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Monday 06 December 2021

Cosa definisce il sintagma “procedimento pendente”? La parola alla Suprema Corte

La vicenda trae origine e spunto, per quanto concerne la definizione del contenuto dell’espressione “procedimento pendente” dalle vicende, ahinoi ben note, dell’estate Barese e delle traversie che hanno interessato i Colleghi ed i Magistrati in servizio presso il capoluogo Pugliese.
(Cass. pen., sez. III, ud. 13 ottobre 2021 (dep. 1° dicembre 2021), n. 44357)

Il caso. In un ricorso, colto ed articolato, viene sostanzialmente contestata l’ammissibilità di un atto d’appello formato dalla Procura poiché depositato fuori “tempo massimo” anche ai sensi delle previsioni della norma aveva regolato la materia in riferimento alla peculiare situazione del Tribunale barese.
In sostanza il ricorrente solleva l’eccezione di inammissibilità in riferimento alla dichiarata non pendenza di procedimento penale poiché questo non poteva dirsi essere pendente in primo grado una volta pronunciata la sentenza che lo aveva definito.
Di qui l’inapplicabilità della normativa emergenziale che aveva riguardo solo ed esclusivamente ai giudizi pendenti in grado d’appello.
Oltre al motivo, declinato quale primo motivo di lagnanza, il ricorrente sollevava, come detto, altre ed interessanti questioni giuridiche, tra cui quella inerente il mancato rispetto dei principi portati nella nota pronuncia Dann vs Moldavia in riferimento alla impossibilità del giudice di secondo grado di ribaltare sentenza assolutoria senza dar corso alla audizione diretta delle prove testimoniali, che, nel caso di specie, erano costituite, fra l’altro anche da elaborati di carattere tecnico (perizie e consulenze) che, come è noto, la giurisprudenza di legittimità equipara alla prova dichiarativa.
Il ricorso dunque viene accolto, sotto questo profilo, declinato quale quinto motivo di doglianza, e respinto con riferimento al primo che però induce la Corte ad effettuare profonda riflessione circa i contenuti per così dire spazio-temporali del sintagma “procedimento pendente”.

Il “procedimento pendente”. La Corte esordisce chiarendo come nel codice di rito non sia contenuta una definizione diretta a definire cosa debba intendersi per procedimento pendente soprattutto con riferimento alle differenti fasi del procedimento “penale”, come è noto governata da differenti giudici.
Ai fini di orientarsi ed orientare l’interpretazione della norma, meglio dell’espressione, i Giudici fanno riferimento all”articolo 746-bis c.p.p. che concedere la possibilità, nel rispetto delle convenzioni internazionali, di assumere nello Stato (italiano) un procedimento pendente davanti all’autorità giudiziaria di Stato estero.
Ancora, l’articolo 17, comma 1, c.p.p. contiene la disciplina inerenti la riunione di processi pendenti nello stesso grado e davanti al medesimo giudice regolandone la fattispecie.
L’articolo 245 delle disposizioni transitorie del codice di rito al primo comma lettera e) disponeva che ai procedimenti che proseguivano con le norme anteriormente vigenti si applicasse l’articolo 296, comma 3, del codice di procedura penale del 1988 “per i soli procedimenti pendenti nella fase istruttoria”
Vengono poi citate nella sentenza in commento le disposizioni contenute nell’articolo 304 comma 1 lettera c) e c bis), 746-quater c.p.p. e 91 disp. att. c.p.
Le disposizioni citate sono, a parere di chi scrive, di semplice interpretazione e per vero non in grado di sollevare dubbi interpretativi circa il concetto me la portata del “procedimento pendente” cui si riferiscono e, almeno in punto, l’opinione espressa pare condivisa anche dai Supremi Giudici.

Il problema sorge, come sempre, con la cosiddetta “legislazione speciale” di cui, la Storia insegna, il Legislatore Italiano fa spesso ampio e non sempre coerente, rispetto alla legislazione ordinaria, uso.
In legislazione di tal fatta, di natura almeno ontologicamente emergenziale, il termine “procedimento pendente” è utilizzato in modo generico e privo di riferimenti a concrete fasi e/o atti o strumenti processuali che aiutino ad indicare a quali limiti spazio-temporali, debba essere riferito.
Il che importa che al lemma debba essere assegnato significato non univoco, non identico “tale cioè da poter essere utilizzato in tutti i casi in cui ad esso il legislatore ricorra per disciplinare situazioni che risultano, tra loro, profondamente diverse e si potrebbe dire, a volte anche ontologicamente differenti, evenienza che ricorre quando il testo normativo è destinato a governare istituti di diritto penale sostanziale o, invece, istituti di carattere prettamente processuale”.

Ovvero, non possiamo dire, a priori e con certezza a cosa si riferisca l’espressione “procedimento pendente” se non collegarla all’esistenza fenomenica di una vicenda relativa alla pretesa punitiva che il Leviatano agisce nei confronti del cittadino.
Un po’ poco e molto preoccupante.
Ci salva dall’incerto e disperato vagare il disposto dell’articolo 12 delle preleggi che ricorda come il significato che deve essere attribuito dall’interprete a una fattispecie scaturisce, oltre che dal significato letterale della disposizione normativa in cui le parole sono inserite dalla ratio che ispira la norma la quale quel segno linguistico adopera per il conseguimento dello scopo cui la norma stessa è predisposta.
Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore
Ma se così è, o meglio se così dovrebbe essere, allora, secondo il ragionamento seguito ed espresso dalla Corte, occorre far buon governo degli strumenti interpretativi forniti dalla Giurisprudenza sulla scorta della pronuncia della Corte Costituzionale n. 393/2006 che ha affermato, con riferimento alla normativa relativa alla prescrizione, che la pronuncia della sentenza di primo grado, a prescindere da quale ne sia il tenore, determina la pendenza in grado d’appello del procedimento.
Siccome a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’articolo 10 comma 3, legge 251 del 2005, la norma, che ne è risultata, stabilisce che la disciplina prescrizionale più favorevole si applica ai processi in corso al momento dell’entrata in vigore della nuova legge (cioè la n. 251 del 2005) ad esclusione dei processi pendenti in grado di appello o davanti alla Corte di cassazione, la giurisprudenza di legittimità, ai fini dell’individuazione del momento cui deve farsi riferimento per stabilire la “pendenza” del processo, ha dovuto scrutinare quale fosse effettivamente il vincolo imposto dalla pronuncia della Corte Costituzionale, esaminandone attentamente la motivazione della sentenza della Consulta per coglierne la ratio decidendi
Di detta commendevole attività al povero commentatore sfugge l’utilità a fronte della definizione chiara resa dalla Corte Costituzionale, ma tant’è.
L’esito del penetrante scrutinio è riportato nella sentenza a Sezioni Unite D’amato e Rancan che ha individuato la sentenza conclusiva del primo grado come spartiacque per l’applicazione della disciplina più favorevole in tema di prescrizione, ma…. unicamente in ragione e virtù del singolo problema affrontata e non già in via generale.
Con il che “la scelta di individuare, nella sentenza di primo grado, il momento preclusivo dell’applicazione della disciplina più favorevole, tra vecchio e nuovo regime della prescrizione, trova la propria giustificazione nella soluzione del caso specifico piuttosto che nell’enunciazione di una regola valida per definire, sempel pro semper, la nozione di “procedimento pendente”

Non so se i miei lettori condivideranno il mio amletico dubbio che riassumo in un “perchè?” ma, bisognoso di sfogo, lo esterno.
Ciò che è certo è che per gli Ermellini, l’impossibilità di utilizzare la definizione resa dalla Consulta di “procedimento penale pendente”, consente, ed anzi obbliga ad applicare il secondo canone indiccato dall’articolo 12 delle preleggi ovvero di analizzare la volontà del Legislatore.
Analisi che porta ad individuare la medesima nella assegnazione al “ sintagma “procedimenti pendenti” il significato non di procedimenti definiti, per essere stato pronunciato il provvedimento conclusivo del giudizio, ma di procedimenti in relazione ai quali il tribunale fosse ancora nella materiale disponibilità degli atti del procedimento in attesa dell’espletamento degli adempimenti diretti a trasferire, se del caso, gli atti stessi al giudice di secondo grado, adempimento da compiersi necessariamente dopo la presentazione dell’impugnazione, i cui termini, per le criticità strutturali in precedenza evidenziate, erano stati perciò ex lege sospesi

Perdonate la mia dura cervice ma non riesco a convincermi del ragionamento seguito, neppure alla luce del richiamo all’articolo 590 del codice di rito che, a mio modestissimo parere, indica solo come debba procedersi alla trasmissione di atti senza nulla dire rispetto alla questione giuridica affrontata.
Neppure l’articolo 91 disp. att. c.p.p. pare essere d’ausilio posto che la norma attuativa indica solo a chi spetti provvedere in tema di misura cautelari (e solo in detto tema verrebbe da sottolineare) dopo l’emissione di sentenza di primo grado e prima della trasmissione degli atti al giudice dell’appello.
Si tratta di norma che non indica quale “pendente” un procedimento ma che si limita, in materia de libertate ad individuare un giudice competente a decidere in attesa di atti che il procedimento potrebbero riaprire riconducendolo allo stato di “pendenza”.

Siamo innanzi dunque ad un sintagma dal significato indefinito che, per i Giudici della Corte di Cassazione, o almeno per i Giudici di questa Sezione della Corte, non è definibile con certezza neppure dopo la pronuncia del Giudice delle leggi e che, per ciò, necessita d’essere interpretato caso per caso.
Taylor made, direbbero gli Inglesi.

Avv. Claudio Bossi