Penale

Wednesday 12 January 2005

FRANCESCO FAVARA Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte Suprema di Cassazione – RELAZIONE SULL’ AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA NELL’ ANNO 2004 ROMA, 11 GENNAIO 2005

FRANCESCO FAVARA Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte Suprema di
Cassazione RELAZIONE SULL’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA NELL’ANNO 2004 ROMA,
11 GENNAIO 2005

SALUTO *

LA GIUSTIZIA ITALIANA E L’EUROPA *

I problemi della giustizia. *

Il processo di integrazione
europea *

Rapporto tra giurisdizione italiana e
giurisdizione della Corte di Strasburgo *

LA GIUSTIZIA CIVILE *

A) ASPETTI GENERALI *

I tempi e i numeri della giustizia
civile. *

Considerazioni sull’andamento dei
processi *

L’attuazione del regolamento sul c.d.
processo telematico *

Il processo societario *

B) ASPETTI PARTICOLARI *

I procedimenti in materia di diritto
di famiglia *

La giustizia minorile *

Controversie in materia di lavoro e
previdenza sociale *

LA GIUSTIZIA PENALE *

Flussi quantitativi e dati statistici
*

L’attività del giudice di pace *

A) ASPETTI GENERALI. GIUSTIZIA PENALE
ED EFFICACIA *

Le finalità del processo penale. La
mediazione costituzionale *

La ipercriminalizzazione *

Efficacia del processo: *

a) I "costi" delle indagini
preliminari e delle attività difensive. *

b) Il rapporto delle indagini
preliminari con i riti speciali ed il dibattimento *

c) I mezzi di impugnazione
*

d) I procedimenti cautelari *

e) Le patologie processuali *

B) I VARI TIPI DI CRIMINALITA’.
L’AZIONE DI CONTRASTO *

L’andamento della criminalità.
Considerazioni generali *

La criminalità organizzata *

a) La criminalità organizzata di origine nazionale *

b) La criminalità di
origine straniera *

c) Immigrazione clandestina *

Terrorismo e reati contro lo Stato *

a) Terrorismo interno *

b) Terrorismo internazionale *

Le altre principali manifestazioni
criminose *

a) Reati contro la pubblica
amministrazione *

b) Criminalità economica *

c) Omicidi, sequestri di persona a
scopo di estorsione, rapine, estorsioni, furti, ecc. *

d) Reati in tema di stupefacenti *

e) Reati inerenti alla sfera sessuale
*

f) Reati in materia di tutela
dell’ambiente e del territori; violazioni edilizie ed
urbanistiche *

g) Sicurezza sul lavoro e tutela
della salute *

h) Reati in materia di criminalità informatica *

i) Criminalità minorile *

La Direzione nazionale antimafia *

Polizia giudiziaria e strutture
investigative *

C) L’ESECUZIONE DELLA PENA *

LA CORTE DI CASSAZIONE E LA PROCURA GENERALE *

I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI *

ORGANIZZAZIONE E GESTIONE DEGLI
UFFICI. STRUTTURE *

L’AVVOCATURA *

CONSIDERAZIONI FINALI *

SALUTO

INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO 2005

LA GIUSTIZIA ITALIANA E L’EUROPA

I problemi della giustizia.

Anche nel 2004 i problemi e le
vicende della giustizia sono stati al centro dell’attenzione
generale. La contrastata riforma dell’ordinamento
giudiziario, taluni processi importanti, alcune sentenze della Corte di
cassazione e anche di giudici di merito che hanno toccato temi sensibili, come
quelli della famiglia e della vita sociale, hanno avuto sempre vasta eco nelle
cronache dei giornali e hanno animato dibattiti e polemiche. Basta leggere le
rassegne stampa o seguire le trasmissioni della radio e della televisione – che
talvolta hanno dato vita quasi a processi paralleli
rispetto a quelli che si celebrano nelle aule giudiziarie – per averne
conferma.

Ma il vero problema che è al centro
delle discussioni è ancora quello della eccessiva
durata dei processi, strettamente dipendente dalla loro quantità. C’è un
preciso interesse ad ottenere una giustizia in tempi rapidi: si tratta di un
interesse concreto che riguarda tutti coloro che
soffrono l’attuale disservizio della giustizia.

Al 30 giugno 2004 sono risultati pendenti ben 8.942.932 processi – quasi 9 milioni!
– di cui 3.365.000 civili e 5.580.000 penali. Se si pensa che per ogni causa
civile vi sono almeno due parti interessate (ma spesso
ve ne sono tante altre), e che ogni processo penale coinvolge un numero di
persone, come imputati o come parti lese, certamente superiore a quella grande
cifra che ho sopra indicato, si ha subito la sensazione concreta della entità
dell’interesse – e del malcontento – che per la giustizia hanno i cittadini.
Non senza poi considerare le spese e i costi materiali e le ansie che i
processi comportano per ciascuno di essi.

Si comprende allora perché è
indispensabile dare vita a un sistema di giustizia
efficace, che permetta di avere fiducia in un esito giusto, e possibilmente
rapido, della propria vicenda giudiziaria.

Il tema dell’efficacia sarà il motivo
centrale di questa relazione e il parametro per valutare l’amministrazione
della giustizia in Italia, oggi.

Si tenga presente che l’Europa ci
chiama sempre più ad un confronto che, se sul piano della qualità della
giurisdizione ci vede sicuramente ai primi posti, su quello dell’organizzazione
e dell’efficienza ci vede invece fermi su posizioni non adeguate rispetto ai
problemi da risolvere.

Il processo di integrazione
europea

Due eventi storici hanno
contrassegnato il 2004, aprendo una nuova fase del processo di
integrazione europea: l’allargamento dell’Europa a dieci nuovi Paesi e
l’adozione del trattato costituzionale, firmato a Roma il 29 ottobre 2004.

Nel richiamare i successi ottenuti
nella progressiva creazione di un quadro giuridico comune nel settore della
giustizia e degli affari interni, il recente Consiglio europeo di Bruxelles del
4-5 novembre 2004 ha
adottato il Programma pluriennale dell’Aja sulle
politiche connesse allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, delineando in particolare le linee di sviluppo di uno spazio
europeo di giustizia, da perseguire attraverso il rafforzamento della
cooperazione giudiziaria, la facilitazione dell’accesso alla giustizia e la
piena attuazione del principio di reciproco riconoscimento.

Tale obiettivo comporta da una parte
un’attività di supporto, di scambio e di formazione comune dei giudici,
dall’altra un sistema di valutazione dell’attuazione delle politiche della Unione Europea nel settore della giustizia, perché il
principio del reciproco riconoscimento presuppone un sistema giudiziario nei
singoli Paesi che sia rispondente a determinati livelli di qualità.

Sotto il primo profilo
è prevista la istituzione di una rete dei Consigli della magistratura,
di una rete europea delle Corti supreme e di una rete europea di formazione
giudiziaria sia nel settore penale che civile, nonché la predisposizione di
programmi di scambio per le autorità giudiziarie, in modo da facilitare la
cooperazione; ulteriori misure riguardano l’attuazione del principio del
reciproco riconoscimento delle decisioni civili e penali, da perseguire anche
mediante la standardizzazione delle procedure e l’armonizzazione delle
legislazioni nazionali anche di carattere sostanziale.

Un programma dunque ambizioso che
coinvolge ordinamenti giuridici diversi e di diversa tradizione, nel quale un
ruolo fondamentale è attribuito ai giudici e al sistema giudiziario dei singoli
Paesi, chiamati a partecipare in modo attivo al processo di integrazione
europea che proprio sul diritto ha giocato le sue opzioni di fondo.

Nel campo della cooperazione
giudiziaria in materia civile va segnalato, il regolamento CE n. 805/2004 del
21 aprile 2004 che ha istituito il titolo esecutivo europeo per i crediti non
contestati. Il regolamento, che troverà applicazione a far
data dal 21 ottobre 2005, costituisce un esempio del programma di
cooperazione rafforzata, perché introduce norme minime per i procedimenti
relativi ai crediti non contestati, realizzando in tal modo il ravvicinamento
delle legislazioni nazionali, e nel contempo consente la circolazione delle
decisioni giudiziarie, delle transazioni giudiziarie e degli atti pubblici in
tutti gli Stati membri, senza la necessità di procedimenti intermedi per il
riconoscimento e l’esecuzione.

La Procura generale presso la
Corte di cassazione, tramite il Punto di contatto della Rete
giudiziaria civile europea, che opera all’interno dell’Ufficio relazioni internazionali, partecipa all’attività di
cooperazione tra le autorità giudiziarie degli Stati membri, al fine di fornire
assistenza e facilitare l’applicazione degli strumenti comunitari. Le richieste
di assistenza, oltre ad informazioni
sul nostro diritto, hanno riguardato in particolare l’applicazione del
regolamento CE n. 1348/2000 in materia di notificazioni e comunicazioni, per
difficoltà insorte nella notificazione di atti in Italia.

Anche nel settore penale si sono
fatti significativi passi in avanti, segnatamente in
materia di forme di contrasto al terrorismo, di accelerazione del processo di
riconoscimento reciproco delle decisioni, di nuove possibilità di
ravvicinamento delle disposizioni in materia penale e penalprocessuale,
di nuove potenzialità dell’unità di cooperazione giudiziaria Eurojust, in specie per quanto riguarda l’orientamento in
chiave sempre più operativa dell’attività della stessa.

In particolare, il Programma dell’Aja, pur presentando un minore grado di ambizione
rispetto a quello del 1999, pone opportunamente l’accento sull’effettiva
attuazione delle misure già adottate prima che sulle nuove iniziative da
mettere in cantiere.

L’obiettivo è
infatti quello di rafforzare la fiducia reciproca, il che significa in
primo luogo completare il programma di misure per il pieno riconoscimento di
tutte le decisioni giudiziarie, ma anche ridurre gli ostacoli e rafforzare il
coordinamento delle indagini, se del caso prevedendo la concentrazione in un
solo Stato membro dell’azione penale nelle cause transfrontaliere
multilaterali.

Coordinamento delle indagini nella
lotta al terrorismo e valorizzazione a tal fine di Eurojust, in collaborazione con Europol;
norme minime comuni; adozione di una legge europea per rafforzare Eurojust e procedere alla eventuale creazione del pubblico
ministero europeo, sono gli obiettivi immediati da raggiungere. In particolare,
quest’ultimo avrà una competenza che sarà limitata
all’origine alla sola protezione degli interessi finanziari comunitari, ma che
in futuro potrà essere estesa a tutte le forme di criminalità grave a
dimensione transnazionale.

Comunque i risultati già ottenuti sono
importanti. Il mandato di arresto europeo, primo
strumento ad essere adottato sul terreno del mutuo riconoscimento delle decisioni
giudiziarie, è stato anche il primo a divenire effettivamente operativo (nel
gennaio dello scorso anno ed è oggi in vigore in 24 Stati membri dell’Unione).
Il nostro Paese non ha ancora provveduto alla relativa ratifica, preoccupato di
contemperare le esigenze della cooperazione internazionale con il nostro
tradizionale sistema di garanzie.

Rilevanti anche gli altri risultati
conseguiti tanto sul versante dell’armonizzazione del diritto sostanziale (come
la decisione quadro sulla incriminazione delle
condotte di traffico di droga), che del mutuo riconoscimento, come gli accordi
raggiunti in tema di sequestro e confisca dei proventi illeciti. Si tratta ora
di recepire, a livello nazionale, la legislazione
europea.

Pur con notevole ritardo rispetto
alle altre iniziative, sembra oggi avanzare in seno all’Unione la
consapevolezza di dover occuparsi non soltanto del versante repressivo ma anche
di quello delle garanzie minime che devono essere assicurate su tutto il
territorio dell’Unione.

In prospettiva comincia inoltre a
profilarsi un ruolo rilevante per la Corte di giustizia delle comunità europee,
anche in una materia come quella penale sinora rimasta sostanzialmente estranea
alle sue competenze. Tale ruolo, come sembra indicare la recente decisione resa
in materia di "ne bis in idem", manifesta
potenzialità analoghe a quello già svolto dalla Corte in relazione alla
costruzione del diritto comunitario.

Rapporto tra giurisdizione italiana e
giurisdizione della Corte di Strasburgo

Un altro importante capitolo riguarda
la giurisdizione della Corte dei diritti dell’uomo di
Strasburgo. Si tratta di un campo nel quale l’assoggettamento della legge
nazionale agli obblighi internazionali, previsto dal nuovo testo dell’art. 117
della Costituzione, apre un ulteriore fronte di
relazioni tra i giudici nazionali e la Corte europea, con riferimento agli
obblighi derivanti dalla Convenzione dei diritti dell’uomo.

La durata eccessiva dei procedimenti ha costituito, anche nel periodo 1° luglio 2003 – 30 giugno 2004,
causa di condanne dell’Italia dinanzi alla Corte di Strasburgo, per
violazione del diritto fondamentale, costituzionalmente garantito, ad una
ragionevole durata del processo.

Come è noto, a seguito di tali condanne, è
stata introdottala legge 24 marzo 2001 n. 89 (c.d. legge Pinto),
che prevede l’accertamento, da parte della corte d’appello competente, della
durata esorbitante di un procedimento giudiziario, con il conseguente
riconoscimento di un’equa riparazione del danno, materiale e morale, a carico
dello Stato.

I procedimenti promossi negli ultimi
anni per ottenere tali indennizzi ammontano già a diverse migliaia. E numerosi
sono stati i ricorsi alla Corte di cassazione contro le decisioni delle corti di appello. Alla Corte suprema infatti
nel periodo qui in considerazione sono pervenuti 1.052 ricorsi proposti contro
decreti emessi dalle corti di appello, e ne risultano definiti 357. La pendenza
attuale davanti alla stessa Corte di ricorsi in questa materia, tenuto anche
conto delle sopravvenienze ulteriori, risulta essere
di oltre 2.000 procedimenti.

Ciò per non parlare del numero
imprecisato di processi, già definiti od ancora pendenti, sulla cui eccessiva
durata potrebbero essere proposte nuove istanze risarcitorie ai sensi della legge predetta.

In ogni caso va detto che il rimedio
apprestato dal nostro Legislatore non sembra da solo idoneo a risolvere i
problemi italiani dinanzi alla Corte di Strasburgo in quanto la reazione
complessiva dell’ordinamento interno appare inidonea ad eliminare le conseguenze
delle già constatate violazioni ed a prevenirne altre, nel senso che la legge Pinto non sembra possedere l’attitudine a determinare la auspicata accelerazione dei processi. Eppure,
un sistema giudiziario più veloce ed efficiente potrebbe essere un buon volano
per l’economia nazionale ed un importante biglietto da visita nello scenario
internazionale.

La
Corte
europea ha ritenuto che la liquidazione degli indennizzi ex legge Pinto, da parte dei giudici italiani, in misura
irragionevolmente inferiore a quella stabilita, in casi analoghi, dalla
medesima Corte, costituisce motivo di ricorso sindacabile in sede europea, ed
ha inoltre ritenuto (caso Scordino, già citato nella precedente relazione)
ammissibile il ricorso diretto ad essa contro le
decisioni della corte di appello pur se non gravate da ricorso per Cassazione.
Ciò significa che, malgrado l’esistenza di questo
rimedio interno, è possibile ricorrere a Strasburgo in caso di liquidazione di
indennizzi troppo bassi.

Orbene, non vi è dubbio che sul piano
astratto il riconoscimento della sussistenza di un danno patrimoniale o non
patrimoniale e la sua determinazione, anche attraverso il criterio dell’equità,
rientra nell’alveo della valutazione delle prove; e quest’ultima,
effettuata dal giudice nazionale, è di regola
insindacabile in sede sopranazionale.

Ma è del pari evidente l’esigenza che
i giudici italiani si adeguino, per quanto possibile,
alla giurisprudenza della C.E.D.U. Tanto più che quest’ultima, di fronte a vari rilievi critici relativi
alla vaghezza e imprecisione dei suoi criteri di liquidazione dell’equo
indennizzo per i tempi lunghi del processo, appare aver corretto le lacune
evidenziate: infatti in 11 sentenze, tutte emesse il 10 novembre 2004, diversi
paragrafi sono dedicati alla descrizione dei criteri, generali ed applicati al
caso specifico, inerenti la liquidazione dei danni materiali e morali da essi
derivati.

Puntualmente le Sezioni unite della
Corte di cassazione, con le sentenze n. 1338, 1339, 1340 del 26 gennaio 2004
hanno affermato, in tema di equa riparazione,
importanti principi, in particolare in materia di onere della prova del danno
non patrimoniale (il danno è presunto, salva prova contraria) e di rilevanza,
ai fini della quantificazione del danno, delle decisioni della Corte europea
dei diritti dell’uomo. E ancora la prima sezione civile della Corte di
cassazione con la sentenza n. 8529 del 2004 ha affermato che il giudice italiano deve
tener conto dei criteri ermeneutici elaborati dalla
giurisprudenza della C.E.D.U. con riguardo alla
ragionevole durata del processo; e con la sentenza n. 11350 del 2004 (cui è
seguita quella n. 17139 del 2004) ha ritenuto che l’eccessiva durata del
processo tributario relativo a questioni involgenti la potestà impositiva dello Stato, non è indennizzabile ai sensi della
legge n. 89 del 2001: ciò proprio in conformità alle indicazioni emergenti
dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che si muovono nel senso della non estensibilità
del campo di applicazione dell’art. 6 della Convenzione alle predette
controversie tra il cittadino ed il fisco.

In ogni caso il risultato di tutto
ciò è una massa di procedimenti, per violazione del diritto ad un processo nel
termine ragionevole, pendenti sia in Italia che a
Strasburgo, con il rischio di causare una fortissima spesa pubblica, rischio al
quale occorre ovviare al più presto con riforme strutturali incidenti sul
funzionamento della macchina giudiziaria.

Del resto il peso per l’Erario,
determinato dalle cause per violazione dei principi della Convenzione dei diritti dell’uomo, è tutto nelle cifre: l’Italia è, fra
i 46 paesi del Consiglio d’Europa, al quinto posto per numero di ricorsi
pendenti (dai dati del 2003 emergono n. 4.952 ricorsi contro l’Italia su di un
totale di 75.730) ed al primo posto come numero di condanne (n. 103 su di un
totale di 521). Il numero delle condanne registra comunque
un miglioramento rispetto agli anni precedenti, in particolare il 2000 (con 233
condanne), il 2001 (con 359 condanne), il 2002 (con 325 condanne).

L’Italia non presenta casi di
violazioni particolarmente gravi (del tipo di torture o trattamenti inumani o
limitazioni della libertà d’espressione aut similia), ma comunque si
caratterizza per "violazioni seriali", in particolare, oltre che
nella tematica della durata esorbitante dei procedimenti giudiziari, anche nel
campo dell’esecuzione coattiva degli sfratti, della disciplina dei fallimenti,
delle espropriazioni per pubblica utilità, del procedimento penale in
contumacia. Altre violazioni, più o meno,
"sistemiche" dovrebbero invece, a breve, risultare, in tutto od in
gran parte, non più attuali, per avvenuta modifica della legislazione in
materia (ci si riferisce in particolare al regime carcerario speciale od alle
condanne disciplinari prive di sufficiente "base legale").

L’attenzione della Corte di
Strasburgo si è fra l’altro appuntata anche su rilevanti norme del processo
penale italiano, in particolare sulla struttura italiana
del processo in contumacia. Infatti, in data 10
novembre 2004 la Corte europea ha condannato l’Italia,
nella causa Sejdovic c. Italia,
per violazione dei principi del giusto processo, relativamente ad un caso di
condanna in contumacia di un imputato che si era reso irreperibile subito dopo
la commissione del reato. Ebbene, la Corte non si è
limitata ad accertare la violazione, ma ha indicato anche le misure individuali
e generali da adottare, in particolare la modifica della legislazione italiana
in tema di contumacia. Tale sentenza meriterebbe una riflessione, che già si è
aperta in altri paesi, circa la delicata problematica del rapporto gerarchico
tra diritto interno e Convenzione europea e sui limiti accettabili di erosione della sovranità statale dipendenti
dall’esistenza di un ordinamento sovranazionale.

Peraltro, le problematiche legate alla esecuzione delle sentenze della C.E.D.U.,
quantomeno nel settore penale, non sono state ignorate dal Legislatore; è in
discussione, infatti, davanti al Senato il d.d.l. n. 2441/S, già approvato
dalla Camera dei Deputati, recante "Modifiche in materia di revisione a seguito di sentenze della Corte europea dei
diritti dell’uomo", che prevede l’introduzione di una nuova ipotesi di
revisione nel caso di accertate violazioni dell’art. 6 della Convenzione
europea.

E’ comunque
necessario impegnarsi in un’operazione di articolata diffusione delle tematiche
di tale Convenzione tra i giudici italiani chiamati ad applicare quegli aspetti
del diritto interno che abbiano collegamenti, ratione
materiae, con la tematica dei diritti umani. In
questo modo il giudice nazionale potrebbe diventare il primo tutore dei diritti
dell’uomo nel suo Paese, determinando nel contempo un
effetto deflattivo delle condanne dell’Italia a Strasburgo.

LA GIUSTIZIA CIVILE

A) ASPETTI GENERALI

I tempi e i numeri della giustizia
civile.

Il quadro che risulta
dalle statistiche del Ministero della giustizia può essere così riassunto:
nell’arco di tempo che va dal 1° luglio 2003 al 30 giugno 2004 sono stati
definiti complessivamente 1.793.139 processi civili di primo grado (dei quali
843.424 dai giudici di pace e 949.715 dai tribunali) a fronte dei 1.885.284
processi che erano stati complessivamente definiti nei dodici mesi precedenti
(827.820 dai giudici di pace e 1.057.464 dai tribunali). Vi è stata quindi una
diminuzione del numero dei procedimenti definiti da parte dei
tribunali (pari al 10,2%), a fronte di un lieve aumento della produttività da
parte dei giudici di pace (pari all’1,9%). Per completezza occorre aggiungere a
questi dati quelli relativi ai processi decisi in un
unico grado di merito dalle corti di appello. In questo settore vi sono stati
nel periodo di riferimento 7.761 processi esauriti rispetto agli 8.061 dei
dodici mesi precedenti.

Vi è stata perciò una diminuzione
della "resa" del sistema di giustizia civile, ma essa è stata in qualche modo compensata – per quanto riguarda il primo
grado – dalla contemporanea riduzione del numero delle sopravvenienze: nel
medesimo arco di tempo, infatti, i processi civili di nuova iscrizione sono
scesi da 1.822.237 (di cui 888.242 presso i giudici di pace e 933.995 presso i
tribunali) a 1.737.341 (di cui 840.970 presso i giudici di pace e 896.371
presso i tribunali). La riduzione è di 84.896 unità pari al 4,6%.

I processi civili iscritti presso le
corti di appello in unico grado sono stati 10.508.

Questa riduzione delle sopravvenienze
ha fatto sì che il "saldo" fosse complessivamente positivo,
nel senso che, nel periodo di riferimento, si è ridotto – peraltro in misura
minore rispetto alla diminuzione che si era registrata negli ultimi anni – il
numero dei processi civili pendenti in primo grado. Questi ultimi ammontavano infatti, al 30 giugno 2004, a 2.962.826 (di cui 748.034
davanti al giudice di pace e 2.214.792 davanti ai tribunali) e a 11.965 davanti
alle corti di appello a paragone dei 3.042.521 che erano pendenti al 1° luglio
2003 (dei quali 763.700 davanti ai giudici di pace e 2.278.821 davanti ai
tribunali) e a 9.319 davanti alle corti di appello.

I giudizi di secondo grado pendenti
davanti alle corti d’appello sono passati invece da 215.041 a 253.571, con un
aumento del 17,9%. Il numero dei processi esauriti nel periodo di riferimento è
stato pari a 76.659, con un aumento del 6,2% rispetto ai 72.209 processi
dell’anno precedente. Questo dato è da collegare a quello delle sopravvenienze,
aumentate da 112.321 (nel periodo 2003-2004) a 114. 625 (nel periodo
2003-2004). Il numero dei processi esauriti, pur aumentato,
resta di gran lunga inferiore a quello delle sopravvenienze, il che non
potrà che determinare il progressivo accumularsi dell’arretrato.

Di contro, vi è la riduzione del
14,4% della pendenza dei giudizi di secondo grado
davanti ai tribunali, passati da 50.300 a 43.081. Si tratta, con tutta evidenza,
degli effetti dell’avvenuto trasferimento dal tribunale alla corte d’appello
della competenza per le cause d’appello in materia di lavoro e previdenza
sociale. I tribunali, attualmente, sono competenti
soltanto per gli appelli contro le sentenze del giudice di pace di valore non
superiore a circa 1000 euro, anche se ancora si registra in alcune sedi la
sopravvivenza di cause di lavoro e previdenza in grado di appello contro le
sentenze dell’ormai scomparso pretore.

Sempre per i giudizi di secondo grado
in tribunale quelli sopravvenuti sono aumentati da 9.356 a 16.292 e gli
esauriti sono diminuiti da 32.493
a 24.445.

In Cassazione vi è stata una
diminuzione dell’11,1% dei ricorsi iscritti a ruolo. I
processi esauriti hanno avuto un incremento dell’11,5%.
Il carico complessivo è aumentato del 6,4% (93.533 procedimenti).

In totale sono sopravvenuti 1.907.874
processi civili (-2,1% rispetto all’anno precedente),
ne sono stati definiti 1.925.484 (-3%); a fine periodo la pendenza era di
3.364.976 processi (-0,7%).

La durata media dei giudizi in primo
grado è passata, rispetto all’anno precedente, per i
giudici di pace da 313 a
328 giorni, per il tribunali da 860
a 888 giorni e per le corti di appello da 501 a 425 giorni; la durata
media dei giudizi in secondo grado è passata per i tribunali da 1.061 a 837 giorni e per le
corti di appello da 774 a
894 giorni; in Cassazione è passata da 1.120 a 1.259 giorni. Ipotizzando
un giudizio che si articoli in due gradi di merito (tribunale e appello) ed in
quello di legittimità si ha oggi una durata media di 3.041 giorni (oltre otto
anni); circa nove mesi in più rispetto al periodo precedente. E’ appena
il caso di rilevare che si tratta di un dato medio che nasconde al suo interno
una durata ben maggiore di taluni processi.

Volendo tracciare un consuntivo dell’andamento
della giustizia civile nel periodo 1° luglio 2003 – 30 giugno 2004, si può dire che, nel complesso, la produttività è rimasta pressoché
invariata. E’ peraltro da tenere presente che, di recente, sono
stati numericamente rafforzati gli organici dei magistrati delle corti di
appello, con conseguente impoverimento di quelli dei tribunali. E sono proprio
le corti di appello, le quali avrebbero dovuto
incrementare la produttività, in relazione alla aumentata consistenza degli
organici, che hanno mancato il proprio obiettivo e non hanno così evitato un
deleterio ulteriore aumento dell’arretrato.

D’altra parte l’aumento della
pendenza per le corti di appello, costante negli
ultimi anni, trova causa anche nelle ripetute applicazioni di magistrati delle
sezioni civili alle sezioni penali, ed è dovuto anche all’entrata a regime del
giudice unico, e all’ulteriore contributo fornito dalle sezioni stralcio.

Un’analisi approfondita dei dati non
giustifica certo alcun ottimismo, in quanto l’andamento sconta anche il fatto
che nel totale sono compresi i procedimenti definiti dalle sezioni stralcio che non hanno sopravvenienze, mentre non va
trascurato che il dato relativo ai procedimenti civili ingloba anche i
procedimenti di volontaria giurisdizione, laddove il banco di prova è quello
del procedimento contenzioso.

Resta da dire del giudice di pace, il
quale ha trattato oltre il 48% delle cause sopravvenute in primo grado ed il
cui contributo all’amministrazione della giustizia è ormai irrinunciabile.

Con riferimento a tale giudice, vi è
da segnalare che rimane sempre molto alto il rischio dei c.d. giudizi seriali
per importi modestissimi nelle più diverse materie (inadempimenti contrattuali,
azione di responsabilità, pagamenti di canoni per servizi pubblici), la cui
incidenza negativa è assai elevata, in termini di complessiva efficienza e resa
di giustizia, al di là dei connessi aspetti relativi
agli sproporzionati compensi ed ai possibili eventuali rilievi disciplinari.

L’irreversibilità della scelta legislativa
di attribuzione di competenze giudiziarie alla
magistratura onoraria impone un potenziamento delle risorse umane e materiali,
una rigorosa selezione ed una indispensabile attività di preparazione e
formazione professionale, come unica vera garanzia per il miglioramento della
qualità del servizio.

I giudizi definiti secondo equità,
pur in assenza di dati complessivi, sono pari ad una media di circa il 20% del
totale delle sentenze pronunciate.

Si mantengono percentualmente basse
le impugnazioni.

Va infine ricordato che con la
sentenza n. 206 del 2004 la
Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 113 comma 2 c.p.c.
nella parte in cui non prevede che il giudice di pace, nei casi in cui decide
secondo equità, debba osservare i principi informatori
della materia. La portata della norma viene quindi esattamente ricondotta a
quella del testo previgente, che prevedeva che il
conciliatore decidesse secondo equità le cause di sua competenza osservando,
appunto, "i principi regolatori della materia".

La magistratura più tipicamente
onoraria (GOT) svolge anch’essa un lavoro che contribuisce a migliorare in modo
significativo l’amministrazione della giustizia nei
singoli uffici. Il suo impiego non è omogeneo nei vari distretti, pur se nel
rispetto della disciplina legislativa e delle circolari del Consiglio Superiore
della Magistratura in tema di determinazione delle materie da attribuire a tali
giudici, data la tendenza di alcuni uffici a
utilizzarli in numero considerevole.

Diversificato appare il risultato del lavoro dei
GOA. Solo nei tribunali di Milano e Trieste il prossimo anno è indicato come
possibile traguardo finale per lo smaltimento delle cause assegnate alle
sezioni stralcio. Negli altri distretti permane un giudizio tendenzialmente positivo, pur con alcune eccezioni di segno negativo
soprattutto in termini di elevata impugnazione delle sentenze emesse, e una
indicazione di progressiva riduzione delle pendenze.

Considerazioni sull’andamento dei processi

Il processo civile, come riformato
con la legge 26 novembre 1990 n. 353 e con le successive modifiche e
integrazioni, si caratterizza per le non poche difficoltà di trattazione; ancorchè per effetto delle decadenze comminate e delle
preclusioni processuali previste nella disciplina innovata, presenta caratteri
di maggiore speditezza rispetto al passato.

Tuttavia l’inadeguatezza e le
parziali scoperture degli organici a fronte delle consistenti sopravvenienze di processi comportano la formazione di ruoli istruttori piuttosto
ponderosi e non consentono una definizione rapida dei processi, che restano
pendenti anche alcuni anni prima di essere decisi, con elusione
degli auspicati tempi rapidi di definizione.

Raramente le parti compaiono di
persona alla prima udienza di trattazione, di guisa è che privo di concreti
risultati l’istituto del tentativo di conciliazione, anche perché non si
apprezzano ancora sostanziali modificazioni del comportamento dei difensori
nell’approccio al nuovo sistema processuale.

I provvedimenti interinali e
anticipatori, previsti dagli artt. 186-bis, ter e quater c.p.c., non hanno ad oggi sortito l’effetto sperato.

In particolare, l’ordinanza ex art.
186-bis ha trovato rare applicazioni per la marginalità delle ipotesi
processuali nelle quali il credito non viene
contestato in parte.

Rare applicazioni ha
trovato anche l’ordinanza ingiuntiva ex art. 186-ter, soprattutto per
l’inutilità dello strumento non supportato dalla immediata esecutività,
subordinata alla ricorrenza dei presupposti sanciti dall’art. 642 c.p.c. o, in caso di resistente costituito, a quelli di cui
all’art. 648 c.p.c..

Più frequente, anche se non
soddisfacente in relazione alle previsioni, è stata la
concreta applicazione dell’ordinanza anticipatoria di
cui all’art. 186-quater, talora adottata nei giudizi di natura esclusivamente risarcitoria, caratterizzati da questioni in fatto o in
diritto non particolarmente complesse.

Fondati dubbi sussistono poi, tanto
in dottrina quanto in giurisprudenza, sulla possibilità di utilizzare
l’ordinanza anticipatoria di condanna nei giudizi nei
quali le statuizioni del giudice appaiono consequenziali ad un’azione di mero
accertamento o costitutiva.

La sfida che ci viene dall’Europa
riporta in primo piano l’esigenza di rendere competitivo il nostro ordinamento
ed in particolare il nostro sistema giudiziario,
perché investimenti ed allocazione di risorse finanziarie e quindi sviluppo
economico dipenderanno anche dalla funzionalità del sistema giudiziario e dalla
sua capacità di dare risposte rapide e di certa esecuzione.

La riduzione dei tempi complessivi
dei procedimenti costituisce dunque l’obiettivo strategico da perseguire in via
prioritaria, in modo da ritrovare un armonico bilanciamento tra garanzie ed
efficienza, tenendo conto però della specificità della nostra cultura e
tradizione giuridica.

Recupero dell’efficienza significa
rapidità delle decisioni e capacità del sistema di smaltimento dei flussi quantitativi.

Il che comporta la
necessità non solo di una appropriata riorganizzazione del servizio
giustizia, ma anche di una semplificazione delle procedure e di una
razionalizzazione dell’impianto processuale.

Va ribadito
che per rendere competitivo il nostro sistema, oltre ad un recupero
dell’efficienza strutturale, è necessario assicurare la efficacia delle
decisioni, le quali devono essere non solo tempestive, ma anche di certa
esecuzione in modo da garantire la effettività della giustizia.

Il modello di organizzazione
della giustizia è comunque la questione centrale da affrontare, perché la
maggiore o minore capacità di assicurare una risposta rapida ed efficace
costituisce l’indice rivelatore della qualità e quindi della competitività del
sistema giudiziario.

Deve darsi atto che sono in corso
talune sperimentazioni presso vari uffici giudiziari. Tra l’altro, va segnalato
che a Bologna è stato da tempo sperimentato il processo telematico,
con la creazione di due programmi "Polis" e "Polisweb",
poi adottati anche da altri tribunali, i quali consentono la formazione diretta
e la trasmissione di atti per via telematica, con una
riduzione del carico di lavoro per le cancellerie e una considerevole riduzione
dei tempi di durata dei processi; presso il Tribunale di Parma è stato
installato sperimentalmente un nuovo sistema di gestione informatizzata
delle tradizionali procedure concorsuali e se ne sta curando l’estensione alle
procedure di amministrazione straordinaria delle grandi imprese a seguito della
dichiarazione dello stato di insolvenza del "Gruppo Parmalat",
che ha comportato l’iscrizione di 64 procedure di amministrazione straordinaria
concernenti società del gruppo.

Sono segnali positivi
di un processo di innovazione e di ammodernamento del sistema giudiziario che
va portato avanti per un effettivo miglioramento della qualità della giustizia.

In questa linea di cambiamento si
collocano gli interventi normativi sul processo civile che in particolare hanno
riguardato la monocraticità del giudice, sia pure con
riserve di collegialità; il principio di concentrazione attraverso le
preclusioni; l’istituzione dei giudici di pace; la creazione di sezioni stralcio per la eliminazione dell’arretrato.

Pur con gli opportuni temperamenti
necessari per la corretta valutazione della situazione reale, resta il dato di fondo che è in corso un processo di ammodernamento che
impegna tutti, e in primo luogo il Ministro della giustizia, a proseguire in
modo più incisivo sulla strada delle riforme.

Quello delle riforme è però un
percorso faticoso ed accidentato, lungo il quale l’esigenza primaria di
assicurare un processo rapido ed equo si scontra con interessi talvolta di
segno contrastante, con dannose battute di arresto che
non possiamo consentirci, poiché è viva l’esigenza di non aggravare i nostri
già significativi ritardi in materia di giustizia.

Un segnale positivo
viene tuttavia, proprio dall’operato di magistrati, avvocati e addetti ai
servizi di cancelleria, i quali, con un sano pragmatismo, hanno dato vita a
protocolli che contengono le cosiddette "prassi virtuose"
nell’applicazione del codice di procedura civile.

E’ questo il dato di
indubbia novità che viene segnalato da molti distretti di corte di
appello con valutazioni largamente positive.

Anche questo è sintomo di un profondo
cambiamento che è in atto nel modo di guardare al bene "giustizia",
non solo per il diverso approccio di carattere pragmatico ai problemi della
giustizia e per la capacità di persuasione che sempre si accompagna alle buone
prassi, ma anche perché si è in tal modo superata una visione particolaristica
per assumere, come valore da perseguire, quello di una giustizia efficiente ed
efficace.

Nel decorso anno è intervenuta
l’importante pronuncia della Corte costituzionale n. 204, che assume un rilievo
primario in tema di riparto delle giurisdizioni ordinaria e amministrativa
in quanto ha dichiarato l’incostituzionalità, per violazione di diversi
parametri costituzionali, delle norme, novellate dalla legge n. 205 del 2000,
che avevano previsto la devoluzione al giudice amministrativo delle
controversie in interi settori di materie, tra le quali quelle relative ai
pubblici servizi, ivi comprese le controversie tra le amministrazioni e i
gestori comunque denominati di pubblici servizi, nonché quelle riguardanti le
attività e le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese
nell’espletamento dei servizi pubblici, comprendendovi esplicitamente quelle
rese nell’ambito del servizio sanitario nazionale.

L’attuazione del regolamento sul c.d.
processo telematico

In data 14 ottobre 2004 è stato
finalmente approvato il decreto del Ministro della giustizia (previsto dall’art. 3 comma 3 del decreto del Presidente Repubblica 13
febbraio 2001 n. 123, recante le norme sul c.d. "processo telematico") avente per oggetto le regole
tecnico-operative per il funzionamento e la gestione del sistema informatico civile.

Sia pure con un certo ritardo
rispetto ai termini prefissati – l’art. 19 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 123 del 2001 prevedeva infatti tale
adempimento entro il 30 ottobre 2001 – si è quindi completato il quadro
normativo e tecnico per consentire l’uso di strumenti informatici
e telematici nel processo civile.

Come già sottolineato
lo scorso anno, le ricadute in termini di efficienza dei servizi resi
dall’amministrazione della giustizia civile, ovvero anche in termini di
risparmio di energie materiali e personali da parte dell’amministrazione stessa
e degli utenti, dovrebbero essere notevoli. Tale sistema – va ricordato –
attiene alla formazione e alla trasmissione di documenti con modello informatico (ivi compresi atti quali la
notificazione, l’iscrizione a ruolo, il processo verbale, la sentenza ecc.), in
luogo della tradizionale redazione o produzione di documenti su "supporti
cartacei", nonché alla consultazione del
fascicolo di causa (quello informatico)
dal proprio computer.

La funzionalità del nuovo sistema dipende, come è
ovvio, dalla concreta predisposizione degli strumenti tecnici necessari per la
sua utilizzazione, sia da parte della classe forense sia da parte degli uffici
giudiziari. A tale ultimo riguardo tuttavia si deve registrare che la informatizzazione
degli uffici (quanto a diffusione e qualità degli strumenti in dotazione) non
appare del tutto omogenea sul territorio nazionale e, in una certa misura,
anche all’interno del singolo ufficio giudiziario. Su tale punto mi riservo di
tornare oltre.

In ogni caso, in
attesa del completamento delle regole sul processo telematico,
la sperimentazione effettuata presso sette tribunali (Bari, Bergamo, Bologna,
Catania, Genova, Lamezia Terme e Padova) risulta aver
dato esiti ampiamente positivi per i vari soggetti interessati (funzionari,
avvocati e magistrati).

Ove tali positive
valutazioni troveranno conferma (anche sotto il profilo della affidabilità e
sicurezza della trasmissione dei dati) nella ormai prossima esperienza a
regime, dovremo incominciare a ragionare ad una qualche futura estensione di
tale modello anche nel procedimento penale.

Il processo societario

La nuova disciplina del processo
societario, introdotta con il decreto legislativo 17 gennaio 2003 n. 5, è
entrata in vigore il 1° gennaio 2004; il periodo di osservazione
(gennaio-giugno 2004) è quindi troppo breve per trarre conclusioni, sia pure
parziali, sulla tenuta del nuovo rito e in particolare sulla sua capacità di
rispondere alle esigenze di celerità e prevedibilità delle decisioni che hanno
spinto il Legislatore ad intervenire anche sul piano processuale, dopo la
riforma sul versante sostanziale del diritto societario.

C’è da segnalare che la normativa non
ha trovato ancora un assetto definitivo in quanto pendono dinanzi alla Corte
costituzionale varie questioni sollevate in
riferimento agli artt. 10 secondo
comma e 25 del menzionato decreto legislativo e agli artt.
2409 comma 1 e 7, 2477 comma 4 e 2476 comma 3 c.c.; inoltre nella seduta del Consiglio dei Ministri del 28
ottobre 2004 è stato approvato uno schema di decreto legislativo recante
disposizioni correttive e integrative dei decreti legislativi numeri 5 e 6 del
2003, già modificati dal decreto legislativo 6 febbraio 2004, n. 37; il quadro
normativo è quindi ancora in via di definizione, il che rende ancora più
difficile una prima valutazione sugli effetti della riforma.

Questa Procura
generale, cui il legislatore ha attribuito il compito di dare specificamente
notizia dei dati relativi alla durata media dei singoli procedimenti in materia
societaria (art. 42 decreto legislativo n. 5 del 2003), ha effettuato un primo
monitoraggio, predisponendo schede tecniche di rilevazione che in parte hanno
tenuto conto degli "oggetti" integrativi elaborati dal Ministero
della giustizia nell’ambito del SIC – Sistema informatico
civile. Tale sistema, una volta pienamente in funzione,
consentirà di avere dati sufficientemente disaggregati per tipo di
procedimento e, nell’ambito del procedimento, per tipo di cause.

Allo stato le informazioni
acquisite non consentono valutazioni accettabili sul piano statistico;
tuttavia, mentre è utile riportare alcuni dati riferibili ai tribunali più significativi per dislocazione e/o per la maggiore presenza
di enti societari nel bacino di utenza, è anche possibile formulare alcune
riflessioni di carattere generale.

Sotto il primo profilo, per il
Tribunale di Roma, sono stati riferiti i seguenti dati
relativi al periodo in osservazione: 1) il numero complessivo dei procedimenti
promossi in base al menzionato decreto legislativo è di 408, di cui 174
contenziosi, 144 per provvedimenti cautelari, 90 di volontaria giurisdizione;
2) su 144 procedimenti cautelari, ne sono stati definiti 133; 3) delle 174
cause contenziose, ben 30 hanno subito il mutamento di rito e la cancellazione
dal ruolo, avendo il giudice rilevato che la causa era stata proposta in forme
diverse da quelle prescritte.

Presso il Tribunale di Milano risultano promossi 390 procedimenti fino al 30 giugno 2004. A tale data ne erano pendenti 195, di cui 107 contenziosi, 68 per
provvedimenti cautelari e 20
in tema di volontaria giurisdizione.

Per il Tribunale di Palermo, risultano promossi 54 procedimenti soggetti alla nuova normativa,
dei quali sono stati definiti solo alcuni camerali e cautelari; in particolare
ben 18 dei procedimenti contenziosi sono stati introdotti irritualmente
con citazione a udienza fissa e solo due di questi sono stati riassunti previo
mutamento del rito.

La prima ovvia considerazione da fare
è la ancora scarsa conoscenza della portata della nuova disciplina da parte
degli avvocati, il cui ruolo è invece fortemente
accresciuto nella fase preparatoria. Presso il Tribunale di Roma sono state,
infatti, presentate 12 istanze di fissazione di
udienza, caratterizzate in larga misura da un atteggiamento di "destrezza
processuale" nella scelta strategica di cogliere il momento di debolezza
della parte avversaria; la questione ha una valenza più generale e sollecita
una riflessione sulle conseguenze che in concreto possono derivare dalla nuova
disciplina del contenzioso societario.

Un punto critico del procedimento,
che sembra ostacolare la realizzazione dell’obiettivo
principale della riforma, quello cioè di assicurare una rapida ed efficace
definizione dei procedimenti in materia societaria, ivi comprese le
controversie relative al trasferimento delle partecipazioni sociali e ai patti
parasociali, è costituito dalla concreta impossibilità di rispettare il termine
di 30 giorni per la fissazione dell’udienza collegiale.

La mancata istituzione delle sezioni
specializzate con competenza esclusiva comporta, infatti, la trattazione delle
cause societarie da parte di giudici che si occupano anche di
altri processi di cognizione ordinaria, di procedimenti cautelari e di
giurisdizione non contenziosa di estrema complessità, sicché il termine di
fissazione dell’udienza collegiale è, per esempio, di quindici – diciotto mesi
per il Tribunale di Roma.

E poiché le cause
soggette alla nuova disciplina vengono in gran parte iscritte, anche per
ragioni di geografia economica, presso i tribunali di maggiori dimensioni, la
riforma parte già con gambe malferme. Meccanismi di selezione sono stati adottati da alcuni
tribunali, al fine di privilegiare le cause per le
quali sono necessari provvedimenti istruttori; iniziative sul piano
organizzativo sono state altresì assunte per la migliore attuazione della
disciplina dei procedimenti in camera di consiglio, la cui area è stata fortemente
ampliata dalla riforma, ma trattasi di iniziative che dovrebbero dar vita a
prassi applicative generalizzate, dopo i necessari confronti e le opportune
verifiche.

B) ASPETTI PARTICOLARI

I procedimenti in materia di diritto
di famiglia

I procedimenti in materia di
separazione personale hanno segnato un andamento in lieve crescita in termini
di sopravvenienze che ha riguardato sia le separazioni consensuali che quelle giudiziali (rispettivamente 1% e 1,2%).

Resta ferma la netta prevalenza delle
prime sulle seconde, le quali rappresentano poco più di un terzo rispetto al
totale dei procedimenti sopravvenuti nel periodo.

Si registra a fine
periodo una modesta diminuzione delle pendenze per le separazioni
consensuali (-2,6%), le quali vengono definite mediamente in tre mesi circa
dalla data di presentazione del ricorso; e invece un aumento significativo per
le separazioni giudiziali (+7,6%), le quali vengono definite mediamente in un
anno e otto mesi; il che conferma una difficoltà del sistema a definire in
tempi brevi separazioni sempre più caratterizzate da una accesa conflittualità
di rapporti, alimentata da questioni relative all’affidamento dei figli e agli
aspetti economici.

Trattasi di una linea tendenziale di
crescita che caratterizza l’ultimo triennio e che va contrastata in modo
efficace, anche con misure di accelerazione delle
indagini istruttorie e con eventuali interventi di mediazione familiare diretti
a ridurre il tasso di conflittualità tra le parti.

I procedimenti in materia di divorzio
hanno segnato un aumento delle sopravvenienze che ha interessato soprattutto
quelli su ricorso congiunto (+6,8%), seguendo una linea tendenziale di crescita
già registrata nell’ultimo biennio; minore l’aumento dei divorzi giudiziali
(+2,2%), che segna comunque una inversione di tendenza
rispetto all’anno precedente.

Le pendenze di fine periodo
evidenziano una significativa variazione percentuale
in aumento per i divorzi congiunti (+13,0%), che non desta tuttavia particolare
preoccupazione perché verosimilmente connessa a situazioni congiunturali,
mentre per i divorzi giudiziali si tratta di variazione in aumento (+6,2%)
dovuta alla scarsa funzionalità e speditezza dei nostri meccanismi processuali.

In materia di provvedimenti accessori
alla pronuncia di separazione e divorzio, in particolare in materia di assegnazione della casa familiare, va segnalata la
importante pronuncia delle Sezioni unite della suprema Corte in tema di
comodato di immobile destinato da un terzo a casa familiare (n. 13.603 del 2004),
con la quale si conferma il ruolo propulsivo svolto dalla Cassazione nel
settore del diritto di famiglia, attraverso una interpretazione adeguatrice della legge a fronte delle trasformazioni
sociali e dei significativi mutamenti che hanno investito l’istituzione
familiare.

Nella stessa direzione si muove la
recente pronuncia della stessa Corte con la quale, in mancanza di una compiuta
disciplina sulla convivenza "more uxorio" e sugli effetti della
cessazione di detta convivenza con riguardo ai figli minori, è stato
riconosciuto il diritto del convivente affidatario di
continuare ad abitare nella casa familiare e ciò sulla base
di un generale principio di responsabilità genitoriale
immanente nell’ordinamento (n. 10.102 del 2004).

Vanno infine segnalate: l’ordinanza
della Cassazione n. 13.298 del 2004, con la quale è
stata rimessa alla Corte costituzione la questione di costituzionalità degli artt. 143-bis, 236, 237 comma 2,
262, 299 comma 3 c. c. e 33 e 34 decreto Presidente
Repubblica n. 396 del 2000, nella parte in cui prevedono che il figlio
legittimo acquisti automaticamente il cognome del padre, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 29 comma 2, della Costituzione; e l’ordinanza,
n.10.742 del 2004 con la quale
è stata sollevata questione di legittimità costituzionale del comma 1, n. 3,
dell’art. 235 c.c. nella parte in cui non consente al marito di provare che il
figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili
con quelle del presunto padre se non dopo aver fornito la prova che la moglie
ha commesso adulterio nel periodo legale del concepimento (o ha tenuto celata
al marito la propria gravidanza e la nascita del figlio).

Il Consiglio europeo di Bruxelles del
4-5 novembre 2004, nel delineare le linee di attuazione
del programma dell’Aja sulle politiche connesse allo
spazio di libertà, sicurezza e giustizia, ha individuato proprio nel diritto di
famiglia uno dei settori di sviluppo della cooperazione giudiziaria civile, da
perseguire sia attraverso il completamento del programma di reciproco
riconoscimento delle decisioni, sia attraverso la standardizzazione delle
procedure e dei documenti e l’elaborazione di norme minime comuni di diritto
processuale.

In tale ambito la Commissione è stata
invitata a presentare nel 2005 un libro verde sul regime patrimoniale fra i
coniugi e sul conflitto delle leggi in materia di divorzio, al fine di
promuovere l’adozione di disposizioni uniformi di carattere processuale e, ove
necessario per il miglioramento della cooperazione giudiziaria, anche di
carattere sostanziale.

La giustizia minorile

Nel settore della c.d. giustizia
minorile permane significativo il numero dei ricorsi
in materia di volontaria giurisdizione ed in particolare in materia di potestà genitoriale ex artt. 330 e 333 c.c..

I Procuratori generali distrettuali
hanno segnalato come crescente il numero dei procedimenti attivati subito dopo
la pronuncia di separazione, con una sostanziale riproposizione
dei conflitti in ordine all’affidamento dei figli,
rimasti sostanzialmente irrisolti anche per la scarsa flessibilità degli
strumenti processuali utilizzabili; un dato che impone una riflessione sulla
opportunità che tutte le competenze in materia di famiglia e di minori siano
accentrate presso un unico organo specializzato, onde evitare una sostanziale
duplicazione di giudizi e la conseguente possibilità di decisioni contrastanti.

E’ in crescita anche il numero dei
procedimenti per l’affidamento dei figli nati da coppie di fatto non più
conviventi; trattasi di procedimenti che si svolgono davanti al tribunale per i
minorenni senza quelle garanzie processuali che assistono invece l’affidamento
dei figli nell’ambito delle procedure di separazione o divorzio attribuite alla competenza del tribunale ordinario.

Nelle procedure in materia di potestà
genitoriale, va segnalato il ricorso sempre più
frequente da parte dei giudici minorili al provvedimento di allontanamento
dalla residenza familiare del genitore o convivente che maltratta o abusa del
minore, previsto dagli artt. 330 e 333 cc come modificati dalla legge n. 149 del 2001; trattasi di
uno strumento innovativo che consente di risolvere molte situazioni di disagio
minorile causate da violenze fisiche o morali, garantendo la permanenza del
minore nel suo ambiente di vita in modo da evitare il trauma
dell’allontanamento.

Il carattere sempre sostenuto dei
flussi migratori alimenta un nuovo fronte di intervento
dei giudici minorili, chiamati a pronunciarsi sui casi di sottrazione e, in
virtù del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286, in materia di
immigrazione, anche sull’ingresso o sulla permanenza in Italia di uno o
entrambi i genitori, al fine di consentire al minore che si trovi in Italia di
mantenere legami affettivi vitali per il suo normale sviluppo psicofisico.

Numerosi sono i minori irregolari che
giungono ai servizi sociali in situazioni di notevole deprivazione, di tossicofilia, di disagio psicologico anche grave; gli
interventi attuati nei loro confronti continuano ad avere effetti positivi, perché i ragazzi accolti in strutture residenziali
appropriate accettano e concorrono attivamente alla realizzazione del progetto
loro proposto.

Riguardo alla utenza
nomade, sono in aumento gli interventi di presa in carico; va segnalato, anche
per le sue implicazioni sociologiche, l’insorgere di uno stato di disagio e di
rifiuto da parte delle ragazze nei confronti della loro cultura di origine, con
richieste di aiuto ad acquisire una certa autonomia.

Sul diritto della persona adottata a
conoscere le proprie origini e l’identità dei propri genitori, sono state
segnalate domande in aumento; importante la decisione assunta dalla sezione
minorenni della Corte di appello di Torino che ha
riconosciuto ad una persona adottata il diritto ad avere informazioni
sulla identità di un fratello e di una sorella, anch’essi adottati.

Permangono carenze
normative in materia di esecuzione dei provvedimenti che comportano un
allontanamento del minore da un genitore o comunque da una persona non più affidataria, non disponendosi di un apposito procedimento
esecutivo, da tempo sollecitato dai giudici minorili e dagli operatori del
settore.

Sui problemi applicativi della legge
n. 149 del 2001, la quale ha modificato la disciplina dell’affidamento
familiare e dell’adozione, deve innanzitutto
confermarsi la persistente difficoltà di reperire famiglie disponibili ed
idonee a prestare cure materiali ed affettive a minori in temporanea situazione
di disagio. Le cause del mancato decollo dell’istituto dell’affidamento
familiare sono diverse e vanno individuate principalmente nella scarsa
conoscenza dell’istituto e nelle insufficienti iniziative di sensibilizzazione
della popolazione sul tema, nonché nelle remore a
gestire rapporti affettivi concorrenti con la famiglia di origine, in vista del
rientro del minore.

Per quanto attiene all’adozione, va
premesso che tutto il complesso delle disposizioni di cui alla legge n. 149 del
2001, dirette a configurare un nuovo procedimento per la dichiarazione dello
stato di adottabilità, a
carattere contenzioso e con la conseguente necessità della difesa tecnica, non
ha ancora trovato applicazione, in quanto con decreto legge n. 158 del 2004,
convertito con la successiva legge n. 188, il termine di sospensione
dell’efficacia è stato prorogato al 30 giugno 2005.

I dati statistici in materia
evidenziano una lieve diminuzione (-1%) delle dichiarazioni di disponibilità
all’adozione nazionale in termini di sopravvenienze ed un significativo
aumento delle domande di idoneità all’adozione di minori stranieri (+7,3%),
anche per effetto dell’innalzamento della differenza di età fra adottanti e
adottandi che ha portato ad una proliferazione di domande da parte di coniugi
non più in giovane età.

Per i procedimenti del primo tipo, le
pendenze di fine periodo sono pari al 4,6%, un dato che non può essere
trascurato ma che segna in ogni caso un netto miglioramento rispetto a quello
dell’anno precedente (13,2%); infatti, i procedimenti esauriti nel periodo sono
pari a 12.093, a
fronte di 9.407 del 2003, il che significa una maggiore produttività nel
settore.

In materia di adozione
internazionale, il lieve aumento percentuale rispetto all’anno precedente
(3,3%) è dovuto al significativo aumento delle sopravvenienze che hanno
ampiamente neutralizzato l’aumento di produttività espressa da un maggior
numero di procedimenti esauriti (7.522 rispetto a 7.048 dell’anno precedente).

In conclusione, mentre è in leggera
diminuzione la domanda di adozione nazionale, perché
si va riducendo il numero dei minori italiani abbandonati o dichiarati
adottabili, è in forte aumento la domanda di adozione internazionale, secondo
una tendenza già manifestatasi in precedenza. Sostenuta è anche la produttività
del settore, che ha visto la definizione di un numero di procedimenti maggiore.

Sono segnalate in aumento le adozioni
pronunciate a norma dell’art. 44 legge n. 184 del 1983 (c.d. adozioni in casi
particolari), le quali non interrompono del tutto le
relazioni con la famiglia di origine, creando un rapporto adottivo che non
sostituisce ma integra quello biologico.

In molti tribunali sono state
opportunamente adottate iniziative organizzative dirette a selezionare le
coppie richiedenti l’adozione, nonché a sostenere i
genitori dopo l’inserimento del minore nel nucleo familiare; trattasi di buone
prassi che dovrebbero formare oggetto di protocolli per una applicazione
generalizzata, al fine di supportare il nucleo familiare con uno specifico
monitoraggio, previsto per legge solo per le adozioni internazionali.

Soddisfacenti i rapporti con i
Servizi sociali che operano sul territorio, facenti capo alle amministrazioni
comunali e, in parte, alle aziende sanitarie locali, anche se i compiti agli
stessi affidati richiedono maggiori e più qualificate risorse umane.

Il contributo dato dai giudici
onorari è certamente positivo, in particolare
nell’attività di valutazione della idoneità dei coniugi all’adozione
internazionale e nell’abbinamento delle coppie con i minori nell’adozione
nazionale; in alcuni distretti gli stessi svolgono anche attività istruttoria.

Sul piano del diritto comunitario va
segnalato il regolamento CE n. 2201 del 2003, entrato in vigore il 1° agosto
2004 e che troverà applicazione dal 1° marzo 2005, relativo alla competenza, al
riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale.

Trattasi di un provvedimento di largo
respiro, approvato durante il semestre di presidenza italiana dell’Unione
Europea, che avrà sicuramente efficacia trainante sul piano interno, in termini
di una maggiore efficienza del servizio giustizia minorile, ma anche in termini
di "efficacia" delle decisioni, destinate a circolare in ambito
europeo senza il preventivo procedimento di exequatur.

Controversie in materia di lavoro e
previdenza sociale

Il settore delle controversie di
lavoro e previdenza sociale presenta preoccupanti aspetti di crisi con
riferimento alla durata dei processi.

In primo grado, infatti, il numero
complessivo di processi definiti dai tribunali è superiore al numero dei
processi sopravvenuti nel corso del medesimo periodo di tempo (sono stati
definiti 425.734 processi contro le 404.672 nuove iscrizioni). La pendenza si è
conseguentemente ridotta da 975.268
a 954.206. Questo dato positivo,
peraltro, è determinato dall’andamento delle cause di previdenza, mentre per
quelle di lavoro le sopravvenienze superano le definizioni.

In appello, invece, la capacità di
smaltimento del sistema è nettamente inferiore ai nuovi afflussi:
complessivamente, a fronte di 56.585 processi iscritti vi sono solo 38.981 processi definiti, sicché la pendenza è aumentata da 101.268
a 118.872.

Si è registrato un rilevante aumento
per la durata media delle cause di previdenza, sia in primo che
in secondo grado. La durata di tali cause in primo grado è stata di ben 938 giorni
(131 giorni in più rispetto alla durata media registrata l’anno precedente) ed
anche i procedimenti in materia di previdenza in grado di appello
hanno avuto una durata media di 936 giorni, e cioè di 141 giorni in più
rispetto al dato dell’anno precedente. In definitiva la durata dei processi in
materia di previdenza supera ormai quella media dei giudizi civili di appello, che è pari a 894 giorni.

Per le cause di lavoro, la durata del
giudizio di primo grado ha presentato un allungamento di 22 giorni, mentre per
il giudizio di appello si è ridotta di 9 giorni.

Se si pensa alle tradizioni di questo
settore della giurisdizione, ai valori in esso
coinvolti, al particolare modello processuale da cui esso è servito, si rende
manifesta l’esigenza di accertare le cause di questa crescente disfunzione e di
porvi efficace rimedio. L’esigenza di una giustizia rapida è
infatti resa ancora più urgente dalla crescente "precarizzazione" dei rapporti di lavoro, dovendosi
evitare che alla maggior debolezza sociale che tale fenomeno comporta per il
lavoratore si cumuli una ridotta efficacia della tutela giudiziaria dei suoi
diritti. E’ forse da tenere presente che le controversie di lavoro e previdenza
rappresentano il 43% del contenzioso civile di primo grado ed il 46% del
contenzioso civile d’appello ed è a questo dato che deve essere fatto
riferimento per determinare il numero dei magistrati da assegnare alle sezioni
lavoro.

LA GIUSTIZIA PENALE

Flussi quantitativi e dati statistici

Anche in materia penale una corretta
analisi dell’amministrazione della giustizia non può prescindere da un’adeguata
conoscenza dei flussi quantitativi riguardanti i processi, la tipologia dei
provvedimenti che li definiscono e l’andamento della
criminalità che ad essi dà origine.

I dati statistici relativi ai
procedimenti penali nel periodo 1° luglio 2003 – 30 giugno 2004, elaborati dal
Ministero della giustizia e riportati in dettaglio alle tavole 8-13 allegate
alla presente relazione, evidenziano una consistente diminuzione (-3,2%) delle
pendenze (scese a 5.579.956). Il che costituisce il consolidamento di un dato
già emerso nello scorso anno. Essi mostrano altresì un accentuato incremento
dei procedimenti definiti (6.244.909: +6,3%), che inverte una tendenza
manifestatasi negli ultimi tempi e che è all’origine della riduzione delle
pendenze. Ciò, nonostante un preoccupante aumento delle sopravvenienze
(6.420.052: +6,1%); si tratta di un segnale negativo per il futuro, che
richiederà l’intensificarsi dell’impegno della magistratura nello smaltimento di una sempre crescente mole di lavoro.

Dall’esame della
situazione nei principali uffici giudiziari del Paese (procure della
Repubblica, uffici del giudice per le indagini preliminari, tribunali, corti di
appello e Cassazione) emerge una realtà variegata.

Nelle procure della Repubblica si è
riscontrata una, sia pur lieve, contrazione di tutti i suddetti dati. Una
riduzione ancora più consistente vi è stata negli uffici del giudice per le
indagini preliminari, le cui pendenze si sono ridotte del 7%, prevalentemente a
seguito della contrazione (-15%) delle sopravvenienze (conseguente al passaggio
della competenza per alcuni reati al giudice di pace), in quanto i procedimenti
esauriti sono diminuiti del 13%.

Diversa è la situazione dei tribunali:
l’aumento di produttività del 4% è stato vanificato dalle sopravvenienze; ne è risultata una crescita delle pendenze di oltre il 7%.
Anche presso le corti di appello vi è stato un
incremento delle pendenze (+8%), che ha tratto origine dalla coesistenza di due
fattori negativi: la riduzione dei processi definiti, attestatasi intorno al
5%, e l’incremento delle sopravvenienze.

In Cassazione, infine, la riduzione
di oltre il 4% delle pendenze è dovuta sia alla
contrazione delle sopravvenienze (-3,6%), che all’aumento dei ricorsi definiti.

Le relazioni dei Procuratori generali
distrettuali evidenziano, ancora una volta, che la tanto
attesa ed auspicata "svolta" nell’amministrazione della
giustizia penale è lungi da venire. Ciò non deve indurre a supina
rassegnazione, ma a reagire con determinazione. La magistratura, per parte sua,
lo potrà fare solo incrementando ulteriormente il proprio impegno come ha fatto
nell’ultimo periodo.

Significativi elementi di valutazione si possono
desumere anche dai dati riguardanti gli esiti dei procedimenti, con la relativa
tipologia, portati alla cognizione del giudice nelle fasi delle indagini
preliminari e del giudizio di primo grado, che si svolge davanti al giudice di
pace e tribunale, e del giudizio di appello (del giudizio di cassazione si
riferirà allorché si parlerà di tale organo). Emerge da tali dati che, nel
periodo considerato, presso gli uffici GIP di entrambi
i giudici sono stati emessi 1.985.659 (+0,6%) decreti di archiviazione e 36.181
sentenze di non luogo a procedere o non doversi procedere (-6,3%). Per contro
si sono avuti 30.856 decreti che dispongono il giudizio (+1,3%), 51.519 decreti
di condanna divenuti esecutivi (-5,9%), 12.852 sentenze a seguito di giudizio
abbreviato (-5,3%) e 28.019 sentenze di patteggiamento (+7,7%). Presso i
giudici di pace ed i tribunali, invece, si sono avute 133.813 sentenze di
proscioglimento e assoluzione (+2%), 6.538 sentenze promiscue (-21,6%), 122.662
sentenze di condanna (+7,2%) e 59.558 di
patteggiamento (+13,0%).

Nei tre uffici, i procedimenti per i
quali è stata esercitata l’azione penale
complessivamente definiti sono stati 704.934 (+13,1%); di questi 181.362, pari
al 25,7%, si sono conclusi con sentenze di non luogo a procedere, di
proscioglimento e di assoluzione. La suddetta percentuale può ritenersi
attestata intorno al 30% ove si tenga conto che taluni esiti non sono
rigorosamente classificati come condanne o come
proscioglimenti (sentenze promiscue e sentenze pronunciate a conclusione di
giudizio abbreviato). A questi dati vanno aggiunti gli esiti dei processi nelle
successive fasi d’impugnazione, spesso conseguenti a
eventi maturati solo nel prosieguo del giudizio.

Relativamente al giudizio di appello, risultano
definiti 80.951 processi, dei quali 22.645, pari al 27,9%, con riforma della
sentenza di primo grado.

Per quanto riguarda i riti speciali,
i dati statistici evidenziano una contrazione del giudizio abbreviato (-5,3%),
che ha forse esaurito la sua capacità espansiva, mentre è in consistente aumento
il numero dei procedimenti definiti con il patteggiamento (+11,2%).
Complessivamente con questi due riti sono stati definiti 100.448 procedimenti,
pari al 16,2% di tutti quelli per i quali è stata
esercitata l’azione penale in procedimenti di competenza del tribunale (i soli
per i quali può farsi ad essi ricorso). Tale percentuale sale al 32,7% se si
tiene conto di tutti i riti speciali previsti dal vigente codice di rito:
giudizio abbreviato, patteggiamento, giudizio
immediato e decreto penale di condanna.

Resta da riferire in
ordine alla durata dei processi, che rappresenta ancor oggi il vero
punto dolente del sistema, specie in rapporto al livello europeo. I dati
statistici elaborati dal Ministero della giustizia evidenziano che la tendenza
verso un progressivo aumento della durata media non accenna ad arrestarsi. Infatti, a fronte di una riduzione dei tempi delle indagini
preliminari (da 375 a 347 giorni), originata anche dalla ormai piena
operatività del giudice di pace, e del procedimento davanti al giudice per le
indagini preliminari (da 316 a 293 giorni), vi è un generalizzato e consistente
aumento di durata di tutte le fasi successive del giudizio: davanti al
tribunale è passata da 348 a 377 giorni e in corte d’appello da 543 a 606
giorni.

Nell’insieme, ove si
ipotizzi un procedimento che si snoda nelle fasi delle indagini
preliminari, dell’udienza preliminare, del giudizio di primo grado in tribunale
e di quello di appello, la sua durata media è di 1.623 giorni, rispetto ai
1.582 giorni del periodo 1° luglio 2002 – 30 giugno 2003 (qualora si tenga
conto dell’eventuale giudizio di cassazione, occorre aggiungere ulteriori 218
giorni).

La situazione della giustizia penale
italiana è, comunque, peggiore di quel che emerge da
tali dati. Questi, infatti, si riferiscono a medie che comprendono anche i
processi che si esauriscono in pochi giorni, se non in poche
ore. Inoltre, come già è stato rilevato negli anni passati, i tempi effettivi
sono ancora più lunghi: quelli dianzi riportati
tengono conto solo del lasso temporale che intercorre tra il momento in cui un
procedimento è incardinato in un determinato ufficio e quello in cui viene
adottato il provvedimento che definisce la relativa fase; non anche del tempo
necessario per la redazione del provvedimento definitorio
e per la trasmissione degli atti al giudice della fase successiva.

L’attività del giudice di pace

Ad oltre due anni
dall’attribuzione della competenza penale al giudice di pace è possibile fare
una più approfondita valutazione della sua attività. La riforma, dopo le iniziali ed
inevitabili difficoltà, ha iniziato a fornire i primi risultati significativi che consentono di esprimere un giudizio
positivo in termini di quantità di lavoro complessivamente svolto.

Il giudice di pace espleta
adeguatamente anche quel ruolo di conciliazione che la legge gli ha attribuito,
pur se non si conoscono ancora dati percentuali sicuri su questo tipo di
definizione dei procedimenti.

Non si è affermata una linea di
tendenza prevalente nell’utilizzo "tabellare"
dei giudici di pace che, in alcune realtà, continuano ancora a svolgere
funzioni promiscue, soprattutto per il modesto carico di lavoro presente nel
settore penale. E’, peraltro, emerso che, negli uffici nei quali si è
realizzata una più attenta ed equilibrata ripartizione del carico di lavoro tra
il settore penale e quello civile, la scelta organizzativa di giudici di pace
che si occupano esclusivamente della materia penale ha contribuito a dare una
maggiore speditezza al lavoro ed a raggiungere un maggiore livello qualitativo
dei provvedimenti emessi, così elevando anche la considerazione goduta dai
giudici.

L’attribuzione al giudice di pace
della competenza per reati di modesto allarme sociale ha avuto un indubbio
effetto deflattivo sui carichi di lavoro dei
tribunali: nel periodo 1° luglio 2003 – 30 giugno 2004 esso è stato pari al
12%; tale è infatti il rapporto percentuale tra i
procedimenti definiti dal primo (294.773, ivi compresi i decreti di
archiviazione emessi dal giudice per le indagini preliminari costituito presso
di esso) e quelli definiti dai secondi (2.455.378, considerati anche i
provvedimenti adottati dal giudice per le indagini preliminari). E’ impossibile
fare raffronti di pendenze, sopravvenienze e definizioni perché quello considerato
è stato il primo anno di piena operatività del nuovo organo della giustizia
penale; la produttività è, comunque, in aumento.

E’ significativo
rilevare, inoltre, che – pur in presenza di una competenza penale estesa a
circa cinquanta reati – quella concretamente esercitata si sta concentrando su
un numero di reati abbastanza ristretto (percosse, lesioni personali, minacce,
ingiurie, diffamazione e danneggiamento).

Va, poi, sottolineata
la modesta incidenza del "ricorso immediato al giudice", istituto
questo che, innovando in maniera moderna sulla rigida concezione dell’esercizio
dell’azione penale da parte del pubblico ministero, offre alla persona offesa
del reato la possibilità di ottenere una risposta di giustizia in tempi assai
rapidi. Evidentemente l’istituto, che comporta la assistenza
obbligatoria del difensore, non è stato ancora metabolizzato, preferendosi dare
inizio al procedimento mediante il tradizione strumento della querela,
rinunziando senza ragione ad un mezzo di reale attuazione del principio di
economia processuale.

Il ruolo dell’ufficio della procura
della Repubblica e l’impegno dei magistrati del pubblico ministero nel
procedimento penale dinanzi al giudice di pace costituisce ancora il vero
problema giacché, nonostante l’adozione di specifici moduli organizzativi
attuati in molti uffici di procura e l’impiego della polizia giudiziaria e dei
vice-procuratori onorari, la istituzione del nuovo
organo giudicante non ha comportato una significativa riduzione del lavoro.

Anche in materia penale le impugnazioni
delle sentenze sono percentualmente limitate.

A) ASPETTI GENERALI. GIUSTIZIA PENALE
ED EFFICACIA

Le finalità del processo penale. La
mediazione costituzionale

Il sistema della giustizia criminale
è da tempo chiamato ad affrontare la sfida di una impressionante
esplosione della criminalità: si calcola che dalla fine della seconda guerra
mondiale in tutto il mondo occidentale i tassi di criminalità si siano
addirittura decuplicati.

Questa massa critica di reati preme
su strutture organizzative della giustizia penale, in proporzione, poco
finanziate e poco irrobustite.

La società civile percepisce
drammaticamente questa situazione: il crimine non è più un fatto marginale, ma
un fattore sociale ormai tipico. Nella vita di ogni
giorno ciascuno può essere vittima di un reato. I dati statistici sono chiari: quest’anno, pur se si è registrata una lieve flessione
(-1,5%), si sono avute oltre tre milioni di notizie di reato (tra delitti e
contravvenzioni). Se a questa cifra aggiungiamo la cifra oscura del crimine,
siamo inevitabilmente portati a delineare uno scenario
dirompente: epidemia del crimine e rischio di vittimizzazione
di massa.

Tale situazione altera il significato
e i fini del processo penale.

Al di là dell’alternativa inquisitorio-accusatorio
che opera all’interno del processo penale, attualmente si scontrano due
concezioni che riguardano il processo penale in sé, come tutto.

Secondo la concezione tradizionale
esso ha il fine di perseguire la giustizia attraverso la verità: sempre e ad
ogni costo. Il processo ha una sua sacralità, che lo rende insensibile ad ogni
problema di efficienza. Non c’è alcuna considerazione
di costo economico e sociale che possa intralciare
l’accertamento anche del più lieve dei reati.

Perquisizioni, sequestri,
intercettazioni, testimonianze, perizie trovano limiti interni al processo (cioè, i requisiti legali fissati per la loro esperibilità e i tempi massimi delle indagini preliminari),
ma non limiti esterni dati dalle risorse disponibili e dagli altri costi
sociali. L’etica del processo è un’etica dei principi.
All’interno di questa prospettiva, il problema del processo penale è
esclusivamente quello dell’accertamento veridico dei fatti. Di
qui la centralità del rapporto potere-garanzie. In questo processo ad una espansione del potere che prescinde dai costi fa
riscontro l’espansione di garanzie, che parimenti prescindono dai costi.

Ma c’è anche un nuovo modo di intendere
il processo penale, un modo pragmatico che all’etica dei principi sostituisce
l’etica della responsabilità. Il processo deve fare i conti con risorse scarse,
tempi limitati e una massa enorme di lavoro. E ci sono
anche costi sociali che gravano su soggetti estranei al processo (pensiamo a
tutti i mezzi di prova che coinvolgono persone diverse dall’indagato).

Anche la verità ha un costo. Anche la giustizia è limitata dai mezzi a disposizione. Come
il diritto penale, anche il processo penale va
desacralizzato. Va visto per quello che è: un fondamentale servizio sociale,
che va gestito con la logica di un servizio sociale. Secondo questo
orientamento è efficiente il processo che riesce a trattare in tempi
ragionevoli più casi possibili, minimizzando l’errore giudiziario (in primo
luogo, la condanna dell’innocente; ma in secondo luogo anche l’assoluzione del
colpevole), ma minimizzando anche le esternalità
negative (cioè i costi che paga la società per il processo).

Si ridefiscono
i fini del processo ed in relazione ad essi si
determina l’efficacia del processo (rapporto fini-risultati). In questa
prospettiva diventa essenziale l’utilizzazione ottimale
dei mezzi allo scopo di massimizzare l’utilità attesa (di qui il criterio di
efficienza, cioè il rapporto mezzi-risultati). Il processo per essere efficace,
deve essere efficiente. Questo significa fissare un sistema di priorità,
rinunciare alla verità come imperativo categorico, razionalizzare i costi e i
tempi delle indagini, del giudizio, delle impugnazioni.

Queste due visioni del processo
penale sono antagoniste: da un lato, il processo come funzione assoluta e
variabile indipendente; dall’altro, il processo come servizio sociale.

Infatti, la prima porta ad una espansione dei costi e delle garanzie (la verità
innanzitutto, costi quel che costi) la seconda ad una loro contrazione. Da un lato, la sentenza come verità, dall’altro la sentenza come
prodotto. Da un lato, la mentalità di un rito sacrale,
dall’altro lo stile dell’efficienza manageriale.

Per mediare tra i due modelli si
auspica l’introduzione di modelli organizzativi per gli uffici giudiziari e di indici di efficienza per il lavoro dei magistrati. Ma
questo non basta, perché la contraddizione tra le due idee di processo rimane in attesa di una difficile mediazione, che realmente sia
funzionale.

Questa mediazione viene, se non
suggerita, certo sollecitata dalla Costituzione.

Infatti, in essa
noi troviamo l’affermazione di garanzie irrinunciabili nel processo, ma anche
l’affermazione di un principio di efficienza del processo penale nel suo
insieme, desumibile agevolmente dal principio di ragionevole durata. Invero,
perché un processo sia ragionevole nei tempi, è necessario che l’allocazione
delle risorse scarse di cui dispone il sistema sia la più profittevole
possibile, cioè la più efficiente.

La ipercriminalizzazione

Non sembra che la logica
dell’efficacia ispiri il sistema della giustizia penale attuale. Val la pena di
ripercorrere, alla luce del criterio di efficacia, i
principali passaggi di tale sistema.

Non tutti i mali del processo penale
sono interni ad esso. Ci sono mali indotti.

Innanzitutto, le politiche criminali degli ultimi
decenni si sono focalizzate sulla repressione più che sulla prevenzione. Questo
è stato un errore di prospettiva per due ragioni. La prima è che la giustizia
penale non è in grado di gestire tassi elevati di criminalità. La seconda è che
molti reati a vasta diffusione e a maggior impatto sul sistema processuale sono
ricorrenti e prevedibili, perché scaturiscono da situazioni criminogenetiche
ormai tipiche: quindi, una strategia di prevenzione delle situazioni di rischio e di riduzione delle opportunità di commettere
reati inciderebbe efficacemente sui tassi di criminalità.

Alla crescita delle aspettative sociali di sicurezza si è risposto con la ipercriminalizzazione. Una legislazione penale ritorsiva è
servita a bilanciare il senso di insicurezza
collettiva.

Ma è illusorio pensare che le leggi
penali siano a costo zero. Esse non hanno bisogno di copertura finanziaria, hanno però pesanti costi di attuazione (si pensi all’impatto
sulle strutture investigative e processuali).

In primo luogo, l’inflazione di norme
penali porta, a lungo andare, ad una perdita di
autorità delle stesse. La curva di capacità di deterrenza
e prevenzione della norma penale si piega sempre di più.

La legislazione penale da effettiva tende a diventare simbolica.

Il sovraffollamento di norme penali,
spesso di difficile interpretazione, genera un eccesso di reati e un eccesso di processi, che rendono inefficace la risposta
giudiziaria. L’inefficacia del processo penale rende, a sua volta, inefficace
l’impatto motivante della norma penale sui comportamenti sociali.

Applicando il modello costi-benefici
si rileva che l’incremento di criminalizzazione
aumenta progressivamente i costi sociali e ne riduce i benefici. L’efficacia
del processo penale è minata alla radice dalla inefficacia
della legge penale.

In un ordinamento fondato sulla obbligatorietà dell’azione penale è contro ogni logica
di efficacia l’espansione del diritto penale.

Efficacia del processo:

a) I "costi" delle indagini
preliminari e delle attività difensive.

Aggiungasi a quanto fin qui detto che
all’aumento dei tassi di criminalità (sia della criminalità
tradizionale, sia della nuova criminalità dovuta all’espansione delle norme
penali), si è accompagnato un aumento delle garanzie processuali. Questo
duplice contestuale aumento ha comportato un sensibile
incremento del costo (in termini di tempo e di risorse umane e
finanziarie) dell’indagine preliminare e dell’esercizio dell’azione penale.

In un sistema ad azione penale
obbligatoria è inevitabile che si siano cercati strumenti in grado di
fronteggiare la massa d’urto di migliaia di fascicoli.

In questo modo si sono creati alcuni
effetti distorsivi dell’indagine preliminare: a) la amministrativizzazione
dell’indagine preliminare, mediante il costante ricorso alla delega delle
indagini alla polizia giudiziaria: così viene a trasformarsi il ruolo del
pubblico ministero da titolare dell’indagine preliminare ad organo di controllo
sulla stessa; b) la burocratizzazione dei principali momenti dell’indagine
preliminare (imputazioni-standard e motivazioni-tipo dei principali atti del
pubblico ministero): in questo modo l’indagine si trasforma in catena di
montaggio, cioè in un meccanico processo produttivo di imputazioni o di
archiviazioni; c) la selettività statistica delle notizie di reato: sotto la
pressione dei termini delle indagini preliminari e dei termini prescrizionali
brevi si tende a favorire lo smaltimento della massa delle notizie di reato
seriali (i c.d. casi facili) rispetto ai casi c.d. difficili; d) la modifica
dei protocolli di indagine orientata verso mezzi ritenuti più incisivi, anche
se più dispendiosi in termini di costi sociali (per l’invasività
di taluni di essi) e finanziari, quali intercettazioni (le cui spese sono in
costante ascesa, essendo passate da 116.218.999 euro del primo semestre del 2003 a 146.108.289 euro del
primo semestre del 2004), perquisizioni, consulenze, ecc.; e) da ultimo,
l’indebolimento del potere negoziale del pubblico ministero rispetto alla
prospettiva del patteggiamento.

Effetti distorsivi
dell’efficacia del sistema si rinvengono anche sul versante dell’attività
difensiva. Invero, la difesa è un servizio di pubblica necessità che si inserisce necessariamente in una logica di mercato. In presenza di un notevole numero di avvocati (e quindi, di
una espansione dell’offerta) il mercato delle prestazioni forensi può
raggiungere un equilibrio dinamico solo dilatando la domanda. Di qui una delle
cause della iperlitigiosità
che affligge il nostro sistema.

Questo fenomeno si manifesta sia
mediante la produzione di nuovi processi, sia mediante la dilatazione delle
attività processuali nell’ambito di ciascun processo. Il singolo difensore può
sottrarsi a questa logica in virtù di opzioni
personali. Ma indubbiamente la tendenza oggettiva è
quella.

Si potrebbe pensare che l’ampliamento
delle garanzie difensive giovi all’efficacia del
processo. In realtà, non è così.

Un processo ipergarantito
è un processo ipercostoso, cui possono
accedere in pochi. Il rischio è che all’interno delle strutture di un processo
apparentemente unitario vengano nella prassi a crearsi due tipi empirici di
processo penale: quello più garantito per chi può
permetterselo e quello meno garantito per chi non può permetterselo.

Infatti, la logica costi-benefici comporta distorsioni nella struttura e nel tipo di attività
difensiva, implementando una strategia di difesa processuale (eccezioni,
richieste, impugnazioni) piuttosto che una strategia di difesa sostanziale
(indagini difensive e acquisizioni di prove).

Nel caso dell’imputato abbiente, la
difesa ha possibilità ed interesse a muoversi sia sul fronte delle indagini
difensive, sia sul fronte degli strumenti processuali.

Nel caso invece di imputato
non abbiente, la strategia delle indagini difensive appare antieconomica (alti
costi a fronte di profitti incerti), mentre altamente profittevole è la
strategia degli strumenti processuali: per il difensore è attività remunerata
che comporta poca spendita di tempo; per l’imputato
il costo processuale è nullo a fronte di un beneficio possibile (per male che
vada, l’eccezione, la richiesta, l’impugnazione vengono rigettate; se va bene
invece il profitto è notevole).

Questa opzione
nelle strategie difensive è chiaramente visibile nelle difese di ufficio e/o a
spese dello Stato e l’aumento esponenziale di tali difese (e dei relativi
costi, che nel triennio 1999-2002 sono più che raddoppiati essendo passati da
ventuno a oltre quarantaquattro milioni di euro) negli ultimi anni lascia
presagire un consolidamento di tale orientamento.

In questa logica costi-benefici della
parte complessa imputato-difesa il ricorso ai riti differenziati
diventa una extrema ratio, che risponde al criterio
del costo-opportunità e del vantaggio comparativo: l’imputato vi accede quando
tale opzione è più conveniente delle altre, cioè quando i benefici della
riduzione di pena sovrastano i benefici prevedibili degli altri strumenti
processuali.

Va aggiunto che la strategia della
difesa (dilatazione delle prestazioni professionali, riduzione dei tempi di
lavoro, massimizzazione delle utilità attese) risponde sostanzialmente alle aspettative dell’imputato, che vuole rischiare poco, pagare
poco e ottenere il massimo profitto possibile dalle garanzie processuali.

Si verifica, in definitiva, un conflitto tra la
logica dell’efficienza (costi-benefici) del processo e la logica
dell’efficienza (sempre costi-benefici) dell’imputato e della difesa.

b) Il rapporto delle indagini
preliminari con i riti speciali ed il dibattimento

Non risponde compiutamente alla
logica dell’efficacia il rapporto indagini preliminari-riti differenziati.

Nel segno dell’efficacia si muove
certamente il patteggiamento, che non richiede né completezza di indagine né integrazioni probatorie. Ma sembra rispondere
a criteri di maggiore efficienza la anticipazione del
termine finale della richiesta di patteggiamento all’udienza preliminare,
quando ormai le parti processuali hanno una conoscenza completa del contesto probatorio
e quindi sono in grado di prendere decisioni informate.
In tal modo ci sarebbe un sensibile risparmio di tempo
e di risorse.

Nel segno, invece, dell’inefficacia
appare il giudizio abbreviato, come dimostra la sua tormentata storia: esso
postula indagini preliminari complete e prevede la possibilità di penetranti
integrazioni probatorie. In questo modo, a fronte di una cospicua riduzione di
pena, c’è un esiguo risparmio di tempo e di risorse. Anzi, la riduzione di pena
può avvenire anche nel caso in cui non ci sia
contrazione di attività probatoria (per esempio, quando venga ritenuta erronea
la decisione del giudice di negare l’abbreviato). Nonostante ciò, scarso è,
tuttora, il successo di tale rito: su oltre 700.000 procedimenti definiti dal
giudice per le indagini preliminari (con esclusione delle archiviazioni) ed in
primo grado si è fatto ricorso ad esso solo in poco
meno di 13.000.

Ma la maggiore inefficacia si rileva
nel rapporto indagini preliminari-dibattimento.

Il nostro sistema processuale mostra
una chiara avversione al rischio epistemologico. La paura di rischiare l’errore
porta ad una duplicazione di attività probatoria e ad
una fitta serie di controlli. Il risultato è che l’utilità marginale derivante
dall’incremento di garanzie diminuisce, mentre aumentano esponenzialmente i
costi interni ed esterni del processo.

Un solo esempio. Per giungere ad una
sentenza di condanna definitiva, il processo deve passare attraverso le
seguenti fasi: 1) indagini garantite del pubblico ministero (anche
nell’interesse dell’indagato) e indagini difensive; 2) discovery
dei risultati delle indagini e potenziale contraddittorio prima della richiesta
di rinvio a giudizio; 3) udienza preliminare; 4) giudizio di primo grado; 5)
giudizio di appello; 6) giudizio di cassazione. A
tutto questo occorre aggiungere: a) una rigorosissima disciplina delle
incompatibilità del giudice; b) un regime delle nullità e della
inutilizzabilità congegnate più come insidie che come garanzie; c) un
sistema che trasforma ogni eccezione in motivo di impugnazione.

E’ difficile immaginare un sistema
più garantito di questo. Ma è anche difficile
immaginare un sistema più inefficiente e inefficace di questo.

E’ come se il sistema sanitario
nazionale – con le risorse a disposizione – volesse garantire controlli di
massa per ogni tipo di prevenzione e assistenza sanitaria completa a tutti,
senza tener conto della gravità della malattia e senza fissare alcuna priorità.

L’indagine preliminare, che doveva
essere una fase strutturalmente limitata e funzionalmente servente rispetto al
giudizio, si è dilatata al punto da diventare un processo
prima del processo. Ma le prove raccolte
valgono solo in piccola parte per il dibattimento. In questo modo il nostro
processo penale è diventato un processo a doppio
centro di gravità e con una doppia raccolta di prove: l’indagine preliminare e
il dibattimento. C’è, in altri termini, una enorme spendita di tempo e di risorse ad effetto limitato. In
dibattimento tutto ciò che è stato fatto prima viene
pressoché azzerato e si ricomincia daccapo.

c) I mezzi di impugnazione

Come già rilevato in precedenti
occasioni, altro momento critico del nostro processo è il regime delle
impugnazioni. La logica del codice è quella del controllo totale: ogni
provvedimento del giudice o anche del pubblico ministero deve essere sottoposto
a controllo. E ogni controllo, a sua volta, genera ulteriori
controlli.

Questo sistema va radicalmente
ripensato. Esso è, prima di tutto, privo di giustificazioni teoriche.

Invero, il sistema di controlli
progressivi è coerente con un modello di accertamento
del fatto compiuto unilateralmente da poteri pubblici. Ma
non appare più coerente in un processo di parti, in cui la ricostruzione del
fatto avviene attraverso apporti informativi
delle parti in contraddittorio. Inoltre, l’idea che la sentenza di secondo
grado sia più "giusta" (cioè, contenga un
accertamento più veridico) di quella di primo grado è un postulato normativo,
ma non ha alcuna evidenza logica.

In secondo luogo, l’analisi economica
del diritto ci dice che il sistema delle impugnazioni
costituisce un esempio lampante di allocazione inefficiente delle risorse.
L’impugnazione, infatti, è altamente profittevole per
l’imputato perché il profitto atteso è tanto e il costo è zero: se si
moltiplica la probabilità di eliminazione di un ergastolo (non altissima) per
l’interesse in gioco (viene rimossa una condanna all’ergastolo), la estimated utility è riguardevole.
Analogamente è a dirsi se lo scopo perseguito è la
prescrizione, sulla quale non posso che confermare le considerazioni svolte
nella relazione dello scorso anno. Il suo perseguimento rischia addirittura di
essere agevolato se i relativi termini saranno ridotti, con ulteriore
incremento delle impugnazioni e vanificazione del lavoro delle forze
dell’ordine e dei magistrati, soprattutto per quanto attiene ai processi in
corso, già calendarizzati sulla base dei termini
attualmente vigenti.

Se poi diluiamo l’onere di
persuasione a carico dell’appellante e del ricorrente e lo allochiamo sul
giudice, allora l’impugnazione diventa una attrattiva
irresistibile!

Le impugnazioni vanno riviste sotto
una triplice direttiva: a) limitazione della legittimazione ad impugnare gli
atti del procedimento principale di cognizione; b) limitazione dei motivi di impugnazione, evitando in particolare l’automatismo
processuale per cui ogni eccezione non accolta diventa motivo di impugnazione;
c) limitazione dei provvedimenti impugnabili, con riguardo soprattutto a quei
provvedimenti endoprocessuali che non incidono sui
diritti di libertà e che hanno un breve respiro temporale.

In attesa di una radicale riforma del
sistema, occorre valorizzare gli strumenti processuali a disposizione mediante
una interpretazione funzionalistica ispirata al
principio costituzionale della ragionevole durata del processo.

A tal fine vanno innanzitutto
redistribuiti gli oneri processuali.

Anche nel giudizio di
appello va riaffermato l’onere dell’appellante (pena l’inammissibilità)
di specificare le ragioni di fatto e di diritto dei motivi proposti.

Nel giudizio di cassazione, invece, è
onere del ricorrente dimostrare la decisività del motivo di ricorso: il ricorso
per cassazione è un’azione di annullamento e non può
esservi annullamento (e quindi interesse ad agire e a eccepire) dove il motivo
di ricorso non è decisivo.

Il giudice di legittimità non è il giudice della legalità del processo, ma è il giudice della
legalità della sentenza. Il che significa che non qualsiasi
vizio verificatosi nel processo, ancorché insanabile, può essere dedotto e
discusso in cassazione, ma solo quel vizio del processo che si trasforma in un
vizio fatale della sentenza.

Pertanto, rispetto ad ogni motivo di
ricorso il giudice deve procedere ad un duplice test: un test
di rilevanza del motivo e – solo dopo che si è superato tale test – un test di
fondatezza del motivo. Se il ricorrente non ottempera ai suoi oneri, non vi può
essere una supplenza del giudice, perché il processo di parti è tale anche nei
gradi di impugnazione: il motivo va dichiarato irricevibile, cioè inammissibile. L’affermazione che quello
attualmente vigente in Italia è "un processo
ispirato al principio dispositivo", con tutte le conseguenze che ne
derivano in tema di oneri di allegazione e probatorio, è contenuta anche in una
recente sentenza delle Sezioni unite (17 novembre 2004, n. 45189/04).

Probabilmente, infine, il principio
costituzionale di ragionevole durata del processo dovrebbe orientare un
ripensamento della intera questione del vizio di
motivazione.

L’area del vizio di motivazione
andrebbe drasticamente ridotta (attraverso i filtri della specificità del
motivo e della decisività del vizio). Poi, in questa area
ristretta, dovrebbe farsi largo e occupare uno spazio dominante l’annullamento
senza rinvio. In fondo, la illogicità manifesta su un
punto decisivo – se è davvero tale – non dà scampo. Qui il vizio mortale non è
solo nella sentenza, ma è prima di tutto nel processo.

d) I procedimenti cautelari

I procedimenti cautelari si
moltiplicano e si strutturano al punto da diventare
processi collaterali e paralleli al processo di cognizione: basti pensare che i
c.d. procedimenti incidentali sono diventati dei subprocedimenti
articolati su più gradi fino al possibile epilogo nel giudizio di cassazione.

La decisione su un procedimento
incidentale in molti casi è più complessa della decisione sul procedimento
principale.

Un recupero di efficienza
del processo impone di porre un argine normativo alla proliferazione dei
procedimenti incidentali, un filtro rigoroso alla loro ammissibilità, forme
semplificate quanto alla decisione e una barriera di preclusioni alla loro
impugnazione. Altrimenti, si alimenta un circuito micidiale tra procedimenti
cautelari e procedimento di cognizione: la presenza
dei primi allunga oltre il ragionevole la definizione del processo di
cognizione, poi la lentezza di quest’ultimo rende
inevitabile il ricorso ai primi.

Significativi, anche in questo caso, sono alcuni
dati numerici: su oltre 37.000 istanze pervenute al tribunale del riesame solo circa 9.500 si sono concluse con esito
totalmente o parzialmente favorevole all’istante.

e) Le patologie processuali

Il principio di garanzia ha portato
ad una proliferazione di situazioni di inutilizzabilità
di prove e di invalidità di atti. Il processo penale è ormai diventato un
contorto e accidentato sentiero, disseminato di insidie.

Il sistema delle invalidità, per come è congegnato, è inefficiente sotto un duplice profilo. Innanzitutto, esso invoglia a sollevare questioni di nullità
o inutilizzabilità. Per la difesa il costo processuale
è nullo e il profitto possibile è massimo. Per male che vada,
le cose rimangono come prima: si è aggravato solo l’obbligo di
decisione-motivazione del giudice. In secondo luogo, è contro ogni logica di efficacia che nullità assolute e inutilizzabilità possano
essere eccepite o rilevate, anche per la prima volta, in cassazione, con la
possibilità di azzerare interi gradi di giudizio: come dire, far girare a vuoto
la macchina processuale con dissipazione irrimediabile di tempi e risorse.

Il principio costituzionale di
ragionevole durata del processo dovrebbe in questo campo portare alla
rielaborazione anche normativa della categoria delle invalidità, in modo da
valorizzarne la dimensione funzionalistica (cioè, la lesività in concreto) e
non l’aspetto ritualistico.

Occorrerebbe, inoltre, porre un
limite temporale alla rilevazione delle nullità e inutilizzabilità. Ma sarebbe
soprattutto necessario valorizzare il concetto di onere
ed agganciare ad esso la sanzione di inammissibilità: chi eccepisce la
invalidità deve ottemperare all’onere di specificare le ragioni fattuali e giuridiche della sua fondatezza e dimostrare il
concreto pregiudizio derivatone.

B) I VARI TIPI DI CRIMINALITA’.
L’AZIONE DI CONTRASTO

L’andamento della criminalità.
Considerazioni generali

Giova premettere che le
considerazioni qui di seguito svolte sono state desunte non solo dalle
relazioni dei Procuratori generali distrettuali, ma anche dai dati
sull’andamento della criminalità forniti dall’Istituto Nazionale di Statistica,
che ha predisposto per la Procura generale presso la Corte di cassazione le tavole 14 e s. allegate alla presente
relazione. Tali dati non sono perfettamente sovrapponibili a quelli elaborati
dalle Forze di polizia e dallo stesso Istituto ad altri scopi per un triplice
ordine di ragioni: essi tengono conto dei soli delitti, non anche delle
contravvenzioni; il periodo preso in considerazione è sempre di un anno, ma ai
fini che qui interessano l’anno non è quello solare, bensì il periodo compreso
fra il 1° luglio ed il 30 giugno successivo; inoltre i dati ISTAT, a differenza
degli altri, hanno riguardo non già al momento della commissione dei fatti di
reato, bensì a quello nel quale gli stessi assumono una rilevanza giudiziaria
mediante l’esercizio dell’azione penale, se ne sono noti gli autori, ovvero, se gli autori sono rimasti ignoti, a seguito della
loro iscrizione nel relativo registro degli uffici di procura.

Tra il 1° luglio 2003 ed il 30 giugno
2004 i delitti per i quali è stata esercitata l’azione
penale o si è proceduto alla appena ricordata iscrizione sono stati 2.886.281,
con un aumento, rispetto all’analogo periodo precedente, di 104.029 unità
(+3,7%). Tale dato, pur non tenendo conto dei gravi episodi di criminalità
verificatisi nel secondo semestre dell’anno appena decorso, evidenzia una inversione di tendenza se si tiene conto della
contrazione (-1,3%) registrata nella relazione dello scorso anno; ma da un
esame attento delle singole tipologie criminose emerge che alla sua origine vi
è l’impressionante aumento delle truffe, le quali sono più che raddoppiate. Il
fenomeno sembra attribuibile all’incremento delle truffe informatiche
mediante l’uso della telefonia mobile e di Internet,
nonché alle iniziative poste in essere dalle associazioni di consumatori in
occasione di eventi collegati al mercato finanziario ed obbligazionario. Infatti le altre manifestazioni criminose, sia pure con
talune eccezioni, evidenziano complessivamente una tendenza alla riduzione, come
risulta dalla tabella qui di seguito riportata:

Omicidi tentati e consumati 3.140
(+2%)

Rapine 52.574 (-6%)

Estorsioni 7.969 (-4%)

Sequestro di persona a scopo di estorsione 229 (+4%)

Violenza sessuale 6.050 (+48%)

Maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli 4.873 (+5%)

Bancarotta 5.439 (-5%)

Stupefacenti 31.696 (-10%)

Truffe 254.169 (+130%)

Furti 1.414.305 (-7%)

Permane ancora assai elevato il
numero dei delitti dei quali sono rimasti sconosciuti
gli autori. Il segnale positivo evidenziato nella
relazione dello scorso anno ha subito una, sia pur lieve, battuta di arresto:
nel periodo considerato sono stati 2.320541 (+3,7%), pari all’81% di tutti i
delitti denunciati (nel periodo precedente erano stati 2.236.650,
corrispondenti all’80% del totale). Sono rimasti ignoti il 95% degli autori di
furti (1.343.891: un punto percentuale in meno rispetto al periodo precedente),
circa il 50% degli omicidi tentati e consumati e l’80%
delle rapine. Siffatte percentuali si attestano al 66% se si tiene conto di
tutti i delitti esclusi i furti, con un lieve
incremento (+4%) rispetto al periodo 1° luglio 2002 – 30 giugno 2003.

Debbo, ancora una volta, rinnovare un
pressante invito a tutte le istituzioni interessate per un sempre più intenso
impegno volto a ridurre in maniera consistente tali percentuali e, quindi,
l’area dell’impunità. E’ proprio tale impunità che, da un lato, alimenta la
delinquenza, dall’altro determina nei cittadini quel senso di
insicurezza oggi assai diffuso anche quando riguarda delitti che li
colpiscono nei loro beni materiali.

La criminalità organizzata

Il fenomeno della criminalità
organizzata presenta mutamenti progressivi in stretta connessione con il suo
adeguamento alle dinamiche della società globalizzata. Essa è tuttora presente nei tradizionali
settori dell’illecito: traffico, nazionale ed internazionale, di sostanze
stupefacenti, commercio illegale di armi, ecomafia, tratta di donne, riciclaggio di denaro sporco,
commercio illegale di armi, molteplici forme di cybercrime,
ecc.

Si tratta di una forma di criminalità
che realizza una frattura profonda tra i valori che si intendono
perseguire all’interno della società civile e la loro concreta attuazione nel
tessuto sociale, soprattutto in molte regioni già afflitte dagli annosi
problemi derivanti da un’economia non particolarmente florida e dall’elevato
tasso di disoccupazione.

L’evoluzione delle organizzazioni
verso forme di modelli imprenditoriali determina una delega della gestione dei
traffici minori. Ciò crea un eccezionale livello di competizione tra i diversi
nuclei malavitosi, che cercano di legittimarsi attraverso una capillare
attività che si caratterizza per la forte aggressività con la quale essi
operano nei settori economici, politici ed istituzionali e la propensione a
dimostrare la propria capacità intimidatoria, anche con gesti eclatanti, per
affermare il proprio primato nel contesto criminale.

a) La criminalità organizzata di origine nazionale

La delinquenza di tipo mafioso di origine autoctona continua a manifestarsi attraverso
"cosa nostra" in Sicilia, la "ndrangheta" in Calabria, la
"camorra" in Campania ed i sodalizi riconducibili alla criminalità
organizzata pugliese. Coinvolge, quindi, gran parte del Meridione d’Italia,
anche se dall’Annuario statistico italiano del 2004 (capitolo 6, tavola 18)
emerge che questa è la zona del Paese in cui si delinque di meno: 3.629,8
delitti per ogni centomila abitanti a fronte di una media nazionale di 4.265,1
(4.603,5 per il Nord e 4.655,5 per il Centro); trattasi di un dato meramente
quantitativo che non deve essere letto disgiuntamente dalla "qualità"
dei crimini e che, ovviamente, non tiene conto dei delitti non denunciati all’autorità (ma ciò vale anche per le altre zone del Paese).

Cosa nostra continua a perseguire una
politica tesa a rafforzare la credibilità sul
territorio ed a ridurre l’allarme sociale così da poter meglio realizzare i
remunerativi obiettivi economici. In questa logica gli attuali vertici
dell’organizzazione cercano di ammortizzare le spinte
centrifughe e di legittimare la loro leadership nei rispettivi contesti.

Si è tuttora in
presenza di una fase di transizione della struttura criminale orientata
ad un riassetto organizzativo che si caratterizza per una accentuata
trasversalità territoriale, diversa dai tradizionali canoni, e che si richiama
a sistemi di organizzazione alternativi ma non meno efficaci.

Il quadro delineato non appare
peraltro immutabile giacché sussistono potenziali
fattori di instabilità generati dai dissensi sulla definizione delle strategie
generali dell’organizzazione, oscillanti tra l’esigenza di
"inabissamento" e la reazione contro le istituzioni e, all’interno
del mondo carcerario, tra taluni dei protagonisti della precedente politica
stragista ed i fautori di tentativi di mediazione.

L’evoluzione dell’attuale scelta di
minor profilo dipenderà dai rapporti di forza che si verranno a creare tra i
soggetti in libertà che, a loro volta, influenzeranno gli assetti futuri
dell’organizzazione.

La specificità di questa forma
delinquenziale si riverbera sul piano delle indagini, che richiedono schemi
investigativi, diversi da quelli ordinari, volti a ricostruire i contesti eziologici negli ambiti
superindividuali dell’organizzazione.

Recenti indagini confermano la
presenza massiccia del fenomeno estorsivo che si sviluppa con un meccanismo
pulviscolare di riscossione a tappeto, teso a rendere palese a
tutti la vigenza della regola illegale della "imposizione
fiscale". Tale modus operandi ben si inserisce nella scelta strategica di sommersione
in quanto non necessita di dimostrazioni violente, che inevitabilmente
determinano una più intensa reazione da parte dello Stato, ovvero di richieste
di ingenti somme di denaro in danno di pochi imprenditori, che possono indurre
le vittime a rompere il muro dell’omertà.

Il fabbisogno di risorse finanziarie
per il mantenimento della struttura organizzativa è dimostrato dal
coinvolgimento di alcuni "uomini d’onore" anche nei prestiti ad
usura, attività alla quale "cosa nostra" era, finora, rimasta
estranea.

Sempre rilevante e complessa è
l’attività di indagine finalizzata alla ricerca dei
canali internazionali di riciclaggio del denaro sporco ed alla scoperta dei
soggetti esterni (in particolare, operatori economici e finanziari) di cui l’organizzazione
si avvale per attuare tali illeciti scopi.

Dalle più recenti acquisizioni
investigative e processuali risulta, con ragionevole
certezza, che continua immutata la tendenza della criminalità organizzata
nazionale ad infiltrarsi nelle iniziative economico-imprenditoriali, non solo
perché ciò favorisce il consolidamento della sua potenza economica e quel
controllo del territorio essenziale alla sua stessa sopravvivenza, ma anche
perché permette di instaurare proficue relazioni con importanti esponenti della
politica, dell’imprenditoria, della finanza e della stessa pubblica
amministrazione.

Nell’ambito di numerosi procedimenti
sono più volte emersi elementi probatori riguardanti l’esistenza di una vasta
rete di fiancheggiatori; tali fiancheggiatori
rappresentano quella che comunemente è indicata come "l’area grigia"
della società, di cui l’organizzazione si avvale per aumentare la propria
capacità di manovrare l’immenso potenziale economico.

Un’attività di fiancheggiamento della
mafia che si concretizza non già nell’acquisizione della mera protezione,
necessaria per la continuazione di attività
imprenditoriali senza eccessivi danni economici, ma piuttosto nella
realizzazione di società di fatto, in nuovi e sempre più lucrosi affari,
consentiti dalle favorevoli condizioni di "mercato" derivanti
dall’appoggio incondizionato di autorevoli membri delle associazioni mafiose.

Si creano così imprese intestate a compiacenti prestanome (spesso imprenditori spossessati
dell’azienda, quindi inglobati nell’associazione e da essa "gestiti")
nelle quali, in modo sempre più raffinato, i capitali di origine illecita sono
investiti instaurando un rapporto di cointeressenza di interessi, capitali e
soci illegali con interessi, capitali e soci legali.

Le risultanze
acquisite nell’ambito di procedimenti penali (dichiarazioni di testimoni e di
collaboratori di giustizia, intercettazioni telefoniche e ambientali, indagini
bancarie, patrimoniali e presso gli uffici della pubblica amministrazione etc.)
attestano i notevoli successi raggiunti nella individuazione di prestanome di
esponenti mafiosi, anche al di fuori della cerchia familiare, e
nell’accertamento delle attività economiche che fanno capo direttamente o
indirettamente a persone riconosciute appartenenti all’organizzazione mafiosa.

Resta confermato anche il profilo
transnazionale di "cosa nostra", sia pur in modo più defilato
rispetto alla "‘ndrangheta" che, a sua volta, si conferma tra le
minacce più significative in ambito nazionale.

La ‘ndrangheta ha consolidato il
proprio controllo dell’area di origine coniugando il
modello tradizionale di intimidazione, in ogni settore economico e
socio-politico, con una più dinamica imprenditorialità illegale da essa stessa
prodotta.

Sul primo versante è confermato l’esercizio
di una generalizzata pressione estorsiva per favorire l’infiltrazione e la
collusione nella gestione degli appalti, con una significativa
ed allarmante novità costituita dai numerosi attentati ad amministratori e
funzionari pubblici. Si tratta di delitti riconducibili alla
"‘ndrangheta" che, allorquando la gestione degli affari non è stata
consentita in via diretta, per la resistenza dei partiti politici in sede di esame della candidature, non ha esitato a intimidire e
minacciare chi riveste cariche e funzioni pubbliche per costringerli a cedere
alle loro pressioni e richieste illecite. Degne di rilievo sono le osservazioni
che indicano come anche la "’ndrangheta"
abbia iniziato una modifica della propria strategia, che mira a smussare i
picchi di maggiore allarme sociale, capaci di innescare meccanismi reattivi da
parte dei cittadini e dello Stato (vedi l’abbandono dei sequestri di persona),
per orientare la propria attività verso le più lucrose appropriazioni dei
flussi di denaro pubblico.

Sul piano della capacità
imprenditoriale criminale, riscontri processuali comprovano la consolidata
posizione di vertice assunta dalla "’ndrangheta" nel narcotraffico internazionale, in cui utilizza ogni moderno
sistema globale per fare emergere il proprio ruolo strategico,
a livello mondiale, nelle relazioni con i gruppi di narcos
sudamericani, spagnoli, albanesi ed olandesi.

I gravi episodi delittuosi che si
sono verificati in Campania durante il 2004 confermano
la forte presenza della camorra sul territorio.

La Campania è, tra le regioni a rischio, quella nella quale si registra
il maggior numero di omicidi, ma è anche quella ove ci
sono stati più sequestri preventivi e confische di beni a carico di affiliati a
gruppi mafiosi.

A seguito della decapitazione dei
clan storici, la "camorra" presenta da tempo una profonda crisi ed
una scarsa capacità di aggregazione tra i vari gruppi
esistenti, attraversati da periodiche spinte centrifughe che sono, ancor più,
enfatizzate dalla rilevante remuneratività degli
interessi economici presenti in ambito locale e internazionale.

La criminalità campana è, perciò,
caratterizzata dall’esistenza di gruppi che si sono sviluppati intorno a vecchi
capi storici, i quali, dopo lunghe latitanze o detenzioni (queste ultime non
sempre protrattesi per il tempo che sarebbe stato necessario), sono riusciti a recuperare le loro posizioni reinserendosi nel
circuito criminale e dalla creazione di ristretti "cartelli" che si
contrappongono nel controllo e/o spartizione degli interessi economici del
territorio. Le energie criminogene che si sono
sviluppate, prive di ogni forma di aggregazione più
elevata, si sono, quindi, abbandonate ad esasperate forme di competitività
criminale, che sono all’origine delle faide omicide che hanno sconvolto, soprattutto,
il capoluogo ed i sui dintorni nei tempi più recenti, coinvolgendo, non di
rado, anche vittime innocenti.

L’impegno costante delle forze
dell’ordine, della magistratura e delle istituzioni, nazionali e locali, ha permesso di conseguire notevoli risultati, che hanno
toccato in maniera incisiva i maggiori sodalizi camorristici
operanti nelle diverse province, e di contrastare significativamente tutte le
più cospicue attività illecite (traffico di stupefacenti, estorsione,
contrabbando, ecc.). Tuttavia, l’incidenza del crimine organizzato sul tessuto sociale e sulle attività produttive della regione è
ancora elevata; mina la stessa convivenza civile ingenerando un senso di paura
ed insicurezza, che alimenta una deprecabile e diffusa omertà; permea la vita
amministrativa di molti comuni; condiziona appalti e servizi pubblici; pone in
pericolo le basi stesse della comunità con la capillare diffusione del
commercio di droghe, anche pesanti, che coinvolge migliaia di giovani di ogni
ceto; incide sullo sviluppo economico della regione con la pratica diffusa
dell’usura e dell’estorsione, che azzerano la capacità di azione di piccoli e
medi imprenditori in ogni settore delle attività produttive.

Vi sono certamente spazi per ulteriori interventi, che debbono essere volti a
neutralizzare i vertici delle organizzazioni criminali e a recidere i canali di
rifornimento della droga, che costituisce il maggior fattore criminogeno. Ma questi interventi risulterebbero
vani se non accompagnati, ad opera di tutte le istituzioni, da un’intensa opera
di prevenzione e di eliminazione di quelle situazioni, di natura sociale,
economica, ambientale, culturale, che agevolano la diffusione del fenomeno
criminoso.

Anche la criminalità pugliese, nell’ultimo
periodo, si è segnalata per il logoramento dei clan storici e per la presenza
di "spazi aperti" che si offrono alle mire aggressive dei gruppi
emergenti.

Ad eccezione del Salento,
ogni provincia conserva le proprie caratteristiche criminogene
che, senza strategie di tipo verticistico,
favoriscono aggregazioni temporanee pronte a
collaborare anche con organizzazioni criminali di diversa origine ed etnia.

In entrambe le realtà territoriali da
ultimo richiamate (Puglia e Campania) può affermarsi
che la mancanza di "guide carismatiche" ha determinato una
polverizzazione degli attori con conseguenti vuoti di potere e rilevanti rischi
di ulteriori spirali di violenza.

In tutte le regioni meridionali che
sono maggiormente afflitte dal fenomeno della criminalità organizzata, mentre appare
generalizzato ed in aumento il ricorso alle misure di
prevenzione patrimoniale (nei primi dieci mesi del 2004 sono stati effettuati
sequestri preventivi di beni per circa trecento milioni di euro), è segnalata
con un bilancio negativo la successiva fase relativa al provvedimento
definitivo di confisca.

In proposito, ci si augura che
effetti favorevoli possano derivare dalla pronuncia della Cassazione, resa a
Sezioni unite, 17 dicembre 2003, n. 920/04, che ha
risolto le questioni che si erano poste in relazione: 1) alla non necessità di
accertare l’esistenza di un rapporto di "pertinenzialità"
del bene da confiscare con uno dei reati-fonte indicati nella legge o, più
genericamente, con un’attività criminosa della persona condannata; 2)
all’individuazione delle condizioni richieste dalla legge per disporre la
confisca (sproporzione tra il valore dei beni e le disponibilità economiche del
condannato ed omessa giustificazione della loro provenienza); 3)
all’irrilevanza dell’epoca di acquisto dei beni rispetto al tempo di
commissione del reato.

Un ulteriore
potenziamento di tale indispensabile strumento potrà derivare dall’approvazione
di un disegno di legge delega deliberato dal Consiglio dei Ministri il 24
settembre 2004 (n. 5362/C), finalizzato ad approntare strumenti più efficaci
per il sequestro e la confisca dei beni delle organizzazioni criminali, nonché
a rivisitare l’intera materia della gestione di questi beni con l’obiettivo di
conservarne la produttività, se non di migliorarla.

b) La criminalità di
origine straniera

Le organizzazioni criminali allogene
sono sempre più minacciose e, in taluni casi, tendono ad assumere modelli di
devianza tipici della malavita autoctona.

Essa si presenta specializzata in
determinati settori delinquenziali, ma dimostra anche un elevato eclettismo che
la rende facilmente integrabile in "cartelli" criminali multietnici.

Negli ultimi tempi, come emerge da tutte le relazioni dei procuratori generali e
da quella della Direzione investigativa antimafia (DIA), le organizzazioni
albanesi, appartenenti specialmente ai clan di Tirana e Durazzo,
sempre molto attive nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti, hanno
notevolmente esteso il proprio campo d’azione stabilendo rapporti privilegiati
con gruppi criminali nazionali, sino ad acquisire alcune
forme autonome di controllo del territorio in molte zone dell’Italia. In alcune
regioni hanno assunto la connotazione di organizzazioni
di servizio in grado di rifornire di droga ed armi le organizzazioni italiane,
potendo contare sull’esistenza di basi logistiche ed operative dislocate
sull’intero territorio nazionale.

La presenza criminale albanese, diversificata ed estesa, va assumendo importanza
internazionale anche in altri traffici (armi, essere umani, ecc.), nella
prospettiva di diventare un affidabile ed efficiente referente mediterraneo per
le organizzazioni transnazionali.

La criminalità ucraina ha acquisito
maggior rilievo per la pervasività della sua presenza
e per l’adozione di modelli organizzativi di tipo gerarchico-mafioso
che hanno favorito rapporti con la criminalità locale di alcune
aree del Paese.

Inizialmente dedita all’immigrazione
clandestina ed all’estorsione ai danni degli stessi clandestini, essa ha, oggi,
esteso il proprio controllo su ogni aspetto socio-economico
degli ucraini presenti in Italia.

Sempre ben strutturata
è la criminalità nigeriana che si propone in forma diversificata in varie
regioni italiane; per la prima volta nel 2004 ha stretto un’alleanza
con i Rom finalizzata alla commissione di reati transnazionali in materia di
stupefacenti. Il fenomeno è singolare, tenuto conto che i gruppi nigeriani
difficilmente stringono intese operative con altre organizzazioni criminali.

Silenziosissime, ma di alto livello di delittuosità si
rivelano le organizzazioni cinesi; di recente è stata rilevata l’estensione
delle loro attività criminali, in precedenza limitate quasi esclusivamente a
danno delle comunità cinesi, anche nei confronti di cittadini italiani. Sono
segnalati inoltre gruppi criminali misti (italo-cinesi)
e gruppi di cinesi della c.d. terza generazione,
spesso emarginati e ribelli, che incrementano l’area della criminalità diffusa.

Preoccupante appare anche l’emergere della
criminalità di origine rumena che, pur non avendo
ancora assunto i livelli di organizzazione dei gruppi stranieri di diversa
etnia, si sta rapidamente affermando in molte zone del Paese con analoghe forme
di evoluzione.

Il nostro territorio è oggetto di interesse anche da parte della criminalità organizzata
turca, che lo utilizza come area di transito delle sostanze stupefacenti
dirette verso i mercati europei, nonché di clandestini curdi,
intenzionati a raggiungere Francia e Germania

L’aumento del numero dei reati
commessi da persone di cittadinanza straniera è costante e si è esteso, sia pur
per reati generalmente a sfondo patrimoniale, anche in zone (ad esempio, la
Sicilia orientale) finora colpite in misura più contenuta rispetto alle elevate
punte percentuali di altre regioni.

Per questo tipo di criminalità, come
per quella di origine nazionale, potrebbe rivelarsi di
decisiva importanza una intensificazione dell’attività di intelligence volta a
conoscere meglio dall’interno e, quindi, a contrastare più efficacemente le
varie organizzazioni.

E’ preoccupante la generalizzata
segnalazione delle rilevanti difficoltà nel reperimento degli interpreti (oltre
che per le minacce rivolte agli stessi) a causa delle
molteplicità non solo delle lingue ma dei diversi dialetti, con
conseguenti negativi effetti sull’espletamento delle indagini.

c) Immigrazione clandestina

L’immigrazione clandestina
costituisce una crescente minaccia perché alimenta bacini di illegalità
già presenti nel nostro territorio ed incrementa circuiti criminali
transnazionali; tale constatazione non può, tuttavia, far ignorare la natura
anche umanitaria del fenomeno.

E’ stato posto in evidenza come
questa massiccia immissione di clandestini ad opera
delle organizzazioni dedite a tale traffico non solo altera le dialettiche
economiche in alcuni settori, per il diffuso ricorso alla manodopera in nero,
ma alimenta il circuito criminale assicurando ai trafficanti sia il lucro
derivante dal pagamento del viaggio, sia l’ulteriore arricchimento per la
protrazione del soggiorno illegale.

L’aumento della presenza di
clandestini nel territorio rischia, inoltre, di trasferire la criticità
dell’area di origine nei Paesi ospiti e di riprodurre
dinamiche conflittuali le quali, anziché favorire ogni possibile integrazione,
si risolvono in ulteriore emarginazione, con pericolo di forme di intolleranza.

Le recenti novità legislative hanno
consentito di potenziare la difesa dello Stato contro questo fenomeno
criminale; lo dimostrano le indagini ed i numerosi processi in corso per reati
di favoreggiamento e organizzazione di immigrazione di
clandestini e di traffico di essere umani.

In questa ottica,
sul piano della repressione dei gruppi criminali di nazionalità straniera, si è
rivelata molto utile la collaborazione con i Paesi interessati dalla
immigrazione clandestina.

Sotto il profilo più strettamente
giudiziario, si segnalano forme di coordinamento organizzativo tra tribunale e procura, per la celebrazione dei processi
con rito direttissimo, ed un’attività di monitoraggio dei soggetti condannati,
nella auspicata prospettiva dell’istituzione di una anagrafe degli espulsi,
accessibile anche agli uffici giudiziari, che sia utile per arginare il
fenomeno del ritorno al circuito della commissione di illeciti di soggetti
privi di identità certa.

Terrorismo e reati contro lo Stato

a) Terrorismo interno

Gli arresti avvenuti, alla fine
dell’anno 2003, nei confronti di esponenti delle nuove
"Brigate rosse" hanno inferto un colpo, sicuramente disarticolante,
alla formazione eversiva, che si era posta come erede dell’organizzazione che
aveva operato nei decenni precedenti.

Le indagini svolte, il ritrovamento
di dati logistici ed organizzativi del gruppo, il rilevante contributo
dichiarativo di una militante ed i riscontri probatori già in parte acquisiti
nei processi avviati per gli omicidi D’Antona e Biagi, hanno compromesso la struttura organizzativa e la
stessa capacità offensiva del gruppo. Dal coacervo degli elementi si delinea l’esistenza di una associazione eversiva costituita
dalle nuove leve brigatiste che hanno un rapporto con le vecchie "Brigate
rosse" ed il cui profilo si caratterizza per l’assenza di loro pregressi
coinvolgimenti in fatti eversivi, al di là della semplice militanza pubblica in
gruppi "antagonisti". Il fronte di collegamento è costituito dai
detenuti c.d. irriducibili, che rivendicano la continuità della lotta.

Il successo ottenuto con le recenti
operazioni di polizia giudiziaria, cui peraltro sono
sicuramente sfuggiti alcuni militanti della nuova formazione, non deve far
diminuire l’attenzione sul fenomeno eversivo. Il colpo inferto alle posizioni
più militariste potrebbe dare nuovo impulso ai gruppi
che si ispirano ad una impostazione che privilegia il tentativo di raccordo con
le "masse" mediante il loro coinvolgimento in un uso "politico"
delle armi, esercitato con azioni dimostrative di più basso profilo ma di alto
contenuto simbolico. In questa prospettiva si collocano le attività e gli
attentati dinamitardi verificatisi in alcune zone del Paese, rivendicati da
vari gruppi eversivi (Fronte rivoluzionario per il comunismo, Nuclei comunisti rivoluzionari, Nuclei proletari per il comunismo).

Va, poi, segnalato il forte
tentativo, in atto, di infiltrazione eversiva nel
mondo del lavoro mediante una rinnovata e radicalizzata
conflittualità nei luoghi di lavoro, che passa attraverso il superamento della
tradizionale attività del sindacato, che si tenta di isolare e scavalcare, e la
contrapposizione – forte e pregiudiziale – ad ogni forma di mediazione.
Tentativo, peraltro, decisamente contrastato dalle
associazioni sindacali e dai lavoratori.

Analoga tendenza si riscontra con il
tentativo di estendere questa attività di
infiltrazione ad ogni altro conflitto sociale su temi prioritari, quali:
ambiente, immigrazione, opere pubbliche, caro-vita, casa.

Le organizzazioni di matrice
anarchica e c.d. "antagonista" operano con strategie che privilegiano i collegamenti all’estero e che superano, a
volte, gli stessi tradizionali riferimenti ideologici (destra – sinistra), la
cui contrapposizione però non scompare ma anzi, in alcuni casi, viene
amplificata dallo "sconfinamento" in territori di protesta finora
considerati di esclusivo monopolio dell’altra fazione.

Gli eventi nazionali ed
internazionali e gli esiti processuali sin qui ottenuti richiedono di mantenere
un alto livello di attenzione nell’attività di
prevenzione, sicurezza e contrasto alla criminalità " politica" a
contenuto eversivo.

b) Terrorismo internazionale

Lo scenario internazionale, nel quale
il teatro iracheno e mediorientale rappresenta il principale polo di attrazione per la militanza delle organizzazioni
terroristiche che aderiscono al progetto di Al Qaeda,
comporta riflessi anche per la sicurezza dell’Italia, non solo nelle zone in
cui sono attive missioni militari italiane, con compiti di sicurezza,
assistenza e ricostruzione post-bellica, ma pure nel territorio nazionale per
il riscontrato incremento delle minacce contro il nostro Paese.

Nella strategia terroristica
internazionale un ruolo essenziale ha assunto la propaganda mediatica
mediante un uso sempre più diffuso della rete telematica, su cui vengono fatti rimbalzare messaggi del vertice
dell’organizzazione e di altre sigle che si richiamano al progetto jiadista.

In una strategia di propaganda, con
dirette finalità offensive ed eversive, svolta su scala globale
e destinata a moltiplicarne l’impatto mediatico,
qualche preoccupazione desta il sospettato coinvolgimento di taluni religiosi
in attività di supporto e sostegno al terrorismo internazionale.

L’esito di importanti
operazioni di polizia giudiziaria ed alcuni processi, in corso o già definiti
in primo grado (resi possibili anche dalle nuove disposizioni di natura
sostanziale e processuale introdotte dopo l’attentato dell’11 settembre 2001),
hanno, del resto, evidenziato come taluni luoghi di incontro siano stati
utilizzati, oltre che per la suddetta attività di supporto e sostegno, anche
come osservatori per l’individuazione di possibili reclute.

Le associazioni terroristiche
transnazionali presentano caratteristiche ben diverse da quelle tradizionali,
che le rendono più sfuggenti e meno permeabili alle indagini. Esse, strutturate in forma non rigida né gerarchica, operano con
cellule disseminate sul territorio che fungono da strutture di servizio, ed
agiscono, con grande mobilità, nell’ambito di una rete transnazionale del
terrore in cui sono superate le stesse identità etnico-nazionali.

Le cellule italiane, ad esempio, sono
specializzate nella produzione di documenti falsi; si tratta di
attività che costituisce strumento essenziale per consentire
all’organizzazione di far spostare con tranquillità i propri associati in ogni
Paese e di portarli al momento necessario sul luogo degli obiettivi.

Le indagini volte all’accertamento di
queste condotte richiedono un rilevante impegno di risorse e
mezzi, umani e finanziari. Per tali ragioni è stata segnalata l’esigenza
di una forte specializzazione non solo delle forze investigative ma degli
stessi organi requirenti e giudicanti, anche nella
prospettiva di agevolare una maggiore uniformità giurisprudenziale e di
evitare che le cellule vadano ad insediarsi ove siano mancanti investigazioni e
risultati processuali più efficaci.

Lo sforzo di coordinamento, a livello
nazionale e transnazionale, deve comportare anche la elaborazione
di moduli organizzativi omogenei che agevolino la circolazione delle notizie e
la costituzione di una banca dati antiterrorismo centralizzata.

Le altre principali manifestazioni criminose

a) Reati contro la pubblica amministrazione

In molti distretti è segnalata la
persistenza del fenomeno, che appare ben lungi dall’essere contenuto. E’
generalizzata, però, la percezione della difficoltà delle indagini, anche alla
luce delle modifiche intervenute sulla fattispecie-spia dell’abuso di ufficio.

Nei casi in cui le indagini riescono
a superare gli scogli iniziali, le risultanze
processuali fanno emergere significative realtà su tutto il territorio
nazionale, che confermano l’esistenza di una non sufficiente correttezza
dell’azione amministrativa; risultato cui contribuiscono responsabilità di
pubblici amministratori, funzionari pubblici e forze imprenditoriali nei più
svariati campi e settori di attività: appalti di opere pubbliche,
localizzazioni di attività ed insediamenti produttivi, disciplina urbanistica,
forniture pubbliche, prestazioni pubbliche di servizi sociali di diversa
natura, gestione ordinaria di procedimenti amministrativi, assegnazioni di
fondi pubblici nazionali e comunitari.

Anche al di là
delle zone nelle quali opera la criminalità organizzata, si deve
prendere atto che lo sforzo del Legislatore volto a realizzare maggiore
trasparenza, tempestività ed efficienza nell’attività della pubblica
amministrazione non sembra avere raggiunto né l’obiettivo di assicurare una
adeguata risposta in termini di prestazione di servizi, né quello di generare
una reale accettazione delle regole da parte della stessa generalità dei
cittadini e degli utenti.

E’ auspicabile che un decisivo passo
avanti nella prevenzione dei reati in esame possa esser fatto allorchè inizierà concretamente ad operare l’apposito Commissariato anticorruzione, istituito con la
legge 16 gennaio 2003 n. 3, il cui titolare è stato di recente designato.

Molti Procuratori generali
distrettuali segnalano l’opportunità, per un più incisivo contrasto alla
criminalità in questione, dell’inasprimento delle sanzioni previste per i
delitti di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.) e di frode nelle
pubbliche forniture (art. 356 c.p.).

Nell’ambito di alcuni
procedimenti incomincia ad essere applicata la normativa in tema di
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche i cui effetti, si spera,
potranno, in prospettiva, rafforzare la cultura della legalità ed il tasso di
eticità nelle condotte delle categorie imprenditoriali e della stessa pubblica
amministrazione.

Ulteriori risultati, su questo medesimo piano,
potranno conseguire dalle prime applicazioni della confisca per equivalente,
prevista in via obbligatoria, per questa tipologia di reati, anche nei casi di
pena patteggiata.

b) Criminalità economica

Accentuata attenzione è rivolta dai
Procuratori generali distrettuali alla normativa in tema di diritto penale
dell’economia, nella consapevolezza delle concrete difficoltà delle indagini
riguardanti reati il cui accertamento richiede complesse e laboriose attività
investigative, da svolgersi con l’impiego di personale dotato di alta specializzazione professionale.

In particolare, analisi preoccupate
sono svolte con riferimento ai reati societari; per essi
la nuova disciplina comporta che, pur in presenza di fatti gravissimi quanto
alle conseguenze che da essi derivano all’economia nazionale ed alle persone
fisiche coinvolte, sussistono elevatissime probabilità di prescrizione prima
che sia possibile arrivare alla sentenza definitiva (se non addirittura prima
della sentenza di primo grado).

Anche per questa tipologia di reati
deve essere riaffermata la necessità, a tutti i livelli (politico,
imprenditoriale e della stessa collettività), di una maggiore consapevolezza della
loro pericolosità nel contesto più generale del
sistema-Paese.

Sostanzialmente costante è il numero
dei procedimenti in materia di reati fallimentari – nei quali sono sempre più
spesso coinvolti anche amministratori di imprese di
rilevanti dimensioni – che traggono origine, sovente, da distrazioni di
particolare consistenza.

Notevole è l’impegno profuso
nell’accertamento dei reati connessi ad operazioni distorsive
del mercato mobiliare e ad attività di investimento e
collocamento di prodotti finanziari, la cui realizzazione – accertata anche nei
confronti di affermate società finanziarie e di grandi gruppi societari –
produce esiti altamente penalizzanti per gli interessi del risparmiatore e, in
definitiva, per il " mercato" e l’economia nazionale.

Al di là dei contrasti sulle competenze, si
impone una forte regolamentazione a protezione e tutela del risparmio dei
cittadini che dia attuazione al principio costituzionale secondo cui "la Repubblica incoraggia e
tutela il risparmio in tutte le sue forme" (art. 47 Cost.); così da
limitare la necessità di interventi della magistratura penale che, per loro
natura, non possono che realizzarsi quando il danno economico rischia di essere
irreparabile, soprattutto per i piccoli risparmiatori ed investitori.

Le indagini su tale tipologia di
reati richiedono non solo, come già detto, l’utilizzazione
di personale particolarmente qualificato, ma anche un ampio ricorso agli
strumenti informatici. In tale
prospettiva deve essere espresso un giudizio positivo
per quanto attiene allo sforzo compiuto in relazione ad un’emergenza dalle
dimensioni eccezionali: le indagini conseguenti allo stato d’insolvenza del
"gruppo Parmalat", holding internazionale
con oltre 240 società aventi sede nei cinque continenti. La procura della
Repubblica di Parma, costretta ad impiegare in questo campo la metà dei
magistrati in organico, è stata dotata di una struttura che comprende, fra
l’altro, ben dieci addetti al sistema informatico
ed un reparto del Nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di
Finanza composto da quattro ufficiali e quattordici
sottufficiali.

Diffuse ed elevate le frodi
comunitarie (secondo i dati resi noti dall’OLAF – Ufficio europeo anti-frodi –
il nostro è il Paese nei cui confronti è stato aperto il più elevato numero di
dossier) e quelle ai danni dello Stato e di altri enti
pubblici, da cui non sono esenti zone nelle quali l’economia è più vitale e
che, proprio per questo motivo, sono anche destinatarie di contributi ed
erogazioni a vario titolo.

Il settore dei reati tributari
mantiene bassi indici percentuali, mentre sono molteplici ed estese le condotte
criminose, che spesso comportano danni erariali di dimensioni enormi (non è
raro imbattersi in evasioni di imposta che superano i
200 milioni di euro all’anno), ricondotte alle figure dell’emissione e
utilizzazione di fatture soggettivamente false; lo scopo finale dei colpevoli,
avvalendosi di una o più società fantasma, è quello di trasferire il debito
fiscale su società prive di qualsiasi struttura (le c.d. cartiere).

Sostanzialmente invariato è
l’andamento dei reati di usura per i quali, in un
panorama negativo anche per il forte collegamento del delitto in esame con
l’andamento generale dell’economia e con l’attività delle organizzazioni
criminali, permane la difficoltà di cogliere l’esatta dimensione del fenomeno e
la reale capacità reattiva delle parti offese.

c) Omicidi, sequestri di persona a
scopo di estorsione, rapine, estorsioni, furti, ecc.

Tra i delitti che destano maggior
allarme sociale sono da annoverare senz’altro gli omicidi, consumati, tentati e
preterintenzionali; il dato a livello nazionale, nel periodo 1° luglio 2003 –
30 giugno 2004, presenta una tendenza all’incremento, ancorché non omogeneo
territorialmente. Vi sono realtà nelle quali l’aumento è particolarmente
elevato; è il caso della Campania, regione nella quale, come s’è già posto in
rilievo, tali delitti sono legati prevalentemente alla lotta fra bande
criminali per il controllo del territorio.

Generalizzata risulta essere, invece,
nel periodo considerato, la diminuzione delle rapine e dei furti, riconducibili
assai spesso, soprattutto le prime, ad organizzazioni criminali di nazionalità
italiana e straniera, che si avvalgono di manovalanza di varia etnia, età ed
estrazione per realizzare e potenziare le diverse finalità delle associazioni.

In molti casi tali crimini suscitano
un forte impatto negativo, in termini di sicurezza del cittadino, per le
modalità di estrema violenza e spregiudicatezza con le
quali vengono perpetrati.

In tema di estorsioni,
deve segnalarsi che al dato positivo della riduzione dei fatti per i quali è
stata esercitata l’azione penale, si accompagna quello, altrettanto positivo,
segnalato da alcuni procuratori distrettuali, di una più intensa collaborazione
delle vittime, dovuta ad una rinnovata fiducia verso le istituzioni. L’azione
di contrasto delle forze dell’ordine ha portato ad alcuni successi perché il
pesante velo dell’omertà che riduce l’efficacia della lotta a questa vera piaga
sociale ha iniziato a squarciarsi e molte indagini sono state concluse, positivamente e con tempestività, grazie alla
collaborazione delle persone offese.

Suscita preoccupazione, invece,
l’abbassamento, anche significativo, dell’età media
degli autori di tali reati ed il venir meno, ormai evidente, della stretta
connessione rilevata in passato tra tossicodipendenza e reati contro il
patrimonio. Ciò testimonia di una spinta criminogena non più indotta da pressioni esterne, ma da
modelli comportamentali, da crisi economica, assenza di incremento
occupazionale, scadimento dei valori, emarginazione e degrado urbano: elementi
tutti interagenti con devastanti effetti sulla determinazione delle condotte di
reato.

Un dato negativo è quello costituito
dall’aumento (ancorché lieve in termini numerici) degli episodi di sequestro di
persona a scopo di estorsione, confinati
prevalentemente nelle aree interne alla criminalità straniera in connessione
con l’immigrazione clandestina, che a volte sconfinano in vere e proprie
riduzioni in stato di schiavitù delle vittime.

Imponente e, per tale motivo,
preoccupante è l’aumento delle truffe, di cui s’è già detto in precedenza.

d) Reati in tema di stupefacenti

Per tale tipologia di reati è
segnalata una flessione che si attesta intorno al 10%; ma quel che maggiormente
preoccupa, oltre l’incidenza negativa che hanno sulla
salute dei cittadini e, soprattutto, delle giovani generazioni, è il loro
collegamento, già segnalato, con la criminalità organizzata che, principalmente
in alcune zone del Paese, controlla l’intero mercato, dall’importazione alla
distribuzione.

E’ necessario un ulteriore
sforzo di tutte le istituzioni, ad iniziare da quelle scolastiche, volto a
prevenire tali reati mediante una maggiore sensibilizzazione della pericolosità
delle sostanze stupefacenti.

e) Reati inerenti alla sfera sessuale

Nell’ultimo periodo si è registrato
un sensibile aumento, confermato anche dai dati
statistici, dei procedimenti aventi ad oggetto violenze in danno di donne e
minori, soprattutto in ambito familiare.

Molti distretti segnalano con
preoccupazione che tale tipo di reati, in percentuale sempre maggiore, si
riferisce ad adescamento e violenza nei confronti di
bambini.

Il fenomeno, in passato occultato per
motivi di carattere socio-culturale, oggi è in fase di emersione.
Verosimilmente l’aumento del numero delle denunce è determinato non solo e non
tanto dalla maggiore commissione dei fatti illeciti, quanto dalla maggiore
attenzione riservata a tale tipo di reato dai mass media, dalle istituzioni,
dalla scuola e da una più efficace rete di osservazione
e protezione offerta dalle istituzioni (forze dell’ordine, comunità di
accoglienza per minori, servizi sociali) e dai centri di volontariato, che
hanno determinato una generale e maggiore sensibilizzazione sull’argomento ed
effetti positivi sul piano della repressione.

Il numero dei reati sessuali ha
registrato, altresì, un consistente incremento anche a causa del crescente
fenomeno dell’immigrazione clandestina, finalizzata soprattutto allo
sfruttamento sessuale delle donne (in molti casi, minori di età),
difficile da contrastare in quanto gestito da una criminalità organizzata a
livello internazionale.

Altro fenomeno che i Procuratori
generali distrettuali segnalano in crescita, anche se tale aumento non è
confermato dai dati statistici, è quello della pedofilia per via telematica,
che pone seri problemi sotto il profilo dell’individuazione dei responsabili;
vi è il rischio che lunghe ed impegnative attività investigative consentano di
identificare e punire solo il fruitore ultimo del
materiale, immesso sul mercato da criminali assolutamente privi di scrupoli,
che si muovono in ambito internazionale e con strutture associative ben
organizzate.

Il sistema Internet è diventato da
alcuni anni la forma più avanzata e moderna di collegamento tra coloro che dispongono di materiale pedopornografico
e coloro che intendono acquisirlo ed utilizzarlo. L’esperienza acquisita
consente di affermare che il fenomeno della pedofilia è largamente diffuso e si
manifesta ormai a livello mondiale. In proposito viene
segnalata l’esigenza di una legislazione omogenea che consenta di superare i
profili di competenza territoriale in relazione al luogo del commesso reato.

L’esistenza di un sito pedofilo su
Internet, che per scelta tattica ha una durata temporale molto limitata (in
alcuni casi, addirittura solo alcune ore), richiede che la sua conoscenza ed
individuazione avvenga in tempi molto brevi rispetto
al momento della sua creazione.

In molti distretti è stato creato un
gruppo di magistrati, che si avvale del supporto della Polizia delle
Telecomunicazioni e della collaborazione delle associazioni di volontariato,
per l’evidenziata necessità di istruire i procedimenti con molta celerità, al
fine di garantire esiti soddisfacenti sul piano della identificazione
dei soggetti che lo hanno creato e di coloro che lo hanno utilizzato, nonché
del sequestro del materiale pedopornografico.

In alcuni procedimenti è stato
contestato e ritenuto il delitto di associazione per
delinquere finalizzato alla divulgazione per via telematica di materiale
pornografico.

f) Reati in materia di tutela
dell’ambiente e del territori; violazioni edilizie ed
urbanistiche

Il numero delle violazioni in materia
di tutela dell’ambiente e del territorio e quello in
materia edilizia ed urbanistica si mantengono costanti, come media nazionale,
pur con differenziazioni tra le varie aree.

L’azione di contrasto, nelle prime,
non è certo agevolata dalla presenza di un quadro normativo che si caratterizza
per il numero cospicuo di fonti legislative, statali, regionali e comunitarie,
e per l’estrema incertezza nella quale l’operatore del diritto è costretto ad
agire a causa dei frequenti cambiamenti della relativa disciplina.

Anche il settore edilizio risente di una
situazione normativa magmatica perché il testo unico in materia edilizia
(decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001 n. 380) non è ancora
entrato a "regime" sia per i successivi interventi modificativi che
per le vicende legate alle disposizioni normative sul condono. E’ generalizzata
la percezione che il solo preannuncio di possibili sanatorie determini una spinta ulteriore a realizzare costruzioni ed interventi
edilizi senza il preventivo rilascio del permesso di costruzione.

Da alcuni distretti è segnalato il
fenomeno delle violazioni "minori" in materia edilizia ed
urbanistica, che raggiunge la massima intensità nelle zone di maggiore pregio
turistico ed in quelle costiere. Numerosissime sono quelle in danno del demanio
marittimo e fluviale, illecitamente riconvertito, mediante occupazioni,
alterazioni e sottrazioni abusive, da bene di primaria fruizione
collettiva a bene privato.

Sono state accertate fattispecie
nelle quali, in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, si è determinata
un’alterazione dell’ecosistema tipico delle aree fluviali, oltre un grave
pregiudizio per l’assetto idrogeologico.

In materia di tutela del territorio,
deve essere segnalata la recrudescenza del fenomeno degli incendi boschivi in
molte regioni del Paese. La prevalente natura dolosa delle azioni incendiarie è
sovente ascrivibile al diretto coinvolgimento della criminalità che, se non è
animata da fini intimidatori e di minaccia orientati al consolidamento della
gestione del territorio, mira ad inserirsi nelle opere
di ricostruzione e nelle attività di speculazione edilizia delle zone
devastate.

Considerazione a parte meritano le problematiche connesse alla raccolta, trasporto
e smaltimento in discarica dei rifiuti che, in alcune aree, hanno creato
situazioni di autentica emergenza cittadina, con immaginabili negative
influenze sullo stato della pubblica igiene e sullo stesso ordine pubblico.

Si tratta di problematiche verso le
quali si è rivolta, come già ricordato, l’attenzione delle "ecomafie". La strategia della moderna criminalità
organizzata ha, infatti, individuato nell’attività connessa al ciclo dei
rifiuti uno degli strumenti di penetrazione
nell’economia e nel mercato legali.

La risposta giudiziaria all’eco-mafia
non è stata pronta ed immediata e, solo di recente,
hanno iniziato a trovare applicazione le disposizioni previste in materia.
Sono, però, necessari ed improcrastinabili miglioramenti qualitativi
nell’ambito dei controlli della pubblica amministrazione.

Da alcuni distretti viene,
infine, segnalata la persistenza di scavi clandestini nelle zone di rilevante
interesse archeologico, rilevandosi come la ricerca abusiva di materiale
archeologico alimenta un ricco ed ininterrotto commercio illegale di reperti
che spesso raggiunge, con la complicità di ricettatori stranieri, nazioni
europee quali la Svizzera,
la Germania
e la Gran Bretagna,
dove la merce trova molti appassionati collezionisti.

Analoga segnalazione avviene anche
per gli illeciti legati al commercio clandestino di opere
d’arte. L’approvazione del codice dei beni culturali e del paesaggio (decreto
legislativo 22 gennaio 2004 n. 42) è troppo recente per avere
determinato effetti sulla tutela del patrimonio culturale italiano.

g) Sicurezza sul lavoro e tutela
della salute

Si tratta di un settore che continua
a destare notevole preoccupazione ed allarme sociale, nel quale, in
particolare, si registra una maggiore e generalizzata attenzione, con aumento
dei procedimenti per decessi derivanti da malattie professionali, che
comportano delicate indagini di speciale complessità, ai fini della
ricostruzione dell’accaduto (avente causa lontana e prolungata nel tempo) e della individuazione dei numerosi soggetti – succedutisi nel
corso dell’attività lavorativa – responsabili dell’attuazione delle misure di
sicurezza.

Viene segnalato che, in presenza di una
diffusa utilizzazione in nero di lavoratori extracomunitari, si assiste non di
rado a casi di "risarcimento privato" che, a volte, presuppongono
forme di occultamento, al pronto soccorso ed agli ispettorati del lavoro, delle
reali modalità dell’infortunio.

Ma, anche ove vi sia una regolare
assunzione al lavoro, l’esistenza di subappalti, intermediazioni e società di
comodo rende spesso difficoltosa la individuazione
dell’effettivo datore di lavoro, del committente, del responsabile per la
sicurezza, ovvero del direttore dei lavori.

In questa ottica
appare proficua l’iniziativa, adottata in alcune procure generali, di un
protocollo d’intesa, uniforme e valevole in tutto il distretto, che agevola una
pronta rilevazione delle violazioni e consente di disporre, in tempi brevi,
accertamenti e indagini mirate, di concerto con gli organismi deputati al
controllo, volte all’individuazione delle responsabilità.

Non meno importanti sono le
iniziative, da estendersi su tutto il territorio nazionale, intraprese con l’Inail al fine di consentirne l’intervento nei procedimenti
penali per infortuni sul lavoro e
malattie professionali e l’esercizio dell’azione di regresso, che costituisce per
le aziende un incentivo quanto mai pressante alla prevenzione.

Da più distretti si sono espresse
riserve sulla scelta di escludere questa tipologia di reati dall’applicazione
della normativa in tema di responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche.

Particolare attenzione è stata,
altresì, manifestata in relazione ai reati in tema di
tutela del consumatore e del cittadino; sono state svolte indagini in ordine a
problematiche relative alla disciplina in tema di prodotti alimentari di largo
consumo e di farmaci somministrati in modo pericoloso per la salute pubblica. Emblematiche per tutte, a questo riguardo, sono le indagini
sia su medici e informatori
farmaceutici per comparaggio, sia su medici e farmacisti per prescrizioni a
minori degli anni diciotto di medicinali in contrasto con le indicazioni date
dal Ministero della salute.

Per effetto della nuova normativa
antidoping, sono stati aperti numerosi procedimenti in ordine
al fenomeno del traffico, commercio, cessione ed utilizzo di sostanze dopanti nei settori agonistici ed amatoriali.

Sono, poi, in corso
indagini e dibattimenti sul delicato problema degli alimenti transgenici. Siffatte indagini, svolte con la
collaborazione dei NAS, hanno consentito di accertare la presenza sul mercato
di prodotti transgenici non dichiarati al
consumatore.

h) Reati in materia di criminalità informatica

I flussi relativi
ai reati in tema di criminalità informatica
sono in forte crescita e meritano particolare attenzione per gli effetti
pregiudizievoli di forme delittuose caratterizzate dalle frodi e dalle
intrusioni nei sistemi informativi o
telematici.

L’incremento del numero dei
procedimenti iscritti concerne soprattutto, come già è stato posto in rilievo,
le truffe connesse all’attivazione di servizi Internet non richiesti dagli
utenti. In particolare, sono allarmanti le denunce per
l’emissione di fatture per i c.d. dialers, ossia
costosi servizi di connessione telematica che gli interessati affermano di non
aver attivato.

Ma, in effetti, è ancor più imponente
la gamma di impieghi illeciti della rete e degli
strumenti informatici in genere: sul
versante della più grave criminalità, è di grande attualità, come già
ricordato, l’offensiva propagandistica del terrorismo islamico attraverso
internet, così come l’utilizzo della rete quale via ideale (attraverso la messaggistica on-line) per i contatti tra le varie cellule
di organizzazioni ispirate al modello di diffusione "reticolare". Anche su altri piani il raggio d’azione è, però, amplissimo:
accessi abusivi a sistemi informatici,
frodi, violazioni a scopo di spionaggio industriale, intrusioni nei sistemi di
prenotazione (anche alberghiera), pedo-pornografia, intrusioni nelle caselle di
posta elettronica, illecito utilizzo di carte di credito, captazione di segnali
satellitari televisivi a pagamento.

Risulta pure che, nell’ambito di un’indagine
relativa a truffe informatiche, è
stato contestato il delitto di cui all’art. 416 c.p. finalizzato alla
commissione dei reati di cui agli artt. 615-ter,
615-quinques e 640-ter c.p. In virtù di detta ipotesi accusatoria si è addivenuti all’adozione di un provvedimento di custodia
cautelare, confermato dal tribunale del riesame.

Ciò che, tuttavia, colpisce
nell’analisi del panorama dei distretti giudiziari è
lo squilibrio dei dati: non soltanto vi è un’elevata sproporzione fra le
iscrizioni nei registri delle procure ed i casi che approdano a giudizio e si
concludono con condanne, ma anche riguardo alle iscrizioni si va da picchi
elevatissimi in alcuni distretti (Milano riferisce di un’autentica
"esplosione") a valori prossimi allo zero in molti altri.

E’ poco verosimile che ciò rispecchi
la ripartizione territoriale dell’illegalità. Piuttosto, pare fondatamente
ipotizzabile che permangano aree del Paese ove al fenomeno della criminalità informatica non si presta la dovuta attenzione,
forse anche per la scarsa consapevolezza delle sue implicazioni e per difetto
di cognizioni tecniche di base. Ne offre conferma, a contrariis, l’esempio positivo di Catania, dove l’impegno
di specifiche professionalità investigative ha consentito indagini di
significativa portata sul gioco d’azzardo in internet, sulla duplicazione
illecita di software, sul reimpiego di banche-dati
reperite in siti web, sulla cattura e clonazione (mediante sofisticati
strumenti tecnologici, come gli skimming device) dei dati identificativi di carte credito utilizzate
nel commercio on-line.

Se si considera l’ampiezza delle
intercettazioni telefoniche ed ambientali nella prassi investigativa diffusa,
colpisce pure il numero piuttosto basso delle attività d’intercettazione
condotte in Italia su obiettivi di tipo telematico
(e-mail, Internet, ecc.): sperequato – evidentemente per difetto – rispetto
alla capillare diffusione di questi strumenti di comunicazione.

Rinnovo, dunque, l’esortazione, per
quei distretti cui possono riferirsi queste ultime
notazioni, a sfruttare maggiormente il prezioso apporto tecnico che la Polizia postale e le
articolazioni specializzate delle altre Forze di polizia sono in grado di recare
in materia.

i) Criminalità minorile

Nel settore della criminalità
minorile, si registra, nel periodo preso in considerazione, una sostanziale stabilizzazione delle sopravvenienze, pur con una tendenza
all’aumento.

Dalle relazioni dei Procuratori generali
distrettuali emerge, comunque, che i minori coinvolti
in fatti delittuosi hanno situazioni di vita più problematiche, così come
qualitativamente più gravi sono i fatti oggetto di indagine.

Sotto il primo profilo, si conferma
per i minori italiani il cambiamento dell’estrazione sociale; è sempre più
elevato il numero di coloro che provengono da ambienti
della media borghesia, con il consolidamento di un’inversione di tendenza già
manifestatasi in passato. Per gli stranieri l’area è
più variegata e complessa, anche per le differenze culturali e di etnia, per
cui gli interventi devono essere diversificati, presentando l’utenza nomade
bisogni diversi da quelli dei minori provenienti dal Magreb
e dai paesi dell’Est.

Sotto il secondo profilo, continua ad
essere alto il numero dei reati in materia di stupefacenti; stabile è quello
dei reati di violenza sessuale; sempre elevato, e in alcuni distretti in forte
aumento, è il numero degli omicidi, consumati e tentati, nonché
il numero dei reati associativi, il che conferma il crescente coinvolgimento di
minorenni in delitti di criminalità organizzata.

I minori tratti in arresto perché
colti in flagranza di reato sono in maggioranza stranieri,
segnatamente extracomunitari e nomadi, che non si riesce a collocare,
per esigenze di contenimento e di identificazione (anche dei loro familiari),
nelle comunità, il cui decollo appare difficoltoso per la mancata istituzione
delle comunità pubbliche previste dal decreto del Presidente della Repubblica
n. 448 del 1988.

Intimamente legato al problema della
criminalità minorile è quello degli strumenti mediante i quali, sul piano
processuale, viene contrastata.

Nel complesso, il procedimento
minorile appare adeguato, salvo alcuni miglioramenti specifici da apportare; positivi gli aspetti dell’introduzione dei nuovi istituti
della messa alla prova (che si conclude nella maggioranza dei casi con esito
positivo) e della declaratoria di
irrilevanza del fatto.

La fase della esecuzione
della pena è problematica per le difficoltà legate alla identificazione ed alla
reperibilità degli stranieri condannati, in particolare dei nomadi.

E’ sempre più avvertita l’esigenza di
un complesso di norme per la regolamentazione dell’esecuzione delle pene nei riguardi di minori; si segnala da alcuni
procuratori distrettuali l’opportunità di rendere facoltativo l’inserimento
degli ultradiciottenni nelle strutture penitenziarie minorili, in quanto la
presenza di condannati per reati gravi in una struttura destinata ai giovani
influisce in modo negativo sulla possibilità di un loro proficuo trattamento.

Trova ampia attuazione nell’ambito
della giustizia minorile il c.d. diritto mite che comporta l’uso residuale
della carcerazione preventiva e della condanna a pena detentiva; ad esse si fa ricorso solo dopo l’inutile sperimentazione di
tutti gli altri strumenti utili; in tal senso si pone l’uso della misura
cautelare dell’assegnazione ad una comunità, che consente ai minori di iniziare
un percorso alternativo.

In tale direzione si pongono le
numerose iniziative, assunte e realizzate in quasi tutti i distretti, anche in
collaborazione con enti locali e strutture private, dirette al recupero e
all’inserimento sociale dei minori coinvolti in procedimenti penali (in
particolare, mediante attività socialmente utili di volontariato o di assistenza a disabili e anziani).

La Direzione nazionale antimafia

Con l’art. 76-bis comma 1
dell’ordinamento giudiziario è stata istituita
nell’ambito della Procura generale presso la Corte di cassazione la Direzione Nazionale
Antimafia (D.N.A.); dell’attività da essa svolta,
oltre che dei risultati conseguiti, spetta al Procuratore generale fornire
notizie in questa relazione secondo quanto dispone il successivo art. 76-ter
comma 2.

La D.N.A.
prosegue la proficua realizzazione dei suoi compiti
attraverso una costante attività volta a contrastare la minaccia della
criminalità organizzata.

Questa azione è articolata a diversi
livelli: internazionale e nazionale. Sul primo versante è continuo lo sviluppo
dei contatti con le autorità giudiziarie straniere e con gli organismi
internazionali, al fine di realizzare e migliorare i canali attraverso i quali effettuare scambi di informazioni
sulla criminalità organizzata dei diversi Paesi, di predisporre le linee
direttrici dell’attività operativa e di elaborare principi da porre a base
degli accordi internazionali in materia.

Particolare attenzione è stata
dedicata, nell’ambito della rete giudiziaria europea, alla ricerca degli
elementi di cognizione preinvestigativa e dei connessi
collegamenti nella prospettiva di possibili strategie
di coordinamento multinazionale delle indagini, che è premessa indispensabile
per il contrasto effettivo di un fenomeno criminale che dimostra ritmi
evolutivi e capacità di mutazioni ed interazioni in tempi rapidissimi.

Sul piano nazionale, rilevante è
stata la partecipazione della D.N.A. all’attività del
Comitato di sicurezza finanziaria, con l’intento di salvaguardare il sistema
finanziario italiano dai pericoli di utilizzo dei suoi
canali da parte del terrorismo internazionale e di promuovere, nel quadro
complessivo dell’azione devoluta al Comitato, la creazione delle condizioni
adeguate alla sterilizzazione delle fonti di finanziamento del terrorismo.

Indispensabile e di rilevante
importanza è il costante monitoraggio delle tendenze evolutive delle diverse
organizzazioni criminali presenti nel nostro territorio: dalle c.d. mafie
tradizionali alle "nuove mafie", dalle organizzazioni nazionali a
quelle di origine straniera e transnazionale, ed ai rispettivi
e reciproci collegamenti.

L’esame delle problematiche connesse
alla criminalità organizzata, è stato sviluppato tenendo conto della continua
evoluzione e proiezione verso oggetti e settori diversi, la cui individuazione
avviene in funzione delle investigazioni in corso e/o dei loro possibili
sviluppi investigativi.

In questa prospettiva merita di
essere menzionata la istituzione, nel luglio del 2003,
del "Servizio stragi" e del "Servizio criminalità organizzata
nel settore agricolo".

Il primo ha lo scopo di procedere ad
una lettura sistematica del materiale investigativo e processuale concernente
le stragi verificatesi in Sicilia nel 1992 ed in Firenze, Milano e Roma negli
anni 1993-1994.

Il "Servizio criminalità
organizzata nel settore agricolo" è finalizzato all’inquadramento del
fenomeno della illegalità nel mondo dell’agricoltura.
Si tratta di settore nel quale, da parte di coltivatori diretti e dei piccoli e
medi imprenditori, sono stati segnalati attacchi della criminalità organizzata
che, con le consuete modalità particolarmente insidiose e violente, sembra
interessata ai guadagni che possono essere realizzati in questo primario
settore dell’economia nazionale.

L’azione ricognitiva
avviata ha consentito di individuare talune situazioni, significative
e tendenzialmente ricorrenti, di infiltrazione criminale e di evidenziare, nel
contempo, un notevole scarto tra il livello alto di allarme, denunciato dagli
operatori e da tutte le organizzazioni sindacali di categoria, ed il livello –
complessivamente modesto – dei risultati raggiunti sul piano investigativo e
processuale.

La constatazione ha reso evidente la
necessità di mettere a punto opportune strategie di
contrasto del nuovo fenomeno, mediante la elaborazione di protocolli di
indagine, da mettere a disposizione delle Forze di polizia e della magistratura
inquirente, in grado di potenziare gli esiti investigativi mediante un
razionale impiego delle risorse e delle tecniche di indagine.

Prosegue, con efficacia, il continuo
aggiornamento della banca dati del "Servizio appalti pubblici" che,
in costante rapporto con gli altri organismi nazionali competenti, realizza una
proficua attività di impulso nei confronti delle
competenti direzioni distrettuali antimafia, segnalando loro gli appalti sospetti,
alla luce di una valutazione degli indici di anomalia elaborati di concerto con
l’Autorità di vigilanza. Sul tema è in preparazione il libro bianco degli
appalti.

Significativa, infine, è la "ordinaria"
attività di impulso e coordinamento investigativo svolta dal Procuratore
nazionale e dai singoli sostituti, anche mediante l’istituto della applicazione
di magistrati della D.N.A. alle direzioni
distrettuali antimafia (quarantaquattro nel periodo considerato). Su questo
versante, in particolare, sono stati raggiunti risultati processuali ed
investigativi di notevole interesse proprio attraverso la valorizzazione di ogni possibile continuità tra la fase pre-investigativa
e quella investigativa.

La convinta adesione ad una filosofia
di lavoro volta a costituire ogni utile sinergia tra ufficio nazionale ed
uffici distrettuali, ha indotto la
D.N.A. ad
utilizzare la applicazione, in via sperimentale, anche
in materie delicate e difficili, come quelle ad alto contenuto
economico-finanziario, nelle quali è registrata la presenza del crimine
organizzato e del connesso riciclaggio.

L’imponente mole di lavoro svolto
dalla D.N.A. – soprattutto se rapportata al limitato
numero di magistrati che vi sono addetti (venti è la previsione dell’organico)
– emerge anche dai dati statistici: oltre le già ricordate applicazioni, 113
riunioni di coordinamento, 23 colloqui investigativi, 609 pareri ai fini
dell’applicazione del regime carcerario previsto dall’art. 41-bis ord. penit.,
1.486 pareri sulla protezione dei collaboratori di giustizia, 2.181 pareri su
richieste di patrocinio a spese dello Stato.

Polizia giudiziaria e strutture investigative

L’attività espletata dalla polizia
giudiziaria ha riscosso, ancora una volta, meritato apprezzamento in tutti i
distretti di corte d’appello. Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di
Finanza – così come gli altri Corpi per i settori di loro specifica competenza,
ad iniziare dalla Polizia penitenziaria e dalla Polizia
forestale – hanno agito con dedizione, fattivamente collaborando in tutti i
settori d’indagine. In tale giudizio vanno ricomprese
le sezioni di polizia giudiziaria istituite presso le
procure della Repubblica, peraltro costrette ad operare in condizioni di
difficoltà per il perdurante sottodimensionamento degli organici.

Tale sproporzione è evidente in
rapporto alla vastità dei fenomeni criminali radicati nel territorio, il cui
"controllo" da parte dello Stato dev’essere
caratterizzato in primo luogo proprio dall’effettivo impegno di un numero
congruo di operatori, che renda percettibile la
preponderanza della legalità rispetto alla presenza criminale.

Costante è stato l’impegno sia nel
contrasto di quelle figure di reato che destano maggiore allarme nella
collettività, sia nell’azione specialistica, necessaria a fronte del variegato
e mai statico atteggiarsi dei fenomeni delinquenziali: l’uso di tecniche di
polizia scientifica sempre più sofisticate è
imprescindibile nelle indagini relative agli omicidi, per il rischio d’impunità
che consegue alla mancata acquisizione scientifica, nell’immediatezza dei
fatti, di riscontri oggettivi; le investigazioni di natura finanziaria sono
essenziali per incidere sulla criminalità economica, sui flussi monetari e sui
patrimoni illecitamente acquisiti, anche al fine di contrastarne efficacemente
il reimpiego in ulteriori attività, illecite o
apparentemente lecite.

La criminalità minorile fa emergere,
a sua volta, la necessità di una polizia giudiziaria dotata di specifica
preparazione, così per i rapporti con l’ambiente e le famiglie, come nei
riguardi dei soggetti perseguiti quali autori di reato.

Tuttavia, all’impegno tipico di
polizia giudiziaria si affiancano di frequente incombenze
marginali (come, ad esempio, informazioni
e controlli in materia sostanzialmente amministrativa), fonte di distrazione di
significative risorse dall’impiego più propriamente investigativo. In questo contesto va rammentato il controllo di soggetti sottoposti
ad arresti e detenzione domiciliari.

Sul piano delle
dotazioni strumentali, pur considerevolmente migliorate negli ultimi tempi,
conserva attualità la richiesta della magistratura inquirente di nuove attrezzature
adeguate alla rapida evoluzione delle moderne tecnologie.

C) L’ESECUZIONE DELLA PENA

La situazione complessiva
dell’esecuzione della pena, pur in presenza di lievi
miglioramenti per quanto riguarda le attività di stretta competenza della
magistratura (ordini di esecuzione e provvedimenti della magistratura di
sorveglianza), è sostanzialmente sovrapponibile a quella dello scorso anno.

In particolare, il numero dei
detenuti presenti negli istituti di pena alla fine del primo semestre del 2004
era di 56.532, rispetto ai 56.403 presenti un anno prima.
Prosegue la tendenza virtuosa alla riduzione del numero dei
giudicabili rispetto ai definitivi, che sul totale suindicato,
al 30 giugno 2004, erano 35.291, pari al 62,5%. Se
si escludono i condannati in primo grado ed in appello, i detenuti che non
avevano ancora ottenuto una verifica dibattimentale erano 11.839 (circa il
21%).

Dal numero dei detenuti si deduce
agevolmente che non è mutata la condizione di sovraffollamento degli istituti,
peraltro non omogenea: all’interno dello stesso distretto sono presenti carceri
sovraffollati e istituti sottoutilizzati. Gli edifici
destinati all’espiazione sono in prevalenza assai vetusti e
spesso privi di spazi per le attività comuni e di carattere rieducativo. Si segnala però che diversi complessi
penitenziari sono attualmente oggetto di
ristrutturazione, mentre di recente è stata deliberata la realizzazione di
nuovi istituti; è auspicabile, quindi, che la situazione possa migliorare nei
prossimi anni. Resta il fatto che in numerosi casi le
condizioni di vivibilità sono spesso denunciate come precarie, sia per mancanza
di spazio e grave promiscuità tra detenuti di diversa pericolosità,
nazionalità, fede e cultura, sia per carenza di opportunità di lavoro, interno
ed esterno, sia, infine, per insufficienza e scopertura degli organici della
polizia penitenziaria e carenza di educatori.

Inaccettabilmente elevato è ancora il numero dei
suicidi e dei tentati suicidi, sovrapponibile a quello
dello scorso anno.

Dal dato numerico della popolazione
carceraria emerge che la legge 1° agosto 2003 n. 207 (c.d. indultino)
non ha avuto su di essa gli effetti sperati. Come
hanno rilevato quasi tutti i Procuratori generali distrettuali, le cause sono
molteplici: prima fra tutte la sovrapposizione
dell’area di concedibilità con quella di alcune
misure alternative alla detenzione, previste dall’ordinamento penitenziario,
per il condannato più favorevoli, prima, fra tutte, l’affidamento in prova al
servizio sociale. Tale misura, in caso di esito
positivo, comporta l’estinzione della pena e di ogni altro effetto penale;
invece con la sospensione condizionata il fruitore per cinque anni è soggetto
alla revoca qualora commetta un reato.

Sostanziali miglioramenti sono
segnalati nel funzionamento degli uffici esecuzione del pubblico ministero,
anche per effetto del programma informatico
R.ES. approntato dal
Ministero della giustizia, ritenuto generalmente utile, anche se suscettibile
di miglioramento. In alcune sedi tuttavia la situazione non è
ancora ottimale, segnalandosi intervalli anche superiori a novanta giorni (a
fronte di tempi non superiori a cinque giorni in molte altre) per l’inizio
dell’esecuzione penale dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

La magistratura di sorveglianza ha
complessivamente operato con rigore ed efficienza in una situazione da anni
assai difficile – per la quale non posso che rinviare
a quanto osservato nelle precedenti due relazioni – con l’ulteriore aggravio
dei complessi adempimenti derivanti dalla gestione del già ricordato "indultino" e dall’applicazione della legge 30 luglio
2002 n. 189, che ha affidato al magistrato di sorveglianza l’espulsione dei
condannati extracomunitari privi di permesso di soggiorno, con procedura
attivabile anche d’ufficio.

Positivo è invece, in termini di snellezza
della procedura e rapidità della decisione, il giudizio sugli effetti della
legge 19 dicembre 2002 n. 277, che ha reso concedibile con provvedimento monocratico de plano la liberazione anticipata, anche se ne
è derivato maggior carico di lavoro sui singoli uffici di sorveglianza, e gli
effetti deflattivi sul tribunale sono in parte
vanificati dai reclami avverso i rigetti.

Resta il grave problema
dell’inadeguatezza degli organici dei magistrati e del
personale amministrativo. Sul punto sarebbe necessario un loro aumento, e una
più mirata distribuzione, privilegiando le grandi sedi
dove più forte è il disagio.

Negli ultimi anni le competenze della
magistratura di sorveglianza sono enormemente aumentate, ma l’organico è
rimasto sostanzialmente invariato rispetto al 1986. I lodevoli sforzi per il
contenimento dei tempi medi di definizione delle istanze
nelle grandi sedi sono stati spesso frustrati dall’impossibilità di definire
quelle dei condannati liberi in sospensione automatica della esecuzione della
pena ex art. 656 c.p.p. prima di uno o due anni dal
passaggio in giudicato della sentenza. Per giunta, trattando da quaranta a
cento procedimenti ad udienza non si può pensare che i tribunali di
sorveglianza si addentrino in raffinate dissertazioni giuridiche, e tutto ciò
si traduce in una nutrita serie di ricorsi per cassazione.

Occorrerebbe prendere atto che questo
sforzo imponente si traduce in provvedimenti poco afflittivi, che presentano un
carattere risocializzante assai aleatorio, richiedono
controlli impegnativi alle forze dell’ordine, espongono la magistratura di
sorveglianza ad una costante delegittimazione per l’esito assai incerto della
previsione formulata, e la distolgono dal compito primario di garantire la
legalità nella fase di espiazione della pena e il
raggiungimento dei fini che la
Costituzione e l’ordinamento penitenziario ad essa
attribuiscono.

Al di là della constatazione dell’insostenibilità
dei carichi di lavoro, tra gli operatori è sempre più diffusa la consapevolezza
– espressa in numerose relazioni dei Procuratori generali – della progressiva
implosione del sistema dell’esecuzione della pena creato dalla legge 26 luglio
1975 n. 354 e successive modificazioni. La generalizzata ed automatica
sospensione dell’esecuzione per i condannati da liberi con pena o residuo di
pena da espiare fino a tre o quattro anni, se ha risposto ad un’esigenza di equità e di eguaglianza di trattamento, ha però
enormemente moltiplicato le istanze di misure alternative, rendendo impossibile
la decisione in termini contenuti e alterando profondamente originarie le
funzioni della magistratura di sorveglianza.

L’ampio settore delle misure
alternative, e la stessa funzione degli uffici e tribunali di sorveglianza,
dopo molti anni di rilevazione di dati, dibattiti e studi specialistici,
richiede ormai soluzioni organiche indifferibili. Basti ricordare che nella sua
formulazione originaria la principale misura alternativa alla detenzione,
l’affidamento in prova al servizio sociale, era concessa per condanne non
superiori a due anni e mezzo, dopo un’ osservazione
della personalità condotta in carcere per almeno tre mesi. Si riteneva cioè che l’affidamento potesse essere concesso per reati non
particolarmente gravi, espiata una pena mai inferiore a quattro-cinque
mesi (tenuto conto dei tempi necessari per la fissazione dell’udienza e la
decisione del tribunale di sorveglianza). A seguito di una serie di modifiche
normative e di talune sentenze della Corte costituzionale si è pervenuti
all’attuale formulazione che consente l’affidamento in prova al servizio
sociale per pene o residui di pena fino a tre anni (quattro se si tratta dello
speciale affidamento per tossicodipendenti), direttamente dallo stato di
libertà .

Se si considera anche l’abbattimento
del livello sanzionatorio determinato dalla scelta
dei riti speciali, è evidente che il tipo sociologico del potenziale fruitore della misura è profondamente cambiato: dal deviante
marginale a qualunque condannato (almeno per gli ultimi tre-quattro
anni di pena residua), che in molti casi (estesi fino alla rapina a mano
armata) ne può beneficiare direttamente dalla libertà, per un numero illimitato
di volte.

Studiosi, operatori, gruppi di studio
istituiti dal Consiglio Superiore della Magistratura e dal Ministero della
giustizia, gli stessi progetti di riforma del codice penale elaborati nella
passata e nell’attuale legislatura, hanno previsto l’inserimento
dell’affidamento in prova al servizio sociale (ma il
discorso vale anche per la detenzione domiciliare e, in qualche misura, per la
semilibertà) nel più ampio ventaglio di sanzioni principali che il Legislatore
è andato via via elaborando. Ciò in analogia a quanto
già avviene per la libertà controllata e la semidetenzione a seguito della entrata in vigore della legge 24 novembre 1981 n. 689
e per le sanzioni non detentive con le quali sono puniti i reati attribuiti
alla competenza del giudice di pace, con il vantaggio che il giudice di merito
ha almeno una più compiuta conoscenza della personalità dell’imputato. In tal
modo sarebbe ridotto, se non eliminato, lo scarto tra l’astratta previsione
teorica delle sanzioni edittali e la sua concreta
applicazione e resa comunque più efficace e rapida la
fase di espiazione della pena.

Se si volesse perseguire questa linea occorrerebbe però rendere possibile, magari
previo consenso dell’interessato, l’immediata applicabilità dell’affidamento in
prova, pur in pendenza di impugnazione sulla responsabilità, non essendo logico
concepire una misura di reinserimento applicata sulla base della valutazione
della responsabilità operata diversi anni prima. Ciò probabilmente produrrebbe
anche un modesto ma apprezzabile effetto deflattivo
sulle impugnazioni.

Un orientamento positivo
del Parlamento in tal senso renderebbe, altresì, necessario un collegamento informatico di tutte le procure per consentire la
conoscenza di tutti i procedimenti pendenti e di eventuali precedenti
concessioni.

Recentemente taluni provvedimenti
della magistratura di sorveglianza, emessi nei confronti degli autori di
delitti efferati, autorizzati ad espiare la pena in misura ridotta o con
modalità meno afflittive, hanno turbato l’opinione
pubblica. Occorre però ricordare che il Parlamento, sostanzialmente
all’unanimità, ha approvato la legge 13 gennaio 2001 n. 45, che, pur stabilendo
un regime più restrittivo per tali condannati, configura comunque,
a determinate condizioni, il loro diritto ad ottenere i permessi e la
detenzione domiciliare sui soli presupposti dell’importanza della
collaborazione prestata e della recisione completa dei rapporti con la
criminalità organizzata, senza alcuna possibilità di esclusione per la sola
gravità dei delitti commessi. Si tratta di una legittima scelta di politica
criminale di competenza del Legislatore, che la
magistratura non può e non deve mettere in discussione.

Va infine ribadito
l’esito generalmente positivo dei permessi concessi ai detenuti: i mancati
rientri nella maggior parte delle corti d’ appello sono pari a zero, in altre
contenuti in una o due unità, peraltro quasi sempre seguiti dal ripristino
della detenzione entro pochissimi giorni. Le poche emergenze negative in
materia, raffrontate al numero dei detenuti aventi diritto ai permessi, sono
statisticamente non rilevanti e contenute nel rischio sociale minimo accettato
dal Legislatore.

LA CORTE DI CASSAZIONE E LA PROCURA
GENERALE

Sempre allarmante
è la situazione in cui versa la Corte di cassazione, gravata da un numero
crescente di ricorsi (oltre 70.000 l’anno), che la costringono ad operare in
condizioni di estrema difficoltà, nonostante l’impiego di un numero notevole di
addetti e l’impegno incessante dei consiglieri, i quali sono chiamati a fornire
prestazioni qualitativamente elevate tali da assicurare la certezza del
diritto.

E’ stato già affrontato l’anno scorso
il problema della complessità della funzione nomofilattica
nell’attuale quadro storico con riferimento alle tante e svariate materie
affidate al riscontro di legittimità.

Si pensi, ad esempio che, a seguito
di quanto da tempo affermato dalla Corte costituzionale (con le sentenze n.
170/1984, 389/1989, 168/1991 e 94/1995), che ha dichiarato la prevalenza del
diritto comunitario su quello nazionale e la sua diretta applicabilità nello
Stato, la Corte
di cassazione è spesso chiamata a fare applicazione di tale principio e a delineare e riordinare un quadro sempre più variegato e
complesso. Il che ha elevato grandemente la consistenza del compito ad essa affidato in materia. E’ facile poi immaginare le
dimensioni dell’impegno che attende nei prossimi anni la suprema Corte di
fronte alla riforma in itinere dell’art. 117 della Costituzione, da un lato, e
alle conseguenze della approvazione della Costituzione
europea dall’altro: solo stabilire la compatibilità tra l’ordinamento europeo e
quello nazionale (statale e regionale) ed armonizzarne i relativi principi
ispiratori si profila come un impegno di grande complessità.

L’esempio fatto, ma
numerosi altri potrebbero essere proposti, sta a significare l’importanza del
ruolo affidato alla Corte di cassazione, che dovrebbe perciò essere composta da
un numero anche più limitato ma selezionatissimo di magistrati.

Al fine di enucleare le questioni più
rilevanti da decidere e di eliminare i ricorsi manifestamente infondati, sarebbe necessaria una serie di filtri
diretti a selezionare l’accesso alla Corte. Se ciò è vero, teoricamente una
radicale prospettiva di riforma sarebbe quella tendente a liberare la Corte da quell’anomalo
ruolo di giudice della legittimità di ogni singolo
procedimento (e in definitiva, di terzo grado) coesistente, per norma
costituzionale, con quello proprio, per ordinamento giudiziario, di garante
della esatta ed uniforme applicazione della norma.

Non si intende
certamente proporre riforme costituzionali complesse, che richiederebbero una
rimodulazione complessiva dell’ordinamento ed una larga condivisione da parte
delle forze politiche e sociali. Occorre tuttavia avere piena consapevolezza
della gravità della situazione e della conseguente necessità di individuare – a
quadro normativo invariato, nonostante gli standard qualitativi mediamente già
assai elevati dei magistrati della Corte, della Procura generale e dell’Ufficio
del Massimario, il cui contributo è particolarmente apprezzato, e l’incessante,
gravoso impegno di tutti – rimedi magari più modesti, ma
idonei a produrre miglioramenti così da attuare una giustizia che possa ricevere
un più vasto consenso. Questo traguardo ci viene
imposto del resto anche dall’art. 111 della Costituzione, sotto l’aspetto della
ragionevole durata del processo.

Il problema dei filtri e dei limiti
all’accesso al ricorso è ormai indifferibile e la sua enunciazione
non è certo una novità: la prima formulazione risale al 1952, ad opera
dei presidenti Acampora e Torrente, che avvertendo la
incongruenza di una Corte di cassazione sommersa da ricorsi per almeno due
terzi infondati, proponevano un
esame preventivo degli stessi ad opera della Procura generale, un elevato
deposito per il caso di soccombenza e una successiva
trattazione ad istanza del ricorrente, con archiviazione in difetto di tali
requisiti. Nel 1958 un altro presidente, Stella Richter,
rilevava che nulla si era fatto per fronteggiare la situazione, e sottolineava la necessità di contenere in ambiti assai
ristretti il controllo della motivazione, limitando le pronunce di annullamento
alla radicale mancanza dei motivi in fatto ed in diritto e configurando il
vizio come error in procedendo di carattere meramente formale. E tale esigenza era avvertita sia nel settore civile che in
quello penale. Già in quell’anno veniva
segnalata poi la necessità di una più rigorosa selezione degli avvocati ammessi
al patrocinio di fronte alla suprema Corte, confrontando gli 8.000 allora
abilitati in Italia (oggi oltre 27.000) con le poche decine di patrocinanti in
Francia ed in Germania.

Tali problemi non
solo non sono
stati risolti, ma persistono, aggravati enormemente, ancora oggi.

Per ovviare all’indiscriminato
accesso di ricorsi alla Corte suprema si potrebbe, come già segnalato nelle
precedenti relazioni, pensare di imporre all’avvocato che propone il ricorso di
formulare un preciso quesito di diritto, la cui soluzione viene
rimessa alla corte di legittimità, così da consentire a questa di fornire una
risposta tecnica essenziale, senza doversi dilungare in risposte argomentate
alle varie doglianze proposte dai ricorrenti.

Per quanto riguarda, anzitutto, il settore
civile, che versa in una grave situazione di crisi, nel periodo in
considerazione sono stati iscritti a ruolo 29.108 ricorsi, con un notevole calo
rispetto all’anno precedente (-3.380),
in cui i nuovi ricorsi erano stati 32.488. Si tratta di una diminuzione
dell’11,1%, che trova in gran parte la sua giustificazione nella notevole
contrazione dei ricorsi in materia tributaria, forse anche per effetto dei
recenti condoni.

Sempre nello stesso periodo vi è
stato un considerevole aumento dei processi esauriti, passati da 21.061 a 23.480, con un
incremento dell’11,5%.

Peraltro il carico complessivo è
ancora aumentato, passando da 87.905 a 93.533 ricorsi. Se
si considera che al 30 giugno 1997 la pendenza era di 37.936 ricorsi, appare
evidente la drammaticità della situazione, dato che in soli sette anni la
pendenza è più che raddoppiata. E ciò, nonostante il gravoso lavoro cui si sono sobbarcati i magistrati della Corte, che invariati nel
numero, hanno visto in questi sette anni pressoché raddoppiare il flusso annuo
dei ricorsi. Si tratta di una realtà veramente preoccupante; la Corte rischia
di diventare il collo di bottiglia della giustizia
civile italiana.

L’incremento abnorme è dovuto ai ricorsi in materia tributaria, come conseguenza
della soppressione della possibilità di ricorrere dalla Commissione tributaria
regionale alla Commissione tributaria centrale; in materia di sanzioni
amministrative, anche in conseguenza delle leggi di depenalizzazione; in
materia (del tutto nuova) di ingiustificata durata del processo a seguito della
entrata in vigore della legge n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto)
che ha determinato un flusso annuale di ricorsi di molto superiore alle 1.000
unità (anche in conseguenza dell’assenza di un secondo grado di merito).

Si aggiunga che, come già precedentemente rilevato, la riforma del procedimento
camerale di cui all’art. 375 c.p.c. novellato non è
stata fino ad oggi in grado di modificare in misura apprezzabile la situazione
descritta.

Il pericolo che ne deriva è duplice.
Per un verso la più volte rilevata difficoltà di adempiere
alla funzione di nomofilachia assegnata alla
Corte di cassazione, con frequenti contrasti (anche nell’ambito della stessa
sezione) tra le sezioni semplici e le sezioni unite e lo scadimento del livello
qualitativo delle sentenze; sotto altro profilo, il concreto pericolo che il
ricorso si evolva come introduttivo di un terzo grado di merito, anche se,
giova rilevare, finora una tale perniciosa tendenza è stata fronteggiata con
una rigorosa applicazione della norma dell’art. 360, n. 5, c.p.c.

In tale situazione, occorre che si
provveda urgentemente, per evitare il rischio che i tempi medi per la decisione
di un ricorso civile, che attualmente non sono lontani
dai tre anni e mezzo, si allunghino ulteriormente in misura intollerabile, con
pesanti conseguenze anche per l’Erario, posto che in base alla giurisprudenza
la giusta durata di un processo per la fase di cassazione non dovrebbe
superare, nei casi normali, i dodici mesi.

Gli inconvenienti lamentati potrebbero
in notevole parte ridursi se l’organico della Corte, già sottodimensionato
rispetto alle esigenze, fosse al completo. Sono invece attualmente
vacanti 10 posti di presidente di sezione (sui 54 previsti), 36 posti di
consigliere (su 288) e 8 posti presso l’Ufficio del Massimario (su 52).

Sul piano dei rimedi possibili in
base al sistema vigente, si deve segnalare l’iniziativa assunta dalla
presidenza della Corte di cassazione che, in attesa
degli auspicati interventi legislativi, sta studiando e predisponendo, in
stretta collaborazione, per quanto di competenza, con la Procura generale,
nuovi moduli organizzativi diretti, da un lato, a semplificare al massimo le
motivazioni delle sentenze e ad accorpare ricorsi con questioni identiche o
simili, e dall’altro a creare una più intensa sinergia con l’Ufficio del
Massimario e a maggiormente valorizzare il procedimento camerale di cui
all’art. 375 c.p.c. novellato.

Per quanto riguarda
gli esiti dei processi nel periodo in considerazione: i ricorsi accolti sono
stati in tutto 8.112 (pari al 34,5%), di cui con rinvio 5.453 (5.431 con
sentenza e 22 con ordinanza) e senza rinvio 2.659 (2.314 con sentenza e 345 con
ordinanza); quelli rigettati sono stati 11.600 (di cui 11.502 con sentenza e 98
con ordinanza); quelli dichiarati inammissibili 2.163 (di cui 1.755 con
sentenza e 408 con ordinanza) e quelli dichiarati improcedibili
o estinti 1.598 (di cui 147 con sentenza e 1.598 con ordinanza). I provvedimenti resi a seguito di
ricorsi per correzione di errori materiali sono stati
7.

In materia civile la Cassazione ha
affrontato e risolto questioni di particolare
complessità e delicatezza, alcune delle quali già segnalate nella presente
relazione. Altra sentenza notevole è la n. 5.044 del 2004, sulla giurisdizione
del giudice italiano nei confronti dello Stato straniero per il risarcimento
dei danni da crimini internazionali a questo imputabili.

Nettamente migliore è la situazione
nel settore penale: i ricorsi sono stati fissati e decisi, nel periodo 1°
luglio 2003 – 30 giugno 2004, con encomiabile celerità, spesso nell’arco di tre
o quattro mesi (la durata media dei processi penali in Cassazione è di sette
mesi). A fine periodo si è registrata una riduzione
delle pendenze, passate da 29.440
a 28.220 (-4%); il numero totale dei procedimenti
definiti è ancora una volta impressionante: 48.817, con un lieve incremento
(+2%) rispetto al periodo precedente; mentre va registrata con soddisfazione
una riduzione del 4% delle sopravvenienze, passate da 49.372 a 47.597.

Sul piano dell’efficienza, occorre
ormai riflettere su alcuni ulteriori dati: quelli
relativi agli esiti dei ricorsi.

Da dieci anni è pressoché
stabilizzato il rapporto tra accoglimenti, da una parte, ed inammissibilità e
rigetti, dall’altra: queste due ultime tipologie di pronunce assommano
complessivamente all’80% del totale; precisamente, 80,4% nel periodo
considerato con una larghissima prevalenza di quelle di inammissibilità,
che superano nettamente il 60%, a fronte di una percentuale di accoglimenti del
15,5%. Ma non si deve neppure ritenere che questo residuo 15% delle decisioni
comporti sempre risultati concretamente apprezzabili
per le parti, e quindi socialmente utili, nonostante lo sforzo organizzativo e
di elaborazione concettuale che ogni sentenza della Corte comporta. Un
rilevante numero di annullamenti con rinvio riguarda
problemi di motivazione su aspetti secondari rispetto alla legittimità del
processo di accertamento della responsabilità penale, quali l’omessa
motivazione del diniego di attenuanti generiche, o della affermazione di
prevalenza o equivalenza delle aggravanti; nei relativi procedimenti l’oggetto
del giudizio di rinvio è limitatissimo e si conclude, normalmente, nello stesso
modo della precedente sentenza di merito antecedente all’annullamento.

Inoltre più di un terzo dei ricorsi
(17.707 nell’ultimo anno) non riguarda le decisioni adottate a conclusione del
giudizio di merito, ma momenti incidentali di questo
(libertà personale, sequestri, impugnazioni per abnormità,
astensioni e ricusazioni, rimessioni di procedimenti,
conflitti di competenza, riparazione per ingiusta detenzione, patrocinio per i
non abbienti), o successivi (esecuzione delle pene), con una incessante
progressione di nuove competenze giurisdizionali.

L’impressione complessiva che si
ricava dai dati statistici e dall’analisi delle competenze della Corte è che il Parlamento, a partire dagli anni 70, abbia
istintivamente perseguito il giusto obiettivo dell’attuazione dei diritti come
funzione pressoché esclusivamente affidata alla magistratura, in via primaria e
diretta. Un esempio eloquente è costituito dalla legge istitutiva del
patrocinio a spese dello Stato e dalle modifiche apportate con la legge 29
marzo 2001 n. 134, ispirata a criteri di grande
civiltà, che tuttavia attribuisce al giudice una nutrita serie di accertamenti
ed adempimenti di carattere fiscale in termini ristrettissimi, la cui
inosservanza è sanzionata con la nullità assoluta ed insanabile degli atti del
processo, e che si concludono con provvedimenti ricorribili per cassazione.
Tale normativa, espressa peraltro in un linguaggio spesso assai oscuro, ha dato
luogo ad una nutrita serie di problemi di soluzione tutt’altro
che agevole, sui quali, nel corso di poco più di un anno, sono dovute
intervenire ben sei volte le Sezioni unite.

Il gran numero di ricorsi a carattere
esclusivamente dilatorio, per pervenire alla prescrizione o comunque
differire il momento dell’esecuzione della sentenza, ha trovato risposte
parziali nella giurisprudenza delle Sezioni unite sulla inapplicabilità della
prescrizione in caso di ricorso inammissibile. Il Legislatore dovrebbe compiere
il passo negato all’interprete: estendere gli effetti preclusivi della
prescrizione anche alla pronuncia di rigetto o, più radicalmente ancora,
sospendere la prescrizione dopo l’esaurimento dei gradi di merito. Quello del
giudizio di cassazione non è un grado di accertamento
dei fatti, e dopo due sentenze di merito non sembra si possa affermare che
sussista l’inerzia dello Stato, giustificatrice della caducazione
della sua pretesa punitiva.

Le difficoltà della Corte non sono
però riconducibili soltanto al numero di ricorsi inammissibili e alla
moltiplicazione degli interventi su frammenti del processo mediante i ricorsi
avverso provvedimenti incidentali, come evidenziato
nella relazione dello scorso anno. E’, ancora una volta, la mentalità degli
stessi operatori del diritto – avvocati e magistrati – che dà un contributo non
secondario alla crisi della Cassazione e della sua funzione. Il codice di
procedura penale del 1988 ha
limitato il controllo della motivazione all’illogicità manifesta risultante dal
testo del provvedimento impugnato (art. 606, lett. e c.p.p.).
Né gli uni né gli altri hanno fatto rigorosa applicazione di tale formula
normativa, se è vero che nel corso dell’ultimo anno, non solo numerose sentenze
delle sezioni semplici, ma anche le Sezioni unite sono nuovamente intervenute
sull’argomento per ribadire che "l’illogicità
della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606 comma 1, lett. e) c.p.p., è quella evidente, cioè di spessore tale da essere
percepibile ictu oculi, in
quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha
un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di
cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare
l’esistenza di un logico apparato argomentativo,
senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle
acquisizioni processuali" (sentenza 29 settembre 2003, n. 47289).

Un problema che meriterebbe maggior
approfondimento, come ho già detto trattando delle impugnazioni in generale, è
anche quello dei rapporti fra annullamento con rinvio ed annullamento
senza rinvio. Il codice di procedura penale del 1988, con la disposizione di
cui all’art. 620, lett. l), ha ampliato il potere di annullamento
senza rinvio della Cassazione a tutti i casi "in cui ritiene superfluo il
rinvio ovvero può essa stessa procedere alla determinazione della pena o dare i
provvedimenti necessari". Orbene, se si ravvisa una manifesta illogicità
sui soli elementi probatori posti a fondamento di una sentenza di condanna, il
giudizio di rinvio è inutile e dannoso per l’imputato, che è costretto a subire
un altro giudizio, quando non due (quello di rinvio e un ulteriore
giudizio di cassazione).

L’affermarsi di un orientamento in
tale direzione, non nuovo, peraltro, nella giurisprudenza della Cassazione e
già seguito dalle Sezioni unite (sentenze 30 ottobre 2002, n. 22327/03 e 30
ottobre 2003, n. 45276/03), sarebbe poi del tutto coerente con l’art. 111 della
Costituzione, il quale al comma 2 impone alla legge e,
quindi, all’interprete di assicurare "la ragionevole durata" del
processo.

Al di là degli sviluppi e delle osservazioni
problematiche appena formulate, ritengo siano tuttora valide le indicazioni di
possibili riforme formulate nella relazione dello scorso anno. Talune di esse, assieme tuttavia con altre assai discutibili, sono
state già varate dalla Camera dei Deputati e sono all’esame della Commissione Giustizia
del Senato (d.d.l. n. 2527/S). Se saranno approvate potrà derivarne una
riduzione dei ricorsi per cassazione (con l’esclusione della possibilità di
ricorrere senza l’assistenza del difensore) ed una semplificazione del
procedimento camerale per la declaratoria
di inammissibilità.

* * *

Nelle precedenti relazioni ho
trattato diffusamente della posizione della Procura generale nella struttura
organizzativa degli organi giudiziari e della sua peculiarità quale ufficio del pubblico ministero costituito presso il giudice
di legittimità. Non è, quindi, il caso di ripetere quanto già detto anche in relazione a talune proposte di riforma che la riguardano
direttamente, ma che nell’anno appena decorso non hanno compiuto significativi
passi avanti. Mi riferisco al disegno di legge n. 2430/S, già
approvato dalla Camera dei Deputati, ed al disegno di legge delega per
l’attuazione di modifiche al codice di procedura civile, approvato dal
Consiglio dei Ministri il 24 ottobre 2003.

E’ proseguita nell’anno appena
decorso – soprattutto nell’ambito del servizio penale – l’attività volta ad
ottimizzare il contributo della Procura alla funzione nomofilattica
della Cassazione mediante un più efficace coordinamento tra tutti i magistrati
addetti all’Ufficio, sempre nel contesto di una
necessaria mediazione tra la libertà di autodeterminazione di ciascuno di essi
e l’opportunità di esprimere una linea tendenzialmente unitaria.

Al fine di agevolare tale attività e
l’indispensabile scambio di informazioni
tra i magistrati è stato di recente realizzato un sito web interno della
Procura generale, suscettibile, in un futuro auspicabilmente
prossimo, di essere posto a disposizione anche di utenti estranei all’Ufficio.

Dal punto di vista dell’impegno
lavorativo, occorre rilevare, come già ho fatto in precedenti occasioni, che la
Procura generale interviene, con richieste scritte o
orali, in tutti i procedimenti trattati dalla Corte di cassazione; quindi i
dati statistici dianzi esposti, almeno per quel che concerne le sopravvenienze
ed i definiti, possono essere riferiti anche alla Procura. Fatta eccezione per
il settore disciplinare – sul quale mi soffermerò di qui a poco – i flussi relativi alle attività tipiche dell’Ufficio (scarcerazioni a
seguito di sentenze di annullamento della Cassazione e risoluzione di contrasti
di competenza tra pubblici ministeri durante la fase delle indagini
preliminari) non hanno subito variazioni rilevanti rispetto al passato.

A rendere maggiormente gravoso il
lavoro dei magistrati sono state però le scoperture di
organico di questo Ufficio, attestatesi nel corso dell’anno al 15% (11 unità su
72); si tratta di una percentuale tra le più elevate fra gli uffici giudiziari.

I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

In ordine all’attività dell’Ufficio in tema di
disciplina dei magistrati -esercitata opportunamente apprezzando ogni utile
notizia comunque acquisita al riguardo, su segnalazione dei capi degli uffici
giudiziari, del Consiglio Superiore della Magistratura, dei professionisti
legali, di privati cittadini, o anche della stampa – è da rilevare che, nel
periodo di riferimento, sono pervenute, da tutte le fonti suaccennate,
complessivamente 1.408 notizie di possibile rilevanza disciplinare, con un
aumento di quasi il 10% rispetto all’anno precedente.

La loro valutazione è stata, come
sempre, effettuata con la dovuta attenzione volta a
saggiarne la fondatezza e ad acquisire – ove del caso – tutti gli elementi di
fatto indispensabili per le determinazioni in ordine alla formulazione o meno
di una specifica e concreta incolpazione. E, a tal
proposito, deve ribadirsi quanto già sottolineato
negli anni scorsi e cioè che, purtroppo, va diffondendosi la tendenza da parte
dei privati cittadini ad attribuire piuttosto che a ragioni
"fisiologiche" proprie di un sistema processuale (che non a caso è
articolato, di massima, in un doppio grado di cognizione), a condotte colpose,
quando non, addirittura, dolose del magistrato operante, il contenuto
sfavorevole di un provvedimento giudiziario.

Al che consegue che la stragrande
maggioranza di siffatti esposti si è rivelata priva di consistenza e quindi insuscettibile di iniziative
disciplinari.

Una menzione distinta va fatta per
l’attività svolta da questo Ufficio in relazione alla
comunicazione, prevista dall’art. 5 legge 24 marzo 2001 n. 89 (c.d. legge Pinto) dei decreti delle corti di appello che accolgono le
domande di equa riparazione per il mancato rispetto del termine di ragionevole
durata di un procedimento giudiziario. Atteso che siffatti decreti sono
sostanzialmente fondati sulla mera oggettiva constatazione di una durata non
ragionevole, prescindendo dalle ragioni della stessa, (spesso direttamente
riconducibili a specifici interventi legislativi, ovvero
a specifiche azioni od omissioni di organi della pubblica amministrazione),
questo Ufficio, a seguito delle relative comunicazioni, deve iniziare una
attività di indagine, diretta a conoscere l’articolato svolgimento del
procedimento di cui si tratta, al fine di acclarare
se la durata non ragionevole è ascrivibile, o meno, alla condotta negligente od
inesperta di un singolo magistrato.

All’esito di tutti gli accertamenti
svolti in via preliminare sulla base di tutte le su
indicate segnalazioni, questo Ufficio ha ritenuto, nel periodo 1° luglio 2003 –
30 giugno 2004, che sussistessero le condizioni per promuovere l’azione
disciplinare in 86 casi (7 in
meno dell’anno precedente); dal suo canto il Ministro della giustizia ha
promosso altre 54 azioni disciplinari (12 in più dell’anno precedente); in un caso
l’azione disciplinare è stata promossa da entrambi i titolari della relativa
iniziativa. Tali azioni, hanno coinvolto complessivamente 153 magistrati, con
un aumento di 6 unità rispetto all’anno precedente.

Le condotte per le quali è stata promossa l’azione disciplinare hanno riguardato in
particolare: per quasi il 45% ritardi nel deposito di provvedimenti
giurisdizionali (sentenze o ordinanze, in materia civile o penale), ovvero
nella scarcerazione per decorrenza dei termini di soggetti in custodia
cautelare, o agli arresti domiciliari (fatti, questi ultimi, di enorme gravità,
dovuti anche alla mole di lavoro che grava su alcuni uffici ed alla complessità
della materia); per quasi il 18% violazioni di specifiche norme processuali
nello svolgimento di attività giurisdizionale; per l’11% scorrettezze nei
rapporti, prevalentemente, con il capo dell’ufficio ovvero con i colleghi, più
limitatamente con professionisti legali o con organi di polizia giudiziaria;
per oltre il 6% inerzie o negligenze gravi nello svolgimento di attività di
indagini o istruttorie; per quasi il 5% inerzie o negligenze di capi degli
uffici nell’assolvimento dei loro specifici doveri di vigilanza, ovvero di
organizzazione delle risorse umane e materiali assegnate all’ufficio.

La fase dell’istruttoria sommaria,
che quest’Ufficio conduce anche nei casi di promuovimento dell’azione disciplinare da parte del
Ministro della giustizia, la relativa attività, spesso articolata e complessa,
anche per la imprescindibile verifica degli assunti
difensivi prospettati dagli incolpati, nel periodo considerato, si è conclusa
in 112 procedimenti con richiesta di fissazione dell’udienza dibattimentale
innanzi alla Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura
(equivalente al rinvio a giudizio); in 8 procedimenti con richiesta di non
doversi procedere (in 7 casi per uscita dell’incolpato dall’ordine giudiziario,
prevalentemente per dimissioni volontarie); in un procedimento con richiesta di
non farsi luogo a dibattimento per essere rimasti esclusi, in virtù
dell’espletata istruttoria, gli addebiti ascritti nell’atto di incolpazione.

La Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della
Magistratura, dal suo canto, nello stesso periodo, ha emesso 26 sentenze di
condanna: 18 con ammonimento, 4 con censura, 3 con perdita di
anzianità (di cui 1 anche con trasferimento di ufficio), 1 con
destituzione; 45 sentenze di assoluzione, 32 ordinanze in camera di consiglio
di non farsi luogo a dibattimento, in accoglimento di altrettali richieste di quest’Ufficio; 17 ordinanze di estinzione del giudizio per
cessata appartenenza dell’incolpato all’ordine giudiziario. La stessa ha
accolto, altresì 6 richieste di sospensione cautelare dalle funzioni e dallo
stipendio, formulate da quest’Ufficio in
considerazione della gravità della condotta ascritta all’incolpato e
dell’esigenza di tutelare l’immagine dell’ufficio
giudiziario e dell’ordine in generale.

Le Sezioni unite civili della Corte
di cassazione nel medesimo arco temporale si sono pronunciate in 8 casi
rigettando il ricorso proposto dal magistrato condannato con sentenza della
Sezione Disciplinare, in 3 casi accogliendo il ricorso di quest’Ufficio
e/o del Ministero della giustizia avverso sentenze di non doversi procedere o di assoluzione, in un caso rigettando analogo ricorso, e,
infine, in un caso accogliendo il ricorso del magistrato avverso sentenza di
condanna.

In linea generale sembra potersi
osservare, per quanto concerne il rispetto da parte dei magistrati dei canoni
di deontologia professionale, che non sono ravvisabili serie ragioni di
preoccupazione, poiché le violazioni accertate si sono mantenute nei limiti
fisiologici propri di ogni categoria professionale,
anche se non sono mancati episodi, fortunatamente isolati, di malcostume e
corruzione, peraltro tuttora in fase di accertamento giudiziale.

Quanto sin qui esposto ha riferimento
alla attività svolta sulla base della normativa sino
ad ora in vigore, che sancisce la "Responsabilità disciplinare dei
magistrati" con la generica previsione dell’art. 18 del regio decreto
legge 31maggio 1946 n. 511 ("Il magistrato che manchi ai suoi doveri o
tenga in ufficio o fuori una condotta tale che lo renda immeritevole della
fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il
prestigio dell’ordine giudiziario") e riconosce al Procuratore generale
presso la Corte suprema di cassazione, così come al Ministro della giustizia,
la facoltà di promuovere l’azione disciplinare.

Ma, come è
noto, nel testo di legge attualmente di nuovo all’esame del Parlamento, viene
radicalmente mutato l’assetto normativo in materia, con la previsione della
tipizzazione degli illeciti disciplinari e la introduzione dell’obbligo di
esercizio dell’azione disciplinare per il Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione.
E se la prima va accolta come innovazione in sintonia con quanto da tempo
auspicato anche da questo Ufficio, il secondo suscita
vive preoccupazioni per le sue inevitabili conseguenze.

Non è difficile prevedere, infatti,
che, se la norma dovesse entrare in vigore, a questo Ufficio
perverrà un enorme numero di notizie di possibile rilevanza disciplinare, in
misura sicuramente superiore a qualsiasi realistica possibilità di rapido
smaltimento. E ciò specie in relazione alla prevista configurabilità di un illecito disciplinare correlato alla
omissione, da parte del dirigente dell’ufficio o del presidente di una sezione
o di un collegio, della comunicazione agli organi competenti di fatti che
possono costituire illeciti disciplinari, ovvero delle situazioni che possono
dar luogo a incompatibilità ambientale o funzionale, o alla dispensa dal
servizio (artt. 2 e 3 legge
n. 511 del 1946).

Ben prevedibile è il ricorso ad una continua
e, sotto certi aspetti, burocratica segnalazione di ogni
remota ipotesi di violazione anche per fatti di minimo rilievo con conseguente
incidenza negativa anche nei rapporti tra colleghi all’interno dei singoli
uffici.

L’impegno cui sarebbe chiamato questo Ufficio supererebbe notevolmente le potenzialità
dell’attuale organico; e ciò tanto più ove si tenga conto di alcune non chiare
regole procedimentali. Ci si riferisce, ad esempio,
alla mancata previsione dell’istituto dell’archiviazione per tutti i casi di
notizie inidonee a dare inizio ad una indagine
disciplinare; sembrando delineato un iter secondo il quale ad ogni segnalazione
debba seguire una iniziativa disciplinare con il conseguente obbligo della
comunicazione entro 30 giorni all’interessato e successiva richiesta poi, se
del caso, della declaratoria di non
luogo a procedere alla Sezione Disciplinare, la quale sarebbe così sommersa da
una mole di lavoro che inevitabilmente non potrebbe essere smaltito nei tempi
prescritti. A meno che non venga previsto una sorta di
"modello 45", sulla falsariga del procedimento penale, e cioè un
registro dei fatti non costituenti illecito disciplinare, con possibilità di
una archiviazione di tipo "domestico" ad opera del Procuratore
generale che, in tal modo, si sottrarrebbe al controllo dell’organo
giurisdizionale.

L’auspicio è, quindi, che, in sede di
nuovo esame da parte delle Camere, si disciplini il momento procedimentale
in termini di assoluta chiarezza e di realistica
possibilità di evasione della richiesta di giustizia in una materia di estrema
importanza per le istanze dei cittadini in genere e per la serenità di chi è
chiamato al difficile compito di amministrare la giustizia.

ORGANIZZAZIONE E GESTIONE DEGLI
UFFICI. STRUTTURE

Un’incisiva innovazione sugli aspetti
organizzativi degli uffici giudiziari è elemento imprescindibile per un
proficuo tentativo di recupero dell’efficienza nell’amministrazione della giustizia.

Il dispendio di risorse – non solo
materiali, ma soprattutto umane – che oggi consegue all’inadeguatezza delle
normative processuali trova nelle deficienze organizzative
un fattore di moltiplicazione. E’ mia convinzione che un capo di ufficio il quale passivamente si limiti a riferire a
posteriori su dati statistici relativi a pendenze e produttività, e non
s’impegni nell’adozione di misure organizzative, suggerimenti ed interventi
correttivi basati pure sul raffronto con altre situazioni similari, non adempie
al suo mandato. Risulta, quindi, decisiva l’assimilazione di una nuova
"cultura della responsabilità" da parte dei presidenti delle corti e
dei tribunali, dei procuratori generali e procuratori della Repubblica, nonché da parte dei presidenti di sezione, che dirigono le
cellule organizzative vitali per il complesso organismo della giustizia.

Questo Ufficio ha avviato già dallo
scorso anno una ricognizione delle iniziative realizzate nei vari distretti in
campo organizzativo e dirette al recupero di efficienza
e alla contrazione dell’arretrato (in un’ottica di progressiva ridefinizione dei tempi processuali coerente con i principi
sanciti dall’art. 111 della Costituzione e con gli standard degli altri Stati
dell’Unione Europea); nonché sui controlli previsti, e poi effettuati, circa il
rispetto dei tempi ragionevoli di durata dei processi.

Dal mio ultimo sondaggio emerge
soltanto in rari casi la notizia di iniziative di
ampio respiro che, in base ad approfondita analisi dell’esistente ed a
ponderate proiezioni, definiscono un quadro innovativo dell’impiego delle
risorse (sia del personale di magistratura, sia degli ausiliari e delle
dotazioni materiali), così affrontando le sopravvenienze secondo cadenze idonee
a garantire la tempestività per il futuro ed il progressivo recupero
dell’arretrato.

Nonostante il numero davvero modesto di iniziative innovative, il risultato del sondaggio non può
tuttavia, a mio avviso, essere considerato interamente negativo. Se è vero che
in passato erano piuttosto diffuse fra i dirigenti degli uffici
la considerazione dei lunghi tempi di trattazione come connaturati alle
procedure e l’accettazione come ineluttabile del progressivo decadimento della
possibilità di fornire risposte tempestive alle aspettative di giustizia dei
cittadini, oggi qualcosa è mutato. E non è poco. Quasi
tutti i distretti riferiscono di controlli periodici, eseguiti con regolarità e
tesi non solo ad evitare (o rimediare a) stasi processuali gravi ma, nel contempo, anche a stimolare opportunamente i giudici
quando sia dato cogliere dati dissonanti (in negativo) rispetto alla media di
produttività e tempestività degli uffici omologhi.

Se ciò – come a me pare – fosse sintomo
di un’evoluzione di mentalità, ossia segnalasse il tramonto della fatalistica
rassegnazione a subire le difficoltà operative e l’acquisizione della
consapevolezza che queste devono piuttosto essere affrontate con metodo
razionale, potrebbe dirsi compiuto un primo, importante passo. La rivoluzione
di metodo e prassi che si domanda all’avvocatura, con l’abbandono di tattiche
dilatorie e di abuso dei meccanismi processuali, deve
coinvolgere per prima la magistratura. Occorre che l’impegno dei dirigenti,
così come dei singoli magistrati, si accentui nel ricercare adeguate
metodologie organizzative, non necessariamente verticistiche
e burocratiche, che inquadrino l’attività quotidiana in progetti complessivi
finalizzati al miglioramento nell’impiego delle risorse ed alla riduzione, nel
medio e nel lungo periodo, di tempi ed arretrato; e che la funzione di
vigilanza sulla durata dei processi sviluppi nei magistrati la cultura della
giustizia-servizio, che può essere tale soltanto se tempestiva.

La carenza degli
organici e a volte delle dotazioni materiali sono fattori di sicuro rilievo. I
tempi sono però ormai maturi perché comunque si
pretendano – dai dirigenti in primo luogo, ma il discorso vale anche per i
singoli giudici e pubblici ministeri – programmi preventivi di attività, al
rispetto dei quali sia correlato il naturale rilievo in sede di valutazione
della professionalità. A ciò devono accompagnarsi forme appropriate di
responsabilità nell’ipotesi di mancato raggiungimento (in assenza di oggettive cause di giustificazione) degli obiettivi
prefissati, in rapporto alle risorse impiegate.

Anche i controlli periodici che –
come ho accennato – già oggi si espletano dovrebbero
riferirsi ad una programmazione specifica, che includa precise scelte di
priorità; e dovrebbero consistere in un monitoraggio costante, interno a
ciascun ufficio giudiziario, finalizzato a verificare gli obiettivi raggiunti e
l’attualità di quelli ancora da perseguire, con interventi tempestivi di
adattamento della programmazione e delle modalità operative alle novità via via emerse.

Può essere strumento proficuo, in
tale ottica, la consultazione oltre che di coloro che sono
investiti di funzioni semi-direttive, anche degli altri magistrati dell’ufficio
e del personale.

Non vanno d’altro lato sottovalutate
le ricadute positive che possono discendere da
accorgimenti spesso apparentemente minimali. Un serio computo preventivo del tempo che può essere necessario per ogni
processo fissato, l’anticipata verifica della regolarità delle notificazioni,
il controllo dei tempi di deposito (ed eventualmente il tempestivo sollecito)
degli elaborati peritali e dei provvedimenti dei giudici, possono costituire
attività decisive ad evitare dilazioni non necessarie. Altrettanto può dirsi riguardo
alla velocizzazione della trasmissione degli atti al
giudice del gravame: un adempimento materiale che oggi
fa registrare discrasie consistenti, le quali hanno in parte vanificato
l’accertamento che questa Procura generale aveva impostato circa il tempo medio
intercorrente fra il deposito della sentenza penale in primo grado e la prima
udienza nel giudizio d’appello (un dato che, peraltro, vari uffici si sono
detti addirittura non in grado di indicare).

Qualsiasi sforzo volto a migliorare
l’organizzazione e la gestione degli uffici giudiziari rischia di risultare vano se non si tiene adeguatamente conto che molte
cause di inefficienza traggono origine dalle croniche carenze di strutture
materiali ed umane in cui versa l’amministrazione della giustizia, che
contribuiscono a rendere sempre più sofferto il rapporto dell’utente con il
servizio.

Si è parlato in una recente
trasmissione televisiva dei tribunali di alcune grandi
città come di suk arabi. A prescindere
dall’attrazione che su noi occidentali esercitano tali folkloristici
ed interessanti mercati, la definizione non è certo lusinghiera, anche se in
qualche caso non è lontana dal vero.

Ma va con fermezza rilevato che se
l’utente "soffre" tale situazione quando
entra in contatto con l’amministrazione della giustizia, magistrati, avvocati e
personale amministrativo la soffrono quotidianamente, perché quotidianamente
frequentano tali tribunali. E della stessa non portano alcuna responsabilità in
quanto non dispongono di strumenti, se non qualche
modesto intervento organizzativo, per farvi fronte. Essa dipende
prevalentemente da insufficienza di quelle strutture edilizie, alcune risalenti
a prima della seconda guerra mondiale, a sopportare una mole di lavoro
aumentata fino al 200% rispetto a quella per la quale
erano state progettate.

Infatti, nonostante l’impegno costante di
tutti i Ministri della giustizia, per ragioni che non è questa la sede per
esaminare, la situazione economica del Paese, ormai da lustri, non consente di
stanziare le somme che sarebbero necessarie per realizzare in tutto il Paese
strutture giudiziarie adeguate ed efficienti.

Molto spesso ai magistrati,
soprattutto degli organi giudicanti, viene
"rimproverata" una scarsa presenza in ufficio; ma quanti si son posti la domanda se detti giudici hanno una stanza,
anche da dividere con altri colleghi, in cui poter lavorare tranquillamente? In
Cassazione, come anche in molti dei maggiori uffici giudiziari, ciò non accade.
Non di rado mancano anche le aule per celebrarvi udienze straordinarie (non
previste nel calendario ordinario); sicché neppure è possibile un incremento
del numero delle udienze mensili dei giudici; i quali debbono,
comunque, avere il tempo per studiare gli incarti processuali e redigere le
sentenze.

Considerazioni non dissimili valgono
per il personale amministrativo. Da anni, ormai, ancora una volta per ragioni
di bilancio, l’organico è praticamente immutato e non
si provvede neppure alla sostituzione di quello collocato a riposo, con
conseguenze facilmente intuibili sulla funzionalità di tanti uffici giudiziari,
come evidenziato in quasi tutte le relazioni dei Procuratori generali
distrettuali.

L’originario disegno di legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario prevedeva la
creazione della figura dell’assistente del giudice, sia pure limitata
numericamente e temporalmente. Inopinatamente,
tuttavia, siffatta proposta, sostenuta da tempo e con fermezza dalla
magistratura, è "caduta" perché avrebbe costituito
un ulteriore aggravio per le non floride casse dello Stato.

Va da sé, in ogni caso, che il
perseguimento di un ottimale impiego – che necessiterebbe
pure di ben maggiore flessibilità nelle mansioni del personale amministrativo,
rispetto alle priorità operative – dev’essere
accompagnato da un adeguamento delle risorse almeno alle esigenze essenziali
del servizio. Così, appare vano pianificare al meglio il calendario delle
udienze se non si affronta in radice la questione della carenza
di fondi per il lavoro straordinario del personale di cancelleria: l’impossibilità
di avere assistenza al di là dell’ordinario orario mattutino d’ufficio preclude
lo sfruttamento delle potenzialità di trattazione e definizione delle cause. La
mancanza di adeguati incentivi per il personale
meritevole contribuisce, a sua volta, al generale "appiattimento"
delle risorse umane, non stimolate né sul piano economico né su quello della
progressione in carriera.

Uno strumento che potrebbe dare un ulteriore contributo all’efficienza del sistema è quello informatico. Ma proprio il
settore dell’informatica giudiziaria
è notevolmente interessato dalla contrazione della disponibilità economica. Certo, i problemi di bilancio devono costituire occasione e
sprone per la più attenta riduzione degli sprechi; ma, pur dovendosi dare atto
dell’impegno profuso in talune situazioni (ad esempio, nel già ricordato
"caso Parmalat"), non può non segnalarsi
con allarme come la profonda limitazione delle dotazioni economiche per la
manutenzione e l’aggiornamento delle attrezzature e degli applicativi lasci intravedere
– in una prospettiva davvero prossima – la progressiva obsolescenza di hardware
e software: il che, com’è noto, è foriero dapprima di disservizi e, poi, di
costi ancora maggiori di quanto invece comporterebbe il costante adeguamento
delle tecnologie.

La carenza
di risorse impone alla magistratura di compiere ogni possibile sforzo per
contenere e razionalizzare i costi del processo, principalmente di quello
penale, al fine di poter liberare risorse da utilizzare per il potenziamento
delle strutture e delle dotazioni materiali. Ad esempio, pur dovendosi ribadire che le intercettazioni (telefoniche e, ancor più,
ambientali) costituiscono uno strumento d’indagine irrinunziabile,
specie nel momento attuale nel quale, oltre a risultare poco produttive le
indagini tradizionali, s’è ridotto il contributo dei c.d. collaboratori di
giustizia, non può essere ignorata la già ricordata loro progressiva incidenza
sul capitolo di bilancio relativo alle spese di giustizia. Considerata anche
l’anomalia derivante dalla circostanza che oltre due terzi dei relativi costi –
nel solo primo semestre del 2004 circa 112.000.000 di euro
su un totale di 146.000.000 – sono riconducibili al noleggio degli apparati,
sarebbe necessario che, in collaborazione con il Ministero della giustizia,
vengano adottate le opportune misure per una razionalizzazione di tale
strumento di indagine, che, senza ridurne la utilizzazione quale mezzo di
ricerca della prova, ne contenga i costi.

L’AVVOCATURA

Anche quest’anno,
secondo una prassi cui mai è venuto meno, il Consiglio Nazionale Forense, per
il tramite del suo presidente, ha inviato una nota sui problemi più attuali
dell’amministrazione della giustizia.

Tale nota si apre esprimendo il vivo
compiacimento dell’avvocatura per la istituzionalizzazione
della sua partecipazione a questa cerimonia, su un piano di parità con quella
del procuratore generale, contenuta nella legge di riforma dell’ordinamento
giudiziario, nuovamente all’esame del Parlamento dopo il messaggio del
Presidente della Repubblica del 16 dicembre 2004, al quale esprimono
gratitudine anche per la tutela dell’indipendenza della magistratura, che è un
bene collettivo irrinunciabile pure per gli avvocati.

Si ribadisce,
poi, la necessità di potenziare la legittimazione dell’ordine giudiziario non
solo mediante una sempre maggiore professionalità, ma anche attraverso misure
volte a migliorare "la razionalità del procedimento decisorio",
che postula, secondo il Consiglio Nazionale Forense, "la piena effettiva
parità tra accusa e difesa, e non è possibile alcuna vera equiordinazione
senza una reale alterità tra magistratura requirente
e magistratura giudicante".

Nel documento si sottolinea,
inoltre, che non solo il processo, ma anche la società italiana, più in
generale, hanno bisogno di una magistratura autorevole ed indipendente e di
un’avvocatura autorevole ed indipendente e che il ruolo della seconda non si
esaurisce nei confini sempre più stretti delle aule di giustizia, ma deve
divenire strumento di partecipazione democratica e di difesa dei principi
costituzionali.

La nota del Consiglio Nazionale
Forense si conclude ribadendo l’impegno a sviluppare
appieno il proprio ruolo di grande istituzione culturale del Paese, che intende
dare un fattivo contributo alle riforme, prima fra tutte quella
dell’ordinamento giudiziario, e ricordando le occasioni nelle quali, nell’anno
appena passato, ha manifestato la propria solidarietà alla magistratura,
"specie allorquando i toni del dibattito politico in tema di giustizia
hanno travalicato i naturali confini della diversità di opinioni fino ad
incanalare le istanze contrapposte verso un piano inclinato al fondo del quale
altro non vi è se non la più nefasta e distruttiva delegittimazione
istituzionale".

CONSIDERAZIONI FINALI

Al termine di questa relazione
possono farsi alcune considerazioni.

E’ diritto dei
cittadini
ottenere un servizio – giustizia adeguato alle esigenze del tempo attuale. Per questo obiettivo occorre che vi sia l’impegno di tutte le
istituzioni, chiamate a realizzare un sistema di giustizia efficiente e in
grado di rispondere in modo efficace e tempestivo a dette esigenze.

Si impongono scelte coraggiose e
innovative, le quali certamente hanno dei "costi", non solo
economici. E sono altresì necessarie misure
organizzative valide e collaborazione adeguata da parte di magistrati e
avvocati.

Si è voluto sino ad oggi, nel campo
della giustizia civile, un accesso generalizzato e senza filtri nelle fasi di impugnazione. Si è proceduto nella linea di portare
davanti al giudice ogni tipo di controversia, senza considerare che troppi
processi provocano ritardi e disfunzioni, anche in
sede di esecuzione. Con la conseguenza che si assiste in
tanti casi ad un abuso del processo. La lunghezza eccessiva dei giudizi
e i suoi costi elevati possono determinare una "fuga" da processo,
come forse è confermato dal minor numero di nuovi processi che si è registrato lo scorso anno.

Nel campo penale, si è voluto
estendere, oltre ogni ragionevole misura, le fattispecie criminose e le
garanzie processuali (sovente prive di effettivo
contenuto sostanziale), senza tener conto del progressivo allungamento del
processo. Con la conseguenza che si assiste ad una sostanziale vanificazione
del processo penale, il quale, quando non è "fulminato" dalla prescrizione
(e c’è il rischio che ciò accada anche più di frequente), produce o una pena
che può apparire come una tardiva vendetta dello Stato nei confronti di una
persona ormai mutata negli anni, oppure un’assoluzione che non ripaga dei danni
economici ed esistenziali sofferti in conseguenza del processo.

Al Legislatore è affidato il
difficile compito di trovare un nuovo punto di equilibrio
fra le due esigenze apparentemente contrapposte: garanzie ed efficienza. Ciò anche al fine di porre termine ad una situazione ormai
insostenibile che, a livello europeo, ci vede permanentemente sotto preoccupata
osservazione. La sola riforma dell’ordinamento giudiziario – pur
necessaria, a prescindere da ogni valutazione sul suo contenuto – non è
assolutamente sufficiente.

I magistrati, dal canto loro, devono
impegnarsi, oltre che ad amministrare la giustizia in modo solerte e essenziale anche nella elaborazione di moduli
organizzativi che contribuiscano al miglioramento del servizio; e per la
eliminazione delle residue sacche, fortunatamente limitate, di scarsa
operosità.

L’autonomia e l’indipendenza di cui
gode, secondo la Costituzione, la magistratura, formata da giudici e pubblici
ministeri, deve essere sempre rispettata, come ha più volte ribadito
il Capo dello Stato.

Alla magistratura deve però essere
restituita la fiducia dei cittadini. La fiducia implica anche il rispetto per
le sentenze e per la funzione giurisdizionale che attraverso esse si esprime.
Le sentenze e, più in generale, le attività dell’autorità giudiziaria, possono
certamente essere criticate. Non però contestate, o strumentalizzate
per fini diversi.

Se Parlamento e Governo daranno
al Paese riforme giuste e condivise, leggi moderne che possano delineare un
sistema di giustizia efficace e tempestiva e strutture adeguate, il risultato
non potrà mancare.

Sono convinto che i magistrati
risponderanno alle aspettative del Paese, assicurando
– come sempre – massimo impegno e assoluta imparzialità nell’applicazione della
legge.

E’ con questi auspici che Le chiedo Signor Primo Presidente di voler dichiarare aperto
l’anno giudiziario 2005.