Civile

Tuesday 23 September 2003

I criteri di liquidazione nelle obbligazioni di valore. Cassazione – Sezione terza civile – sentenza 5 giugno-25 agosto 2003, n. 12452

I criteri di liquidazione nelle obbligazioni di valore.

Cassazione Sezione terza civile sentenza 5 giugno-25 agosto 2003, n. 12452

Presidente Sabatini relatore Amatucci

Pm Finocchi Ghersi conforme ricorrente Ambra Assicurazioni Spa in Lca

controricorrente Benardini ed altri

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Firenze, decidendo con sentenza del 14 febbraio 1996 sulle domande di risarcimento dei danni conseguiti ad un incidente stradale proposte da Luciano Bernardini, Cosetta Giacomelli, Letizia Bernardini, Silvia Bernardini e Sesta Ratto, liquidò rispettivamente in 18.266.000, 7.118.400, 160.000, 550.000, 21.146.000, il danno da ciascuno subito in riferimento alla data della pronuncia, rivalutò a tale data gli acconti versati dalla società assicuratrice al fine di poter comparare valori omogenei, rilevò che i primi due avevano avuto più di quanto loro competesse e che nullaltro poteva riconoscersi alla terza e condannò solidalmente Graziano Antonini e la Ambra spa di Assicurazioni (quale cessionaria della Penunsukare spa) a corrispondere lire 210.200 a Silvia Bernardini e 3.641.739 a Sesta Ratto, oltre agli interessi sugli interi importi dalla data del fatto a quella della corresponsione di acconti e da tale seconda data al saldo sul residuo, compensando per la metà le spese di lite e ponendo laltra metà a carico dei convenuti.

2. Proposero appello gli attori dolendosi del mancato riconoscimento da parte del giudice di primo grado degli interessi dalla data dellevento a quella della corresponsione degli acconti, nonché della parziale compensazione delle spese processuali, che domandarono fossero integralmente poste a carico dei convenuti.

Con sentenza 1006/99 la Corte dappello di Firenze ha ritenuto che a Cosetta Giacomelli, Luciano Bernardini, Silvia Bernardini, e Sesta Ratto fossero state riconosciute somme inferiori al dovuto, rispettivamente per lire 541.600, 2.180.860, 326.810 e 1.611.419 ed ha condannato i convenuti al pagamento di tali ulteriori importi, oltre agli interessi nella misura del 5% annuo dalla data del fatto al saldo; ha inoltre accolto il motivo dappello concernente la parziale compensazione delle spese di primo grado ed ha condannato i convenuti al rimborso delle intere spese processuali del doppio grado.

3. Avverso detta sentenza ricorre per cassazione lAmbra spa di Assicurazioni in liquidazione coatta amministrativa affidandosi a due motivi, cui resistono con unico controricorso tutti gli attori in primo grado.

Motivi della decisione

1.1. Con il primo motivo è denunciata «violazione di norme di diritto e contraddittorietà della sentenza impugnata circa la condanna agli interessi» per avere la corte dappello, riconoscendo gli interessi sulle somme residue fino al saldo definitivo, omesso di considerare che alla data del versamento dellacconto (settembre 1990) «risultava già saldato il capitale nei confronti di tutti i convenuti, con la conseguenza che agli stessi non erano più dovuti interessi fino al saldo definitivo, ma solo la residua differenza (comprensiva anche degli interessi) fra lammontare totale al settembre 1990 per capitale rivalutato ed interessi legali e lacconto pagato. Tale residua differenza, però, essendo imputabile ai soli interessi dopo il saldo del capitale, non era più produttiva di ulteriori interessi, non essendo previsto lanatocismo dal nostro ordinamento».

Affermano poi che, non essendo stati richiesti interessi anatocistici, invece riconosciuti, la sentenza era incappata anche nel vizio di ultrapetizione.

1.2. I controricorrenti rilevano che già il giudice di primo grado aveva, con sentenza non impugnata sul punto dalla attuale ricorrente, riconosciuto interessi sugli interessi, affermando a pagina 15 che erano dovuti gli interessi sullintero ammontare nella misura del 5% annuo (equitativamente determinato in aderenza ai principi enunciati da Cassazione Sezioni unite 1712/95) e ‑ «sulla differenza ancora dovuta da tale data a quella della presente decisione ed oltre interessi legali sul totale risultante dalla data della pronuncia alleffettivo saldo».

2. Col secondo motivo la sentenza è censurata per ‑ «contraddittorietà circa la condanna alle spese di lite» per avere, per un verso, addotto argomentazioni che militavano a sostegno del buon governo della regolazione delle spese effettuata dal giudice di primo grado, che le aveva compensate per la metà; e poi, contraddittoriamente, posto esclusivamente a carico dei convenuti il relativo onere.

3.1. In ordine al primo motivo sono necessarie alcune premesse.

È stato costantemente affermato da questa corte che la norma di cui allarticolo 1224 Cc si applica solo alle obbligazioni pecuniarie, cosiddette di valuta, e non anche a quelle di valore, nelle quali il denaro (inteso come quantità di pezzi monetari) non costituisce oggetto dellobbligazione di dare, ma solo il metro di commisurazione di un valore.

Tipica obbligazione di valore è, appunto, quella risarcitoria, che mira alla reintegrazione del danneggiato nella stessa situazione patrimoniale nella quale si sarebbe trovato se il danno non fosse stato prodotto. In tali obbligazioni la rivalutazione monetaria non rappresenta il possibile strumento di risarcimento delleventuale maggior danno da mora indotto dalla svalutazione monetaria, rispetto a quello già coperto dagli interessi legali, come accade nelle obbligazioni pecuniarie ai sensi dellarticolo 1224, comma 2, Cc; ma costituisce il necessario mezzo di commisurazione attuale del valore perduto dal creditore, che va appunto reintegrato dal debitore.

Il riconoscimento di interessi costituisce in tale ipotesi ‑ come chiarito dalle Sezioni unite con sentenza 1712/95 ‑ una mera modalità liquidatoria del possibile danno da lucro cessante, cui è consentito al giudice di far ricorso col limite costituito dallimpossibilità di calcolare gli interessi sulle somme integralmente rivalutate dalla data dellillecito. Non gli è invece inibito di riconoscere interessi anche al tasso legale su somme progressivamente rivalutate; ovvero sulla somma integralmente rivalutata, ma da epoca intermedia; ovvero di determinare il tasso di interesse in misura diversa da quella legale; ovvero, ancora, di non riconoscere affatto gli interessi se, in relazione ai parametri di valutazione costituiti dal tasso medio di svalutazione monetaria e dalla redditività media del denaro nel periodo considerato, un danno da lucro cessante debba essere positivamente escluso (oltre alla citata Cassazione, 748/2000, cfr. anche Cassazione, 490/99 e 10751/02).

Nei debiti di valore è, invece, senzaltro possibile che la mera rivalutazione monetaria dellimporto liquidato in relazione allepoca dellillecito, ovvero la diretta liquidazione in valori monetari attuali, non valgano a reintegrare pienamente il creditore, che va posto nella stessa condizione economica nella quale si sarebbe trovato se il pagamento fosse stato tempestivo.

Ma occorrerà allora che il creditore alleghi e provi, anche in base a criteri presuntivi, che la somma rivalutata (o liquidata in moneta attuale) è inferiore a quella di cui avrebbe disposto, alla stessa data della sentenza, so il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo. Il che dipenderà, prevalentemente, dal rapporto tra remunaratività media del denaro e tasso di svalutazione nel periodo in considerazione, essendo ovvio che in tutti i casi in cui il primo sia inferiore al secondo, un danno da ritardo non sarà normalmente configurabile.

In termini più espliciti: se il danno era di 100 in relazione ai valori monetari dellepoca del fatto (aestimatio) e quella somma equivalga a 150 alla data della sentenza (taxatio), il creditore potrà (in via generale) sostenere di aver subito un danno da ritardo non assorbito dalla rivalutazione (ovvero dalla diretta liquidazione in valori monetari attuali) soltanto se sia presumibile che, ove avesse immediatamente conseguito 100, disporrebbe allepoca della sentenza di una somma superiore a 150. In tutti i casi in cui così non sia in ragione di una redditività media del denaro inferiore al tasso di svalutazione nel periodo che viene in considerazione, un danno da ritardo non può essere (in via generale) presunto.

È allora chiaro come, per un verso, gli interessi cosiddetti compensativi costituiscano una mora modalità liquidatoria del danno da ritardo nei debiti di valore; e come, per altro verso, non sia configurabile alcun automatismo nel riconoscimento degli stessi: sia perché il danno da ritardo che con quella modalità liquidatoria si indennizza non necessariamente esiste, sia perché può essere comunque già ricompresso nella somma liquidata in termini monetari attuali (cfr., ex plurimis, Cassazione, 3994/03).

Va soggiunto che listituto dellanatocismo (articolo 1283 Cc) e la regola dellimputazione del pagamento agli interessi anziché al capitale in difetto di consenso del creditore (articolo 1193 Cc) concernono esclusivamente le obbligazioni pecuniarie e non i debiti di valore, nei quali il problema del risarcimento del possibile danno da ritardo si pone nei termini sopra illustrati.

3.2. Ebbene, nel caso in esame, il giudice di primo grado aveva, dopo aver effettuato un raffronto comparativo fra importi omogenei, correttamente indennizzato il danno da ritardo (evidentemente ravvisato in via presuntiva) riconoscendo gli interessi del 5% (equitativamente determinati in tale percentuale in base ai principi di cui alla citata sentenza 1712/95) da calcolarsi dalla data del fatto a quella del versamento sullintero importo dovuto, e dalla data del versamento a quella della pronuncia per la differenza. Il danno da ritardo era cosi logicamente indennizzato calcolandolo sullintero importo fino a quando nulla era stato pagato e sullimporto residuo dalla data in cui era avvenuto un pagamento parziale.

Operazione, aritmeticamente equivalente ad altra, assai più semplice, che sarebbe consistita nella devalutazione sia degli acconti che della liquidazione attuale (1996) del danno alla data del fatto, che è quella della aestimatio (anziché nella rivalutazione dellacconto alla data della liquidazione) e nel computo degli interessi compensativi sulla differenza dalla data del fatto (o da data intermedia).

Non è dunque esatto che il tribunale avesse riconosciuto interessi sugli interessi.

Questo è invece il risultato cui è pervenuta la corte dappello, che ha effettuato le seguenti operazioni:

a) ha devalutato gli importi a ciascuno riconosciuti dalla data della liquidazione (1996) a quella del fatto (1982);

b) ha poi rivalutato gli stessi fino alla data degli acconti (1990) al fine di compararli con gli acconti stessi;

c) prima di effettuare il raffronto tra gli importi a quel punto omogenei in termini di espressioni monetarie di valori, ha aggiunto gli interessi del 40% (maturati come danno da ritardo dal 1982 al 1990) agli importi già rivalutati al 1990 (anziché a quelli del 1982, ed è già questo un errore concettuale del quale i ricorrenti tuttavia non si dolgono);

e) da ultimo, ha disposto che sulle somme complessive risultanti (su tutte le somme e non solo su quelle decurtate dellaumento del 40%) decorressero interessi dal fatto al saldo, così incappando in un duplice errore.

Il primo consiste nellaver riconosciuto gli interessi (mera modalità liquidatoria del danno da ritardo) su un danno da ritardo che era già stato indennizzato fino al momento dellacconto (si tratta di quel 40% di cui sè detto sopra). Il secondo, che è un aggravamento del primo, consiste nellaver disposto che essi decorressero dal fatto.

Avrebbe, invece, dovuto disporre ‑ una volta prescelta quella complessa modalità di calcolo ‑ che gli interessi (compensativi) decorressero dal 1990 e fino al saldo esclusivamente sulle somme risultanti dalle comparazioni degli importi determinati come sub b, prima dellaggiunta dellaumento del 40% per interessi, rappresentanti soltanto la liquidazione del danno da ritardo tra il 1982 ed il 1990, che più semplicemente (e correttamente) il primo giudice aveva direttamente affidato al meccanismo degli interessi da calcolarsi sullintero importo fino al momento degli acconti e soltanto sulle differenze dal 1990 in poi.

4. La sentenza va dunque cassata affinché il giudice del rinvio ‑ che si designa in diversa sezione della Corte dappello di Firenze, rimedi allerrore nel rispetto dei criteri sopra enunciati e provveda anche a regolare le spese del giudizio di legittimità.

Resta assorbito il secondo motivo di ricorso.

PQM

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo, cassa in relazione e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte dappello di Firenze