Lavoro e Previdenza

Monday 22 December 2003

Il datore è tenuto a risarcire il danno da usura degli abiti da lavoro se i lavoratori devono usare i propri vestiti e il datore non fornisce quelli di ordinanza. Cassazione “””” Sezione lavoro “””” sentenza 9 giugno-20 novembre 2003, n. 17639

Il datore è tenuto a risarcire il danno da usura degli abiti da lavoro se i lavoratori devono usare i propri vestiti e il datore non fornisce quelli di ordinanza

Cassazione – Sezione lavoro – sentenza 9 giugno-20 novembre 2003, n. 17639

Presidente Mattone – relatore Cataldi

Pm Frazzini – difforme – ricorrente Bambino ed altri

controricorrente Azienda Trasporti Automobilistici di Foggia

Svolgimento del processo

Con ricorso al Pretore di Foggia il sig. Pompeo Bambino e gli altri ricorrenti indicati in epigrafe, tutti dipendenti dell’Azienda Trasporti Automobilistici di Foggia, premesso che l’azienda, negli anni dal 1985 al 1993 aveva omesso di fornire il vestiario obbligatorio uniforme, chiedevano la condanna dell’azienda al pagamento in favore di ciascuno di essi della somma di £.1. 800.000 a titolo di risarcimento dei danni per l’usura cagionata durante il lavoro al proprio vestiario personale.

Interrotto il giudizio, lo stesso veniva riassunto nei confronti della Regione Puglia che si dichiarava succeduta all’Ataf per l’effetto dell’articolo 3 della legge regionale 37/1995.

Il Pretore rigettava la domanda.

Avverso la decisione di primo grado i lavoratori proponevano appello al Tribunale di Foggia che lo rigettava rilevando che dalla interpretazione dell’articolo 50 del Ccnl autoferrotranviari del 1976 derivava un obbligo a carico di entrambe le parti rispettivamente di fornire (per l’azienda) e di indossare (per gli agenti) determinati indumenti il cui costo andava ripartito tra le stesse parti; che il bilanciamento della spesa era in funzione dell’interesse dell’azienda alla tutela dell’immagine e della riconoscibilità dei propri dipendenti e dell’interesse dei lavoratori ad evitare l’usura del proprio abbigliamento; che il vestiario, per la parte proporzionale che l’azienda era tenuta a corrispondere nei limiti del proprio interesse, abilitava i lavoratori ad agire per ottenere il risarcimento dei danni in caso di mancata fornitura per i£ pregiudizio corrispondente all’usura dei propri abiti per ragioni di lavoro; che, riconosciuta l’esistenza in capo al datore di lavoro dell’obbligo di fornire il vestiario uniforme ed ammesso, da parte dell’azienda, l’inadempimento dell’obbligo della dotazione annuale (con conseguente ininfluenza del giuramento decisorio deferito dagli appellanti ai vertici dell’Ataf), tuttavia la domanda dei lavoratori non poteva trovare accoglimento per non avere costoro provato di avere subito, in concreto un danno effettivo. Il Tribunale giustificava tale conclusione rilevando che le parti collettive, nell’addossare una parte del costo dei capi di vestiario a carico del lavoratore, avevano convenzionalmente valutato il valore economico attribuibile alla normale usura dell’abbigliamento affrontata dal dipendente in mancanza della fornitura pattuita, sicché, solo ove fosse stato provato che tale limite era stato in concreto superato, il lavoratore avrebbe potuto lamentare un danno risarcibile.

Per la cassazione della sentenza impugnata i lavoratori propongono ricorso formulandolo in due motivi.

La Regione Puglia ‑ Gestione Stralcio e l’Ataf resistono con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione dell’articolo 360 n. 3 Cpc in relazione all’articolo 233 Cpc, nonché articolo  437, 2° comma, Cpc, violazione dell’articolo 360 n. 5 Cpc i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per avere il Tribunale presunto arbitrariamente che il costo del vestiario uniforme fosse a carico, in percentuali diverse, dell’azienda e dei lavoratori senza valutare che sia in primo che in secondo grado i ricorrenti avevano chiesto di provare che l’Ataf aveva sempre assunto a totale proprio carico l’intero costo della massa vestiaria ed avevano richiesto giuramento decisorio su questo ed altri punti decisivi.

Col secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione dell’articolo 360 n. 3 Cpc in relazione:

a) all’articolo 2 del Reg. All. A al regio decreto 148/31, norma applicabile anche agli agenti adibiti ai servizi automobilistici extraurbani ai sensi della legge 1058/60;

b) all’articolo  50 lettera c) del Testo unico 23 luglio 1976 articolo 1362 e segg. Cc;

c) violazione dell’articolo 360 n. 5 Cpc, deducendo che i ricorrenti, in base al citato articolo 2 regio decreto 148/31,avevano l’obbligo di indossare il vestiario uniforme, mentre l’articolo 50 del Testo unico del 1976 stabiliva quale fosse il vestiario uniforme obbligatorio, sicché non avendo l’Ataf ottemperato l’obbligo di fornire la divisa ai dipendenti questi ultimi avevano diritto ad una corresponsione patrimoniale con riguardo alla usura dei propri abiti.

I due motivi, che vengono esaminati congiuntamente in quanto tra loro connessi sono fondati.

I ricorrenti, come è stato consentito verificare in base alla natura della censura proposta, nel ricorso introduttivo della causa in primo grado hanno dedotto che l’articolo 50 del Ccnl 23 luglio 1976 stabiliva l’obbligo degli agenti addetti al movimento di indossare la divisa uniforme; hanno quindi specificato che, sebbene la normativa collettiva prevedesse che il costo del vestiario venisse ripartito in misura del 70% a carico dell’Azienda e del 30% a carico del personale, L’Ataf G.P.A. aveva sempre assunto a proprio carico l’intero costo della massa vestiaria che peraltro in alcuni anni non era stata fornita; chiedevano, di conseguenza, il risarcimento del pregiudizio economico, derivante dalla mancata fornitura del vestiario, patito dai lavoratori a causa dell’usura dei propri abiti indicato in £. 300.000 annue o nella somma che il giudicante avesse ritenuta equa; nell’atto di appello ribadiscono che l’Ataf aveva sempre assunto a totale suo carico l’intero costo della massa vestiaria, deducendo che la domanda risarcitoria riguardava il pregiudizio economico da essi patito a causa dell’usura dei loro abiti a seguito dell’inadempimento dell’obbligo dell’azienda di fornire la divisa uniforme.

Il Tribunale nella sua motivazione ha ignorato del tutto quanto sostenuto dai ricorrenti circa l’assunzione da parte dell’azienda delle spese relative al vestiario di ordinanza, decidendo la causa sulla base delle sole norme collettive, senza fare alcun cenno alla verifica di quanto dedotto dai lavoratori che, se provato, avrebbe potuto, eventualmente, costituire condizioni di miglior favore rispetto alla normativa contrattuale esaminata dal Tribunale ed essere decisivo ai fini della soluzione della controversia: anche l’ammissibilità delle prove richieste naturalmente, doveva essere valutata alla luce della diversa prospettazione del tutto ignorata dal Tribunale. Tale diversa prospettazione dei fatti posti a base della domanda si riverbera anche sulla commisurazione di eventuali danni. La giurisprudenza ha ritenuto (v, tra le tante: Cassazione 8 aprile 4100/95; 3498/95; 7336/94), come viene ricordato anche nella sentenza impugnata, che la lettera c) dell’articolo 50 del contratto collettivo, nel gravare il lavoratore di una parte del costo dei capi di vestiario, aveva determinato in modo convenzionale il valore economico che doveva essere attribuito alla normale usura dell’abbigliamento utilizzato dal dipendente in mancanza della pattuita fornitura, con la conseguenza che ì lavoratori avrebbero potuto lamentare un danno risarcibile solamente ove avessero dimostrato che il danno superava il suddetto valore; queste ultime conclusioni non si conciliano con l’ipotesi che l’azienda abbia assunto per intero l’onere del costo della divisa e non vi sia dunque alcuna spesa a carico del lavoratore, mentre nulla osta che la determinazione convenzionale del valore economico da attribuirsi all’usura, adottato dalle parti collettive, possa venire utilizzato ai fini di una eventuale valutazione equitativa dei danni, richiesta dai ricorrenti.

Le evidenti omissioni di motivazione rilevate nella decisione del giudice dell’appello e l’incongruità della stessa rispetto alle allegazioni dei lavoratori inducono all’accoglimento del ricorso con conseguente cassazione della sentenza impugnata.

La causa viene rinviata per nuovo esame ad altro giudice individuato nella Corte di appello di Bari, che provvederà anche a regolare le spese del giudizio di cassazione.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per il regolamento delle spese del giudizio di Cassazione alla Corte di appello di Bari.