Enti pubblici

Wednesday 24 December 2003

Danno da tangente e responsabilità contabile secondo la Corte dei Conti

“Danno da tangente” e responsabilità contabile secondo la Corte dei Conti

Corte dei conti – sezione prima – sentenza 18 novembre 2003, n. 433

Presidente Simonetti – relatore Mastropasqua

Ritenuto in fatto

Avverso la sentenza della Sez. Giur. Reg. Lombardia n. 1/2002 del 7 gennaio 2002 hanno proposto appello i sigg.:

– Giuseppe D M rappresentato e difeso dagli avvocati Guido Romanelli e Federico Cipolla, con atto depositato il 10 aprile 2002 ed iscritto al n. 15390 del registro di segreteria;

– Antonino P, rappresentato e difeso dall’avv. Ignazio Serra, con atto depositato in data 12 aprile 2002 ed iscritto al n. 15433 del registro di segreteria;

– Francesco S, rappresentato e difeso dall’avv. Luigi Paccione con atto depositato il 18 aprile 2002, ed iscritto al n. 15451 del registro di segreteria.

Con la sentenza impugnata il giudice di primo grado condannava il gen. Giuseppe D M, il col. Francesco S, il cap. Antonino P e il cap. Giuseppe G, ufficiali delle Forze armate, a risarcire in solido all’Amministrazione della Difesa, a titolo di danno all’immagine, la somma complessiva di lire 20 milioni, ripartita in parti uguali e in solido tra loro, oltre a interessi legali e spese di giustizia.

L’anzidetto danno era stato cagionato “……in conseguenza di illecite contribuzioni per un valore di circa dieci milioni ad essi corrisposte in occasione del collaudo relativo al contratto n. 44612 del 28 luglio 1994 del valore di lire 1.476.471.000 stipulato dal Ministero della Difesa con la ditta Manifatture Valvibrata per l’acquisto di 77.885 camicie mezze maniche”.

I predetti ufficiali avevano posto in essere l’attività illecita operando quali membri della commissione di collaudo o comunque in quanto assegnati al centro raccolta e smistamento militare (Ceracomiles) di Milano, organo dipendente dalla Direzione generale di commissariato del Ministero della Difesa ed incaricato del collaudo delle merci fornite dalle ditte vincitrici delle gare; segnatamente il gen. D M agendo in veste di presidente della commissione di collaudo, il col. S quale membro di detta commissione e direttore del Centro, il cap. G in qualità di membro del Centro e il cap. P in qualità di collaudatore.

Secondo l’atto introduttivo del giudizio, il cui impianto accusatorio è stato accolto dal primo giudice, sulla base delle indagini svolte dalla polizia giudiziaria, delle dichiarazioni confessorie rese innanzi alla Autorità giudiziaria ordinaria e della sentenza emessa dal Gip presso il Tribunale di Milano, nell’ambito del Ceracomiles di Milano si era instaurato un “sistema” illecito ed usuale di rapporti tra imprenditori, aggiudicatari delle commesse, e membri delle commissioni decentrate di collaudo, secondo il quale i primi “versavano” una somma, rapportata all’1% del valore della commessa, che doveva essere divisa, in parti uguali, tra il perito collaudatore, alcuni membri della commissione ed un altro soggetto, che, pur non facendo parte della commissione, era comunque membro del Centro; una parte della somma era destinata ad alimentare un fondo comune al quale avevano accesso i vari membri del Centro raccolta per spese di rappresentanza (che sarebbe stato gestito dal P).

In relazione a tali comportamenti il Procuratore Regionale individuava sia un danno patrimoniale diretto che  un danno da lesione all’immagine della Pubblica amministrazione.

La sezione regionale pronunciava sentenza con la quale:

rigettava la domanda attrice in ordine al “ danno diretto” connesso alla presunta superficialità del collaudo;

condannava in solido i convenuti a risarcire all’amministrazione della Difesa, a titolo di danno all’immagine, la somma complessiva di lire 20 milioni in solido, ripartita in parti uguali, comprensiva di rivalutazione monetaria, oltre a interessi e spese di giustizia.

Nel proprio gravame il sig. Antonino P deduce:

– incompetenza della Sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia- Milano, non essendosi ivi svolta alcuna gestione di beni pubblici, e competenza della Sezione giurisdizionale regionale per il Lazio-Roma, in quanto il danno materiale si è verificato a Roma nel momento del pagamento della merce, essendo la gestione a livello ministeriale;

– violazione degli articoli 115 e 116 Cpc in ordine alla sua partecipazione al collaudo;

– violazione degli articoli 116 Cpc e 2056,1223,1226 Cc, per omessa dimostrazione dell’entità del danno;

– omessa e/o insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia prospettati dalle difese, l’eccepita incompetenza territoriale e la realtà e concretezza del danno.

In conclusione l’appellante chiede che in accoglimento dell’appello proposto:

– sia annullata la sentenza impugnata perché emessa da sezione regionale incompetente e la vertenza sia rimessa alla Sezione giurisdizionale regionale per il Lazio competente per territorio;

– in via gradata, sia riformata la sentenza appellata annullando la condanna perché il danno non appare provato nell’an e, comunque, non è provato nel quantum;

– in via ulteriormente gradata, sia riformata la sentenza appellata fissando il quantum del danno, calcolato in via equitativa, in una somma di danaro pari alla pretesa illecita dazione;

– sia riformata la sentenza appellata annullando la condanna alle spese o riducendo le stesse congruamente tenuto conto che le citazioni separate hanno condotto, senza propria colpa, a condanne multiple alle spese e che (il richiamo è all’articolo 91 Cpc) rispetto alla domanda del danno diretto egli non è stato soccombente.

Nel proprio gravame il sig. Francesco S deduce:

– inammissibilità della domanda di 1° grado per violazione dell’articolo 5, comma 1, decreto legge 453/93, convertito con la legge 19/1994, per tardività della citazione depositata oltre i 120 giorni previsti e per l’inapplicabilità al termine della sospensione feriale prevista dall’articolo 1 della legge 742/69;

-insussistenza di propria responsabilità erariale, per non aver mai percepito dazioni illecite e per non averlo mai ammesso in sede penale. Illogicità e contraddittorietà della sentenza impugnata;

– violazione dell’articolo 112 Cpc con riferimento alle istanze istruttorie formulate dalla difesa, per omesso esame da parte del giudice impugnato;

– ingiustizia della sentenza gravata per omessa integrazione del contraddittorio con la chiamata in causa del cap. Savino Agosti, componente della commissione di collaudo, per ricorrenza di una fattispecie di litisconsorzio necessario;

– insussistenza del preteso danno all’immagine, accertato come dato precostituito, senza prove sul fatto e pur in assenza di un danno materiale.

In conclusione l’appellante chiede che, in annullamento della sentenza impugnata:

– sia dichiarata inammissibile la domanda di 1° grado per intervenuta decadenza dell’azione, proposta dopo il corso dei 120 giorni dalla scadenza del termine assegnato agli incolpati per le deduzioni difensive;

– sia dichiarata la prescrizione;

– in subordine, sia respinta la domanda di condanna per danno all’immagine e al prestigio dello Stato – amministrazione proposta nei suoi confronti, stante la mancata prova della propria responsabilità per il fatto storico sottostante;

– in ulteriore subordine, sia rimessa la causa al primo giudice per l’integrazione del contraddittorio nei confronti del cap. Savino Agosti, componente la commissione di collaudo per cui è causa;

– in via estremamente gradata, nella denegata ipotesi di conferma della condanna, sia applicato il potere di riduzione delle eventuali somme dovute nella misura massima consentita;

– con vittoria di spese del doppio grado e con istanza di liquidazione e rimborso delle stesse ai sensi dell’articolo 3, comma 2bis, decreto legge 543/96;

Nel proprio gravame il sig. Giuseppe D M deduce:

– prescrizione dell’azione di responsabilità per essere trascorso un quinquennio tra la scoperta dei fatti e l’emissione dell’atto di citazione;

– errata reiezione dell’eccezione di improcedibilità della domanda della Procura per tardivo deposito della citazione (sei giorni oltre il termine di 120 giorni) ed inapplicabilità della sospensione feriale dei termini processuali; in particolare la tesi si fonda sulla natura preprocessuale dell’invito a dedurre ed adduce a sostegno sentenze della IIª e IIIª sezione giurisdizionale Centrale;

– errata statuizione sul parziale fondamento nel merito delle domande della Procura (per carenza di prova della sua responsabilità in sede penale; per totale inesistenza della prova sull’an del danno materiale diretto e non semplice mancanza di una prova compiuta in punto, come affermato nella pronunzia; per inesistenza radicale e logica del danno patrimoniale indiretto e conseguente incondivisibilità degli argomenti della pronunzia che ne affermano il ricorrere; per inesistenza in concreto del danno patrimoniale indiretto e assoluta mancanza di prova sul punto, con conseguente erroneità delle statuizioni della decisione gravata al proposito).

In conclusione l’appellante chiede che, in riforma della sentenza impugnata ed in accoglimento dell’appello proposto:

– preliminarmente, sia dichiarata improcedibile la domanda proposta in prime cure nei suoi confronti dalla Procura regionale presso la sezione giurisdizionale regionale della Corte dei Conti per la Lombardia per tardività nell’emissione della citazione;

– sia dichiarata la prescrizione;

– in subordine, nel merito, sia mandato assolto da ogni domanda formulata nei suoi confronti, siccome infondata, con ogni consequenziale pronunzia.

Nelle proprie conclusioni depositate il 14 giugno 2002 il Procuratore Generale, chiede in via pregiudiziale la riunione dei gravami ai sensi dell’articolo 335 Cpc.

Ritiene infondata, ampiamente motivando, l’eccezione di incompetenza territoriale del giudice di 1° grado.

Quanto all’invito a dedurre afferma l’infondatezza delle eccezioni proposte sia sotto vari profili ed in particolare afferma l’applicabilità della sospensione feriale anche a detto istituto.

Non accoglibile è anche l’eccezione di prescrizione, dovendosi fissare il termine iniziale alla data di rinvio a giudizio in sede penale. In ogni caso la prescrizione è stata interrotta con l’invito a dedurre.

Nel merito chiede la conferma della sentenza impugnata.

L’avv. Serra ha presentato in data 18 febbraio 2003 e 21 ottobre 2003 ulteriori memorie, nelle quali vengono, in antitesi con le conclusioni del Procuratore Generale, nuovamente illustrati e confermati i motivi di appello, facendo in particolare riferimento alla mancanza di prova del danno all’immagine alla luce della sentenza delle SS.RR. n. 10/2003/Q.M. ed insistendo nella tesi dell’incompetenza della Sez. Giur. Regione Lombardia in quanto è incerto il luogo dove sarebbe avvenuta la dazione di denaro.

Anche gli avv.ti Cipolla e Romanelli hanno depositato ulteriore memoria in data 11 febbraio 2003 nella quale insistono sulla tardività dell’atto di citazione rispetto all’invito a dedurre, dovendosi computare nel termine di 120 gg. anche il periodo feriale nonché sulla mancanza di prova del danno.

Nell’udienza dibattimentale le parti hanno illustrato i rispettivi atti scritti, confermando le contrapposte conclusioni.

Considerato in

Diritto

1. I gravami vanno riuniti in rito ai sensi dell’articolo 335 Cpp perché proposti avverso la medesima sentenza.

2. Il primo motivo di gravame proposto dagli appellanti è il difetto di competenza del giudice di primo grado.

L’avv. Serra, soprattutto nella memoria conclusionale depositata in data 18 febbraio 2003, insiste nella tesi della competenza territoriale della Sezione Giurisdizionale Regione Lazio argomentando che sulla base della prospettazione contenuta nell’atto di citazione del Procuratore Regionale per la Lombardia va privilegiato a detti fini come luogo in cui si è verificato il supposto danno la città di Roma dove ha sede il ministero della Difesa, Direzione Generale di Commissariato, presso il quale si svolgevano le gare di appalto, venivano stipulati i contratti e pagati i corrispettivi, mentre i collaudi delle merci venivano dislocati in tutta Italia.

Il difensore dell’appellante De Maria privilegia poi a fini di competenza il luogo nel quale è avvenuto il danno, richiamando giurisprudenza della Cassazione che in materia di responsabilità extracontrattuale ex articolo 2043 Cc individua il giudice competente secondo il criterio del luogo in cui si è verificato il danno.

Senonché per i giudizi di responsabilità amministrativo contabile la competenza territoriale viene disciplinata da una norma specificamente dettata per tali giudizi e cioè dall’articolo 2 della legge 658/84 sulla base di un criterio soggettivo e non oggettivo, e cioè l’incardinazione del soggetto autore del comportamento illecito causativo del danno in un ufficio od organo della regione.

Sulla base di detto criterio per poter affermare la competenza della Sezione Territoriale per il Lazio sarebbe stato necessario postulare l’esistenza di comportamenti illeciti tenuti in sede di aggiudicazione della gara o di pagamento da parte di soggetti incardinati nella Direzione Generale di Commissariato e che abbiano concorso a determinare il danno per cui è causa. Ma in nessun momento del processo e neppure in altra sede sono stati invocati siffatti comportamenti. Il danno, pertanto, sotto il profilo soggettivo è stato ascritto solo ai convenuti nel presente giudizio.

In proposito è da rilevare che secondo l’atto introduttivo del giudizio in primo grado il supposto comportamento illecito causativo del danno è stato tenuto dai convenuti quali incardinati permanentemente o temporaneamente (in relazione alla specifica incombenza) presso il Ceracomiles di Milano. Se pur detto comportamento si è inserito in un procedimento amministrativo complesso, oggetto della domanda è esclusivamente il danno conseguente al comportamento illecito degli appellanti, senza alcun coinvolgimento di soggetti che sono intervenuti in altre fasi del procedimento.

A fini di determinazione della competenza vanno richiamati i principi fissati dalle Sezioni Riunite di questa Corte con la sentenza n. 4/2002/Q.M. del 13 febbraio 2002.

Secondo detta pronuncia criterio principale per l’attribuzione di competenza di ciascuna sezione territoriale è, ai sensi del primo comma lett. b) dell’articolo 2 della legge 658/84, l’incardinazione del pubblico dipendente o amministratore supposto autore del comportamento illecito nella sede o ufficio nella regione. Infatti detta norma, nella prima parte, detta un criterio di attribuzione di competenza alla sezione regionale del tutto analogo a quello previsto dalla lettera a). Appartengono infatti a ciascuna Sezione territoriale i giudizi in materia di contabilità pubblica nei confronti di agenti contabili, amministratori o funzionari, impiegati  e agenti di uffici e organi dello Stato e di enti pubblici aventi sedi o uffici nella regione.

Appare evidente dalla stessa lettura della norma che il criterio soggettivo di attribuzione della competenza si radica sull’incardinazione del soggetto agente in un ufficio o organo avente sede nella regione al quale viene imputata l’attività svolta dal soggetto agente. Già è incisivamente indicativo in tal senso il fatto che mentre nella lettera a) del primo comma del citato articolo n. 2 della legge 658/84 vengono enumerati i vari qualificati soggetti degli enti territoriali, nella lettera b) viene invece precisato che i soggetti sono agenti contabili, amministratori, funzionari ecc. di uffici ed organi dello Stato (e non semplicemente dello Stato). Questo fatto indica che a fini del riparto di competenza non è sufficiente il generico rapporto organico con lo Stato ma è anche necessaria l’incardinazione nell’ufficio o nell’organo avente sede nella regione.

Nel caso di specie i presunti responsabili dell’illecito erano incardinati presso un ufficio dell’Amministrazione di appartenenza avente sede nella Regione Lombardia.

Nessun rilievo a fini di competenza può, poi avere per le ragioni indicate nella citata pronuncia delle SS.RR. la sede di pagamento del prezzo dell’appalto ovvero la sede della stipula del contratto, non essendo emersi in quelle articolazioni dell’attività contrattuale comportamenti illeciti fatti valere in giudizio.

L’eccezione va, pertanto, respinta.

3. Viene, poi, eccepita dagli appellanti la inammissibilità dell’atto di citazione per essere trascorsi oltre 120 giorni dalla scadenza del termine indicato nell’invito a dedurre, non potendosi tener conto della sospensione feriale ex articolo 1 legge 742/69.

In proposito va, innanzitutto, affermato che il termine di cui si parla deve essere calcolato in relazione al deposito dell’atto di citazione da parte del Procuratore Regionale e non alla sua notifica al convenuto.

Infatti nel processo amministrativo contabile l’udienza di discussione del giudizio viene fissata con decreto del Presidente dell’adita Sezione giurisdizionale steso in calce all’atto di citazione che così completato viene notificato al convenuto. Pertanto il termine non può che essere calcolato con riferimento all’attività del Procuratore Regionale prima che intervengano articolazioni processuali di competenza di altri soggetti.

Quanto all’applicabilità dell’articolo 1 della legge 742/69 al termine di 120 giorni per il deposito dell’atto di citazione decorrente dalla scadenza del termine assegnato nell’invito a dedurre, la questione si risolve applicando principi generali di diritto processuale civile sulla identificazione dei termini processuali.

Va in proposito ricordato che in ordine alla identificazione dei termini processuali esiste in dottrina ed in giurisprudenza un radicale contrasto determinato dalla disparità di vedute circa la fondatezza della distinzione tra potere di azione e suo esercizio. La tesi che afferma l’esistenza di detta distinzione riferisce l’espressione “termini processuali” ai soli termini che incidono sulla dinamica del processo, cioè al suo svolgimento interno, escludendo dal novero i termini per l’esercizio di poteri sostanziali e quelli a pena di decadenza per la proposizione dell’azione.

La tesi che nega siffatta distinzione qualifica come processuali anche i termini da ultimo ricordati, in quanto comunque destinati a produrre i loro effetti sul processo.

In quest’ottica, infatti, non v’è distinzione cronologica fra il potere giuridico di iniziare il processo e il suo concreto esercizio; pertanto, l’eventuale estinzione di questo potere per il decorso del termine incide sul processo non rendendolo più possibile. In tal senso è la giurisprudenza più recente della Corte di cassazione (cfr. 7409/90; 7337/90; 3351/97) contrastante con quella meno recente (Cassazione 3143/90 4494/85, 609/76, 694/76). Univoca nel primo senso è da sempre la giurisprudenza del giudice amministrativo.

D’altro canto, va ricordato, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha in più occasioni (sentenza 40/1985, 255/87, 49/1990, 390/92, 268/93) ricompreso nella locuzione “termini processuali” anche i termini entro i quali il processo va instaurato. In particolare le due sentenze da ultimo ricordate danno atto della ormai avvenuta ricezione del nuovo orientamento giurisprudenziale.

In questo senso non ha alcun rilievo la natura preprocessuale dell’atto (invito a dedurre) in relazione al quale i termini decorrono, rilevando invece i termini per i loro effetti sulla introduzione del giudizio. Da questa tesi, ormai pressocché univoca nella giurisprudenza, non si ha motivo di discostarsi, anche perché essa è stata confermata dalle Sezioni Riunite di questa Corte nella sentenza n. 7/2003 QM che si è pronunciata su questione di massima specifica.

D’altro canto prive di consistenza sono le prospettazioni intese ad affermare la inapplicabilità della sospensione feriale al Procuratore Regionale. In via generale va affermato che le norme regolatrici dei termini processuali sono applicabili a tutti i soggetti del processo secondo la rispettiva veste nel giudizio e nella specie al Procuratore Regionale quale attore. Inoltre l’essere l’atto nella “disponibilità” del Procuratore Regionale è affermazione analoga a quella che il deposito della citazione è nella disponibilità del difensore dell’attore. Essa, pertanto, è neutra rispetto alla soluzione indicata. Non occorre poi spendere parole sulle affermazioni della inapplicabilità della sospensione al Procuratore Regionale perché ufficio, essendo sufficiente rilevare che anche gli uffici di Procura debbono seguire i ritmi dell’attività giurisdizionale in senso proprio e sul piano fattuale che moltissimi uffici di Procura hanno dotazioni organiche inferiori a medi o anche modesti studi di avvocato.

Conclusivamente va respinto il dedotto motivo di appello.

4. È stata ancora eccepita da parte dell’appellante De Maria la prescrizione. In proposito va, intanto, precisato che nella specie il dies a quo della prescrizione va fissata nella data di scoperta del danno, fatto che può richiedere per l’accertamento della sussistenza e dimensione attività istruttoria conseguente alla mera “notitia criminis”.

Detta affermazione è peraltro nella specie superflua. Infatti,  pur accedendo alla tesi degli appellanti la prescrizione è stata interrotta dall’invito a dedurre contenente sia l’oggetto della pretesa sia i motivi della richiesta, elementi necessari per la costituzione in mora ex articolo 1219 Cc.

5. Vanno a questo punto esaminate le eccezioni di merito, che attengono essenzialmente alla configurazione ed alle prove del danno all’immagine.

È ormai pacifica giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. Cassazione Sezioni unite, 5668/97, 744/99, 98/2000) che il c.d. danno all’immagine, conseguente alla condotta illecita dei pubblici funzionari che scredita l’Amministrazione, pur se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di una valutazione patrimoniale sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso, la cui cognizione spetta alla Corte dei conti.

Le citate sentenze della Corte di cassazione non sono meramente attributive di competenza giurisdizionale alla Corte dei conti ma innanzitutto connotano il c.d. danno all’immagine della Pubblica amministrazione quale presupposto necessario per l’affermazione della giurisdizione.

Il primo elemento determinativo è che il danno all’immagine espressamente previsto e tutelato dall’articolo 10 Cc per la persona fisica è nozione estensibile alla persona giuridica, salvo a tener conto della diversità ontologia di questa rispetto alla persona fisica.

È stato così riconosciuto che anche l’immagine della persona giuridica è un bene della vita tutelato dall’ordinamento non solo in sede penale nelle specifiche ipotesi di reato ma anche in altre sedi attraverso le forme inibitorie di comportamenti illeciti e risarcitori del danno.

Il secondo elemento è che, in forza della diversità tra persona fisica e persona giuridica, il risarcimento della lesione è limitata alla sola sfera patrimoniale dell’ente sub specie di danno emergente o di lucro cessante.

Il terzo elemento è che assume particolare connotazione la lesione del bene causata da comportamento illecito di soggetto legato all’ente da rapporto di servizio.

Alle esposte considerazioni consegue che il riconoscimento dell’immagine della persona giuridica come bene della vita oggetto di tutela dell’ordinamento (bene giuridico) si colloca nell’alveo della giurisprudenza che tende ad estendere, in relazione all’evolversi dei fenomeni sociali, la tutela degli interessi dei soggetti dell’ordinamento connotandoli come beni della vita che possono essere oggetto di risarcimento del danno, e cioè in senso sostanzialmente ampliativo dell’ambito di operatività dell’articolo 2043 Cc.

In effetti si tratta di una strada obbligata ove si riconosca che anche la persona giuridica è titolare di diritti assoluti personalissimi. Infatti secondo non controversa dottrina e giurisprudenza il danno morale ex articolo 2059 Cc è incompatibile con la persona giuridica sia da un punto di vista logico che da un punto di vista giuridico, risultando difficile ammettere che la persona giuridica possa patire l’insieme delle sofferenze d’animo provocate da fatto illecito. Può essere invece prospettata la tutela giuridica rispetto ad un interesse attinente alla sfera personalissima della persona giuridica connotandolo quale diritto assoluto la cui lesione sia oggetto se non di risarcimento in senso stretto, ove la conseguenza dell’illecito non si presti ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, almeno di riparazione.

In quest’ottica talune sentenze di questa Corte (a paradigma può assumersi Sez. Giur. Regione Umbria 18 ottobre 2000 n. 557/R/2000) hanno qualificato il danno all’immagine della Pubblica amministrazione come “danno-evento”, come danno cioè rispetto al quale il diritto risarcitorio si rivolge non al contenuto del danno ma alla ingiustizia della lesione.

Sul piano tecnico giuridico della tutela di beni fondamentali per l’ordinamento il meccanismo dell’immediata tutela risarcitoria è stato individuato nell’articolo 2043 Cc, che quale “norma in bianco” salda il suo generico precetto del neminem laedere con le specifiche disposizioni relative al bene-valore di volta in volta considerato, imponendone il divieto della sua lesione.

Senza prendere posizione sulla configurazione dommatica del danno all’immagine rispetto alla quale talune considerazioni verranno fatte in sede di criteri individuativi del danno, va precisato che il richiamo al meccanismo tecnico-giuridico dell’articolo 2043 Cc è utile solo come punto di riferimento delle modalità di individuazione di protezione di un diritto assoluto.

Peraltro rispetto al giudizio di responsabilità amministrativo-contabile gli articoli 13 e 52 del Testo unico 1214/34 costituiscono quanto al danno, così come l’articolo 2043 Cc” norme in bianco” poste a tutela delle conseguenze pregiudizievoli per la Pubblica amministrazione derivanti da comportamenti di soggetti legati da rapporto di servizio contrari ai doveri d’ufficio. La disputa ancora aperta nella giurisprudenza, sulla natura contrattuale od extracontrattuale della responsabilità amministrativo-contabile si lega alla prevalenza data all’elemento oggettivo o all’elemento soggettivo della responsabilità, essendo il danno conseguenza di un comportamento dovuto non da “chiunque” ma solo da parte dei pubblici amministratori o funzionari nell’esercizio delle loro funzioni.

In particolare per quanto riguarda la lesione del diritto all’immagine (della Pubblica amministrazione) fatta valere nel giudizio di responsabilità amministrativo-contabile, va affermato che nel caso la lesione non proviene da un qualsiasi comportamento di soggetto dell’ordinamento ma si radica su comportamenti illeciti contrari ai doveri d’ufficio tenuti da chi è legato da rapporto di servizio con l’amministrazione, e che la conformazione della lesione del diritto e la sua gravità è segnata dall’esistenza di detto rapporto.

Occorre, in proposito, considerare che i soggetti chiamati in giudizio per responsabilità amministrativa sono quei soggetti che, titolari di pubblici uffici o incardinati negli stessi, in virtù del rapporto organico fanno agire la pubblica amministrazione, secondo le competenze e le mansioni che nell’organizzazione amministrativa sono assegnate a ciascun dipendente in base a disposizioni di legge.

In forza di tale modulo organizzativo e delle disposizioni che regolano la vita giuridica di relazione dei soggetti persone – giuridiche non solo le intere fattispecie degli atti che compie l’organo vengono imputate all’ente, ma gli stessi fatti comportamentali dei pubblici funzionari, compiuti in ragione del servizio, costituiscono l’agire dei pubblici uffici.

L’impegno di cooperazione all’uopo dovuto dai soggetti legati da rapporti in servizio con la Pubblica amministrazione sia in forza di un rapporto di lavoro sia in forza di un rapporto elettivo o onorario od anche coattivo si caratterizza non solo per il contenuto specifico dell’obbligo nascente dal rapporto ma anche per le peculiari modalità del comportamento. Detto comportamento, infatti è anche dovuto in vista del raggiungimento di finalità immanenti all’attività ulteriori rispetto al raggiungimento degli obiettivi dell’azione ma incidenti sull’eticità dello Stato-comunità , fondamento costituzionale dei poteri attribuiti allo Stato-complesso coordinato di enti ed allo Stato-amministrazione.

Vengono in rilievo in proposito gli articoli 28,98,101 della Costituzione e le norme attuative che connotano l’impegno di cooperazione richiesto a chi svolge una pubblica funzione ed è titolare di un pubblico ufficio.

È evidente che in ipotesi di delitti contro la pubblica amministrazione commessi dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle proprie funzioni l’attività criminale di questi non è imputabile alla pubblica amministrazione. Ed, infatti, anche in ipotesi di concussione la Pubblica amministrazione non è responsabile né direttamente né indirettamente nei confronti del soggetto leso, il quale tra l’altro è ben consapevole che l’agire del pubblico dipendente è motivato da fini propri estranei alla Pubblica amministrazione.

Ma anche in queste occasioni l’attività funzionale del pubblico dipendente invera l’azione della Pubblica amministrazione. In detti casi vi è la dimostrazione che l’attività della Pubblica amministrazione non si è svolta secondo i principi fissati dall’articolo 97 Costituzione perché nell’esercizio dei pubblici poteri il soggetto preposto all’ufficio o incardinato nell’ufficio ha perseguito in concreto fini contrastanti o comunque diversi da quelli pubblici, di cui è centro di imputazione quella amministrazione nel quale l’ufficio o l’organo è inserito, e per il raggiungimento dei quali il potere è conferito. Questo fatto incide potenzialmente anche al di là del singolo episodio sui rapporti tra pubblica amministrazione lesa dall’attività criminosa e cittadini, non solo in generale rispetto allo svolgersi del processo democratico ma in modo specifico nei confronti di quei cittadini (o di quei soggetti o categorie di soggetti) che utilizzano i pubblici servizi o sono incisi dall’esercizio di un potere autoritativo.

In questi può ingenerarsi la convinzione che l’organizzazione dei pubblici poteri non sia conformata ai principi fissati dall’articolo 97 Costituzione, ma sia in concreto strutturata sia per l’attribuzione soggettiva dei poteri sia oggettivamente in modo tale, attraverso un esercizio distorto dei pubblici poteri, da costringere, o comunque indurre, i soggetti fruitori di servizi pubblici o interessati a provvedimenti dei pubblici poteri a pagamenti illeciti per esercitare i propri diritti o per ottenere il servizio ovvero da indurre soggetti o categorie di soggetti a ritenere possibile conseguire vantaggi illeciti.

Come ben si vede viene in primo luogo in rilievo la potenzialità dannosa della lesione del diritto operata dal comportamento del pubblico dipendente rispetto alla potenzialità dannosa del comportamento lesivo del “chiunque”. Viene inoltre in rilievo il comportamento dell’autore del danno non come genericamente lesivo del diritto personalissimo all’immagine ma come lesivo attraverso la violazione di principi costituzionali di azione della pubblica amministrazione perpretata attraverso l’uso distorto di poteri funzionali conferiti al soggetto agente “ratione offici”.

Non va, in proposito, dimenticato che lo Stato e gli altri enti pubblici rappresentativi della comunità si caratterizzano in modo specifico rispetto a tutte le altre persone giuridiche per essere posti a tutela degli interessi fondamentali della comunità e per il raggiungimento di finalità che spesso trovano la loro radice nella stessa costituzione. L’organizzazione di questi enti è poi caratterizzata da principi costituzionali cogenti, che determina la struttura e l’attività degli organi e degli uffici.

L’immagine pubblica si connota, pertanto, in modo peculiare.

La sua lesione è determinata essenzialmente da comportamenti contrari ai principi fondamentali di organizzazione e di azione costituzionalmente rilevanti, comportamenti (oggetto anche della specifica previsione dell’articolo 54 Costituzione) che possono essere tenuti nella generalità dei casi da chi deve porre in essere i moduli organizzativi e l’attività della Pubblica amministrazione.

Il comportamento illecito così caratterizzato è lesivo dell’immagine dell’amministrazione perché ne determina un modo di essere non conforme ai principi costituzionali in attività di promozione e tutela di interessi, anche adespoti, della collettività e quindi da questa percepibile. Il comportamento lesivo poi si inserisce in un circuito tipico sul quale si fonda lo stato democratico di cooperazione e partecipazione dei cittadini che si rafforza o si attenua a secondo che le istituzioni e gli enti rappresentativi della collettività agiscano o meno per le finalità funzionalmente ad essi attribuite secondo i principi sostanziali ed organizzativi espressi nella costituzione formale e materiale.

Nell’an la lesione all’immagine, pertanto, sussiste quando il pubblico amministratore o dipendente abbia tenuto un comportamento illecito che si ponga in contrasto con i sopraenunciati principi fondanti della Pubblica amministrazione.

In tal senso può qualificarsi il danno all’immagine come danno evento, ma non va dimenticato che a fini risarcitori o riparatori del danno, qualificati dalla giurisprudenza come danno patrimoniale, occorrono altri elementi idonei ad attestarlo e quantificarlo.

In proposito viene in primo luogo in rilievo la gravità della lesione del diritto della personalità, che deve superare una soglia minima per tradursi in danno risarcibile. Questa soglia minima non è sicuramente segnata dall’ambito giuridico disciplinato dall’articolo 2059 Cc e cioè dall’esistenza di un reato perché il danno all’immagine non è un danno morale subiettivo, ma è la conseguenza patrimoniale di un comportamento illecito lesivo di un diritto personalissimo, né è segnata dalla coesistenza di un danno ad un bene materiale dell’ente (cfr. SS.RR. n. 16/99/Q.M. del 28 maggio 1999), perché ciascuna tipologia di danno è posta a tutela di un diritto (diritto relativo di credito o diritto assoluto di proprietà) diverso dall’altro (diritto assoluto personalissimo).

Ne consegue che la soglia minima va individuata con una indagine di fatto sul comportamento tenuto con riferimento particolare all’elemento soggettivo e sulla potenzialità lesiva di detto comportamento.

La potenzialità dannosa nei termini delineati del comportamento illecito dei pubblici poteri va saggiata in concreto nei singoli casi. Infatti ove si tratti di episodi sporadici e di cui non si è avuta diffusione può mancare un evento di danno (e comunque questo va dimostrato attraverso specifici indici), laddove invece la pluralità degli episodi criminosi o la gravità in sé dei fatti ed il conseguente impatto sull’opinione pubblica o sulle categorie interessate sia sicuro indice della diffusione della conoscenza da parte dei cittadini dell’esistenza di una distorta organizzazione dei pubblici poteri è conseguenza ineludibile il danno per la Pubblica amministrazione sia in termini di danno emergente sia in termini di lucro cessante. Detti episodi vengono infatti ad incidere sia sull’organizzazione dell’attività amministrativa, con conseguenti maggiori costi, sia sulla necessità di ripristinare l’immagine, sia sulla posizione della Pubblica amministrazione la quale, ove eserciti correttamente ed imparzialmente il proprio potere, può ottenere l’adesione convinta dei cittadini, il loro apprezzamento o quantomeno non subire azioni di contrasto. In questi termini esiste per la Pubblica amministrazione un danno certo, che può essere quantificato equitativamente.

Infatti la Pubblica Amministrazione nell’acquisire le entrate e nel fornire servizi svolge sia attività economica di natura imprenditoriale sia attività autoritativa.

In ambedue i casi un primo aspetto del danno è costituito dalla spesa necessaria (sostenuta, da sostenersi, soltanto eventuale) per il ripristino dell’immagine.

Inoltre, come ulteriore danno, sotto il primo profilo vengono in rilievo la minore richiesta del servizio da parte degli utenti, la loro minore soddisfazione se reso in condizioni di monopolio ecc..

Sotto il secondo profilo va invece ricordato che l’attività funzionale della Pubblica amministrazione è indirizzata al conseguimento dei fini pubblici di cui è attributaria e per i quali ad essa sono conferiti correlativi poteri autoritativi.

Nello Stato democratico, poi, viene promossa ed incentivata la partecipazione dei cittadini nei processi decisionali e nei procedimenti amministrativi nei quali vengono funzionalmente spesi poteri pubblici conferiti alla Pubblica Amministrazione.

In questo senso l’immagine di un apparato organizzativo dei poteri pubblici che agisce in modo imparziale, efficiente, efficace al fine di realizzare gli interessi pubblici incentiva i cittadini a tenere il comportamento richiesto da leggi, regolamenti od altri atti normativi a carattere generale per il raggiungimento dei fini pubblici, contemperando così l’interesse generale con gli interessi individuali.

La lesione dell’immagine della Pubblica amministrazione, deteriorando il prestigio della personalità pubblica degli enti rappresentativi della collettività in tutti i casi nei quali l’apparato organizzativo esercita i propri poteri per fini personali e contrastanti con quelli pubblici o secondo criteri di parzialità e di favoritismo, induce i cittadini a privilegiare con ogni mezzo il proprio interesse particolare, con gravi ricadute anche sullo svolgimento dell’attività amministrativa. Da qui le gravità della lesione sia in termini di danno emergente che di lucro cessante.

Pertanto ogni volta che i poteri attribuiti alla Pubblica amministrazione per il raggiungimento di specifici fini pubblici vengono illecitamente esercitati per scopi diversi, può derivare oltre al danno diretto un danno indiretto valutabile in termini di minore possibilità di acquisizioni di entrate ovvero di minori prestazioni di servizio ai cittadini, di deterioramento della qualità della vita dei cittadini. Ciò ovviamente nei limiti in cui il fatto illecito comporti una diminuzione patrimoniale valutabile sotto il profilo del danno emergente o del lucro cessante. In questa valutazione va, però, tenuto presente che spetta agli enti esponenziali della collettività tutelare interessi adespoti e, pertanto, il danno può essere valutato sotto l’aspetto della lesione di un bene collettivo, il cui centro di riferimento è l’ente esponenziale della collettività.

Assumono rilievo in relazione all’an ed al quantum del danno all’immagine i seguenti elementi e criteri:

– l’attività funzionale attribuita all’ente, organo, ufficio nel quale è incardinato l’autore del danno relazionato all’interesse della collettività tutelata;

– la posizione funzionale dell’autore dell’illecito, che assume maggior gravità quando riveste una posizione di vertice idonea a determinare l’azione della Pubblica amministrazione, a impedire o ritardare i controlli, a coprire l’illecito;

– se, come è stato notato in dottrina, il danno esistenziale è un non fare, cioè un non poter più fare, un dover agire altrimenti, un relazionarsi diversamente, la sporadicità o la continuità o la reiterazione dei comportamenti illeciti, caratterizzando essi la relazione tra cittadini e pubblica amministrazione; la necessità o meno di interventi modificativi dell’organizzazione la necessità o meno di interventi sostitutivi o riparatori dell’attività illecitamente tenuta;

– in ipotesi di tangenti l’entità del denaro ricevuto per operare illeciti interventi;

– le conseguenze economico-sociale degli interventi intesi a favorire illecitamente terzi, soprattutto in materia di pubblici appalti o di acquisizione di entrate fiscali;

le conseguenze sociali fondate sulla negativa impressione e ripercussione suscitate nell’opinione pubblica dal fatto illecito, favorito dal clamor fori e dalla diffusione ed amplificazione datane dagli organi di stampa, tali da suscitare sfiducia nei confronti dell’ente stesso.

Il risarcimento del danno all’immagine, in quanto ancorato ai suddetti parametri, va pertanto necessariamente determinato in via equitativa ex articolo 1226 Cc, valorizzando i costi del ripristino del bene, che hanno valenza economica sotto il profilo del danno emergente (costi del mancato conseguimento della finalità pubblica, dell’inefficienza e inefficacia dell’organizzazione, ecc.) o di lucro cessante (soprattutto sotto il profilo dei vantaggi derivanti alla Pubblica amministrazione dell’adesione della generalità dei cittadini o di quelle particolari categorie di cittadini professionalmente qualificate investite dall’attività dell’ente) ed allontanandosi così sia dal risarcimento del danno in senso classico che dalla riparazione della sofferenza tipica del danno morale.

Se si vogliono valorizzare approcci qualificatori del danno all’immagine si può così affermare che in esso l’evento lesione costituisce il momento fondante della catena causale nella quale confluiscono le perdite derivanti dalla vanificazione dei costi sostenuti per assicurare ed elevare il bene-valore sacrificato ed i costi sostenuti e sostenendi volti al recupero di tale bene, e perciò elementi tipici del danno-conseguenza.

6. Il riflesso sul piano probatorio è che l’attore deve indicare e dimostrare a fini di esistenza del danno il comportamento illecito lesivo ed a fini di quantificazione gli elementi tra quelli indicati determinativi della dimensione ed entità della lesione.

È esperienza comune che in questa tipologia di danno vengono versate nel giudizio di responsabilità amministrativo-contabile le risultanze e le prove acquisite nel quasi sempre coesistente giudizio penale fondato su comportamenti almeno parzialmente coincidenti.

In quest’ambito vengono in rilievo, oltre agli effetti del giudicato penale a seguito di dibattimento, gli effetti della sentenza ex articolo 444 Cpp e i problemi relativi alla valutazione delle prove acquisite in sede penale.

Quanto alla natura della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti una corrente dottrinaria e giurisprudenziale le riconnette natura di sentenza di condanna (cfr. Corte costituzionale 313/90, Cassazione 2065/99, 3490/96). Si assume, infatti, che diversamente si giungerebbe all’assurdo di una rinuncia all’esercizio dell’azione penale e al diritto di difesa, inconciliabile con il disposto di cui agli articoli 112 e 24 Costituzione. Tale effetto non può certo costituire un corollario del principio di disponibilità della prova fatto proprio dall’articolo 190 Cpp anche perché in una simile evenienza il giudice sarebbe chiamato a sopperire ex articolo 507 dello stesso codice.

Altra corrente ritiene invece che non si possa attribuire a detta sentenza natura di sentenza di condanna, sul presupposto dell’assenza dell’affermazione di colpevolezza, essendo anzi più vicina quanto a valore delle statuizioni ad una sentenza di proscioglimento (cfr. Corte costituzionale 251/91, Cassazione Sezioni unite, 26 febbraio 1997).

Il legislatore della legge 27 marzo 2001 n. 97 sembra avallare la prima tesi, disponendo l’articolo 445 Cpp novellato attraverso il richiamo all’articolo 653 Cpp, l’efficacia di giudicato non solo della sentenza di assoluzione, ma anche quella di condanna a pena patteggiata.

Ad ogni modo, dopo la novella legislativa, non si può dubitare della parificazione operata sul piano del valore probatorio.

Significativa appare ai fini del  valore da attribuire alla sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti in un giudizio diverso da quello penale, la ormai consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione – Sezione Tributaria (cfr. 11301/98 e 630/01) secondo la quale la sentenza ex articolo 444 Cpp costituisce “un importante elemento di prova circa la percezione di illeciti proventi e, quindi, della produzione di un reddito imponibile”.

Tale elemento di prova circa l’effettivo compimento dei fatti costituenti reato potrà essere disatteso nel giudizio di merito solo nel caso in cui il contribuente spieghi le ragioni per cui ha ammesso una responsabilità penale e il giudice non lo abbia assolto.

In sostanza la richiesta di pena patteggiata non comporta un accertamento invincibile di responsabilità, come invece accade con il giudicato penale a seguito di dibattimento ex articolo 651 Cpp, ma può essere contestato in un giudizio diverso da quello penale fondato sui medesimi fatti attraverso la prova della inattendibilità della veridicità dei fatti versati nel giudizio penale iniziando dai motivi per i quali è stato chiesto di patteggiare la pena pur non essendo il richiedente autore dei fatti illeciti.

Ne consegue che nei giudizi diversi da quello penale, pur non essendo precluso al giudice l’accertamento e la valutazione dei fatti difforme da quello contenuto nella sentenza pronunciata ai sensi dell’articolo 444 Cpp, questa assume particolare valore probatorio vincibile solo attraverso specifiche prove contrarie.

Le conclusioni innanzi esposte hanno trovato conferma nel comma 1bis dell’articolo 445 Cpp, come introdotto con legge 134/03. Detta norma per un verso equipara la sentenza ex articolo 444 Cpp a pronuncia di condanna, per altro verso esclude l’efficacia di giudicato in giudizi civili o amministrativi.

Quanto alle prove formatesi nel giudizio penale, queste possono essere acquisite nel giudizio di responsabilità amministrativo-contabile per essere oggetto di valutazione del giudice in questa sede, nella quale possono essere oggetto di contestazione e di dialettica processuale.

7. Nella applicazione degli enunciati principi al caso di specie va rilevato che la prova del comportamento illecito tenuto dagli appellanti è supportata da un complesso univoco e concordante di atti ed elementi tratti dal giudizio penale relativo ai medesimi fatti.

Va a questo punto precisato che non appaiono significativi gli elementi versati in giudizio dalla difesa del De Maria ed in particolare la sentenza di applicazione della prescrizione nei confronti di correi effettuata in sede penale. La tesi appare intesa a dimostrare l’esistenza di indizi e non di prove nella commissione dell’illecito. Senonché il giudice penale nell’applicare la prescrizione deve solo valutare se possa procedere sulla base degli elementi versati in giudizio a pronunciare assoluzione con formula piena, fatto che ha escluso nella fattispecie sussistendo indizi a sostegno della tesi accusatoria.

Nessun rilievo ha questo fatto nel giudizio di responsabilità amministrativo contabile nel quale vanno valutate tutte le prove addotte dall’attore ivi compresi gli elementi desunti dal giudizio penale.

Le difese hanno contestato che siffatti elementi possono essere utilizzati in giudizio sotto un duplice profilo. Il primo è che avendo il Procuratore regionale convenuto gli appellanti non in un unico giudizio riguardante tutti i casi di asserita percezione di tangenti, ma enucleando per ogni episodio uno specifico danno in relazione al quale ha emesso uno specifico atto di citazione, va individuata l’esistenza del danno solo con riferimento ai fatti sottostanti a quell’episodio e non all’intero contesto.

Il secondo profilo consiste nel togliere valore alla confessioni rese in sede di giudizio penale attraverso la constatazione che dette confusioni sono avvenute durante la detenzione in carcere e che comunque la pena è stata patteggiata per uscire dalla vicenda.

Quanto al primo profilo indubbiamente la concentrazione degli episodi causativi di danno in un unico o in pochissimi atti di citazione avrebbe consentito una più pregnante valutazione del fenomeno e della dimensione dei suoi effetti dannosi di gran lunga superiori a quelli derivanti dalla parcellizazione. Siffatta considerazione non esclude però che il giudice nel valutare l’esistenza del danno debba valutare tutti gli elementi versati in giudizio ed in particolare quelli che comprovano come l’episodio in contestazione non sia unico ma si inserisca in una ampia attività illecita.

In punto di prova l’attore deve dimostrare sia l’esistenza dello specifico episodio, sia l’invocato contesto nel quale s’inserisce, sia ancora il danno provocato da quell’episodio verificatosi nelle circostanze date senza poter ampliare la dimensione del danno all’intero contesto.

Quanto al secondo profilo il fatto che le confessioni in sede penale siano state rese in stato di detenzione non ne sminuisce il valore probatorio, dal momento che gli appellanti neppure deducono fatti coercitivi della loro volontà o violazioni di garanzie ordinamentali. Egualmente in ordine al patteggiamento della pena gli appellanti deducono generici motivi per il ricorso a tale istituto, motivi che non danno alcuna spiegazione sulle ragioni per le quali è stato richiesto il patteggiamento della pena pur nella consapevolezza della estraneità ai fatti.

Va, a questo punto ricordato che per i medesimi fatti oggetto del presente giudizio è stata pronunciata sentenza ex articolo 444 Cpp per il reato di corruzione nei confronti degli appellanti. 

In quella sede poi vi sono state univoche e ripetute ammissioni di colpevolezza rese dagli appellanti.

In particolare dalla vicenda penale risulta che il S era insieme al P il collettore ed il gestore delle tangenti, per la cui distribuzione ed utilizzazione era stato formato un fondo comune al quale affluivano dazioni in danaro effettuate dalle ditte appaltatrici all’esito positivo del collaudo e quantificato nell’uno per cento del valore dell’appalto. In proposito il S ha reso dichiarazioni confessorie sempre più precise al Gip del Tribunale di Milano il 16 ottobre 1995, al Pm presso il Tribunale di Milano il 20 ottobre 1995 ed il 2 novembre 1995.

Il D M ha reso dichiarazioni confessorie di aver ricevuto somme di denaro in occasione della sua partecipazione a commissioni di collaudo presso il Ceracomiles di Milano.

Il P ha dichiarato in sede penale il 14 ottobre 1995 che nel suo ufficio esisteva una cassa comune alimentata con denaro erogato in contanti dalle ditte vincitrici delle forniture. In relazione a tali dichiarazioni non può assumere alcun rilievo esimente l’eventuale mancata partecipazione del P al collaudo, dal momento che per sua stessa ammissione era il detentore delle somme percepite per tangenti e partecipava al sistema spartitorio delle stesse. 

Nel giudizio penale dichiarazioni conformi sono state fatte da altri soggetti coinvolti in quella sede.

Come si vede un imponente ed univoco materiale probatorio attesta non solo il versamento di tangenti nel caso specifico ma anche e soprattutto un comportamento generalizzato di percezioni di tangenti in occasione di ogni appalto collaudato dal Ceracomiles di Milano.

Nel descritto contesto il comportamento illecito del D M, del S e del P non è ravvisabile solo nell’aver percepito tangenti nello specifico caso (come in un’altra serie di casi), ma anche nel non aver posto fine e denunciato l’esistenza di una prassi corruttiva di estrema gravità perché coinvolgente tutti gli appalti. Il comportamento omissivo da parte di ufficiali superiori preposti al servizio (e che avevano quindi l’obbligo di vigilare sulla regolarità delle operazioni oltre a quelle previste in Costituzione per il loro status) è stato comunque causativo dei danni arrecati all’Amministrazione, in quanto non ha impedito un evento che avevano l’obbligo di impedire. In tal senso ai fini della causazione del danno non appare neppure rilevante la percezione o meno da parte loro di somme provenienti da tangente nello specifico caso, esistendo comunque il nesso di causalità tra il loro comportamento omissivo e il danno subito dalla Pubblica amministrazione.

Quanto alla esistenza ed alla quantificazione del danno vanno posti in rilievo i seguenti elementi:

– la corresponsione di tangenti in occasione del collaudo di ciascuna fornitura di merci, tra l’altro commisurata a percentuali su prezzo, non solo può aver secondo l’id quod plerumque accidit, inciso sulla formazione del prezzo di appalto o sulla qualità della merce nello specifico caso (cfr. Cassazione Sezioni unite, 98/2000) ma, proprio per la sua generalizzazione, ha determinato effetti distorsivi sugli appalti. Infatti gli imprenditori nel fare la loro offerta hanno dovuto tener conto anche della tangente quale elemento di costo ovvero, per non commettere un illecito penale, non hanno partecipato alla gara. È di tutta evidenza infatti che comportamenti corruttivi generalizzati vengono conosciuti tra tutti i soggetti del settore e che, quindi, almeno la gran parte degli imprenditori del settore erano a conoscenza del sistema tangentizio.

Dal sistema sono così derivati effetti economico-sociali rilevanti, riflettendosi sia sui prezzi degli appalti sia sulla corretta aggiudicazione degli appalti. Sotto quest’ultimo profilo la dimensione quantitativa delle merci occorrenti all’esercito può aver anche determinato attraverso aggiudicazioni di appalti non corretta effetti distorsivi del mercato e della concorrenza;

– il comportamento illecito è stato tenuto da ufficiali di grado elevato preposti al servizio. La loro posizione soggettiva non solo ha facilitato l’illecito, ma ne ha impedito la scoperta e può aver dissuaso imprenditori onesti dal denunciare i fatti;

– detto comportamento in quanto tenuto da ufficiali di grado elevato hanno dato all’esterno l’immagine di un comportamento dell’Amministrazione pubblica, in uno dei settori, quale quello della Difesa, immediatamente riconducibile alla sovranità dello Stato ed alla tutela dei beni essenziali e fondanti dello Stato comunità, inteso non al raggiungimento ottimale dei fini pubblici, ma alla ricerca di illeciti vantaggi economici personali dei soggetti di vertice dell’Amministrazione;

– la necessità per l’Amministrazione, se correttamente organizzata e se doverosamente sensibile agli effetti dirompenti dei comportamenti tenuti dagli odierni appellanti, di modificare la propria organizzazione e di individuare e potenziare più incisivi sistemi di controllo.

Dal complesso di questi elementi risulta evidente che il danno all’immagine subito dall’Amministrazione, da quantificare equitativamente ex articolo 1226 Cc è di gran lunga superiore al modestissimo importo della condanna rapportata esclusivamente alla tangente percepita, e perciò rapportata esclusivamente al singolo episodio.

Nella descritta situazione appaiono inutili ulteriori acquisizioni istruttorie. La richiesta di integrazione del contraddittorio va valutato tenendo conto della condanna in solido e quindi della responsabilità di ciascuno condannato per l’intero, della facoltà del creditore in ipotesi di obbligazione solidale di convenire in giudizio solo taluni dei debitori, della possibilità per l’attore di convenire in altro giudizio l’eventuale pretermesso, non essendo stata la condanna in questa sede esaustiva del danno e, soprattutto, delle ragioni indicate dall’attore per non convenire in giudizio altri soggetti. Alla stregua delle esposte considerazioni la richiesta va, pertanto, respinta.

Da quanto sopra consegue il rigetto degli appelli.

Sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio.

PQM

La Corte dei conti – sezione Prima Giurisdizionale Centrale di Appello rigetta i gravami proposti avverso la sentenza in epigrafe, riuniti in rito.