Lavoro e Previdenza

Wednesday 22 June 2005

Il datore di lavoro non può unilateralmente modificare l’ orario di lavoro.

Il datore di lavoro non può unilateralmente modificare lorario di lavoro.

CASSAZIONE CIVILE, Sezione Lavoro, Sentenza n. 7453 del 12/04/2005

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERCURIO Ettore – Presidente

Dott. DE LUCA Michele – rel. Consigliere

Dott. VIGOLO Luciano – Consigliere

Dott. MAZZARELLA Giovanni – Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

CENTRO CLINICO COLLE CESARANO S.P.A., in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA ANAPO 29, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO GIZZI, rappresentato e difeso dagli avvocati BARTOLINI CARLO, GIANNINO INNOCENTI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

DELOGU GIOVANNA MARIA;

– intimata –

e sul 2^ ricorso n. 23046/02 proposto da:

DELOGO GIOVANNA MARIA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA GIUSEPPE FERRARI 2, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO ANTONINI, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

e contro

CENTRO CLINICO COLLE CESARANO S.P.A., in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA ANAPO 29, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO GIZZI, rappresentato e difeso dagli avvocati CARLO BARTOLINI, GIANNINO INNOCENTI, giusta delega in atti;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 1523/02 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 11/06/02 R.G.N. 3540/00;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/01/05 dal Consigliere Dott. Michele DE LUCA;

udito l’Avvocato ANTONINI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi,

Svolgimento del processo

Con la sentenza ora denunciata, la Corte d’appello di Roma – in riforma della sentenza del Pretore della stessa sede in data 2 marzo 2000, appellata dal Centro clinico Colle Cesarano s.p.a. – rigettava la domanda proposta da Giovanna Maria Delogu contro la stessa societa, della quale era stata dipendente “con qualifica di assistente e mansioni internistiche-cardiologiche” – per ottenere l’inquadramento nella superiore qualifica di aiuto e pronunce consequenziali – mentre confermava la sentenza appellata – nella parte in cui aveva dichiarato illegittimo, con ogni conseguenza, il licenziamento intimato alla Delogu dalla societa datrice di lavoro – essenzialmente in base ai rilievi seguenti:

– “il medico aiuto, alla stregua del regolamento sanitario interno (…), collabora direttamente col primario nell’espletamento dei compiti a questo attribuiti, ha la responsabilita degli ammalati affidatigli e risponde del suo operato al primario, che sostituisce in caso di assenza o impedimento e nei casi di urgenza”;

– stando alla sua stessa “prospettazione ” – confermata dalle prove testimoniali – la Delogu “lavorava in assoluta autonomia, in quanto era l’unico medico dipendente del servizio di medicina interna di tutti e tre reparti neuropsichiatrici (…)”, effettuando, “oltre a diagnosi e terapie internistiche, (…) tutti gli interventi ritenuti necessari o sollecitati dal personale medico-psichiatrico, occupandosi (…) soltanto di tutte le problematiche internistiche – “nel caso in esame, manca – pacificamente – quel rapporto di collaborazione diretta tra primario ed aiuto, poiche la Delogu, secondo la sua stessa tesi, agiva in autonomia – beninteso nell’ambito delle sue mansioni, che sicuramente non erano di collaborazione (o a livello) col primario – ed era direttamente responsabile delle sue iniziative”;

– “manca, altresi, l’affidamento degli ammalati, i quali erano affidati ai reparti psichiatrici e che venivano seguiti dalla Delogu solo per quanto riguarda gli ulteriori accertamenti di carattere medico”;

– va confermata, invece, al declaratoria di illegittimita dell’impugnato licenziamento;

– “infatti e pacifico che la Delogu, per ben diciassette anni, non svolse i turni di guardia ed osservo il medesimo orario e le medesime mansioni, (mentre), peraltro, i turni di guardia venivano svolti solo dal personale, che aveva specifica competenza in ordine alle malattie di carattere psichiatrico, perle quali in genere avvenivano i ricoveri presso la casa di cure appellante”;

– “la decisione della Casa di cura – dopo ben diciassette anni, nei quali il rapporto aveva trovato una stabile e consensuale strutturazione – di mutare l’orario di lavoro, senza neppure indicare in che giorni e in che orari la Delogu avrebbe dovuto recuperare le ore supplementari svolte nei giorni di guardia, costituisce in effetti una unilaterale mutazione delle condizioni essenziali del contratto, impossibile senza il consenso del lavoratore”;

– “non avendo la Delogu mai svolto turni di guardia (peraltro notoriamente incompatibili con la sua attivita presso la USL, ben conosciuta dalla datrice di lavoro), essendo i detti turni, per il tipo di attivita richiesta, del tutto estranei alle mansioni svolte da sempre per la societa appellante, la decisione datoriale (…) appare come una violazione dei principi di correttezza e buona fede e, conseguentemente, la decisione della Delogu di non rispettare l’unilaterale decisione di controparte non e – di certo – sanzionabile con l’espulsione dal posto di lavoro”;

– inoltre “la Delogu non ha, in nessun modo, messo in essere comportamenti di insubordinazione o rifiuto della disciplina aziendale, posto che la Casa di cura non ha mai neppure comunicato il nuovo orario di lavoro nel rispetto dei limiti di orario contrattuale”;

– peraltro i compensi, per il lavoro prestato presso la USL, non vanno detratti – quale aliunde perceptum – dal risarcimento del danno da licenziamento illegittimo – spettante alla Delogu – in quanto quel lavoro ed i relativi compensi e stato, da sempre, cumulato con il lavoro, in favore della Casa di cura, e con le retribuzioni relative, alle quali va commisurato il risarcimento.

Avverso la sentenza d’appello, il Centro clinico Colle Cesarano s.p.a. propone ricorso per Cassazione affidato a due motivi.

L’intimata Giovanna Maria Delogu resiste con controricorso e propone, contestualmente, ricorso incidentale – affidato ad un motivo – al quale resiste, con controricorso, il ricorrente principale.

Motivi della decisione

1. Preliminarmente, va disposta la riunione del ricorso incidentale a quello principale, perche proposti separatamente contro la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.).

2.1. Con il primo motivo del ricorso principale – denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 41 cost., 2103 c.c., 3 legge 15 luglio 1966, n. 604), nonche vizio di motivazione (art. 360, n. 3 e 5, c.p.c.) – il Centro clinico Colle Cesarano s.p.a. censura la sentenza impugnata – per avere “ritenuto legittimo il rifiuto operato dalla dottoressa Delogu di prestare la sua attivita secondo i turni predisposti dalla Casa di cura Centro clinico Colle Cesarano e, per converso, illegittimo il licenziamento adottato dal datore di lavoro in conseguenza dello specifico inadempimento contestato al lavoratore” – sotto profili diversi:

– “la Corte d’appello non ha indicato quali siano le fonti del suo convincimento” – secondo cui “la Delogu non poteva svolgere i turni di guardia in quanto incompatibili con l’attivita prestata alle dipendenze della USL, ben conosciuta dalla datrice di lavoro” – sebbene la stessa circostanza fosse stata appresa dalla Casa di cura, solo dopo il licenziamento, ed integrasse una “ipotesi di incompatibilita”, che era stata negata dalla lavoratrice – nella propria “dichiarazione di responsabilita” – “mettendo a repentaglio l’esistenza stessa della Casa di cura (cfr. legge 30 dicembre 1991, n. 412, art. 74, comma 7)”, – la circostanza che la Delogu “per diciassette anni non aveva svolto turni di guardia” non incide sul “diritto del datore di lavoro di organizzare le risorse umane di cui dispone, costituzionalmente garantito dall’articolo 41 della costituzione” e, peraltro, la Corte d’appello non chiarisce “le ragioni per le quali si possa affermare l’intercorrenza di un accordo tra le parti, nel senso che la Delogu non avrebbe dovuto mai svolgere attivita in turni di guardia”, nonostante le specifiche contestazioni – sul punto – dell’attuale ricorrente principale, nel proprio atto d’appello;

– “la Corte d’appello non spiega quali siano i passaggi logici che l’hanno condotta ad affermare” – nonostante le specifiche contestazioni dell’attuale ricorrente principale, nel proprio atto d’appello, e le contrarie risultanza della deposizione del Direttore sanitario dottore Adolfo Petiziol – che “i turni di guardia postulavano l’espletamento di attivita medica del tutto estranea alle mansioni svolte da sempre dalla Delogu (assistente medico con mansioni internistiche-cardiologiche) e gli stessi erano svolti solo da personale che aveva una specifica competenza in ordine alle malattie di carattere psichiatrico”;

– secondo l’assunto della stessa lavoratrice, i turni di guardia non erano da considerare “come ore supplementari rispetto alle prestazioni ordinarie” e, peraltro, “se l’attivita di guardia doveva essere svolta secondo turni, erano questi e solo questi a stabilire l’orario delle prestazioni”.

Il primo motivo del ricorso principale non e fondato.

2.2. E’ ben vero, infatti, che l’adibizione del lavoratore subordinato a mansioni diverse dalle ultime effettivamente svolte puo essere disposta dal datore di lavoro (anche) unilateralmente, nell’esercizio dello ius variandi, ed incontra – secondo la disciplina legale in materia (art. 2103 c.c., come sostituito dalla legge 20 maggio 1970. n. 300. c.d. Statuto dei lavoratori) – soltanto il limite invalicabile della equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti (vedi infra).

Cio non esclude, tuttavia, che il contratto individuale di lavoro – derogando in melius, per il lavoratore, la disciplina legale prospettata – possa introdurre limiti ulteriori allo ius variandi del datore di lavoro (vedi, per tutte la sentenza n. 3134/94 delle sezioni unite, n. 16171/2004, 11607, 7200/2002, 4773/2001, 9784/2000, 13212, 10998/99, 9663/98, 900, 6176/96, 2591/89, 7142/87, 6417/86 della sezione lavoro di questa Corte, sulla derogabilita in melius, per il lavoratore, della legge e della contrattazione collettiva, mediante contratto individuale di lavoro, al quale vanno ricondotti gli usi aziendali).

E’, proprio, quello che – secondo la sentenza impugnata – si e verificato nella dedotta fattispecie.

Infatti ne risulta accertato – motivatamente, per quanto si dira (vedi infra) -che il dedotto rapporto di lavoro “aveva trovato una stabile e consensuale strutturazione” – sia pure per fatti concludenti – e, proprio percio, l’adibizione della lavoratrice a “turni di guardia” risulta configurata – coerentemente – come “unilaterale mutazione delle condizioni essenziali del contratto, impossibile senza il consenso del lavoratore”.

Tanto basta per ritenere giustificato il rifiuto di prestare “turni di guardia” – addotto a motivazione del licenziamento – della stessa lavoratrice.

A sostegno della medesima conclusione, tuttavia, concorre una motivazione ulteriore, autonomamente idonea a sorreggerla.

2.3. Infatti la equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti – che legittima l’esercizio dello ius variandi del datore di lavoro, a norma della disciplina legale in materia (art. 2103 c.c., come sostituito dalla legge 20 maggio 1970. n. 300, c.d. Statuto dei lavoratori, cit.) – deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettivita, ma anche – secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n, 3455 delle sezioni unite, n. 6871/87, 2896, 12088/91, 3623,10405, 12121/95, 6124/97, 2428/992649, 14666/2004 della sezione lavoro) – come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o, addirittura, l’arricchimento del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto.

E la sentenza impugnata non si discosta – dal principio di diritto ora enunciato – laddove ritiene giustificato il rifiuto di prestare “turni di guardia” – addotto a motivazione del licenziamento – della lavoratrice, anche sotto il profilo che esula, nella prestazione rifiutata, la equivalenza – rispetto alle mansioni precedentemente svolte dalla stessa lavoratrice – in quanto “i turni di guardia venivano svolti solo dal personale, che aveva specifica competenza in ordine alle malattie di carattere psichiatrico, per le quali in genere avvenivano i ricoveri presso la casa di cura”, mentre la lavoratrice “era l’unico medico dipendente del servizio di medicina interna di tutti e tre i reparti neuropsichiatrici (…)”, effettuando, “oltre a diagnosi e terapie internistiche, (…) tutti gli interventi ritenuti necessari o sollecitati dal personale medico- psichiatrico, occupandosi (…) soltanto di tutte le problematiche internistiche (…)”.

Evidente ne risulta, infatti, che le mansioni rifiutate dalla lavoratrice (adibizione a turni di guardia, appunto) non erano equivalenti – rispetto a quelle precedentemente svolte – in quanto non consentivano la piena utilizzazione ne, tantomeno, l’arricchimento del patrimonio professionale della stessa lavoratrice sulle “problematiche internistiche”.

Pertanto la sentenza impugnata – come e stato anticipato – si uniforma ai principi di diritto enunciati e non merita le censure – che, sul punto, le vengono mosse con il primo motivo del ricorso principale – neanche sotto il profilo del vizio di motivazione in fatto (art. 360, n. 5, c.p.c.).

2.4. Invero la denuncia di un vizio di motivazione in fatto, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c.) – vizio nel quale si traduce anche la mancata ammissione di un mezzo istruttorie (vedi, per tutte, Cass. n. 13730, 9290/2004), nonche l’omessa od erronea valutazione di alcune risultanze probatorie (vedi, per tutte, Cass. n. 3004/2004, 3284/2003, cit.) – non conferisce al giudice di legittimita il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensi soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni – svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l’accertamento dei fatti, all’esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento – con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere – secondo l’orientamento (ora) consolidato della giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 13045/97 delle sezioni unite e n. 19306, 21377/2004, 16213, 16063, 11936, 11918, 7635, 6753, 5595/2003, 3161/2002, 4667/2001, 14858, 9716, 4916/2000, 8383/99 delle sezioni semplici) – dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e puo ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico- giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti, ne, comunque, una diversa valutazione dei medesimi fatti.

In altri termini, il controllo di logicita del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimita (dall’art. 360 n. 5 c.p.c.) – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimita.

Pertanto, al giudice di legittimita non compete il potere di adottare una propria motivazione in fatto (arg. ex art. 384, 2 comma, c.p.c.) ne, quindi, di scegliere la motivazione piu convincente – tra quelle astrattamente configurabili e, segnatamente, tra la motivazione della sentenza impugnata e quella prospettata dal ricorrente – ma deve limitarsi a verificare se – nella motivazione in fatto della sentenza impugnata, appunto – siano stati dal ricorrente denunciati specificamente – ed esistano effettivamente – vizi che, per quanto si e detto, siano deducibili in sede di legittimita.

Lungi dal denunciare vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.) – nell’accertamento di fatto della sentenza impugnata – il ricorrente sembra prospettare – inammissibilmente – una ricostruzione diversa dei medesimi fatti.

A prescindere dalle superiori considerazioni e conclusioni – peraltro assorbenti – l’accertamento di fatto della sentenza impugnata non pare, comunque, inficiato da vizio di motivazione.

2.5. Infatti l’accertamento di fatto della sentenza impugnata e sorretto, adeguatamente, dalla motivazione – riferita in narrativa – che si articola nei passaggi essenziali seguenti:

– va confermata, invece, al declaratoria di illegittimita dell’impugnato licenziamento;

– “infatti e pacifico che la Delogu, per ben diciassette anni, non svolse i turni di guardia ed osservo il medesimo orario e le medesime mansioni, (mentre), peraltro, i turni di guardia venivano svolti solo dal personale, che aveva specifica competenza in ordine alle malattie di carattere psichiatrico, perle quali in genere avvenivano i ricoveri presso la casa di cure appellante”;

– “la decisione della Casa di cura – dopo ben diciassette anni, nei quali il rapporto aveva trovato una stabile e consensuale strutturazione – di mutare l’orario di lavoro, senza neppure indicare in che giorni e in che orari la Delogu avrebbe dovuto recuperare le ore supplementari svolte nei giorni di guardia, costituiscein effetti una unilaterale mutazione delle condizioni essenziali del contratto, impossibile senza il consenso del lavoratore”;

– “non avendo la Delogu mai svolto turni di guardia (peraltro notoriamente incompatibili con la sua attivita presso la USL, ben conosciuta dalla datrice di lavoro), essendo i detti turni, per il tipo di attivita richiesta, del tutto estranei alle mansioni svolte da sempre per la societa appellante, la decisione datoriale (…) appare come una violazione dei principi di correttezza e buona fede e, conseguente mente, la decisione della Delogu di non rispettare l’unilaterale decisione di controparte non e – di certo – sanzionatole con l’espulsione dal posto di lavoro”;

– inoltre “la Delogu non ha, in nessun modo, messo in essere comportamenti di insubordinazione o rifiuto della disciplina aziendale, posto che la Casa di cura non ha mai neppure comunicato il nuovo orario di lavoro nel rispetto dei limiti di orario contrattuale”.

Tanto basta per rigettare il primo motivo del ricorso principale, perche infondato. Parimenti infondato risulta, tuttavia, il secondo motivo dello stesso ricorso.

3.1. Con il secondo motivo – denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 18 legge n. 300/1970, 1223 c.c., 4, comma 7^, legge 30 dicembre 1991, n. 412), nonche vizio di motivazione (art. 360, n. 3 e 5, c.p.c.) – il ricorrente principale censura, in subordine, la sentenza impugnata – per avere la detrazione dei compensi per il lavoro prestato alle dipendenze della USL, quale aliunde perceptum, dal risarcimento del danno, asseritamene, spettante alla Delogu per licenziamento illegittimo – sebbene la stessa circostanza fosse ignorata dall’attuale ricorrente principale e, peraltro, integrasse una “ipotesi di incompatibilita” (ai sensi dell’art. 4, comma 7^, legge 30 dicembre 1991, n. 412).

Anche il secondo motivo del ricorso principale – come e stato anticipato – non e fondato.

3.2. E’ ben vero, infatti, che l’aliunde perceptum – secondo l’insegnamento consolidato di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 2761/85 e 12194/2002 delle sezioni unite, 7374, 8402, 8889/87, 1598/88, 5645/89, 2529, 8494/2003, 3088/2004 della Sezione lavoro) – comporta la riduzione corrispondente, sia pure limitatamente alla parte che eccede la misura forfettaria minima garantita dalla legge (cinque mensilita di retribuzione globale), del risarcimento del danno, subito dal lavoratore per il licenziamento, che va commisurato, quantomeno, alle retribuzioni percipiente nel periodo intercorrente tra il licenziamento e la sentenza di annullamento (c.d. periodo intermedio).

Tuttavia la compensano lucri cum damno – alla quale va ricondotto il ricordato principio – trova applicazione solo se – e nei limiti in cui – sia il danno (damnum) che l’incremento patrimoniale o, comunque, il vantaggio lucrum) siano conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto, il quale abbia in se l’idoneita a produrre entrambi gli effetti, (in tal senso, oltre la giurisprudenza specifica citata, vedi, per tutte, Cass. n. 8828, 7269, 77/2003, 15485/2002, 6624, 5287/87, 4978/83, 543/82, 1457/81).

Pertanto il compenso per il lavoro subordinato oppure autonomo – che il lavoratore percepisca durante il c.d. periodo intermedio – comporta la riduzione corrispondente del risarcimento del danno per il licenziamento, solo se – e nei limiti in cui – quel lavoro, essendo incompatibile con la prosecuzione contestuale della prestazione lavorativa sospesa a seguito del licenziamento, supponga, appunto, l’intimazione del licenziamento medesimo.

Siffatta ipotesi non ricorre se l’altro lavoro – produttivo del reddito, opposto in compensazione – sia, invece, obiettivamente compatibile con la prosecuzione contestuale della prestazione lavorativa – sospesa a seguito del licenziamento – come nel caso, che ricorre nella specie, in cui il lavoro medesimo fosse svolto, prima del licenziamento, congiuntamente alla prestazione che ne risulta sospesa.

La sentenza impugnata si uniforma al principio di diritto enunciato, laddove ritiene che i compensi – per il lavoro prestato, presso la USL, dalla lavoratrice licenziata – non vanno detratti quale aliunde perceptum – dal risarcimento del danno, da licenziamento illegittimo, spettante alla stessa lavoratrice – in quanto quel lavoro ed i relativi compensi sono stati, da sempre, cumulati con il lavoro, in favore della Casa di cura, e con le retribuzioni relative, alle quali va commisurato il risarcimento.

Tanto basta per rigettare il secondo motivo del ricorso principale – non rilevando in contrario, al fine della liquidazione del danno da licenziamento illegittimo, la consapevolezza del datore di lavoro (come l’asserita responsabilita dello stesso lavoratore) in ordine alla prestazione del secondo il lavoro (anche a volere prescindere dalla considerazione se tali circostanze siano state dedotte, ritualmente, nel presente giudizio) – sulla base del principio di diritto seguente:

Il compenso per lavoro subordinato o autonomo – che il lavoratore percepisca durante il periodo intercorrente tra il proprio licenziamento e la sentenza di annullamento relativa (c.d. periodo intermedio) – non comporta la riduzione corrispondente (sia pure limitatamente alla parte che ecceda le cinque mensilita di retribuzione globale) del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, se – e nei limiti in cui – quel lavoro risulti, comunque, compatibile con la prosecuzione contestuale della prestazione lavorativa sospesa a seguito del licenziamento (come nel caso, che ricorre nella specie, in cui il lavoro medesimo fosse svolto, prima del licenziamento, congiuntamente alla prestazione che ne risulta sospesa).

Parimenti infondato risulta, tuttavia, anche il ricorso incidentale 4.1. Con l’unico motivo del ricorso incidentale – denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2103, 2729, 2697 c.c.), nonche vizio di motivazione (art. 360, n. 3 e 5, c.p.c.) – Giovanna Maria Delogu censura la sentenza impugnata – per avere negato il proprio inquadramento nella qualifica di aiuto – in quanto, da un lato, le era stata riconosciuta una “autonomia medica totale, uguale a quella del primario” – sia pure affermando, contraddittoriamente, “che non collaborava col primario, quasi come a dire che non collaborava con se stessa” – e, dall’altro, “anche l’affidamento dei malati esisteva, pur se in modo diverso dall’affidamento del reparto, nel senso che, per quanto atteneva alle patologie ed ai disturbi internistici, tutti i malati erano affidati alla dottoressa Delogu”.

Come e stato anticipato, il ricorso incidentale non e fondato.

4.2. In materia di inquadramento dei lavoratori, infatti, il procedimento logico, che il giudice di merito deve seguire, si articola – secondo l’orientamento consolidato di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 17561, 5942, 4791, 3446/2004, 15751, 12854/2003, 6560/2001, 2001, 2451, 15597/2000, 3195/99) – in tre fasi nettamente distinte e reciprocamente indipendenti tra loro:

a) individuazione dei criteri posti dalla legge (o da fonti secondarie) e/o dalla contrattazione collettiva, in linea generale ed astratta, per la distinzione tra le diverse categorie e qualifiche rispettivamente previste; b) accertamento delle concrete mansioni di fatto, rilevanti ai fini dell’inquadramento del lavoratore; c) comparazione, tra le previsioni normative e le mansioni accertate, al fine di verificare se le mansioni concrete siano riconducibili alle astratte previsioni dei criteri discretivi tra categorie e qualifiche.

Coerentemente, solo la prima delle operazioni prospettate puo essere denunciata e censurata in cassazione (anche) sotto il profilo della violazione di norme di diritto (art. 360, n. 3, c.p.c.): ne possono, infatti, risultare violati – oltre che, ovviamente, le previsioni di legge (o di fonte secondaria) sui criteri discretivi tra categorie e qualifiche diverse – le norme di ermeneutica contrattuale (ari 1362 e seguenti c.c.) nella interpretazione – riservata al giudice di merito (e, come tale, censurabile anche sotto il profilo del vizio di motivazione) – delle previsioni di contratti collettivi di diritto comune su quegli stessi criteri.

Le altre due operazioni, invece, costituiscono giudizio di fatto riservato al giudice di merito e, come tali, sono censurabili in sede di legittimita, soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.), mentre sono incensurabili nella stessa sede, se sorretti da motivazione congrua ed immune da vizi.

La sentenza impugnata si uniforma ai principi di diritto enunciati e non merita le censure – che, sul punto, le vengono mosse con il ricorso incidentale – neanche sotto il profilo del vizio di motivazione in fatto (art. 360, n. 5, c.p.c.).

Lungi dal denunciare vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.) – nel senso che e stato precisato (vedi retro, 2.4.) – la ricorrente incidentale sembra prospettare – inammissibilmente – una ricostruzione diversa dei medesimi fatti.

A prescindere dalie superiori considerazioni e conclusioni – peraltro assorbenti – l’accertamento di fatto della sentenza impugnata non pare, comunque, inficiato da vizio di motivazione.

4.3. Infatti l’accertamento di fatto della sentenza impugnata e sorretto, adeguatamente, dalla motivazione – riferita in narrativa – che si articola nei passaggi essenziali seguenti:

– “il medico aiuto, alla stregua del regolamento sanitario interno (…), collabora direttamente col primario nell’espletamento dei compiti a questo attribuiti, ha la responsabilita degli ammalati affidatigli e risponde del suo operato al primario, che sostituisce in caso di assenza o impedimento e nei casi di urgenza”;

– stando alla sua stessa “prospettazione” – confermata dalle prove testimoniali – la Delogu “lavorava in assoluta autonomia, in quanto era l’unico medico dipendente del servizio di medicina interna di tutti e tre i reparti neuropsichiatrici (…)”, effettuando, “oltre a diagnosi e terapie internistiche, (…) tutti gli interventi ritenuti necessari o sollecitati dal personale medicopsichiatrico, occupandosi (…) soltanto di tutte le problematiche internistiche “nel caso in esame, manca – pacificamente – quel rapporto di collaborazione diretta tra primario ed aiuto, poiche la Delogu, secondo la sua stessa tesi, agiva in autonomia – beninteso nell’ambito delle sue mansioni, che sicuramente non erano di collaborazione (o a livello) col primario – ed era direttamente responsabile delle sue iniziative”;

– “manca, altresi, l’affidamento degli ammalati, i quali erano affidati ai reparti psichiatrici e che venivano seguiti dalla Delogu solo per quanto riguarda gli ulteriori accertamenti di carattere medico”.

Tanto basta per rigettare anche il ricorso incidentale (per un caso analogo, tuttavia, vedi Cass. 11 aprile 1991, n. 3850).

5. Pertanto, previa riunione, entrambi i ricorsi debbono essere rigettati.

Sussistono giusti motivi – quale, appunto, la reciproca soccombenza – per compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di Cassazione (art. 92 c.p.c.).

P. Q. M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; Compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di Cassazione.

Cosi deciso in Roma, il 26 gennaio 2005.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2005