
(variazioni percentuali)
QUADRO MACRO PROGRAMMATICO – SINTESI
2004 2005 2006 2007
Pil reale 2,0 2,3 2,5 2,6
Pil nominale 3,9 4,3 4,3 4,3
inflazione programmata 1,7 1,5 1,4 1,4
Tasso di disoccupazione 8,5 8,2 7,9 7,5
indebitamento P.A. (%PIL) -1,8 -1,2 -0,5 0,1
indebitamento strutturale P.A. (%PIL) -1,3 -0,8 -0,3 0,1
avanzo primario (%PIL) 3,1 3,8 4,6 5,2
debito P.A. (%PIL) 104,2 101,7 99,4 97,1
(variazioni percentuali)
I – IL CONTESTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO
I.1 La congiuntura economica
La prevista ripresa dell’economia mondiale non si è ancora materializzata. La
crescita negli Stati Uniti stenta a decollare. Il Giappone e la Germania stanno entrando
in una fase di ristagno. La maggior parte delle economie europee, venendo a mancare lo
stimolo del settore estero anche per effetto dell’apprezzamento dell’euro, manifesta
evidenti segni di debolezza.
Il consuntivo del 2002
Dopo un promettente avvio, all’inizio del 2002, la ripresa dell’economia mondiale
ha subito un’improvvisa battuta d’arresto; il crollo della fiducia dei consumatori e degli
operatori economici è stato provocato dal riacutizzarsi delle tensioni internazionali e
dagli scandali finanziari che hanno coinvolto alcune grandi imprese statunitensi.
Nella media del 2002, la crescita dell’economia mondiale è stata del 3 per cento
(2,3 per cento nel 2001). I risultati sono stati particolarmente deludenti nell’area
dell’euro, dove l’aumento del PIL si è ridotto, passando dall’1,4 per cento dell’anno
precedente allo 0,8 per cento. Negli Stati Uniti il tasso di crescita (2,4 per cento) è
risultato superiore alla media dell’OCSE, grazie anche a politiche monetarie e fiscali
fortemente espansive. Solo i paesi asiatici, con l’esclusione del Giappone, sono riusciti a
mantenere ritmi di crescita sostenuti; in particolare, la Cina ha registrato una espansione
dell’8 per cento.
Gli scambi commerciali hanno riflesso l’evoluzione del ciclo economico
internazionale, aumentando in volume del 3,2 per cento, un valore nettamente inferiore
alla media degli ultimi dieci anni ( oltre il 6 per cento).
Il primo trimestre del 2003
La congiuntura internazionale si è ulteriormente indebolita agli inizi del 2003, per
effetto delle incertezze relative al conflitto in Iraq e a rischi di diffusione della
polmonite atipica (SARS). Il prezzo del petrolio agli inizi di marzo ha raggiunto poco
meno di 35 dollari a barile.
Il Giappone e i paesi dell’area dell’euro hanno maggiormente risentito del
deterioramento del contesto esterno, a causa delle debolezze strutturali delle loro
economie. Tra i paesi dell’Unione Monetaria Europea il rallentamento è stato
particolarmente marcato in Germania, dove il PIL si è ridotto dello 0,2 per cento
rispetto al trimestre precedente. Negli Stati Uniti, il prodotto è aumentato dello 0,4 per
cento. La crescita è stata sostenuta dal contributo positivo dei consumi (0,4 per cento),
mentre non si è verificata l’attesa ripresa degli investimenti da parte delle imprese, che,
invece, è stata frenata dall’incertezza.
Le prospettive di crescita si sono ridotte, riflettendosi in un peggioramento del
clima di fiducia degli operatori ed in un generalizzato calo dei corsi azionari. Da
gennaio a marzo, gli indici di borsa delle principali aree economiche sono scesi di circa
il 10 per cento, con una performance significativamente peggiore nell’area dell’euro,
dove la contrazione ha raggiunto quasi il 20 per cento.
Segnali di ripresa deboli e contrastanti per l’anno in corso
L’evoluzione attesa del quadro internazionale per i prossimi mesi è ancora incerta.
Dopo la rapida e favorevole risoluzione del conflitto in Iraq, sono emersi segnali di
ripresa. Il prezzo del petrolio è sceso rapidamente intorno ai 25 dollari a barile; le
quotazioni azionarie hanno iniziato a mostrare una tendenza alla crescita. Segnali di
ripresa provengono dagli Stati Uniti, dove le politiche economiche continuano ad essere
espansive. Il 25 giugno la Riserva Federale ha ridotto i tassi di riferimento americani
dall’1,25 per cento all’1 per cento, il livello più basso dal 1958. Nello stesso mese sono
entrati in vigore nuovi sgravi fiscali.
L’indice di fiducia dei consumatori, secondo il Conference Board, è in aumento
dal mese di aprile, dopo aver registrato per quattro mesi un progressivo peggioramento.
Nel mese di maggio, l’indice anticipatore del ciclo americano è aumentato dell’1
per cento, il più forte incremento da 17 mesi. L’indagine condotta presso i responsabili
degli acquisti delle imprese manifatturiere fornisce ulteriori indicazioni favorevoli: il
Purchasing Management Index di Chicago (PMI), dopo aver registrato a maggio un
aumento più forte del previsto (passando da 47,6 a 52,2 e superando il valore di 50 che
rappresenta lo spartiacque tra espansione e contrazione) ha manifestato un ulteriore
rialzo a giugno (52,5).
In Europa, le politiche economiche sono quasi ovunque orientate in senso
espansivo con un aumento dei disavanzi, che riflette l’operato degli stabilizzatori
automatici. La BCE, con un nuovo intervento effettuato ai primi di giugno, ha ridotto il
tasso di riferimento di 50 punti base, portandolo al 2 per cento.
Alcuni fattori strutturali segnalano possibili miglioramenti delle prospettive. Lo
sgonfiamento della “bolla” speculativa degli ultimi due anni ha riportato i prezzi dei
titoli azionari intorno ai valori di equilibrio. Mentre la stabilizzazione dei mercati
finanziari elimina un importante fattore di debolezza della domanda interna, il calo del
prezzo del petrolio, espresso in euro, produce un effetto positivo sui conti delle famiglie
e delle imprese.
Di contro, pesa ancora sulla ripresa sia americana che europea l’eccesso di
capacità produttiva determinato dalla forte crescita degli investimenti effettuati nella
seconda metà degli anni novanta. Il basso livello di utilizzo degli impianti suggerisce
che una sostenuta ripresa degli investimenti è ancora lontana.
Sulle prospettive di crescita dell’Unione Europea pesa, inoltre, l’apprezzamento
dell’euro che si riflette in un peggioramento della competitività. In particolare, pesano
le potenzialità di sviluppo dell’export dell’area asiatica, soprattutto quelle della Cina,
favorite dall’ancoraggio del renminbi-yuan al dollaro americano (su un rapporto di 8,28
renminbi-yuan per dollaro).
EFFETTI DELL’INTEGRAZIONE COMMERCIALE DELLA CINA
NELL’ECONOMIA MONDIALE
Il crescente grado di apertura dell’economia cinese, accompagnato dal processo
di riforme e dal recente ingresso nella Organizzazione Mondiale del Commercio
(WTO), ha rappresentato un nuovo fattore propulsivo dello sviluppo di quel paese.
Dopo essere cresciuta a ritmi vicini al 10 per cento nel corso degli ultimi 20 anni, la
Cina ha continuato a registrare tassi di crescita sostenuti anche durante l’attuale fase
di debole congiuntura internazionale. La Cina rappresenta oggi la settima maggiore
economia mondiale e la seconda destinazione dei flussi di investimenti diretti, essenziali
per l’acquisizione di tecnologia innovativa. La crescita dell’economia cinese, pari all’8
per cento nel 2002, è stata trainata da un forte aumento delle esportazioni (21,2 per
cento), in particolare di prodotti elettronici e tessili. La domanda estera dovrebbe
continuare a fornire un contributo decisivo alla crescita del PIL del paese (superiore al
7 per cento nei prossimi due anni, secondo le previsioni del FMI).
Nel corso degli ultimi anni la Cina ha progressivamente ampliato la propria
quota di mercato sulle esportazioni mondiali (dal 4,7 al 6,6 per cento tra il 1997 e il
2002), favorita anche dall’elevato tasso di sviluppo dell’area geo-economica cui
appartiene.
I settori in cui i guadagni sono stati maggiori sono il tessile, l’ICT (Information
and Communication Technology), l’elettronica e strumenti di precisione e la
meccanica. Per quanto riguarda il mercato cinese, si registra una graduale erosione
delle quote di import dalla maggior parte delle economie avanzate, a cui si
contrappone un aumento di quella dell’Asia Orientale (ad eccezione del Giappone).
In una prospettiva di lungo periodo il mercato cinese offrirà opportunità di
sbocco interessanti. Tuttavia gli standard di vita di quel paese sono ancora molto
lontani da quelli sia delle maggiori economie avanzate, sia dei paesi asiatici. Secondo i
dati della Banca Mondiale, riferiti al 2001, il reddito pro-capite cinese (calcolato sulla
base dello stesso potere di acquisto) risulta pari a circa un sesto di quello di Italia,
Francia e Germania; alla metà circa di quello della Malesia, ad un terzo del reddito
pro-capite della Corea.
Il ruolo trainante dell’economia degli Stati Uniti nella ripresa mondiale
Le prospettive di ripresa dell’economia mondiale appaiono connesse allo sviluppo
della congiuntura negli Stati Uniti. Infatti, né l’area dell’euro né il Giappone sembrano
oggi in grado di svolgere un ruolo trainante della crescita globale.
Nell’area dell’euro, l’economia tedesca risente degli effetti dell’unificazione del
paese e, dopo aver registrato negli ultimi tre anni il più basso tasso di crescita tra i paesi
aderenti all’Unione Monetaria, non manifesta segni di ripresa. La domanda è debole a
causa dell’elevata disoccupazione, della elevata pressione fiscale, degli alti tassi di
interesse reali, degli effetti dell’interazione tra difficoltà societarie e rischi nel sistema
finanziario, dell’incertezza relativa alle riforme nel mercato del lavoro ed alle misure di
consolidamento fiscale necessarie per rispettare i parametri fissati a livello europeo.
Senza il decisivo contributo della domanda estera, difficilmente la Germania potrà
beneficiare di una significativa ripresa dell’attività economica. Destano interesse le
recenti proposte di riduzione del carico fiscale.
Anche in Giappone, le prospettive di sviluppo sono condizionate da una domanda
interna molto debole. I consumi sono frenati dall’elevata disoccupazione e dai bassi
salari, con un tasso di risparmio che è ormai sceso ai minimi storici. Gli investimenti,
pur mostrando qualche segno di recupero nel primo trimestre di quest’anno, sono
condizionati dalla ripresa della domanda estera.
Le previsioni per il 2003
Sulla base di queste prime e parziali indicazioni è prematuro affermare che sia
iniziata una nuova fase di sviluppo duraturo dell’economia mondiale; anzi, emergono
segnali di deflazione in alcune aree.
Vi sono, tuttavia, motivi per ritenere che l’economia mondiale si andrà
rafforzando progressivamente già nella seconda metà dell’anno, sostenuta dalla
graduale accelerazione dell’attività economica negli Stati Uniti.
Secondo tale scenario, che raccoglie oggi importanti consensi, i paesi
industrializzati registreranno un’espansione dell’attività economica pari all’1,7 per
cento, non diversa dai risultati dell’anno precedente. La crescita attesa per gli Stati Uniti
è pari al 2,2 per cento, per effetto di una dinamica congiunturale dello 0,8 per cento nel
primo semestre e dell’1,4 per cento nel secondo. L’aumento atteso del PIL è invece
meno marcato, sia nell’area dell’euro (0,8 per cento, in linea con il risultato dell’anno
precedente), sia in Giappone (0,5 per cento).
Il commercio mondiale, riflettendo l’accelerazione della produzione nella seconda
metà del 2003, è previsto aumentare in media del 5 per cento, ad un tasso superiore
rispetto all’anno precedente (3,2 per cento) ma ancora inferiore al trend storico. Sul
totale delle esportazioni, si espandono le quote degli Stati Uniti e dei paesi la cui valuta
è legata al dollaro, in particolare la Cina.
I prezzi espressi in euro delle materie prime non energetiche e dei manufatti
caleranno per effetto dell’apprezzamento del tasso di cambio nominale della valuta
europea (stimato, in media d’anno, di poco superiore al 20 per cento).
Nei prossimi mesi il prezzo del petrolio dovrebbe oscillare intorno alle quotazioni
attuali, circa 25 dollari a barile, le quali rappresentano il valore centrale della
“forchetta” fissata dall’OPEC. In media d’anno, il prezzo si assesterebbe sui 26 dollari,
tenuto conto delle elevate quotazioni raggiunte nei primi mesi dell’anno.
Il tasso di inflazione è previsto in discesa ma, coerentemente con l’ipotesi di
politiche economiche orientate in senso espansivo ed in presenza di uno scenario di
ripresa graduale dell’attività economica, il pericolo di deflazione generalizzata appare
non significativo, in particolare distinguendo la riduzione dei prezzi legata alla
debolezza della domanda (Giappone e Germania) da quella dovuta ad aumenti della
produttività (Stati Uniti).
DEFLAZIONE: ASPETTI TEORICI E RISCHI NELL’ATTUALE CONGIUNTURA
A livello teorico, si definisce “deflazione” il costante declino osservato in un
indice aggregato che misura i prezzi, quale quello dei prezzi al consumo o il deflatore
del PIL. Una riduzione dei prezzi per uno o due trimestri consecutivi, pur se
tecnicamente costituisce una deflazione, non è motivo di preoccupazione. Tuttavia,
anche una lieve, ma costante, deflazione può avere conseguenze sfavorevoli: aumenta
l’incertezza economica, svia una corretta allocazione delle risorse, comporta effetti a
livello distributivo, aggrava il peso del debito e riduce il tasso di crescita.
Sia lo shock da domanda che quello da offerta possono portare alla deflazione.
Nel primo caso alla discesa dei prezzi è probabile che si accompagni la caduta della
domanda di beni e servizi, mentre nel secondo caso potrebbe verificarsi un aumento
della produzione. Ciononostante, la deflazione è raramente benigna. A prescindere
dall’origine dello shock, essa, infatti, conduce ad una redistribuzione del reddito dai
debitori ai creditori e a distorsioni nel processo di intermediazione creditizia.
Inoltre, visto che il tasso di interesse non può scendere sotto lo zero, l’efficacia
della politica monetaria diviene limitata, particolarmente quando la produzione è in
declino. Una persistente deflazione rischia di trasformarsi in una spirale deflazionistica
di caduta dei prezzi, della produzione, dei profitti e dell’occupazione.
Qualche rischio che l’attuale situazione di basse pressioni inflazionistiche
degeneri in una spirale deflazionistica, con conseguenze negative per crescita e
occupazione, permane in alcune economie. In Germania ed in Giappone, ad esempio, la
debolezza della domanda interna si associa ad un marcato declino delle quotazioni
azionarie cui si somma anche, diversamente dalla maggior parte degli altri paesi, una
riduzione di valore degli immobili. Inoltre, entrambi i paesi fronteggiano una situazione
di fragilità del sistema creditizio che potrebbe amplificare gli effetti della congiuntura
negativa attraverso fenomeni di contrazione dell’offerta di credito (credit crunch) e un
inasprimento delle condizioni dei finanziamenti. Infine, sia in Germania sia in
Giappone, le leve a disposizione delle autorità di politica economica per sostenere la
domanda interna sono limitate. In Giappone, il debito pubblico ha raggiunto livelli
elevati e la politica monetaria ha perso efficacia trovandosi, con tassi di interesse
nominali prossimi allo zero, in quella che è nota come trappola della liquidità. In
Germania, la flessibilità delle politiche economiche è ancora più limitata, essendo il
deficit pubblico a livelli superiori al 3 per cento nel 2002 e non disponendo degli
strumenti del tasso di interesse e del cambio.
Nelle altre principali economie, invece, i rischi di deflazione appaiono limitati
dalle migliori prospettive di tenuta della domanda interna sulla quale agiscono la
maggiore robustezza del sistema bancario e la crescita del valore del patrimonio
immobiliare, che compensa in parte gli effetti della riduzione della r icchezza azionaria.
Negli Stati Uniti, in particolare, i consumi hanno continuato a crescere e la riduzione
dell’inflazione in atto, essendo dovuta in larga parte ad aumenti di produttività
(disinflazione da offerta), non indicherebbe rischi di recessione. L’elevata crescita della
produttività permette di incrementare i salari e quindi sostenere i consumi e il reddito;
lo stimolo alla domanda interna attuato attraverso l’adozione di politiche fiscali e
monetarie efficacemente espansive contribuisce, infine, a limitare ulteriormente tali
rischi.
I.2 Le prospettive di medio termine
Nella fase di elevata incertezza che si è aperta dopo l’11 settembre del 2001,
formulare previsioni economiche è diventato un esercizio ancora più difficile e
rischioso, come mostrano le drastiche revisioni nelle stime della crescita effettuate dai
principali centri di ricerca e organizzazioni internazionali negli ultimi trimestri. Con un
limitato grado di prudenza si può, tuttavia, ipotizzare una ripresa dell’espansione
dell’attività economica nella parte finale dell’anno in corso che si andrebbe
consolidando negli anni successivi. Trainata dagli Stati Uniti, essa consentirà un
progressivo restringimento dell’output gap in tutti i paesi europei e delle principali aree
del mondo. Si prevede che le principali economie, una volta superate le attuali
difficoltà, tornino a tassi di crescita in linea con il trend di lungo periodo.
La crescita dei paesi industrializzati è prevista accelerare al 2,7 per cento nel 2004
e rimanere all’incirca su tali tassi nel triennio seguente. L’aumento del PIL dovrebbe
risultare maggiore negli Stati Uniti (intorno al 3,5 per cento sin dal 2004), più moderato
in Giappone (1,2 per cento circa nel periodo 2004-2007); nell’area dell’euro, il tasso di
sviluppo raggiungerebbe il 2 per cento nel 2004 e il 2,2 per cento negli anni successivi.
Lo scenario previsivo di medio termine sconta, come già ricordato, l’ipotesi di una
sostanziale invarianza della capacità di crescita delle singole economie rispetto a quella
espressa, in media, nell’ultimo decennio. L’espansione negli Stati Uniti nel periodo
2004-2007, seppure sostenuta, rimane inferiore a quella sperimentata nella seconda
metà degli anni novanta. Un andamento dei mercati azionari più cauto, gli effetti di una
legislazione più severa in tema di contabilità societaria, la necessità di ridurre il livello
di indebitamento da parte di famiglie e imprese, determinano una crescita più moderata
della domanda interna. Tali dinamiche sono compatibili con una graduale correzione dei
“twin deficits”, del bilancio pubblico e della bilancia dei pagamenti corrente. In
Giappone, la crescita risulta frenata dal previsto ridimensionamento – rispetto alla
tendenza degli ultimi venti anni – della crescita delle importazioni delle economie
asiatiche (che rappresentano un importante mercato di sbocco delle esportazioni
giapponesi). Per quanto riguarda l’Unione Monetaria, le difficoltà strutturali della
Germania si riflettono sull’intera area, riducendo le potenzialità di crescita nell’intero
periodo di previsione.
Il commercio mondiale, riflettendo il rafforzamento della crescita dell’attività
economica, è previsto tornare ad aumentare a tassi sostenuti sia nel 2004, quando il
volume degli scambi potrà raggiungere l’8,5 per cento, sia, seppure con una dinamica
media 91-00 media 96-00 media 01-03 2004 2005 2006 2007
più moderata, nel triennio successivo, con un aumento compreso tra il 7,5 e l’8 per
cento.
Si ipotizza, dopo un ulteriore ma molto limitato deprezzamento del dollaro nel
prossimo anno, che a partire dal 2005 i tassi di cambio delle principali valute oscillino
sostanzialmente sui livelli medi del 2004. L’euro, quindi, è stimato stabilizzarsi nel
periodo di previsione su un valore pari a 1,17 dollari, venendo così meno i fattori
depressivi sulla crescita derivanti dalla perdita di competitività di prezzo subita dalle
esportazioni. Il prezzo del petrolio dovrebbe rimanere intorno a 25 dollari a barile per
tutto l’orizzonte previsivo (all’interno della forchetta OPEC).
I prezzi di manufatti e delle materie prime non petrolifere sono previsti aumentare
moderatamente, coerentemente con l’andamento della domanda mondiale.
Nel medio periodo, le pressioni inflazionistiche risultano ridotte in tutte le aree,
proseguendo il trend discendente in atto nell’ultimo decennio. Nei paesi industrializzati,
solo in Giappone si manifesta un fenomeno di contrazione dei prezzi. Nel complesso
dell’area dell’euro non sembrano sussistere rischi di deflazione.
Il consiglio direttivo della BCE lo scorso 8 maggio in occasione del riesame della
strategia della politica monetaria ha rimodulato il proprio orientamento ponendo come
obiettivo il perseguimento di un inflazione su livelli prossimi al 2 per cento.
La ripresa dell’economia mondiale dovrebbe consentire alla Germania di evitare
una prolungata contrazione dei prezzi; in effetti il tasso di inflazione medio nel periodo
2004-2007 dovrebbe essere dello 0,8 per cento.
I principali elementi di rischio presenti nello scenario delineato riguardano
potenziali effetti depressivi sulla crescita. Essi potrebbero derivare da un aumento della
propensione al risparmio delle famiglie al fine di ricostituire lo stock di ricchezza, che
sarebbe più marcato nel caso di sgonfiamento dei prezzi dei beni immobiliari. Un
ulteriore effetto di riduzione della propensione alla spesa del settore privato americano è
rappresentato dal tendenziale deterioramento dei conti pubblici. Se, infine, la crescita
dell’economia americana non venisse seguita da una sufficiente ripresa nelle altre
principali economie, lo squilibrio della bilancia dei pagamenti corrente statunitense
potrebbe ampliarsi e la sua correzione richiedere una riduzione della domanda interna,
con il propagarsi degli effetti restrittivi a livello internazionale. Viceversa, se la crescita
delle altre economie risultasse troppo sostenuta, le difficoltà di una rapida reversibilità
delle misure fiscali espansive potrebbero tradursi in rischi di surriscaldamento
dell’economia americana.
FATTORI GEO-POLITICI E SCENARIO INTERNAZIONALE
La fase congiunturale che abbiamo attraversato non può essere considerata come
il ripetersi di una normale fase ciclica, come quelle che avvengono periodicamente
nelle economie di mercato. Fattori eccezionali di natura geo-politica condizionano
pesantemente le aspettative degli operatori e determinano un andamento congiunturale
difficilmente prevedibile. Eventi specifici, quali l’11 settembre, la guerra in
Afghanistan, quella in Iraq, dovrebbero avere effetti di natura solamente transitoria
sull’economia. È però evidente che proprio la successione continua di eventi sopra
menzionata si presta anche ad una chiave di lettura diversa. Il fatto che si succedano
ripetuti episodi di instabilità politica potrebbe essere assunto nello scenario di medio
termine come un fattore sistematico in grado di incidere in modo permanente sui tassi e
sui ritmi di investimento. Nello scenario politico internazionale restano tensioni in
diverse aree geografiche, in particolare nel Medio Oriente. Una evoluzione degli eventi
nella direzione indicata condurrebbe a delineare uno scenario in cui i rischi sistemici
tendono a prevalere. Nell’ipotesi in cui il consolidarsi di questi episodi si trasferisca in
un incremento strutturale dell’incertezza, occorre valutare il modo in cui le scelte degli
individui possano essere alterate. Da un lato, infatti, la minor fiducia posta nel futuro
può essere fonte di maggior risparmio privato e, non necessariamente, sortire effetti
avversi nel medio periodo per il ciclo economico. Dall’altro, però, una maggiore
avversione al rischio potrebbe incidere sull’allocazione delle risorse. In particolare,
progetti d’investimento con ricavi attesi elevati, ma caratterizzati da più alto rischio e
con rendimenti posticipati nel futuro, avrebbero difficoltà ad essere finanziati,
limitando la capacità espansiva del sistema economico in aggregato. Inoltre, il
persistere di una bassa propensione al consumo, riducendo le prospettive di domanda,
avrebbe comunque un effetto sfavorevole sulla dinamica degli investimenti delle
imprese.
Se sul fronte interno gli effetti di una recrudescenza delle tensioni geopolitiche
sarebbero avversi (rinvio dei consumi, stagnazione degli investimenti), non migliore è
la prospettiva sul fronte esterno. Fenomeni d’introversione degli scambi potrebbero
sensibilmente attenuare le dinamiche future del commercio mondiale, influendo
significativamente sulle economie maggiormente dipendenti dalla domanda estera,
ovvero quelle dei paesi emergenti, ma non solo. Infine, non si può escludere che la
localizzazione delle maggiori tensioni politiche nel Medio Oriente non conduca a
sensibili rialzi della quotazioni del greggio, nonostante la contestuale dinamica
stagnante della domanda.
Sebbene sia di difficile quantificazione la durata e l’intensità con cui questo
quadro potrebbe prodursi, la fiducia degli operatori riveste un ruolo di fondamentale
importanza nei sistemi economici moderni, caratterizzati da un elevato grado di
“finanziarizzazione” e, quindi, di sensibilità ai comportamenti. Il miglioramento delle
condizioni di stabilità politica internazionale potrà contribuire a ripristinare la fiducia
degli operatori, come è già accaduto in modo parziale.
I.3 Il processo di allargamento dell’Unione Europea
Lo scorso 16 aprile, ad Atene, i 15 membri dell’UE e 10 paesi in via di adesione
(Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica
Slovacca, Slovenia e Ungheria) hanno siglato il Trattato di Adesione, che dovrà essere
ratificato per mezzo di referendum popolari, già tenutisi con esito positivo in diversi
paesi. La ratifica del Trattato implica che, dal 1 maggio 2004, questi dieci paesi
entreranno a far parte dell’UE al fianco degli attuali membri con gli stessi obblighi e gli
stessi diritti.
La Comunità Economica Europea, che originariamente contava sei membri
(Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi), si è “allargata” in ben
quattro occasioni e conta oggi 15 paesi, tra le più avanzate economie dell’Europa
occidentale. L’allargamento verso est presenta caratteristiche peculiari e pone sfide
nuove: è significativo per il numero di paesi coinvolti – in termini assoluti è il più
grande allargamento in termini di popolazione e il secondo per superficie – anche se il
peso economico dei paesi in via di adesione è relativamente modesto. L’allargamento in
corso ridisegna radicalmente i confini dell’UE e introduce un importante elemento di
diversità, economica e culturale: in termini di PIL pro-capite, i paesi in via di adesione
sono, infatti, notevolmente più poveri degli attuali membri dell’UE, con forti divari
interni e una tendenza a strutture istituzionali centralizzate. A eccezione di Cipro e di
Malta, si tratta di paesi appartenenti all’ex blocco sovietico che stanno completando il
processo di transizione da sistemi economici pianificati a economie di mercato. Infine,
le caratteristiche istituzionali dell’UE sono molto cambiate: l’attuale (quinta) fase di
allargamento, a differenza delle precedenti, si colloca nel contesto di un’Europa che,
oltre alla cooperazione economica e tecnica, ha già intrapreso la via di una stretta
cooperazione in molteplici settori quali la politica sociale, l’occupazione, la giustizia, il
diritto di asilo e di immigrazione, la politica estera, la sicurezza e la difesa.
Nel 2002, l’attività economica nei paesi in via di adesione si è mantenuta
relativamente robusta, nonostante il rallentamento globale: la crescita media del PIL è
stata pari al 2,4 per cento; si sono registrati ulteriori progressi nel processo di
disinflazione in tutti i paesi dell’area. Anche per il 2003 le previsioni di crescita sono
positive (3,1 per cento), grazie alla buona tenuta della domanda interna e alla ripresa
delle esportazioni.1
1Dal punto di vista della specializzazione internazionale, il processo di transizione ha comportato un riorientamento delle esportazioni e delle importazioni di questi paesi. Da esport atori netti di materie prime e beni ad alta intensità di capitale, gran parte di questi paesi sono divenuti esportatori netti di beni ad alta intensità di lavoro. Anche il modello geografi co di specializzazione è mutato: fino alla fine degli anni ottanta il commercio era principalmente indiri zzato verso est, adesso Germani a e Italia sono i principali
partner commerciali.
In questo contesto, il principale elemento di vulnerabilità è rappresentato
dall’evoluzione dei conti pubblici di questi paesi. La spesa pubblica è prevista in
aumento nei prossimi anni, per far fronte al finanziamento del processo di
modernizzazione di queste economie, agli investimenti in capitale fisico e umano, al
miglioramento degli standard ambientali, nonché alle spese connesse
all’invecchiamento della popolazione, proprio nella fase in cui la disciplina fiscale
dettata dalla transizione all’Unione monetaria diventerà più stringente per i paesi che
intendono adottare l’euro al più presto. Inoltre, molti fra i paesi in via di adesione hanno
registrato significativi disavanzi nei conti con l’estero, quasi interamente finanziati da
notevoli investimenti diretti dall’estero.2 Anche nello scorso biennio, nonostante la
caduta degli investimenti diretti a livello mondiale, gli investimenti verso i paesi in via
di adesione sono aumentati, raggiungendo circa 29 miliardi di dollari nel 2002.3
L’allargamento dell’UE, al di là della portata politica dell’evento, offre importanti
vantaggi di natura economica: si stima che l’allargamento possa avere un impatto
positivo sulla crescita, sia per i paesi dell’UE, sia per i paesi candidati4, grazie al
migliore sfruttamento delle economie di scala e dei vantaggi comparati.5 Analisi
esistenti mostrano che per l’UE, e per l’Italia in particolare, il commercio effettivo è
minore del commercio potenziale con molti dei paesi in via di adesione, indicando che
la piena integrazione dei mercati dei beni potrà portare a creazione di commercio6.
D’altra parte, potrebbero esserci alcuni effetti negativi: un aumento della
concorrenza, soprattutto per le imprese dei paesi UE che producono beni tradizionali ad
elevata intensità di lavoro; un riorientamento degli investimenti diretti esteri (IDE) già
programmati verso alcune regioni dell’UE; cambiamenti nella politica di intervento e di
bilancio dell’UE, in particolare, a causa della dimensione elevata del settore agricolo e
del basso livello di reddito pro-capite7 di questi paesi.
2Fra il 1995 e il 2000, gli investimenti diretti hanno finanziato da un minimo del 54 per cento (1996) a un massimo dell’80 per cento (1998) dei disavanzi commerciali dei paesi in via di adesione, aumentando complessivamente del 142 per cento.
3La maggior parte di questi investimenti ha avuto origine nei paesi europei: Germania, Olanda, Austria, Francia, Regno Unito e Italia.
4Ad esempio, Fritz Breuss, in Consequences of EU Enlargement for Macroeconomic Stability in Euroland (2002), stima un impatto positivo sulla crescita di circa lo 0,5 per cento del PIL reale dell’UE- 15 e benefici molto più elevati per i paesi candidati.
5I benefici derivanti dall’allargamento possono essere distinti in benefici statici e dinamici. Avere benefici statici dal lato della produzione vuol dire che la creazione è maggiore della diversione di commercio.Molti studi sottolineano che tali benefici derivano dalla complementarietà dei sistemi produttivi dei paesi UE e candidati. I benefici dinamici, invece, derivano dall’effetto dell’integrazione dei mercati dei fattori produttivi sulle determinanti della crescita. Ad esempio, secondo la teoria della crescita endogena,
l’aumento della dimensione può indurre maggiore accumulazione di capitale che, a sua volta, comporta un aumento di produttività; ciò permette di spostare le economie su sentieri di crescita più elevati. 6 Recenti studi mostrano, inoltre, che per l’Italia il divario tra commercio potenzi ale ed effettivo è
maggiore che per la Germania (Bertolini e Montanari, 2002, L’Integrazione Commerciale tra l’ UE e i PECO, Rivista di Politica Economica IX-X, Settembre-Ottobre, p. 35-53).
7Per quel che riguarda il bilancio, l’UE dal 2000 a oggi ha investito 3 miliardi di euro; secondo l’accordo raggiunto a Copenhagen nel 2002, entro l a fine del 2006 il costo finanziario dovrà essere limitato a 40,8 miliardi di euro, comprese le sovvenzioni agricole, le infrastrutture, gli aiuti a finalità regionale e i fondi speciali. L’incidenza dell’ampliamento sul bilancio UE dopo il 2007 dipenderà dall’eventuale riforma del bilancio stesso.
II – L’EVOLUZIONE DELL’ECONOMIA ITALIANA
II.1 L’economia italiana nel 2003
Recenti sviluppi
Nell’ultima parte dello scorso anno l’economia italiana ha dato segnali di recupero, sostenuta dalla ripresa dei consumi e degli investimenti. Questi ultimi, stimolati dagli incentivi governativi, sono cresciuti, rispettivamente, del 2,3 per cento e del 3,7 per cento, nel terzo e nel quarto trimestre, in netta controtendenza rispetto all’esperienza degli altri paesi europei. Anche i consumi delle famiglie, per effetto dei provvedimenti fiscali e di altre misure di supporto della domanda varate dal Governo, hanno mostrato una decisa accelerazione nella seconda metà dell’anno. Grazie all’insieme di tali interventi, la politica economica ha offerto un sostegno alla crescita nel momento in cui si veniva affievolendo l’impulso della domanda estera.
GLI EFFETTI SUL CICLO DI MISURE FISCALI ALTERNATIVE:
UN’ANALISI CONTROFATTUALE PER IL BIENNIO 2002-2003
Nel primo biennio di attività del nuovo governo, la politica fiscale, e più in generale la politica economica, ha avuto il compito di coniugare diverse esigenze. Da un lato, rispettare gli impegni assunti in sede europea per il risanamento della finanza pubblica, evitando misure che inasprissero la pressione fiscale, dall’altro, operare interventi di natura strutturale con l’obiettivo di aumentare il potenziale dell’economia. Allo stesso tempo, la politica fiscale è stata chiamata a farsi carico del finanziamento di alcune misure che, pur avendo comunque riflessi positivi sull’economia, traevano origine principalmente da esigenze di carattere sociale e di equità. A fare da sfondo all’azione della politica economica negli ultimi due anni è stato un andamento del ciclo economico internazionale estremamente sfavorevole. All’indomani della pubblicazione del primo DPEF del nuovo governo (luglio 2001), che rispecchiava prospettive, largamente condivise, di una crescita sostenuta per gli anni 2002 e seguenti, è subentrato un improvviso peggioramento della congiuntura. Tuttora la ripresa si manifesta più lenta ed incerta del previsto. In questo contesto, il compito di portare avanti le linee di azione in precedenza illustrate si è rivelato estremamente arduo. La
caduta del tasso di crescita dell’economia rispetto al suo livello potenziale ha comportato rilevanti perdite in termini di gettito fiscale. Al contempo, il sussistere di condizioni di debolezza della domanda aggregata ha reso opportuna l’adozione di misure di stimolo alla ripresa dell’economia, con conseguente aggravio per il bilancio pubblico. In una prospettiva di progressivo avvicinamento verso un saldo di bilancio in pareggio, una fase ciclica sfavorevole – in assenza di interventi di contrasto – può determinare scostamenti dal sentiero di aggiustamento programmato. D’altra parte, misure di contenimento del deficit corrono il rischio di avere effetti pro-ciclici, deteriorando ulteriormente la situazione economica. Gli interventi di politica economica varati negli ultimi due anni hanno avuto l’obiettivo di contemperare le contrapposte esigenze.
Tramite un’analisi controfattuale per il biennio 2002-2003, si sono stimati gli effetti sul ciclo economico di provvedimenti di bilancio “tradizionali” e alternativi alle misure in conto capitale varate dal governo. Queste ultime hanno riguardato la dismissione di beni immobili tramite operazioni di cartolarizzazione, il rientro di capitali dall’estero e, con riferimento al 2003, il condono fiscale. Le cartolarizzazioni hanno portato, nel 2002, ad un aumento del gettito pari a 8,8 miliardi di euro (la cifra preventivata era di 7,75 miliardi); nel 2003 valutazioni provvisorie indicano un incasso di 3,5 miliardi di euro. Il rientro dei capitali dall’estero, che nel 2002 ha generato entrate aggiuntive nell’ordine di 1 miliardo di euro, per il 2003 dovrebbe fruttare all’erario circa 2 miliardi. Le maggiori entrate legate ai concordati e ai condoni, al varo del provvedimento, sono state valutate in misura pari a 5,9 miliardi di euro. Lo scenario base della simulazione incorpora la politica fiscale effettivamente adottata dal governo e riproduce – per il 2002 – l’andamento storico dell’economia e – per il 2003
– il profilo di crescita attualmente previsto. Utilizzando il modello econometrico del
Dipartimento del Tesoro, si è provveduto a simulare l’andamento dell’economia
sostituendo alle entrate in conto capitale altre misure che, invece, danno luogo a
riduzione del reddito disponibile delle famiglie (maggiori imposte in conto corrente). Le
misure alternative, pur avendo – ex ante – lo stesso impatto sul bilancio pubblico delle
misure effettivamente adottate, provocano un effetto restrittivo maggiore sul ciclo.
L’adozione di queste ipotetiche misure avrebbe ridotto la crescita del PIL di 0,31
punti nel 2002 e di 0,24 nel 2003. Alla fine del biennio, il livello del PIL sarebbe
inferiore di 0,55 punti rispetto a quello stimato nelle ultime previsioni. Le misure in
conto capitale adottate hanno pertanto consentito il contenimento del deficit
minimizzando l’impatto sul ciclo economico. Il diverso comportamento dell’economia
può essere spiegato con i diversi canali di trasmissione della politica fiscale attivati
dalle due simulazioni. Le cartolarizzazioni, in una prima fase, comportano un
passaggio di fondi da una società veicolo, che si procura i fondi sul mercato dei
capitali, allo Stato: l’impatto di tale operazione sull’economia è inizialmente nullo.
Infatti, la maggiore domanda di fondi da parte della società veicolo è compensata da
una minore domanda da parte dello Stato (che ha visto ridotta di un eguale ammontare
la propria necessità di finanziarsi sul mercato). Ne consegue che i tassi d’interesse non
variano. Nel tempo, con il graduale passaggio del patrimonio immobiliare ai privati, si
assiste ad una riduzione della ricchezza finanziaria delle famiglie compensata da un
aumento di pari ammontare della ricchezza immobiliare. Quest’ultimo effetto ha
iniziato ad operare nel 2003, ma l’entità è ancora irrilevante dal punto di vista della
simulazione. Nei conti pubblici, gli importi relativi alle cartolarizzazioni sono inseriti a
riduzione delle spese per gli investimenti pubblici. Misure quali condoni, concordati e
rientro dei capitali, contabilmente si configurano come imposte in conto capitale e, in
quanto tali, comportano una riduzione dell’accumulo di ricchezza finanziaria degli
agenti economici. Un minore livello di ricchezza finanziaria agisce sui consumi privati
e, tramite questi, sul PIL. La parte dell’imposta che grava sulle imprese può essere
assimilata ad una riduzione dei profitti netti, con conseguenti effetti sugli investimenti.
Per contro, le misure alternative introdotte nella simulazione controfattuale
comportano, in via diretta, una riduzione del reddito disponibile. Nel breve periodo ne
risulta una dinamica dei consumi – e quindi del PIL – inferiore rispetto alla
simulazione base. Peraltro, alla crescita più bassa dello scenario controfattuale non si
accompagna una riduzione del tasso di inflazione. Ciò è dovuto all’accresciuto livello
della pressione fiscale sui redditi da lavoro.
Queste tendenze positive si sono arrestate agli inizi del 2003, in parte a causa
dell’ulteriore indebolimento della congiuntura internazionale. Nel primo trimestre, il
PIL è diminuito dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente. In particolare, gli
investimenti complessivi hanno registrato una flessione (5 per cento), mentre
l’andamento dei consumi delle famiglie è risultato sostanzialmente piatto. Anche la
produzione industriale si è ridotta nei primi mesi dell’anno e le indagini congiunturali
hanno segnato un netto peggioramento dovuto al ridimensionamento delle decisioni di
spesa e al rinvio dei piani di investimento. I dati più recenti sull’andamento della
produzione industriale indicano un recupero nel secondo trimestre, possibile preludio di
una ripresa a partire dalla seconda parte dell’anno.
Le previsioni per il 2003
Tenuto conto delle tendenze in atto e dell’eredità positiva del 2002 (il
trascinamento è pari a 0,4 punti percentuali), si stima che il PIL aumenti, in media nel
2003, dello 0,8 per cento, un valore in linea con quello atteso per l’area dell’euro.
La crescita del PIL sarà sostenuta dalla domanda interna. Le difficoltà dei nostri
principali partner commerciali (della Germania, in particolare), unitamente alla perdita
di competitività dovuta all’apprezzamento dell’euro, condizioneranno la ripresa delle
esportazioni nei prossimi mesi. Il settore estero darà un apporto negativo alla crescita,
seppur in misura inferiore rispetto al 2002 (0,5 per cento rispetto a 0,7 per cento del
2002); il contributo delle scorte sarebbe lievemente positivo.
La spesa delle famiglie è prevista aumentare dell’1,2 per cento, rispetto allo 0,4
per cento dell’anno precedente. I consumi dovrebbero beneficiare, oltre che del
miglioramento del clima di fiducia, dell’incremento del reddito disponibile, legato ai
rinnovi contrattuali, e del progressivo riassorbimento delle pressioni inflazionistiche.
La propensione al consumo rimarrebbe sostanzialmente stabile, dopo la riduzione
registrata nei due anni precedenti, indotta dalla volontà delle famiglie di ricostituire la
ricchezza finanziaria perduta dopo il crollo dei mercati azionari.
RICCHEZZA FINANZIARIA E CONSUMI DELLE FAMIGLIE
Nonostante la recente inversione di tendenza, la contrazione delle borse mondiali,
in corso dal marzo 2000, ha ormai raggiunto dimensioni elevate. Se si prendono a
riferimento i valori di massimo e minimo raggiunti dalle quotazioni, la flessione di
borsa ha raggiunto negli Stati Uniti la durata di 139 settimane1, valore superato solo in
occasione della crisi del 1929. Non meno rilevante risulta il ridimensionamento delle
quotazioni: 40 punti percentuali, nel caso dell’indice Standard e Poor’s, 70 per cento
nel caso dell’indice tecnologico Nasdaq. Il mercato azionario italiano, ovviamente, non
si è sottratto a tale ondata ribassista e le quotazioni della serie storica dell’indice Mib
sono ritornate sui livelli di fine del 1997. Le correzioni delle quotazioni di borsa hanno
un impatto sui consumi delle famiglie attraverso l’effetto ricchezza e sugli investimenti
delle imprese attraverso le condizioni di indebitamento. Tali nessi causali sono di
particolare rilevanza negli Stati Uniti, il cui sistema finanziario è fortemente incentrato
sui mercati. Tuttavia, la riduzione del valore del portafoglio azionario delle famiglie
americane, essendo percepita come una variazione di carattere prevalentemente di
lungo periodo, non ha direttamente penalizzato i consumi; questi ultimi, viceversa, sono
stati sostenuti dagli incrementi del valore del patrimonio immobiliare.
Per quanto di dimensioni minori rispetto agli Stati uniti, anche in Europa si è
assistito, dalla fine degli anni novanta, ad una consistente ricomposizione del
portafoglio dei risparmiatori. Per quanto riguarda l’Italia, ciò si è sostanziato in un
passaggio dai titoli di Stato, in particolare, Bot e Cct verso attività direttamente o
indirettamente collegate agli andamenti dei corsi azionari. Alla fine del 1996, l’insieme
delle azioni e partecipazioni, italiane e estere, dei fondi comuni, di diritto italiano e
estero rappresentava solo il 19,4 per cento delle attività finanziarie delle famiglie; a
fine 1999 tale quota era salita fino al 44,4 per cento. Il calo dei corsi azionari, che ha
caratterizzato l’ultimo triennio, ha comportato una diminuzione del peso di tali attività
sul portafoglio finanziario delle famiglie (dal picco del 1999 al 42,6 per cento nel 2000,
al 29,9 per cento nel 2002) cui ha corrisposto una contrazione della ricchezza e della
rendita finanziarie delle famiglie (tra il quarto trimestre del 2000 e il terzo trimestre
2002 la ricchezza finanziaria è diminuita del 10 per cento, mentre la rendita finanziaria
del 65 per cento). Contestualmente alla contrazione delle borse internazionali e
europee, nel 2002, l’andamento dei consumi interni italiani ha registrato una flessione
(-0,1 per cento), particolarmente marcata nel comparto dei beni durevoli (-2,8 per
cento).
Diversi fattori incidono sulla decisione al risparmio delle famiglie: l’inflazione, le
condizioni del mercato del lavoro, il costo del credito, ecc… Tuttavia, in presenza di
una dinamica dei prezzi contenuta, di una buona tenuta dell’occupazione e del basso
costo del denaro, l’incremento della propensione al risparmi, registrata negli ultimi due
anni, potrebbe riflettere l’intento delle famiglie di ricostituire la ricchezza e la rendita
finanziaria perduta negli ultimi due anni.
L’eventuale mancata quadratura delle cifre decimali è dovuta agli arrotondamenti.
Per valutare empiricamente l’effetto della caduta dei corsi azionari sui consumi
delle famiglie e sul PIL del nostro Paese è stata effettuata una simulazione
controfattuale. Alla base dell’eserciz io vi è l’imposizione di una redditività equivalente
al tasso medio sui Bot nel triennio 2000–2002 sull’andamento degli indici di borsa.
Nella struttura del modello utilizzato, le diverse ipotesi sull’andamento delle quotazioni
azionarie esercitano un impatto diretto sulla domanda di consumo, nella cui funzione di
stima entra, con valori statisticamente significativi, la ricchezza finanziaria delle
famiglie.
In base a tale simulazione, nel triennio 2000-2002, la minore crescita cumulata
della domanda interna attribuibile alla caduta dei corsi azionari è pari a 3 decimi di
punto. Effetti ritardati, seppure in progressiva riduzione, si producono ancora nel
biennio successivo.
D’altra parte, gran parte della ricchezza delle famiglie è concentrata nel mercato
immobiliare e un sostegno ai consumi potrebbe derivare dalla possibilità di convertire in
reddito parte di tale ricchezza.
Nel 2003, la componente dei consumi pubblici è prevista ridimensionarsi per
effetto delle politiche volte al rispetto degli obiettivi di bilancio, pur a fronte del
concentrarsi, nell’anno corrente, della spesa per i rinnovi contrattuali dei dipendenti
pubblici. In termini reali, i consumi della P.A registrerebbero un tasso di crescita
inferiore a quello dell’anno precedente (dall’1,7 del 2002 all’1,4 per cento).
Gli investimenti fissi lordi, favoriti dalla ripresa della domanda e dal basso livello
dei tassi di interesse, dovrebbero segnare, nella seconda parte del 2003, un graduale
recupero.
In particolare, la componente di macchinari e attrezzature, dopo aver registrato nei
primi due trimestri una caduta, a riflesso degli anticipi di spesa effettuati alla fine del
2002 per beneficiare degli incentivi fiscali poi scaduti, crescerebbe dello 0,4 per cento
(0,6 per cento nel 2002). La componente delle costruzioni, viceversa, beneficiando del
protrarsi degli incentivi alla ristrutturazione delle abitazioni e dell’avvio del programma
delle Grandi Opere, registrerebbe una crescita dell’1,4 per cento, in accelerazione
rispetto al 2002. Nel complesso, quindi, la dinamica degli investimenti sarebbe pari allo
0,8 per cento.
Le esportazioni, in linea con il rafforzamento atteso dell’economia mondiale,
registrerebbero un recupero nella seconda parte dell’anno: la crescita si attesterebbe al
2,0 per cento (contro un calo dell’1 per cento del 2002). Anche la dinamica delle
importazioni, di riflesso alla ripresa della domanda e favorita dal perdurante guadagno
delle ragioni di scambio, mostrerebbe una forte accelerazione (dall’1,5 del 2002 al 3,7
per cento nel 2003). Il saldo corrente della bilancia dei pagamenti risulterebbe ancora
negativo, 0,6 per cento in rapporto al PIL, come nel 2002. L’attivo commerciale, pur
beneficiando delle favorevoli ragioni di scambio, risentirà ancora dell’andamento
negativo dell’interscambio reale, mantenendosi sostanzialmente in linea con il risultato
dell’anno precedente (1,4 per cento del PIL). Il deficit delle partite invisibili si
collocherebbe all’1,9 per cento; l’avanzo del settore turismo continuerebbe a ridursi.
27
Dal lato dell’offerta, la crescita del valore aggiunto è stimata pari all’1,0 per cento
(0,6 per cento nel 2002). L’industria mostrerebbe il maggior recupero produttivo (da
una crescita piatta nel 2002 all’1,1 per cento nel 2003), trainato principalmente dal
comparto delle costruzioni che risentirebbero positivamente degli incentivi a favore
delle ristrutturazioni edilizie (2,1 per cento nel 2003 contro lo 0,5 per cento del 2002).
Nel settore dei servizi, il traino della crescita passerebbe, rispetto al 2002, dalla
componente pubblica a quella privata, riflettendo le politiche di contenimento della
spesa delle Pubbliche Amministrazioni.
Pur in presenza di una debole congiuntura, le condizioni del mercato del lavoro in
Italia permangono positive, in particolare in raffronto ai principali paesi europei.
Secondo le stime della Commissione, nel 2003, la crescita dell’occupazione dell’area
dell’euro sarebbe nulla. Escludendo l’Italia, tale valore risulterebbe negativo per 0,1
punti percentuali.
OCCUPAZIONE E REDDITI DA LAVORO DIPENDENTE: UN CONFRONTO
EUROPEO
L’anno appena trascorso è stato caratterizzato da un particolare dinamismo
occupazionale dell’Italia, tanto più notevole sia in considerazione della difficile
situazione economica congiunturale degli ultimi 18 mesi, sia perché, per la prima volta
da circa un decennio, risulta in controtendenza rispetto all’andamento nei principali
paesi dell’area euro. Tale evoluzione è il risultato di un processo di miglioramento del
mercato del lavoro italiano in atto già da cinque anni, contraddistinto dalla
diminuzione, in media, del tasso di disoccupazione di oltre mezzo punto percentuale
l’anno e dalla crescita, in netta accelerazione, dell’occupazione. Esso è in larga parte
riconducibile agli effetti di tre principali linee di intervento su cui si è concentrato
l’impegno di Governi e parti sociali. Negli ultimi anni sono state effettuate importanti
riforme strutturali, con l’obiettivo di migliorare il funzionamento del mercato del
lavoro, eliminando varie forme di rigidità. Allo stesso intento sono ispirati i recenti
progetti di legge in tema di riforma del mercato di lavoro (legge delega n.30/2003) che,
una volta pienamente implementati, potrebbero fornire nuovo impulso alla crescita
occupazionale amplificando gli effetti dell’attesa ripresa ciclica. A ciò si sono aggiunti,
soprattutto nell’ultimo biennio, specifici interventi di politica fiscale finalizzati al
sostegno dell’occupazione, in particolare il credito di imposta a beneficio delle
assunzioni a tempo indeterminato introdotto con la Legge Finanziaria del 2001 e
riconfermato, seppure in entità ridotta, nella Legge Finanziaria del 2002. Infine, la
moderazione salariale degli ultimi anni, indotta dall’applicazione del modello di
contrattazione formalizzato nel ‘Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazionè
del 23 luglio 1993, ha contribuito, in misura anche sostanziale, alla recente buona
performance del mercato del lavoro.
A questo proposito, è interessante esaminare l’evoluzione negli ultimi quattro
anni2 dell’occupazione e dei redditi da lavoro in Italia, confrontandola con le tendenze
nei principali paesi dell’area euro3. Dal confronto emerge che, durante il periodo
considerato, l’Italia è riuscita ad invertire il differenziale di crescita occupazionale che
la separava dalla media europea, passando da uno scostamento medio sfavorevole pari
a mezzo punto percentuale nel periodo 1995-1998 ad un vantaggio di crescita di circa
tre decimi di punto negli anni 1999-2002 (figura 1).
Figura 1 – Crescita dell’occupazione in Italia e in Europa
Fonte: Elaborazioni su dati Eurostat.
Rispetto agli incrementi osservati in Francia, Spagna e Paesi Bassi, l’Italia soffre
ancora di qualche ritardo, che però appare colmarsi rapidamente. Tale risultato è in
larga parte imputabile alla forte crescita del settore dei servizi privati, in particolare il
settore dell’intermediazione finanziaria, attività immobiliari e servizi alle imprese.
A fronte di una crescita occupazionale così vigorosa, i redditi da lavoro
dipendente pro capite hanno mostrato, in Italia, fra gli incrementi più contenuti sia in
termini assoluti, sia rispetto all’evoluzione dell’indice dei prezzi al consumo
armonizzato e della produttività del lavoro. 2 Il confronto è limitato agli ultimi quattro anni in quanto, nel 1998, i contributi sanitari a carico dei datori di lavoro sono stati sostituiti dall’IRAP, così modificando il livello dei redditi da lavoro dipendente.
Esse concorrono a determinare, rispettivamente, il denominatore ed il numeratore del costo del lavoro. Un confronto più appropriato delle dinamiche di redditi pro capite e produttività richiederebbe la specificazione dell’input di lavoro in termini di unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (ULA). Tali dati non sono però disponibili, su periodi recenti, per la maggior parte dei paesi considerati. Le grandezze procapite sono state quindi necessariamente computate in termini di numero di occupati (persone). La produttività nominale del lavoro è qui calcolata come rapporto fra valore aggiunto a prezzi base correnti e numero di occupati.
D’altra parte, l’andamento della quota del lavoro5, che è un indicatore sintetico
delle dinamiche relative di redditi e produttività, mostra per l’Italia una leggera
flessione nel periodo considerato, confermando un’evoluzione generalmente equilibrata
delle variabili retributive reali – anche rispetto ai maggiori paesi dell’area euro – ed
omogenea nei vari settori di attività economica.
Rispetto a questo quadro complessivamente favorevole per il mercato del lavoro
italiano, sarà di rilievo l’analisi della prova dei fatti in corrispondenza dell’attesa
ripresa del ciclo economico, particolarmente nel confronto con i principali partner
europei. L’azione governativa continuerà a perseguire attivamente la strada delle
riforme strutturali del mercato del lavoro, in contemporanea con la messa a punto di un
Il computo della quota del lavoro è stato effettuato sulla base del numero di occupati ed imputando agli
occupati indipendenti gli stessi redditi degli occupati dipendenti. Nella letteratura esso corrisponde al concetto standard di adjusted labour share. La quota del lavoro corrisponde, per costruzione, al rapporto tra redditi reali pro capite (deflazionati con i prezzi base del valore aggiunto settoriale) e produttività, un aumento (diminuzione) della quota indica quindi crescita dei salari reali più forte (lenta) della produttività.
effettivo e congruo sistema di ammortizzatori sociali, al fine di cogliere al massimo gli
impulsi derivanti dalla congiuntura più favorevole.
La crescita dell’occupazione in Italia, nel 2003, sarà, infatti, positiva, attestandosi
allo 0,6 per cento, pur in rallentamento rispetto al 2002 (1,1 per cento). Il
peggioramento sarebbe particolarmente marcato nel settore dell’industria in senso
stretto (-0,1 per cento nel 2003 contro 0,4 per cento nel 2002); nei servizi la domanda di
lavoro aumenterebbe dello 0,9 per cento (1,5 nel 2002).
Il contributo della componente femminile alla crescita occupazionale risulta
elevato. In aprile, in base all’ultima rilevazione pubblicata dall’ISTAT sulle forze di
lavoro, il ritmo di crescita dell’occupazione femminile (2,3 per cento) è tornato ad
attestarsi sui livelli registrati nel corso del primo semestre del 2002, dopo il
rallentamento di ottobre 2002 e gennaio 2003 (rispettivamente 1,7 e 1,4 per cento).
La Legge delega sul mercato del lavoro (n.30/2003) ha introdotto nuove figure
contrattuali (staff leasing, lavoro a chiamata, job-sharing, nuove regole sul part-time)
che dovrebbero stimolare la partecipazione femminile al mercato del lavoro.
EVOLUZIONE DELL’OCCUPAZIONE FEMMINILE NELL’ULTIMO
QUINQUENNIO
Dalla seconda metà degli anni novanta l’economia italiana ha registrato una
notevole crescita occupazionale. Nonostante il rallentamento imposto dalle sfavorevoli
condizioni congiunturali dell’ultimo anno, il periodo dal 1998 al 2002 ha visto una
crescita di circa 1.4 milioni di posti di lavoro, con un incremento di circa 4 punti del
tasso d’occupazione (calcolato come rapporto tra occupati e popolazione in età
lavorativa, 15-64 anni). Un contributo significativo a tale crescita è certamente legato
all’introduzione di misure volte a favorire la flessibilità del mercato del lavoro,
attraverso un processo che ha favorito l’entrata nel mercato del lavoro di soggetti in
precedenza esclusi. Testimonianza di ciò si trova nell’incremento dell’offerta di lavoro
e nel concentrarsi della maggiore occupazione nella componente femminile: per le
donne l’aumento del tasso d’occupazione, nel quinquennio citato, si cifra in circa 5
punti percentuali. Dal 1998 al 2002, infatti, l’occupazione femminile è cresciuta ad un
ritmo cinque volte superiore a quella degli uomini (12,1 per cento, il tasso di
incremento medio dell’occupazione femminile nel 2002 contro il 3,8 per cento
maschile). In rapporto all’espansione totale dell’occupazione, quella femminile ha
inciso per circa i tre quinti; nel 2002 il livello delle donne occupate si è attestato a
8.236 milioni di individui (il 37, 7 per cento dell’occupazione complessiva). Le donne
sono più presenti, rispetto agli uomini, nel lavoro dipendente che in quello autonomo
(in particolare, tra le donne, figurano meno imprenditori e liberi professionisti) e, per
quanto riguarda il lavoro dipendente, occupano in minor misura posizioni dirigenziali.
Per contro, il 44,6 per cento delle donne occupate svolgono mansioni da impiegate.
La presenza femminile nel mercato del lavoro nel nostro paese è, inoltre,
caratterizzata da un’elevata dispersione per area geografica dei tassi di occupazione; è
nelle regioni del Centro-Nord che si riscontra la maggiore concentrazione
dell’occupazione femminile. Nel Nord Est, in particolare, il tasso di occupazione
femminile (15-64 anni) ha raggiunto, nella media del 2002, il 54,4 per cento, a fronte
del 27 per cento relativo al meridione. Pertanto, mentre nelle regioni centro
settentrionali il suddetto tasso è allineato su livelli europei (nel 2002, il valore di tale
indicatore con riferimento all’intera Unione è stato del 55,5 per cento), nel
Mezzogiorno il divario risulta particolarmente ampio (27 per cento).
Nonostante i progressi degli ultimi anni, l’Italia continua a registrare un tasso di
partecipazione al mercato del lavoro relativamente basso, soprattutto tra la
popolazione femminile. Sia in Italia che nel resto dell’area-euro, i tassi di occupazione
femminile per classi di età sono caratterizzati da un profilo “a gobba”.
Nelle classi di età più giovani, la percentuale di donne occupate è piuttosto
bassa, mentre aumenta man mano che si considerano donne in età più adulta, fino a
raggiungere un picco fra i 35 e i 44 anni. Viceversa, avvicinandosi l’età pensionabile, il
tasso di occupazione declina vistosamente. Ma in ciascuna classe di età considerata, il
livello del tasso di occupazione femminile italiano è decisamente inferiore alla media
europea. Anche nella fascia di età tra i 35-40 anni, dove il tasso di occupazione è
massimo, l’Italia registra un differenziale con la media europea di quasi dieci punti
percentuali. Rispetto agli altri paesi europei, il divario per l’Italia, distribuito fra tutte
le fasce di età, raggiunge il culmine nella fascia 45-49 anni (in relazione alla più
favorevole legislazione sul pensionamento anticipato). E nelle fasce di età centrale, la
bassa occupazione è strettamente associata alla bassa partecipazione femminile al
lavoro all’interno dei nuclei familiari.
Per le donne tra i 30 e 44 anni, il differenziale occupazionale tra donne nubili e
donne attualmente coniugate è pari a circa 8 punti percentuali: mentre il 70 per cento
delle donne nubili tra i 40 e 44 anni risultavano occupate nell’aprile del 2002, tale
percentuale si riduceva a poco più del 50 per cento per le donne coniugate, con
differenziali anche maggiori nel Mezzogiorno. Un altro elemento utile, ai fini di una
migliore comprensione degli aspetti strutturali dell’occupazione femminile, è il fatto
che l’occupazione femminile si concentra nelle donne con alti livelli di istruzione. Gli
uomini, al contrario si distribuiscono, secondo il titolo di studio posseduto, in modo più
equo. Dai dati emerge che il 62 per cento delle donne occupate possiede un elevato
titolo di studio (diploma o laurea), contro il 50 per cento circa degli uomini. Tale
fenomeno risulta accentuato nel Mezzogiorno.
Un importante contributo all’incremento del tasso di occupazione femminile è
resto già parte integrante delle misure destinate all’obiettivo di favorire sia la
prtecipazione femminile al mercato del lavoro, sia l’”occupabilità” delle donne anche
nelle regioni meridionali6. In Italia, le donne con un’occupazione part-time sono circa
1 milione 130 mila (80 per cento dell’occupazione dipendente a tempo parziale),
rispetto alle 811 mila circa nel 1998. La percentuale di donne che lavorano secondo
tale tipologia contrattuale è significativamente più elevata nell’Unione Europea (pari
al 33,8 per cento della media dell’Unione Europea contro il 17,8 per cento in Italia nel
2001). Si può, inoltre, osservare come ad elevati tassi di occupazione femminile,
corrisponde, in generale, un’ampia diffusione del lavoro a tempo parziale. L’ampio
divario con il resto d’Europa sta ad indicare che esistono, tuttora, ampi margini di
estensione di questo strumento.
Effetti positivi sull’evoluzione dell’occupazione femminile nel medio periodo
sono attesi anche dalla riforma fiscale avviata dal governo e dalle sue successive
implementazioni.
EFFETTI DELLA RIFORMA FISCALE SULLA PARTECIPAZIONE FEMMINILE AL MERCATO DEL LAVORO
L’obiettivo di accrescimento dell’offerta di lavoro si concentra su tre aspetti
fondamentali:
il Mezzogiorno, ove l’occupazione regolare è su livelli endemicamente bassi
i gruppi socio-demografici caratterizzati da bassa partecipazione strutturale
le fasce di età vicine alla pensione, che, nonostante i più recenti progressi,
rimangono caratterizzate da una fuoriuscita troppo precoce dal mercato del
lavoro.
Un ruolo importante di stimolo all’offerta di lavoro può derivare dall’intervento
di riduzione delle imposte sul reddito operato nel corso del 2003, dal momento che i
benefici fiscali sono concentrati sui redditi individuali più bassi.
Per comprendere il legame tra offerta di lavoro e riduzione fiscale, è
fondamentale distinguere tra soggetti che già partecipano al mercato del lavoro e
soggetti che inizialmente si collocano fuori dalla forza lavoro. Nella letteratura
economica, i primi soggetti operano sul margine intensivo dell’offerta di lavoro
(variazione delle ore di lavoro, posto che già si sia occupati), mentre i secondi soggetti
operano sul margine estensivo (partecipazione o meno al mercato).
Per gli individui sul margine intensivo dell’offerta di lavoro, una riduzione fiscale
induce un effetto sostituzione ed un effetto reddito, il primo a favore d’aumento
dell’offerta di lavoro – in quanto una riduzione dell’aliquota marginale aumenta il
costo opportunità delle attività non lavorative – il secondo operante nel senso d’una
riduzione dell’offerta di lavoro – in quanto le minori imposte consentono di ottenere lo
6 In base alle indicazioni del NAP (Piano nazionale per l’occupazione), presentato dal governo nella scorsa primavera, il tasso di occupazione femminile dovrebbe essere innalzato al 46 per cento entro il 2005. Nel Piano sono contenute, fra l’altro, alcune misure per raggiungere tale obiettivo: incentivazione alla diffusione del lavoro a tempo parziale e valorizzazione dell’offerta formativa.
Gli effetti netti complessivi della riduzione delle imposte sono perciò ambigui per gli individui che operano sul margine intensivo dell’offerta di lavoro.
Meno ambigui sono invece gli effetti per individui che operano sul margine estensivo: ipotizzando l’assenza di redditi diversi da quelli da lavoro (e tralasciando la presenza di un aumento del redito netto del coniuge ove questi già lavori), la riduzione delle imposte determina soltanto un effetto sostituzione, senza produrre alcun effetto reddito, sì da implicare un aumento della probabilità di partecipare al mercato del lavoro.
Tali congetture teoriche sono in effetti confermate dalle verifiche esistenti di
natura econometrica. Per gli individui che operano sul margine intensivo dell’offerta di
lavoro, indipendentemente dal sesso, l’effetto reddito e l’effetto sostituzione sono molto
piccoli e di segno opposto. Viceversa, per le donne coniugate che operano sul margine
estensivo, l’elasticità dell’offerta di lavoro al salario appare molto più alta. Anche se
le stime dell’elasticità dell’offerta dipendono dai dettagli analitici del modello
utilizzato, gli studi più attendibili sembrano essere quelli che prendono esplicitamente
in considerazione i vincoli esistenti in termini di salario e ore lavorate, la situazione del
mercato locale del lavoro, la natura congiunta delle decisioni in tema di lavoro e
fertilità dei due coniugi. In questa direzione, un certo consenso emerge nella letteratura
sul fatto che l’elasticità dell’offerta di lavoro femminile sia superiore a quella maschile,
ragguagliandosi la prima intorno a 0.7, la seconda al massimo a 0.5.
Le considerazioni ora esposte sono particolarmente importanti nel contesto
italiano, dal momento che è proprio sul margine estensivo e sul tasso di occupazione
femminile che l’Italia risulta essere particolarmente in ritardo. Tenendo conto che
l’intervento fiscale già approvato riguarda i redditi medio-bassi, è opportuno rilevare
che gli stessi studi econometrici evidenziano un’elasticità dell’offerta di lavoro
chiaramente decrescente all’aumentare del livello di reddito (da valori di 3.4 per le
donne a basso reddito familiare, 0.8 per le donne a reddito medio, e 0.09 per le donne
in famiglie a reddito elevato). Pur nella difficoltà di precisare gli effetti dell’intervento
fiscale in termini di aumento della partecipazione al lavoro, è plausibile concludere che
la manovra fiscale garantirà, nel medio periodo, una maggior crescita dell’output
potenziale.
In aggiunta a tali effetti, ulteriori stimoli potranno der ivare dalla rimozione degli
ostacoli residui alla partecipazione delle donne in età centrale con carichi famigliari.
Un impedimento in questa direzione è legato alla bassa disponibilità, in Italia, di servizi
pubblici e privati per l’infanzia, un settore ad alta intensità di lavoro femminile.
Nel 2003, in presenza di un lieve rallentamento dell’offerta di lavoro, il tasso di
disoccupazione continuerebbe a scendere attestandosi all’8,8 per cento.
A fronte degli andamenti congiunti dell’attività produttiva e dell’occupazione, il
valore aggiunto per unità di lavoro crescerebbe dello 0,3 per cento, dopo la flessione
registrata nel 2002 (-0,5 per cento).
Tenendo conto degli effetti dei rinnovi contrattuali già conclusi (nei primi mesi
del 2003 sono stati rinnovati il contratto nazionale dei metalmeccanici e del commercio,
e nel settore pubblico, quelli dei ministeri, degli enti pubblici non economici e della
scuola) e di quelli da attivare nel corso dell’anno, (tra cui nel settore del pubblico
impiego Enti locali e Sanità) le retribuzioni lorde pro-capite registrerebbero un’aumento
dell’ordine del 3,0 per cento.
Il costo del lavoro per dipendente aumenterebbe del 3,2 per cento nel 2003, in
linea con la dinamica retributiva. Nonostante l’accelerazione salariale, il costo del
lavoro per unità di prodotto, giovandosi del recupero di produttività, crescerà del 3,1 per
cento, in linea con il risultato del 2002.
A fronte degli andamenti salariali descritti, l’inflazione al consumo, misurata
sull’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (al netto dei
consumi di tabacchi), è prevista rimanere stabile nel 2003, sullo stesso livello dello
scorso anno (2,4 per cento). Tale stima sconta l’accelerazione registrata nei primi mesi
dell’anno, determinata principalmente dall’aumento dei prezzi energetici.
L’apprezzamento dell’euro favorirà la netta discesa dell’inflazione nella seconda parte
dell’anno. Il differenziale di inflazione con l’area dell’euro (misurato sull’indice
armonizzato) è previsto in lieve riduzione.
Il confronto con le previsioni del DPEF 2003-2006
Rispetto alle previsioni contenute nel DPEF dello scorso anno (che erano in linea
con quelle elaborate all’epoca dai principali organismi internazionali), la stima della
crescita del prodotto interno lordo, a riprova delle difficoltà di previsione riscontrate
negli ultimi due anni, è stata rivista al ribasso, dal 2,7 allo 0,8 per cento.
La ragione dello scostamento è principalmente ascrivibile al forte rallentamento
dell’economia mondiale nella seconda parte del 2002 e al clima di incertezza prevalso
all’inizio del 2003. Questi fattori hanno indotto gli organismi internazionali a rivedere al
ribasso le proprie previsoni. La stima relativa alla crescita del commercio mondiale è
stata corretta di oltre 4 punti percentuali (dal 9,5 al 5 per cento); quella relativa al tasso
di crescita dei paesi dell’area dell’euro risulta diminuita di oltre due punti percentuali
(dal 3 allo 0,8 per cento).
La minor crescita avrà un impatto sull’andamento del mercato del lavoro: il tasso
di disoccupazione nel 2003 è stimato pari all’8,8 per cento (8,6 nel DPEF dello scorso
anno).
Per quanto attiene all’inflazione, la stima di un tasso più elevato sconta gli effetti
residui dovuti agli aumenti dei prezzi petroliferi e una maggiore dinamica del costo del
lavoro per unità di prodotto, nonché una lieve ripresa dei margini aziendali, dopo la
contrazione subita nel biennio 2001-2002.
II.1.1 Le tendenze economiche territoriali nel 2003
Anche nell’attuale fase congiunturale, il Mezzogiorno continua a crescere più
rapidamente del resto del Paese. Nel biennio 2001-2002 la crescita media annua è stata
di 4 decimi di punto superiore a quella del Centro Nord (1,4 contro 1 per cento); un
divario simile è atteso per il 2003.
In un quadro di crescita modesta, il Mezzogiorno mostra maggior dinamismo, sia
con riguardo alla creazione di nuove imprese, sia in termini di occupazione, specie
industriale.
I dati disponibili fino al marzo di quest’anno confermano (anzi accentuano) la
tendenza del Mezzogiorno a una crescita del numero di imprese più elevata rispetto al
resto del Paese (con una crescita del 2,9 per cento dello stock di imprese extra-agricole
rispetto a dodici mesi prima, contro lo 0,5 del Centro Nord), in particolare nel comparto
dei servizi e del turismo. Il contributo netto delle esportazioni torna ad essere positivo,
DPEF 2003-06 DPEF 2004-07
Tasso di crescita del P IL reale 2,7 0,8
Tasso d’inflazione 1,7 2,4
Tassi forward dei Bot a 12 mesi (*) 3,65 2,15
Tassi di crescita dell’occupazione (unità di lavoro) 1,5 0,6
Tasso di disoccupazione (in percentuale della forza lavoro) 8,6 8,8
Tasso di occupazione (tasso specifico età 15-64 anni) 56,5 56,1
dopo la flessione registrata nel 2002, con un contributo determinante delle vendite
all’estero di prodotti petroliferi.
L’occupazione totale del Mezzogiorno, è tornata a crescere lievemente in aprile
(0,3 per cento in termini destagionalizzati rispetto a gennaio, in linea con il Centro
Nord), recuperando pienamente la lieve flessione di fine 2002. La stasi nell’occupazione
del Sud a partire dalla metà dello scorso anno non è dovuta solamente al ciclo
economico sfavorevole ma riflette anche la difficile, tuttavia indispensabile, fase di
assestamento di alcuni strumenti di incentivazione del capitale e del lavoro (cfr. cap.
IV.3), portata a buon fine con la scorsa Legge Finanziaria. Nel settore extra-agricolo si è
comunque continuato a osservare un andamento dell’occupazione positivo e superiore a
quello del Centro Nord (0,5 per cento di crescita rispetto a gennaio, contro lo 0,3 per
cento del Centro Nord). Sempre nel settore extra-agricolo l’aumento netto
dell’occupazione negli ultimi due anni è pari a 181 mila addetti.
Il superamento della fase di incertezza, con il rifinanziamento di molti interventi
con effetti diretti sull’occupazione, e l’accelerazione degli investimenti pubblici
dovrebbero assicurare nel corso dell’anno una ripresa del trend di crescita
dell’occupazione. È quanto suggerisce anche l’indagine Excelsior, svolta da
Unioncamere, sui fabbisogni occupazionali delle imprese italiane, con il proseguimento
della crescita degli occupati dipendenti del settore privato nel Mezzogiorno (3,8 per
cento), superiore rispetto a quella media nazionale (2,4 per cento).
Le aspettative di consumatori e imprenditori nel Mezzogiorno mostrano, nel corso
dell’anno, andamenti difformi. Nel mese di giugno, nel Mezzogiorno, le attese dei
consumatori sono orientate al pessimismo, quelle degli imprenditori mostrano un
ottimismo superiore a quello del resto del Paese.
Il perdurare di un ciclo generale insoddisfacente induce a stimare per l’anno in
corso un aumento tendenziale del PIL del Mezzogiorno di poco superiore all’1 per
cento, comunque più elevato di circa 4 decimi rispetto a quello del Centro Nord. Alla
performance del Mezzogiorno contribuisce la diffusa azione di politica economica volta
al rafforzamento delle istituzioni del Mezzogiorno e al miglioramento della qualità degli
investimenti pubblici, nonché la ripresa della spesa in conto capitale (cfr. cap IV).
L’incremento complessivo degli investimenti fissi lordi, pubblici e privati, (1,4 per
cento nel 2002, 1,9 per cento circa stimato nel 2003) continuerebbe a dare un forte
contributo alla crescita: nell’ultimo quadriennio tale incremento eccede in media quella
del Centro Nord di circa 1,4 punti l’anno.
CRESCITA DEL MEZZOGIORNO RISPETTO ALL’ITALIA: OBIETTIVI
PROGRAMMATICI E RISULTATI
Il confronto fra obiettivi programmatici di crescita del Mezzogiorno contenuti nel
Quadro comunitario di sostegno (QCS) 2000–2006 concordato con l’Unione europea e
risultati effettivi offre alcuni spunti significativi. Per tenere conto del ciclo economico
internazionale e italiano, che è stato decisamente peggiore di quello a suo tempo
previsto, e isolare così le specificità del Mezzogiorno, obiettivi e risultati sono
confrontati con riferimento al differenziale di crescita fra il Mezzogiorno e l’Italia nel
suo complesso.
Per quanto riguarda la crescita del PIL, si osserva una corrispondenza fra
obiettivi e risultati: seppure in misura inferiore alle previsioni, si è prodotto ed è andato
crescendo un lieve differenziale positivo a favore del Mezzogiorno. Questo
accostamento fra risultati e previsioni deriva dal fatto che le previsioni originarie del
QCS scontavano già in parte i tempi lunghi con cui può avere efficacia un intervento
pubblico radicalmente diverso dal passato, incentrato su azioni di rafforzamento
istituzionale e di offerta di infrastrutture e di beni e servizi pubblici e non su meri
interventi di sussidio, distorsivi del mercato e dell’attitudine innovativa degli
imprenditori.
Sulla base degli esercizi di simulazione effettuati7, effetti significativi sulla
produttività e quindi sulla crescita avrebbero peraltro dovuto prendere a manifestarsi
dal 2004, con un balzo del differenziale di crescita. Le difficoltà che ha incontrato il
conseguimento da parte di grandi enti e Ministeri di spesa dell’obiettivo di destinare al
Sud il 30 per cento delle risorse per spese in conto capitale, i tempi con cui l’azione di
rinnovamento e di riqualificazione dei progetti si va manifestando e le resistenze che
essa incontra in una parte dei ceti dirigenti, amministrativi e imprenditoriali, del Sud,
spingono oggi a posporre al 2005 il punto di svolta.
Questa valutazione è rafforzata dal confronto fra obiettivi e risultati relativo agli
investimenti fissi lordi (pubblici e privati). Qui l’accostamento è meno forte: a un
risultato assai inferiore alle previsioni nel 1999 (presumibilmente legato al forte
aggiustamento impresso agli strumenti di intervento pubblico) hanno fatto seguito
risultati assai costanti – una eccedenza della crescita nel Mezzogiorno sempre attorno
a 1 punto – che si contrappongono alla previsione di una progressiva accelerazione.
Cumulativamente, dal 2000 al 2003, la crescita degli investimenti nel Mezzogiorno
avrebbe comunque prodotto una crescita accumulata (circa 4 punti superiore a quella
dell’Italia) pari a quella prevista. Ma il mancato balzo (almeno stando alle previsioni)
del 2003, a fronte di una buona performance di spesa dei fondi aggiuntivi, comunitari e
nazionali, indica proprio le difficoltà a raggiungere l’obiettivo di spesa ordinaria al
Sud, specie da parte di grandi enti pubblici, segnatamente Ferrovie dello Stato, e
Ministeri di spesa (cfr. ad esempio la quota di spesa prevista per il 2003 per il
Mezzogiorno dal Programma infrastrutture strategiche). A questo obiettivo, richiamato
dalle parti economiche e sociali, si rivolgerà una ancor più forte azione di politica
economica.
7 Cfr. Quinto Rapporto del DPS 2001-2002, Riquadro D ” Il modello econometrico per la valutazione
delle politiche nel Mezzogiorno”. Il Rapporto è disponibile sul sito del Dipartimento per le politiche di
Sviluppo (http://www.dps.tesoro.it/).
II.2 La finanza pubblica nel 2003
Nel Documento di programmazione dello scorso anno il Governo, nel confermare
e rafforzare il programma di riforme strutturali intrapreso all’atto del suo insediamento
ed in linea con quanto deciso nei Consigli d’Europa di Lisbona e Barcellona, indicava
nello 0,8 per cento del PIL l’obiettivo di indebitamento per il 2003, correlato ad una
ipotesi di crescita del 2,9 per cento.
Successivamente nel mese di settembre, in linea con le stime dei principali
organismi internazionali che avevano ridotto la crescita dei maggiori paesi
industrializzati (per effetto dell’ulteriore rallentamento dell’economia nel secondo
semestre del 2002), con la Nota di Aggiornamento al DPEF presentata contestualmente
alla Relazione Previsionale e Programmatica, il Governo riformulava l’obiettivo di
indebitamento netto per il 2003 all’1,5 per cento del PIL, obiettivo coerente con una
previsione di crescita del 2,3 per cento.
Conseguentemente il Governo approntava una manovra correttiva, dell’ordine
dell’1 per cento del PIL, la cui composizione teneva conto della difficile congiuntura: le
misure di contenimento della spesa pubblica sono state integrate con provvedimenti a
carattere straordinario che contribuiscono significativamente raggiungimento degli
obiettivi per il 2003.
In occasione dell’aggiornamento della Relazione lo scorso aprile, si è preso atto
che la ripresa era ben più lenta ed incerta anche per effetto della guerra in Iraq. Il
Governo, quindi, ha ulteriormente ridotto la previsione della crescita per il 2003 all’1,1
per cento, rivedendo la stima dell’indebitamento netto al 2,3 per cento del PIL.
Tale revisione teneva conto dei risultati acquisiti nel 2002, della definizione degli
interventi normativi adottati nel quadro della manovra di finanza pubblica per il 2003 e
delle più aggiornate proiezioni tendenziali dei saldi relativi ai diversi comparti delle
Amministrazioni pubbliche.
L’evoluzione dei conti pubblici nella prima parte dell’anno mostra un andamento
del fabbisogno del settore statale sostanzialmente in linea con gli obiettivi prefissati,
avvalorando l’orientamento prudente del Governo nell’affidarsi a correzioni di bilancio
di natura straordinaria in una congiuntura economica ancora sfavorevole.
I risultati sui proventi delle sanatorie fiscali evidenziano una larga adesione da
parte dei contribuenti e un gettito superiore alle attese, con effetti positivi sia nel breve
periodo, in termini di aggiustamento dei saldi di bilancio nonché di contenimento
dell’emissione di titoli pubblici a copertura del fabbisogno finanziario, sia nel più lungo
periodo, in ordine all’allargamento della base imponibile per gli anni successivi.
Il maggior gettito derivante dalle sanatorie compensa l’andamento delle entrate
tributarie, la cui dinamica continua a risentire del prolungarsi del ciclo economico
particolarmente sfavorevole. In particolare il gettito delle imposte dirette mostra una
diminuzione, rispetto allo scorso anno, di circa l’1 per cento anche quale riflesso
dell’entrata a regime del primo modulo della riforma fiscale, mentre quello delle
indirette è atteso crescere del 2,4 per cento al di sotto di quanto stimato in precedenza.
Dal lato della spesa si rileva una crescita delle erogazioni complessive lievemente
inferiore a quella prevista, con una ricomposizione delle dinamiche delle sue principali
componenti.
Nell’ambito delle spese correnti si evidenziano minori oneri per il costo del
servizio del debito, che beneficia della riduzione dei tassi di interesse.
Sulla base di queste tendenze l’indebitamento netto si colloca al 2,3 per cento del
PIL, livello in linea con quanto indicato nell’Aggiornamento della Relazione
Previsionale e Programmatica, pur in presenza di un lieve ridimenzionamento della
crescita economica allo 0,8 per cento. L’avanzo primario, riflettendo la minore
incidenza della spesa per interessi, è previsto ridursi al 3 per cento del PIL.
L’ammontare dell’indebitamento atteso, ove si scontino gli effetti del ciclo
economico, risulta coerente con quanto indicato a settembre dello scorso anno. Tenuto
conto, infatti, che le variazioni della crescita del PIL (inferiore nella previsione attuale
di un punto e mezzo) si riflette sul bilancio pubblico in funzione dell’elasticità
dell’indebitamento netto alla crescita pari a 0,45, il maggior deficit determinatosi
nell’anno in corso (dell’ordine di otto decimi di punti percentuali) è imputabile al
peggioramento del ciclo economico.
II.3 L’andamento tendenziale dell’economia italiana nel medio periodo (2004-
2007)
Le previsioni di medio termine per l’economia italiana si basano sullo scenario
internazionale descritto nel capitolo primo: la ripresa dei paesi industrializzati, prevista
per la seconda metà dell’anno in corso, dovrebbe consolidarsi nel 2004, assestandosi,
nel successivo triennio, su un trend non lontano da quello registrato mediamente negli
anni novanta.
Per il nostro paese, le prospettive di crescita sono in linea con la media degli altri
paesi europei: per l’intero periodo della previsione, il tasso di sviluppo dell’economia
italiana tenderebbe a collocarsi intorno al 2 per cento, poco al di sopra di quello
potenziale.
In assenza di nuovi interventi di politica economica, il divario tra output effettivo
e output potenziale si ridurrebbe lentamente, persistendo ancora, seppur in misura
limitata, alla fine del 2007. L’attuazione ancora parziale delle politiche di riforma dei
mercati dei beni e del lavoro, tese a favorire un maggior grado di flessibilità, limita,
infatti, la crescita della produttività totale dei fattori, con conseguenze negative sulla
competitività dell’economia italiana e sulle potenzialità di crescita endogena.
PRODUTTIVITÀ E COMPETITIVITÀ NELL’ECONOMIA ITALIANA:
ASPETTI DISAGGREGATI PER MACRO-REGIONI E MACRO-SETTORI
Nello scorso Documento di Programmazione Economico-Finanziaria (2003-
2006) era stata presentata un’analisi relativa all’andamento della produttività totale
dei fattori produttivi per il periodo 1971-2000 nel settore privato dell’economia italiana
nel suo complesso. Con tale analisi era stata mostrata la correlazione negativa
esistente fra la crescita della TFP (che è diminuita di un punto percentuale nel periodo
considerato) e due indicatori, rispettivamente della competitività nel mercato dei
prodotti (il mark-up) e della rigidità del mercato del lavoro (il NAIRU). La
considerazione di questi aspetti può risultare arricchita da un analogo studio condotto
ad un livello più disaggregato. In particolare, il grado di competitività del mercato dei
prodotti può essere utilmente analizzato operando una disaggregazione settoriale,
mentre le caratteristiche regionali del mercato del lavoro possono fornire un’ulteriore
indicazione per le azioni di riforma strutturale.
L’idea alla base dell’analisi è che la performance economica, e quindi la crescita
potenziale, sarebbero correlate negativamente al grado di rigidità dei mercati. Ne
segue che interventi di riforma volti ad accrescere la flessibilità e la competitività dei
mercati costituiscono il fondamentale impulso alla crescita della produttività del
sistema. La performance economica è misurata mediante il tasso di crescita della
produttività totale dei fattori produttivi, o TFP (Total Factor Productivity), che misura
il divario tra la crescita del prodotto e la crescita degli input utilizzati nella produzione.
Più velocemente cresce tale divario più produttivo è un sistema e quindi maggiore il
suo tasso potenziale di sviluppo economico.
Utilizzando fonti ufficiali, e seguendo la metodologia comunemente impiegata del
cosiddetto “Residuo di Solow”, si sono calcolate la serie del tasso di crescita della TFP
per macro-settori e macro-regioni dell’economia italiana relativamente al periodo
1981-2001. Le serie sono state opportunamente depurate della componente ciclica,
mediante l’applicazione del filtro Hodrick-Prescott, una procedura ampiamente
utilizzata per individuare il profilo tendenz iale di una variabile. Le tabelle 1 e 2
presentano le medie quinquennali dei tassi di crescita della TFP.
Le tabelle presentano diverse indicazioni interessanti. La crescita della
produttività per l’Italia rallenta a partire dai primi anni novanta. Quanto alla
ripartizione territoriale il Nord-Est si conferma come l’area più dinamica della nazione
nell’arco dei vent’anni considerati, seguito da Mezzogiorno e Nord-Ovest, entrambi al
di sopra della media nazionale. Nell’ultimo quinquennio è il Nord-Ovest a registrare il
maggior declino nel tasso di crescita della produttività, dopo aver riportato la migliore
performance nell’ultimo lustro degli anni ottanta. A partire dalla metà di tale periodo il
Mezzogiorno mostra buone potenzialità di sviluppo, secondo la misura qui adottata,
mentre è il Centro la regione in cui la produttività cresce più lentamente nell’arco dei
vent’anni.
A livello settoriale, la crescita della TFP ha caratterizzato i vari comparti
produttivi in maniera alquanto difforme tra loro. Il settore agricolo è contraddistinto da
una crescita media tendenziale di oltre tre punti percentuali, mentre la TFP del settore
industriale è cresciuta all’incirca di un punto percentuale. All’interno di tale settore,
l’industria in senso stretto mostra la migliore performance, mentre scarsa è quella delle
costruzioni, in particolare nei primi anni ottanta e all’inizio dei novanta. Per l’industria
e i servizi la TFP rallenta progressivamente a partire dai primi anni novanta, mentre
per il settore agricolo tale diminuzione avviene a metà dello stesso decennio. La
produttività dei servizi (in cui sono inclusi anche i servizi forniti dalle pubbliche
amministrazioni) cresce in maniera modesta. Per quanto riguarda la relazione tra le
riforme dei mercati e la produttività, è opportuno analizzare la correlazione tra la
crescita della TFP e la competitività del mercato dei prodotti in un quadro di
disaggregazione settoriale, mentre per studiare la correlazione con la rigidità del
mercato del lavoro è più indicata una suddivisione territoriale. Il grado di
disaggregazione operato consente l’impiego di indicatori semplici e tradizionali, non
esenti da critiche, ma nondimeno abbastanza eloquenti.
In questo caso, il tasso di disoccupazione rappresenta una misura dell’efficiente funzionamento del mercato del lavoro. Gli interventi di riforma
per limitare le distorsioni nella struttura dell’occupazione si tradurrebbero, ceteris
paribus, in una riduzione del tasso di disoccupazione e potrebbero dar luogo a effetti
positivi sulla produttività del settore privato dell’economia. Nella tabella 4 invece viene
mostrato per i macro-settori dell’economia italiana il coefficiente di correlazione tra
crescita della produttività e del mark-up, il margine applicato dalle imprese sui costi di
produzione per ottenere il prezzo di vendita dei prodotti. Questo indicatore serve a
valutare le condizioni concorrenziali del mercato dei beni e, indirettamente, il grado di
regolamentazione che ostacola i meccanismi di mercato e la concorrenza. Anche in
questo caso si tratta di una correlazione semplice, calcolata relativamente al periodo
1981-2001. Le politiche di riforma del mercato del lavoro nella direzione di una
maggiore flessibilità e le politiche di liberalizzazione dei mercati dei prodotti
dovrebbero tradursi, a parità di altre condizioni, in una riduzione del tasso di
disoccupazione da un lato, e del mark-up dall’altro, accompagnati ad una più vigorosa
crescita della produttività totale dei fattori. La correlazione tra variazione nella
crescita della TFP e del tasso di disoccupazione che si osserva in tabella 3, negativa
per tre macro-regioni su quattro e per l’Italia nel suo complesso, fornisce supporto alla
tesi espressa. La correlazione è più forte per il Nord-Est, la regione che si potrebbe
ritenere maggiormente portata a beneficiare delle riforme in questione. Analoga è
l’indicazione che proviene dal mercato dei prodotti considerato a livello settoriale, per
lo meno per i comparti di maggiore rilievo ed interesse. Maggiore competitività e
minore regolamentazione indurrebbero un’accelerazione nelle potenzialità di sviluppo
dell’industria in senso stretto e nel settore delle costruzioni. Va tuttavia notato come la
correlazione, pur se del segno atteso, non è quantitativamente molto elevata. La tesi
secondo cui le riforme dell’assetto istituzionale del mercato dei beni e dei servizi
possono indurre effetti positivi sulla produttività del sistema e quindi sulle sue
potenzialità di crescita è da qualche tempo al centro del dibattito economico nazionale
ed europeo. Un esame approfondito è stato condotto ricorrendo alla disaggregazione
sia settoriale che territoriale per verificare se interventi di riforma del mercato del
lavoro da un lato e dei prodotti dall’altro possano concorrere ad accrescere la
performance economica a livello, rispettivamente, locale e settoriale. Pur utilizzando
tecniche semplici di raffronto, è stata documentata l’esistenza di una relazione positiva
tra l’adozione di interventi riformatori nei vari mercati e l’andamento della produttività
nelle macro-regioni e nei macro-settori del sistema economico nazionale.
La conclusione che emerge conferma i risultati di altri studi (OCSE e FMI), in un
contesto di disaggregazione precedentemente non considerato. Il processo delle riforme
di struttura alla ricerca di una maggiore flessibilità lascia intravedere la possibilità di
non trascurabili guadagni di produttività del sistema economico e quindi conseguenze
positive sul suo tasso di crescita.
La crescita nel 2004
Le prospettive di crescita dell’economia italiana indicate per il 2004 sono
perfettamente in linea con quelle formulate dalla Commissione Europea nella primavera
dell’anno in corso. In base a tali stime, coerenti con le ipotesi dei principali organismi
internazionali, lo sviluppo risulterebbe pari all’1,8 per cento, in relazione al
rafforzamento del quadro internazionale ed alla ripresa della domanda interna.
L’andamento sarebbe inferiore a quello prospettato nel DPEF dello scorso anno, quale
conseguenza della debole crescita nel biennio 2002-2003 e delle maggiori difficoltà
della congiuntura internazionale, già analizzate nel capitolo precedente.
La crescita sarebbe trainata esclusivamente dalla domanda interna (1,8 per cento);
le esportazioni nette, dopo aver sottratto più di un punto percentuale allo sviluppo nel
corso degli ultimi due anni, darebbero un contributo negativo per un decimo di punto.
La spesa delle famiglie registrerebbe un aumento vicino al 2 per cento,
riportandosi in linea con l’andamento medio degli anni novanta. I consumi
acquisirebbero slancio dal rinnovato clima di fiducia, dagli incrementi del reddito
disponibile e dal miglioramento del mercato del lavoro.
Gli investimenti fissi lordi, favoriti dal rafforzamento del quadro internazionale e
della domanda interna e dal permanere di favorevoli condizioni di finanziamento,
mostrerebbero una netta accelerazione (da 0,8 a 2,5 per cento), anche grazie alla spinta
derivante dalla ripresa nella seconda parte del 2003.
La maggiore espansione degli scambi internazionali, unitamente al
ridimensionamento degli effetti del forte apprezzamento dell’euro registrato nel 2003, si
tradurrebbe in una ripresa delle esportazioni, dal 2 per cento del 2003 al 6,3 per cento
nel 2004.
EFFETTI DELL’APPREZZAMENTO DELL’EURO SULL’INTERSCAMBIO
COMMERCIALE DELL’ITALIA PER SETTORE E PER AREA
Dai primi mesi del 2002 il rapporto dollaro-euro è andato progressivamente
aumentando (tranne una pausa durante l’estate dello scorso anno), portandosi da un
valore di 0.87 nel febbraio 2002 a 1.15 nel maggio 2003, con una crescita superiore al
20 per cento. Tuttavia l’apprezzamento del tasso di cambio effettivo dell’euro è stato
minore: del 16 per cento per l’area euro e del 9 per cento per l’Italia. Questo perché
nella composizione geografica delle esportazioni italiane sono preponderanti gli
scambi con gli altri paesi dell’UEM. Per quanto riguarda i cambi con le valute
dell’Europa centrale1 (il cui peso, insieme alla Russia, è del 3,8 per cento), il
rafforzamento dell’euro è stato di gran lunga inferiore a quello registrato con il
dollaro; viceversa l’apprezzamento dell’euro è risultato maggiore verso le valute
dell’America Latina (area alla quale è destinato solo il 3 per cento delle esportazioni
italiane).
Confrontando l’evoluzione dei tassi di cambio effettivi di Italia, Francia e Germania, emerge che l’apprezzamento maggiore è stato registrato dall’Italia e quello minore dalla Francia.
Gli effetti sull’economia italiana di un considerevole apprezzamento dell’euro rispetto
alle altre valute internazionali, in particolare relativamente al dollaro, potrebbero essere rilevanti. Un elemento che contribuisce a determinare la forza di tali effetti è costituito dalle aspettative sulla dinamica futura del tasso di cambio. Infatti, per avvalersi pienamente e
senza ritardo della ripresa della domanda nei mercati esteri, gli operatori devono difendere le
proprie quote di mercato, anche a costo di ridurre il prezzo in valuta nazionale dei beni esportati, assorbendo eventuali perdite del cambio. Questo è possibile solo nel caso in cui essi si aspettino che il periodo di moneta forte non sia troppo lungo e che i costi da
sostenere per tale scelta siano minori dei futuri vantaggi di mercato. Nel calcolo dei
costi e dei benefici di un apprezzamento dell’euro, un operatore terrà anche conto
dell’evoluzione favorevole dei prezzi di alcune componenti dei costi di produzione, in
particolare delle materie prime energetiche e degli inputs intermedi importati dall’area
extraeuropea, compensando in parte le perdite nei prezzi unitari delle esportazioni. Un
altro fattore importante riguarda la struttura dei mercati esteri. In condizioni di
concorrenza monopolistica ed oligopolistica i prezzi sui mercati, sia esteri che
nazionali, sono più stabili e le reazioni delle quantità vendute sono minori che in
condizioni di concorrenza perfetta. In conseguenza, i prezzi dei beni in moneta
nazionale venduti all’estero variano in relazione alle oscillazioni dei tassi di cambio;
mentre quelli venduti sul mercato nazionale sarebbero più stabili.
Sulla base di tali considerazioni, si è proceduto a simulare l’effetto di una
rivalutazione dell’euro sulle esportazioni italiane, per settore e per area di sbocco
(tavola 1).2 Per il nostro paese il mercato più importante è quello europeo, che assorbe
circa il 70 per cento delle nostre esportazioni. L’apprezzamento dell’euro incoraggia la
sostituzione delle esportazioni italiane con merci provenienti dai paesi extra-europei.
Tuttavia, la presenza sul mercato dei competitori di origine non europea è limitata:
essa infatti è pari al 30 per cento delle importazioni totali. Sulla base di tali elementi, la
riduzione delle quantità esportate dall’Italia verso l’Europa sarebbe molto contenuta e
pari a circa lo 0,9 per cento. La riduzione maggiore interesserebbe i prodotti petroliferi
(-3,1 per cento), quella minore i settori della chimica e della gomma (-0.3 per cento).
Ben maggiore sarebbe l’impatto del rafforzamento dell’euro sulle esportazioni
italiane destinate all’area extra-europea: circa il 4 per cento. Il risultato complessivo
deriva dalla somma degli effetti di sostituzione tra produzione interna dei Paesi
importatori (collocati all’esterno dell’Europa) ed importazioni provenienti dall’Europa
2 Le principali ipotesi alla base della stima sono le seguenti:
– che l’apprezzamento dell’euro duri un intero anno e sia pari al 10 per cento rispetto a tutte le principali
valute internazionali dell’area extra europea; il valore dell’euro rispetto alle altre valute europee si
mantenga invariato;
– che gli operatori dei diversi settori della nostra economia siano in grado di sopportare temporaneamente
le conseguenze dell’”euro forte” e quindi mutino in misura molto modesta i prezzi in valuta sui mercati
esteri;
– che le elasticità di sostituzione tra esport azioni dei p roduttori nazionali ed esportazioni dei concorrenti
esteri in un dato mercato estero e quelle tra esportazioni complessive e produzione interna dei paesi
importatori siano differenti tra i principali gruppi di beni; che nell’ambito di un settore produttivo esse
siano identiche per tutti i paesi e per tutte le aree considerate e siano pari alle stime ottenute dalle ricerche
econometriche più recenti;
– che i prezzi in euro dei prodotti energetici provenienti dall’area europea si riducano del 10 per cento.
con gli effetti di sostituzione tra esportatori extra-europei ed europei. Le variazioni più
rilevanti riguardano i settori della metallurgia e della meccanica (apparecchi
meccanici, macchinari elettrici e mezzi di trasporto), i cui flussi esportati si riducono
tra il 4 per cento ed il 5 per cento circa. Meno marcati, ma pur sempre significativi,
sarebbero le perdite nei settori tradizionali (tessile, cuoio e calzature e industria del
legno), in cui le esportazioni si riducono di circa il 2,5 per cento.
Sulla base di ipotesi analoghe a quelle adottate per le esportazioni, sono stati
simulati gli effetti di un apprezzamento dell’euro del 10 per cento anche sulle
importazioni dell’Italia.3 I risultati ottenuti mostrano un aumento delle importazioni
totali pari all’1,1 per cento. I settori industriali che risentono maggiormente
dell’apprezzamento dell’euro sono quelli del cuoio, delle calzature, il tessile e quello
della meccanica elettrica. Notevole l’incremento delle materie prime energetiche e non
(pari al 5 per cento).
L’elasticità delle esportazioni al commercio mondiale si attesterebbe su valori
prossimi a quelli storici contraddicendo, almeno nel breve-medio periodo, le ipotesi sul
declino del Paese. Una delle sfide più importanti per le imprese italiane nei prossimi
anni sarà quella di conquistare maggiori quote di mercato nell’economia cinese e di far
fronte alla crescente concorrenza dei prodotti di quel paese, che al momento riguardano
settori tradizionali (in cui l’Italia è specializzata), ma in prospettiva riguarderanno
sempre più settori ad alta tecnologia, ricalcando l’esperienza storica del Giappone.
3 Sono state utilizzate l e el asticità di sostituzione tra beni importati e beni prodotti all’interno del paese.
L’effetto di sostituzione è stato calcolato solo per il flusso delle importazioni settoriali degli impieghi
finali, assumendo immutata la quota importata di beni intermedi.
Anche le importazioni registrerebbero una netta accelerazione, in linea con la
ripresa della domanda: la crescita si avvicinerebbe al 7 per cento (3,7 per cento nel
2003).
Il saldo corrente della bilancia dei pagamenti, in rapporto al PIL, continuerebbe ad
essere negativo (0,4 per cento), pur con un miglioramento rispetto al 2003, riconducibile
alla riduzione del deficit delle partite invisibili, in particolare, per effetto della ripresa
del comparto del turismo; l’avanzo mercantile, in rapporto al PIL, si attesterebbe all’1,2
per cento.
La ripresa delle esportazioni, congiuntamente all’accelerazione degli investimenti,
dovrebbe sostenere la crescita del valore aggiunto (1,9 per cento contro l’1,0 per cento
del 2003), in particolare nell’industria in senso stretto. Anche il comparto dei servizi
privati, trainato dalla ripresa dell’industria e dei consumi, mostrerebbe maggiore
vivacità (2,3 per cento contro l’1,1 per cento del 2003).
In questo contesto, la crescita dell’occupazione tornerebbe ad essere sostenuta,
sfiorando l’1 per cento. L’elasticità tra occupazione e PIL, dopo aver toccato valori
molto elevati nel biennio 2001-2002 (di poco inferiori a 2), si attesterebbe intorno allo
0,5, in linea con il dato medio registrato nella seconda metà degli anni novanta.
Nell’industria in senso stretto, nonostante il recupero dell’attività produttiva, la
ripresa dell’occupazione sarebbe lenta, riflettendo le esigenze competitive delle
imprese, dopo la caduta di produttività subita negli ultimi due anni. Nel settore delle
costruzioni, si registrerebbe un aumento dell’ordine del 2 per cento, in linea con gli
andamenti medi dell’ultimo quinquennio. Il settore dei servizi privati, stimolato dalla
ripresa dei consumi, manifesterebbe una tendenza a tornare verso tassi di crescita più
vicini a quelli registrati mediamente nel passato decennio (1,7 per cento contro 1,4 per
cento nel 2003).
L’accelerazione della dinamica occupazionale, in presenza di un aumento
dell’offerta di lavoro in linea con le tendenze recenti, darebbe luogo a un nuovo
processo di riduzione del tasso di disoccupazione, dall’8,8 per cento del 2003 all’8,5 per
cento nel 2004, valore lievemente inferiore a quello stimato dalla Commissione per
l’area dell’euro.
In virtù della ripresa ciclica della produttività e della moderazione salariale insita
nelle linee guida della politica dei redditi, il costo del lavoro per unità di prodotto
crescerebbe ad un tasso dimezzato rispetto a quello registrato nel 2003 (1,5 contro 3,0
per cento).
A fronte di queste dinamiche, proseguendo la tendenza moderata degli impulsi
inflazionistici esterni, l’aumento dei prezzi al consumo si collocherebbe, in media
d’anno, leggermente al di sotto del 2 per cento.
La crescita nel triennio 2005-2007
Nel medio periodo la crescita del prodotto si attesterebbe al 2,1 per cento,
lievemente al di sopra del 2,0 per cento, a riflesso dell’attenuarsi, dal lato esterno, della
spinta propulsiva del commercio internazionale, e, dal lato interno, degli effetti delle
politiche economiche varate dal Governo nel 2003.
Nel corso del triennio, la domanda interna risulterebbe la determinante principale
della crescita (2,1 per cento). La spesa delle famiglie aumenterebbe mediamente poco
meno del 2,5 per cento, gli investimenti poco più del 2 per cento.
Nel triennio, il contributo delle esportazioni nette risulterebbe nullo: il saldo
corrente della bilancia dei pagamenti mostrerebbe un progressivo miglioramento,
tornando in leggero attivo alla fine del periodo.
La crescita dell’occupazione si attesterebbe intorno all’1 per cento. Il tasso di
disoccupazione scenderebbe nel 2007 all’8,0 per cento.
In assenza di shock esogeni, ipotizzando una sostanziale stabilità dell’euro e in
presenza della decelerazione dei costi unitari del lavoro (indotta dalla maggiore
produttività e dalla moderazione salariale), l’inflazione scenderebbe, alla fine del
triennio, all’1,6 per cento.
II.3.1 Le tendenze economiche territoriali nel 2004-2007
Per il periodo 2004-2007, le previsioni tendenziali scontano, da un punto di vista
quantitativo, non solo spese dei fondi aggiuntivi per le “aree sottoutilizzate” limitate
all’attuazione degli stanziamenti già previsti, ma soprattutto l’assenza di quei
provvedimenti e di quell’azione continua del Cipe che devono assicurare il progressivo
e rapido conseguimento dell’obiettivo di destinare al Sud il 30 per cento delle risorse
ordinarie in conto capitale. È questa infatti la garanzia della effettiva addizionalità dei
fondi comunitari già accordati e programmati.
Da un punto di vista qualitativo, non sono presenti quei provvedimenti che, sulla
base dei risultati fin qui conseguiti, dovranno assicurare, anche con opportune
riprogrammazioni dei fondi e con l’azione di meccanismi premiali e sanzionatori:
efficacia degli investimenti; estensione del rafforzamento istituzionale (specie nelle
Regioni) a quelle aree dove esso tarda a manifestarsi; semplificazioni e miglioramenti
nel sistema di incentivi.
In assenza di questo apporto aggiuntivo delle politiche pubbliche, la dinamica del
Pil tornerebbe, con l’esaurirsi del ciclo internazionale negativo del biennio 2002-03, sul
trend di sviluppo della seconda metà degli anni novanta (attorno a 2 per cento). In
particolare, nel 2004, in presenza di una ripresa economica trainata dalla domanda
estera, la previsione del PIL tendenziale per il Mezzogiorno sarebbe in linea con la
media italiana. Negli anni successivi gli investimenti, finanziati solo con le risorse
incluse nella legislazione vigente continuerebbero a produrre effetti economici, ma a un
ritmo decrescente, attenuando la crescita del PIL.
II.4 Il quadro tendenziale di finanza pubblica 2004-2007
Il quadro tendenziale di finanza pubblica per gli anni 2004-2007 è stato costruito
sulla base della legislazione vigente in relazione all’evoluzione attesa per l’anno 2003.
Per il 2004 e gli anni successivi esso è del tutto coerente con le previsioni della
Commissione.
Le singole categorie di spesa e di entrata sono state stimate sulla base delle
seguenti ipotesi:
!” le retribuzioni pubbliche sono state valutate incorporando gli effetti correlati alla
concessione dell’indennità di vacanza contrattuale, secondo l’attuale cadenza
biennale prevista;
!” il numero dei dipendenti del complesso delle Amministrazioni pubbliche è
ipotizzato sostanzialmente invariato per l’intero periodo previsionale;
!” la spesa per consumi intermedi, comprensiva di quella per la sanità, è stata stimata
ad un tasso di crescita sostanzialmente pari a quella del PIL nominale, con una
elasticità implicita pari a circa 1 nella media del periodo;
!” la spesa sanitaria è stata valutata sulla base di un tasso di crescita medio nel periodo
del 3,7 per cento, che tiene conto dell’evoluzione più recente nonché degli effetti
finanziari correlati alle misure finalizzate al contenimento della spesa per il
personale, acquisti beni e servizi, ospedaliera e farmaceutica adottate sulla base
degli elementi emersi in sede del Tavolo tecnico di verifica degli adempimenti
regionali e di monitoraggio della spesa;
!” la spesa per pensioni è stata stimata sulla base di un tasso di variazione medio nel
periodo pari al 3,7 per cento, correlato al numero di pensioni di nuova liquidazione,
ai tassi di cessazione stimati e alle regole in vigore di rivalutazione delle pensioni in
base all’inflazione;
!” la spesa per interessi è stata valutata tenendo conto del maggior fabbisogno
finanziario dell’anno in corso ed utilizzando i tassi forward rilevati dalla struttura
per scadenze dei tassi di mercato;
!” la spesa in conto capitale, esclusi i proventi derivanti dalle dismissioni del
patrimonio immobiliare contabilizzati come disinvestimenti, è stata stimata in
relazione alle nuove autorizzazioni determinate dalle precedenti finanziarie, al loro
stato di attuazione e all’entità dei residui. La dinamica della spesa esclude gli
interventi di competenza dell’ANAS S.p.A., assunta come impresa esterna al
comparto delle Amministrazioni pubbliche, in virtù del piano d’impresa, della
struttura costi-ricavi, dei profili di rischio imprenditoriale;
!” per le aziende di servizio pubblico, Poste Italiane e F.S. si è proiettato un
consolidamento della loro situazione economica, con un utile destinato interamente
all’autofinanziamento;
!” per le entrate tributarie il gettito è stato stimato scontando da un lato il venir meno
degli incassi relativi a misure una tantum, fatta salva la seconda rata relativa alle
sanatorie fiscali prevista per il 2004, dall’altro l’effetto della minor crescita
dell’anno in corso sulla determinazione dell’autoliquidazione del 2004. La pressione
fiscale, per effetto del venir meno del gettito correlato alle misure straordinarie
adottate negli anni precedenti, è prevista ridursi, nel 2004, di circa un punto
percentuale e mantenere, nel successivo triennio, un trend discendente;
!” per i contributi sociali è stata valutata una crescita con una elasticità media nel
periodo dello 0,9 rispetto al PIL, sostanzialmente in linea con i valori storici.
Il profilo delle stime sugli andamenti delle entrate e delle spese delle
Amministrazioni pubbliche nel quadriennio 2004-2007 (riportate nella tavola seguente)
evidenzia il permanere di un rapporto tendenziale deficit/PIL ancora su valori elevati,
anche per il venir meno delle misure una tantum (per definizione escluse dal quadro
tendenziale). L’indebitamento netto tendenziale in rapporto al PIL passa dal 3,1 per
cento del 2004 al 2,4 per cento del 2007.
In tale contesto, la dinamica tendenziale del rapporto debito/PIL risulterebbe non
soddisfacente. Ma questa, appunto, è la tendenza da correggere con obiettivi di sviluppo
e nel quadro del Patto di Stabilità e Crescita.
III – GLI OBIETTIVI PROGRAMMATICI PER IL 2004 E IL MEDIO PERIODO
III.1 L’espansione del ciclo vitale e l’equilibrio tra risorse e spesa sociale
Negli ultimi decenni sono notevolmente aumentate le aspettative di vita degli
italiani e la domanda di servizi. Anche le necessità di istruzione e di socializzazione
sono cresciute, richiedendo il potenziamento dei programmi didattici e dei servizi di
assistenza alle famiglie. Questi cambiamenti non hanno ancora trovato piena
corrispondenza in alcuni fondamentali istituti economici, quali il sistema pensionistico e
assistenziale, il mercato del lavoro e il sistema scolastico, creando crescenti squilibri
nelle finanze pubbliche e frenando lo sviluppo dell’economia. In assenza di interventi
strutturali che assicurino un migliore equilibrio tra le risorse disponibili e quelle
necessarie per il soddisfacimento di adeguati servizi sociali e in presenza di tendenze
demografiche negative – secondo le previsioni ISTAT – tali problemi sarebbero
destinati ad aggravarsi nei prossimi anni.
Crescono i bisogni di socializzazione e di istruzione
L’integrazione dei bambini nella società avviene in un’età sempre più precoce,
così come aumentano le esigenze di istruzione e di formazione professionale. Un
moderno sistema scolastico richiede programmi didattici più ricchi ed approfonditi.
Queste esigenze sono state recepite dalla recente riforma della scuola proposta dal
governo che, tra i suoi obiettivi, ha anche quello di garantire la possibilità di
raggiungere livelli di istruzione più elevati e incrementare la partecipazione ad iniziative
di “life-long learning”. Si intende adeguare il sistema educativo nazionale alle necessità
di un’economia sempre più basata sulla conoscenza, così come indicato dalla
“Dichiarazione di Lisbona” del 2000 e più recentemente del documento sottoscritto il
19 giungo scorso dai sindacati e Confindustria “Accordo per lo sviluppo, l’occupazione
e la competitività del sistema economico nazionale”.
La riforma della scuola, nelle sue linee di fondo, prevede, infatti, l’aumento degli
anni di formazione universitaria con l’introduzione del biennio di specializzazione,
riducendo, parallelamente, l’età minima richiesta per poter frequentare la scuola
materna. Nel soddisfare la maggiore richiesta di servizi educativi per l’infanzia, si
intende anche facilitare l’accesso delle donne al mercato del lavoro, considerando che il
tasso di partecipazione femminile italiano è uno dei più bassi in Europa e che il suo
incremento costituisce un obiettivo prioritario delle politiche del lavoro e delle pari
opportunità. Le carenze attuali si riscontrano prevalentemente nella fase della prima
infanzia. Infatti, mentre i servizi per i bambini dai tre ai cinque anni coprono la quasi
totalità della domanda, quelli relativi alla prima infanzia, sia pubblici che privati,
risultano insufficienti in quanto disponibili soltanto per un quinto della popolazione
interessata. Questi limiti costituiscono un notevole onere a carico delle famiglie e
scoraggiano la partecipazione femminile al lavoro. Il Libro Bianco sul Welfare,
presentato dal Governo lo scorso febbraio, contiene numerose proposte a sostegno della
natalità e, più in generale, della famiglia.
La terza età richiede crescenti risorse finanziarie
Nello spazio di due generazioni, la durata media della vita si è allungata di dieci
anni. I progressi della medicina fanno prevedere un ulteriore consistente prolungamento
della vita per le prossime generazioni. L’allungamento delle aspettative di vita comporta
non solo maggiori erogazioni per le pensioni, ma anche la necessità di destinare una
quantità crescente di risorse ai servizi sanitari e assistenziali alla terza età. Il livello della
spesa sociale in Italia è tra i più alti in Europa; il 63 per cento è destinato agli anziani,
rispetto al 44 per cento della Francia e al 42 per cento della Germania. Negli ultimi
cinque anni, le cure sanitarie per le persone con oltre 65 anni sono cresciute di circa il
30 per cento e quelle per servizi di assistenza sono più che raddoppiate.
La riduzione del tasso di crescita dell’economia e della produttività, verificatasi
nell’ultimo decennio rende più difficile reperire le risorse necessarie a finanziare servizi
sociali sempre più qualificati e onerosi.
La necessità delle riforme
Al fine di assicurare un giusto equilibrio delle finanze pubbliche ed evitare che la
pressione fiscale soffochi l’economia ed imponga un eccessivo onere alle generazioni
future, è necessario perseguire con vigore il cammino delle riforme nei settori
dell’istruzione, del lavoro e delle pensioni.
La riforma dell’istruzione ed i provvedimenti a favore della ricerca e
dell’innovazione riflettono la strategia adottata dal Consiglio Europeo di Lisbona per
creare entro il 2010 “la più competitiva e dinamica economia del mondo basata sulla
conoscenza”.
Le riforme del mercato del lavoro attuate negli ultimi anni hanno introdotto
maggiore flessibilità, producendo risultati molto positivi sull’occupazione e sul tasso di
partecipazione, particolarmente su quello femminile.
Le misure già adottate e quelle in via di definizione per il sistema pensionistico
hanno lo scopo di assicurarne l’equilibrio finanziario nel lungo periodo, adeguando le
erogazioni ai contributi, integrando la previdenza pubblica con altre forme di risparmio
ed allungando, su base volontaria, la permanenza al lavoro.
Nell’ambito di questo insieme di misure, le istituzioni sociali e dell’economia
vengono adeguate agli attuali profili demografici e del ciclo di vita, rispondendo alle
nuove esigenze.
III.2 Il rilancio del sistema delle piccole imprese
Negli ultimi decenni lo sviluppo dell’economia italiana è stato favorito in maniera
determinante da un sistema produttivo basato su un elevato numero di piccole imprese.
Il 45 per cento delle imprese italiane è composto da meno di 9 addetti, il 57 per cento da
meno di 20. La dimensione media risulta pari a 3,6 addetti, uno dei valori più bassi in
Europa.
Le micro imprese producono circa il 30 per cento del fatturato ed il 32 per cento
del valore aggiunto complessivo, impiegando oltre il 20 per cento dei lavoratori
dipendenti e il 60 per cento dei lavoratori autonomi e dedicandosi, prevalentemente, alla
produzione di beni tradizionali. Questa specializzazione caratterizza anche le imprese di
nuova costituzione. Nel 2001, solo il 2 per cento di queste ultime operavano nel settore
dell’informatica.
Il sistema delle piccole imprese rappresenta tuttora una risorsa preziosa per lo
sviluppo dell’economia italiana. Tuttavia i vantaggi comparati, che ne avevano nel
passato decretato il successo, sembrano attenuarsi progressivamente. Le difficoltà
derivano, più che dalla ridotta dimensione dell’impresa, da una specializzazione
concentrata in settori tradizionali, sempre più esposti alla concorrenza di paesi
emergenti che, oltre a vantare costi di produzione molto più bassi, sono meno vincolati
da fattori ambientali, sociali e normativi.
III.2.1 L’innovazione tecnologica
La sfida che il sistema delle piccole imprese italiane deve affrontare è quella di
spostare la propria attività verso comparti a più alta tecnologia di prodotto e di processo,
adottando moderne tecnologie produttive e gestionali. Ciò comporta l’acquisizione di
know-how specializzati ed una profonda trasformazione manageriale. Si tratta di un
passaggio estremamente delicato, considerando che molte aziende italiane hanno una
conduzione prettamente familiare. D’altra parte, le ridotte dimensioni dell’impresa non
rappresentano un limite invalicabile per effettuare il “salto tecnologico”. Mentre la
ricerca di base richiede, effettivamente, grandi risorse, comporta tempi lunghi ed elevati
rischi commerciali che soltanto grandi aziende possono permettersi, molte innovazioni
tecnologiche possono essere reperite attraverso accordi di licenza, joint-venture o
semplice imitazione.
A tale scopo, opportuni meccanismi di trasferimento dell’innovazione alle
imprese permetteranno di sfruttare e riprodurre modelli di imprenditoria nei settori
avanzati già sperimentati con successo all’estero. Anche le potenzialità rappresentate
dalla comunità degli Italiani all’estero potrebbero essere valorizzate per facilitare il
trasferimento di know-how tecnologico.
Oltre a riposizionarsi verso settori e processi ad alta tecnologia, le aziende italiane
devono accrescere la loro competitività attraverso la modernizzazione delle attività
produttive e gestionali. Anche sotto questo aspetto vi sono molti ritardi da colmare. Il
grado di informatizzazione delle aziende italiane è notevolmente più basso che in altri
paesi europei; per esempio, nel 2001 solo il 66 per cento delle imprese italiane aveva un
accesso alla rete informatica, rispetto all’83 per cento delle aziende tedesche.
È necessario non solo incrementare il grado di conoscenza tecnologica, ma
promuoverne la diffusione tra le aziende, agevolando anche la collaborazione con gli
istituti di ricerca per assicurare una maggiore diffusione del progresso tecnologico;
l’incremento degli investimenti dall’estero faciliterà questo processo.
Questi obiettivi strategici sono in linea con gli orientamenti del documento
“Accordo per lo sviluppo, l’occupazione e la competitività del sistema economico
nazionale”, secondo il quale si dovrebbe definire una politica di medio-lungo periodo
della Ricerca e Innovazione che, attraverso un giusto equilibrio tra ricerca fondamentale
e ricerca applicata, assicuri al nostro paese un’autonoma capacità di innovazione
derivante dalle nuove conoscenze scientifiche.
III.2.2 Il potenziamento delle infrastrutture
La competitività di un’impresa dipende non solo dalla sua efficienza interna ma
anche, e in misura crescente, da quella del contesto in cui opera. Uno dei vincoli
principali allo sviluppo delle imprese italiane è la carenza di infrastrutture, come
evidenziato dal sopra citato documento sottoscritto dai sindacati e Confindustria.
L’Italia accusa un notevole ritardo rispetto agli altri paesi europei in materia di
trasporti e sistema logistici; un ritardo che, in parte, è frutto del ridimensionamento delle
spese pubbliche per infrastrutture avvenuto nella seconda metà degli anni novanta. Nel
quinquennio 1996-2000 le spese pubbliche in conto capitale rappresentavano il 2,3 per
cento del PIL, rispetto al 2,7 per cento del quinquennio precedente. L’inversione di
tendenza è avvenuta soltanto nel 2001, quando tale rapporto è salito al 2,5 per cento, in
linea con la media europea. In Italia, sono disponibili 88 chilometri di autostrada per
veicolo circolante e 67 chilometri di ferrovia per abitante, rispetto ai 120 chilometri di
autostrade per veicolo circolante della Francia e ai 130 chilometri di ferrovie per
abitante. Anche per quanto riguarda la logistica, si rilevano gravi inefficienze, rispetto ai
nostri principali partner europei.
La carenza dei trasporti costituisce un freno all’espansione delle regioni più
industrializzate e un impedimento allo sviluppo di quelle meno avanzate, in particolare
nel Mezzogiorno. Inoltre, l’inadeguatezza delle infrastrutture spinge le imprese italiane
alla de-localizzazione all’estero.
Il Governo riconoscendo l’importanza strategica di questo aspetto per il rilancio
dell’economia italiana ed europea, affianca al proprio piano per gli investimenti nelle
Grandi Opere una proposta per lo sviluppo delle reti europee (si veda cap III.5).
III.3 Il quadro macroeconomico programmatico 2004-2007
Tenuto conto dei problemi strutturali e degli stringenti vincoli di bilancio che
condizionano fortemente la crescita dell’economia italiana, il quadro programmatico ivi
descritto è improntato alla cautela.
L’obiettivo del Governo è quello di innalzare il potenziale di sviluppo, attraverso
le riforme strutturali e il sostegno agli investimenti, in un contesto di equilibrio
finanziario. Gli effetti delle riforme si esplicheranno gradualmente nei prossimi anni;
nel breve periodo il risanamento dei conti pubblici prevarrà sull’azione di stimolo
all’economia. Per attenuare l’impatto della manovra finanziaria, la strategia del
Governo prevede una sostituzione progressiva dei provvedimenti a carattere
straordinario varati nel 2003 con misure a carattere permanente. Pertanto, nello scenario
programmatico, la crescita del PIL prevista per il biennio 2004-05 sarà solo lievemente
superiore a quella delineata nel quadro tendenziale. Il divario aumenterà
progressivamente negli anni successivi, raggiungendo lo 0,5 per cento nel 2007, quando
il tasso di sviluppo toccherà il 2,6 per cento (contro il 2,1 per cento del tendenziale).
Gli interventi programmati dal Governo sono volti a incrementare il tasso di
occupazione, la dotazione infrastrutturale, il livello di produttività totale dei fattori,
elevando la competitività e, quindi, la crescita potenziale del paese. L’insieme delle
politiche e delle riforme che il Governo ritiene di perseguire viene descritto in dettaglio
nel volume secondo.
Grazie a queste misure, rispetto ad una crescita tendenziale dell’1,8 per cento, il
PIL programmatico è atteso crescere al tasso del 2 per cento nel 2004, con una
accelerazione progressiva nell’arco del triennio successivo.
In questo quadro, la crescita viene sostenuta dalla domanda nazionale, al cui
interno ci si attende un fondamentale contributo dagli investimenti, che beneficeranno
delle politiche varate dal Governo. Il settore estero, per tutto il periodo, non è previsto
dare un apporto sostanziale alla crescita del PIL.
I consumi delle famiglie sono previsti aumentare dell’1,8 per cento nel 2004
(rispetto ad una crescita tendenziale dell’1,9 per cento). Negli anni seguenti, la spesa
tenderebbe ad allinearsi a quella prevista nello scenario tendenziale.
I maggiori benefici della rigorosa politica fiscale andranno al comparto degli
investimenti, il cui tasso di crescita dovrebbe accelerare al 4,2 per cento nel 2004, circa
due punti percentuali in più rispetto al tendenziale, e raggiungere il 5,2 per cento nel
2007. Le spese in conto capitale sarebbero stimolate dal basso livello dei tassi di
interesse, oltre che dall’avvio delle opere infrastrutturali e dall’accelerazione degli
investimenti pubblici nel Mezzogiorno.
Particolare dinamismo caratterizzerebbe il comparto degli investimenti in beni
strumentali, il cui tasso di crescita è previsto attestarsi al 4,7 per cento nel 2004, per
sfiorare il 6 per cento alla fine del periodo di previsione. Al contempo, quello delle
costruzioni raggiungerebbe un valore vicino al 4 per cento.
Nel medio periodo, l’aumentato grado di competitività dell’economia italiana
consentirà una maggiore crescita delle esportazioni rispetto al quadro tendenziale.
Il deficit corrente della bilancia dei pagamenti (pari allo 0,5 per cento del PIL nel
2004) andrà progressivamente annullandosi nel corso del periodo di previsione.
Dal lato dell’offerta, il valore aggiunto è previsto crescere del 2 per cento nel
2004, attestandosi su valori di poco superiori al 2,5 per cento nel triennio successivo. Il
settore dell’industria darà un forte impulso alla crescita, registrando tassi dell’ordine del
3 per cento nella media del periodo. In particolare, il settore delle costruzioni beneficerà
dell’avvio delle opere di infrastruttura. All’interno del settore dei servizi, lo sviluppo
sarà trainato quasi esclusivamente dal settore privato, mentre quello pubblico risentirà
della gestione più rigorosa della spesa corrente della P.A.
L’occupazione aumenterebbe dello 0,8 per cento nel 2004, riflettendo gli effetti,
da un lato, della riforma del mercato del lavoro volta a incrementarne efficienza e
flessibilità, dall’altro, delle politiche di contenimento dell’occupazione nel pubblico
impiego; nel periodo 2005-2007 la crescita media si attesterebbe al di sopra dell’1 per
cento. Il tasso di disoccupazione si ridurrebbe progressivamente attestandosi, nel 2007,
al 7,5 per cento; nello stesso anno, il tasso di occupazione si collocherebbe intorno al 60
per cento, prossimo al target fissato per l’Italia (61,3 per cento entro il 2010).
Nonostante la crescita del PIL risulti superiore a quella indicata nel quadro
tendenziale, le pressioni inflazionistiche dovrebbero attenuarsi durante tutto il periodo
della previsione per effetto dell’accresciuta produttività, con conseguenze positive sul
potere d’acquisto dei lavoratori.
In un contesto di moderazione dei prezzi internazionali, quale quella descritto nel
capitolo internazionale, i tassi programmati di inflazione risultano pari all’1,7 per cento
nel 2004, 1,5 per cento nel 2005, 1,4 per cento nel biennio 2006-2007.