Penale

Tuesday 13 January 2004

Corte Suprema di cassazione – Relazione sull’ amministrazione della giustizia nell’ anno 2003 del Procuratore Generale della Repubblica, Francesco Favara

Il J’accuse del P.G. Favara: se la giustizia penale non funziona è tutta colpa degli avvocati e dei loro cavilli. La ricetta? Allungare la prescrizione e stabilire la provvisoria esecuzione delle sentenze di primo grado!

Corte Suprema di cassazione

Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2003

del Procuratore Generale della Repubblica, Francesco Favara

(Roma, 12 gennaio 2004)

La Giustizia penale

Flussi quantitativi e dati statistici

Va ancora una volta ribadito che per una corretta analisi della giustizia penale, prima ancora di esaminare gli aspetti generali e quelli particolari, è necessaria un’adeguata conoscenza dei flussi quantitativi riguardanti i processi, in relazione all’andamento della criminalità che ad essi dà origine, e la tipologia dei provvedimenti che li definiscono.

I dati statistici relativi ai procedimenti penali nel periodo 1° luglio 2002 – 30 giugno 2003 evidenziano, accanto a taluni aspetti positivi, quali la consistente contrazione delle pendenze (5.743.906: -3,3%) e delle sopravvenienze (6.049.664: -3,5%), un profilo negativo costituito da un’accentuata riduzione dei procedimenti definiti (5.852.271: – 4,6%); sicché la diminuzione del carico di lavoro al 30 giugno 2003 è dovuta, più che ad un aumento della produttività, alla riduzione dei procedimenti sopravvenuti nel periodo di riferimento. È la conferma di un trend che dura ormai da qualche anno, il quale dimostra la sempre maggiore complessità e difficoltà che va assumendo il processo penale nel nostro Paese. Il minor numero di processi definiti non dipende infatti, se non in minima parte, da una diminuita produttività dei magistrati, piuttosto dalla generale tendenza a protrarre la definizione dei processi, facendo uso di ogni possibile rimedio e a impugnative reiterate.

Si tratta di dati a livello nazionale che debbono essere valutati con prudenza in quanto anche legati a particolari situazioni locali. Dall’esame delle relazioni dei Procuratori generali distrettuali emerge, comunque, che la tanto attesa ed auspicata “svolta” nell’amministrazione della giustizia penale è ancora lontana, anche se non vi sono segnali univoci di un peggioramento.

Quel che, invece, desta preoccupazione è il senso di rassegnazione che pervade tali relazioni; a tale rassegnazione occorre reagire con fermezza anche se la magistratura, per parte sua, lo può fare solo incrementando, nei casi in cui sia ancora possibile, l’impegno personale ed elaborando più efficienti moduli organizzativi. Ma sul punto tornerò più avanti.

Va altresì rilevato che quando si valuta l’andamento della giustizia penale, si è soliti considerare gli esiti e i tempi soprattutto di particolari processi sui quali viene richiamata l’attenzione da parte dei media. Non si pensa, invece, al lavoro oscuro che si svolge presso le procure, gli uffici Gip, o alla giustizia “ordinaria”.

Significativi elementi di valutazione si possono desumere anche dai dati riguardanti gli esiti dei procedimenti, con la relativa tipologia, portati alla cognizione del giudice nelle fasi delle indagini preliminari e del giudizio di primo grado, che si svolge davanti al giudice di pace e tribunale (mancano invece quelli relativi all’appello, mentre per il giudizio di cassazione se ne riferirà allorché si parlerà di tale organo). Emerge da tali dati che, nel periodo considerato, presso gli uffici del Gip si sono avuti 1.923.433 decreti di archiviazione (-7,3%) e 35.687 sentenze di non luogo a procedere o non doversi procedere (-7,4%). Di contro si sono avuti 29.761 decreti che dispongono il giudizio (+2,7%), 53.619 decreti di condanna divenuti esecutivi (-14,6%), 13.341 sentenze a seguito di giudizio abbreviato (+6,7%) e 25.576 sentenze di patteggiamento (-7,7%). Presso i giudici di pace ed i tribunali, invece, si sono avute 131.117 sentenze di proscioglimento e assoluzione (- 8,6%), 8.344 sentenze promiscue (-7,6%), 118.186 sentenze di condanna (+19,1%) e 51.588 di patteggiamento (-0,03%).

Nei tre uffici, i procedimenti per i quali è stata esercitata l’azione penale complessivamente definiti sono stati 623.312; di questi 166.804, pari al 26,8%, si sono conclusi con sentenze di non luogo a procedere, di proscioglimento e di assoluzione. La suddetta percentuale può ritenersi attestata intorno al 30% ove si tenga conto che taluni esiti non sono rigorosamente classificati come condanne o come proscioglimenti (sentenze promiscue e sentenze pronunciate a conclusione di giudizio abbreviato). A questi dati vanno aggiunti gli esiti dei giudizi nelle successive fasi d’impugnazione, spesso conseguenti a eventi maturati solo nel prosieguo del giudizio.

Per quanto riguarda i riti speciali, dati statistici evidenziano un ulteriore incremento del giudizio abbreviato (+6,7%), mentre è in lievissima flessione il numero dei procedimenti definiti con il patteggiamento (-0,3%). Complessivamente con tali riti sono stati definiti 90.505 procedimenti, pari al 14,5% di tutti quelli per i quali è stata esercitata l’azione penale.

Resta da riferire in ordine alla durata dei processi, che rappresenta ancor oggi il vero punto dolente del sistema, specie in rapporto al livello europeo. I dati statistici elaborati dal Ministero della giustizia evidenziano che la tendenza verso un progressivo aumento della durata media (che, in quanto tale, tiene conto sia dei processi che si esauriscono in pochi giorni sia di quelli che si protraggono per lustri) non accenna ad arrestarsi. Infatti, a fronte di una lieve contrazione dei tempi delle indagini preliminari (da 390 a 381 giorni), originata anche dalla ormai piena operatività del giudice di pace, vi è un generalizzato e consistente aumento di durata di tutte le fasi successive: davanti al GIP è passata da 251 a 324 giorni; davanti al tribunale da 321 a 341 giorni e in corte d’appello da 495 a 543 giorni.

Nell’insieme, ove si ipotizzi un procedimento che si snoda nelle fasi delle indagini preliminari, dell’udienza preliminare, del giudizio di primo grado in tribunale e di quello di appello, la sua durata media è di 1.589 giorni, rispetto ai 1.457 giorni del periodo 1° luglio 2001 – 30 giugno 2002 (qualora si tenga conto dell’eventuale giudizio di cassazione, occorre aggiungere ulteriori 216 giorni). I tempi effettivi sono ancora più lunghi. Quelli riferiti, infatti, tengono conto solo del lasso temporale che intercorre tra il momento in cui un procedimento è incardinato in un determinato ufficio e quello in cui viene adottato il provvedimento che definisce la relativa fase; non anche del tempo necessario per la redazione del provvedimento definitorio e per la trasmissione degli atti al giudice della fase successiva.

Prime valutazioni sull’attività del giudice di pace

Per ben valutare gli attuali flussi di tendenza, occorre tener conto però di quella che è la novità di maggior rilievo intervenuta negli ultimi tempi nel settore della giustizia penale e cioè l’attribuzione di competenza anche in tale materia al giudice di pace, divenuto operativo dal 1° gennaio 2002. Quest’anno, per la prima volta, i dati statistici consentono di valutare in termini quantitativi il lavoro espletato da detto giudice nell’arco di un anno e, quindi, gli effetti di tale riforma.

Dal loro esame emerge che nel periodo 1° luglio 2002 – 30 giugno 2003 il giudice di pace ha definito 254.000 procedimenti, pari all’11% di tutti quelli definiti dal GIP presso il tribunale e da quest’ultimo; i quattro quinti (202.000) di tali procedimenti si sono conclusi con decreti di archiviazione.

I Procuratori generali distrettuali concordemente pongono in rilievo che l’attribuzione della competenza penale al giudice di pace ha comportato un indiscutibile effetto positivo nella accelerazione dei processi anche davanti al tribunale, conseguente ad una riduzione del suo carico di lavoro ed, in prospettiva, anche delle corti di appello. Il tribunale in composizione monocratica è stato, infatti, liberato da una miriade di procedimenti aventi per oggetto reati di scarso allarme sociale, sicché può occuparsi dei procedimenti di maggiore impegno e complessità e definirli più celermente.

Il positivo avvio della nuova normativa, al di là delle inevitabili incertezze iniziali, conferma la bontà della scelta di affidare ad un giudice onorario la cognizione di reati di scarsa entità, espressione di microconflittualità senza rilevanti effetti sociali, tanto che da molti distretti si segnala la utilità di un ampliamento di questa competenza ad altre ipotesi reato, quali ad esempio alcune contravvenzioni previste dal codice penale.

  In tale ottica, quasi tutti i Procuratori generali hanno avanzato riserve sulla recente scelta legislativa (art, 5 legge 1° agosto 2003 n. 214), operata per consentire di ovviare ai negativi effetti della sovente reiterazione dell’illecito sulla recidiva, che ha nuovamente attribuito alla competenza del tribunale la contravvenzione contemplata dall’articolo 186 del codice della strada in tema di guida in stato di ebbrezza.

Di vario segno e, comunque, ancora troppo parziali i giudizi sulla qualità delle sentenze penali emesse, di cui peraltro si rileva il ridotto numero delle impugnazioni (stimate non superiori al 10%), ed il generale apprezzamento per la rapidità delle decisioni, con effetti positivi anche in termini di maggiore credibilità della giustizia.

Contrastanti le riflessioni sul rito che, per alcuni, appare ancora troppo lungo e complesso in relazione alla modesta entità dei reati ai quali si applica, mentre altri rilevano l’ancora scarsa acquisizione della diversa filosofia del processo penale del giudice di pace, sia ad opera dello stesso magistrato onorario sia delle parti e dei difensori, come dimostrato dalle numerose rimessioni alla Corte costituzionale di questioni incentrate sulle differenze esistenti tra il rito ordinario e il processo dinanzi a detto giudice.

Comune a tutti i distretti è l’osservazione che, quanto meno nell’immediato, la nuova competenza ha prodotto lavoro supplementare alle procure della Repubblica, che non hanno visto diminuire il flusso dei procedimenti ed hanno dovuto ristrutturare le loro segreterie, istruire ed organizzare i vice procuratori onorari, ai quali spesso viene delegata anche la trattazione dei procedimenti di competenza del giudice di pace, affiancare questi ultimi nell’avvio di una attività del tutto nuova e per la quale alcuni hanno mostrato una non ancora sufficiente preparazione ed, infine, istruire e motivare la polizia giudiziaria ai nuovi compiti ad essa affidati dalla legge.

Dal punto di vista ordinamentale valgono le considerazioni già svolte trattando dell’attività del giudice di pace in materia civile.

A) Aspetti generali

La crisi del processo come crisi dei soggetti processuali

Nonostante gli elementi positivi sopra ricordati e in attesa che da essi derivino ulteriori miglioramenti, lo stato della giustizia penale continua ad essere preoccupante per mancanza – ancora oggi – di efficaci riforme di sistema che, almeno per il futuro, consentano di sperare in un processo penale di livello europeo, sempre garantito ma più breve e capace di contrastare una criminalità, anche comune, ogni giorno più agguerrita, che mette in serio pericolo la sicurezza dei cittadini.

La crisi riguarda soprattutto il processo e nel nostro Paese ha radici lontane. Anche se oggi più di prima ne lamentiamo l’irragionevole durata e siamo consapevoli che vi è un eccesso di garanzie meramente formali il cui uso improprio spesso ne ritarda indebitamente il corso.

Questa crisi, nei tempi recenti, si è estesa fino a coinvolgere la figura fondamentale del giudice, nei cui confronti si muovono accuse e sospetti, sottraendogli autorevolezza. La crisi strutturale rischia così di diventare istituzionale.

Ma se si contesta il ruolo del giudice, ciò avviene anche in conseguenza del mutamento del ruolo degli altri soggetti del processo: il Pm e il difensore.

Si registra oggi una crisi tecnica del modello di processo, che nel tempo ha modificato i suoi lineamenti e la sua struttura. Di questa crisi non sempre siamo consapevoli.

La nostra è una generazione vissuta tra due codici processuali, che hanno ben poco in comune tra loro. Un codice non è soltanto un insieme di norme, ma porta con sé un sistema di valori e un modo di pensare in base ai quali le parti del processo agiscono e si comportano. Ecco perché la nostra è una generazione divisa: abituata a pensare e ad agire in un insieme di coordinate concettuali, ha di colpo dovuto cambiare pensieri e valori.

Le profonde trasformazioni introdotte nel nostro sistema in parte giustificano taluni comportamenti processuali. E poi continui e fin troppo frequenti ritocchi normativi e mutamenti di indirizzi giurisprudenziali costringono a continui adattamenti.

Un tempo le figure processuali del Pm, del difensore e del giudice avevano un nitore di profili dovuto alla rigorosa definizione dei loro ruoli.

Il Pm dirigeva la polizia giudiziaria, prendeva notizia dei reati, delineava alcune ipotesi e raccoglieva le prove. Al ruolo propulsivo del Pm corrispondeva il ruolo meramente reattivo del difensore: egli presidiava la sfera dei diritti dell’imputato contro le intrusioni illegittime dei poteri investigativi, secondo la plurisecolare dialettica potere-garanzie. Ovviamente era consentito al difensore dire la sua sul risultato delle prove, ma l’efficacia delle argomentazioni difensive era nel concreto ridotta per il fatto che esse intervenivano dopo che le prove si erano lentamente sedimentate nella coscienza del giudice, dando progressivamente forma al suo convincimento.

Altrettanto nitido era il ruolo del giudice: egli controllava la legalità dell’agire del Pm, la fondatezza della sua ipotesi ricostruttiva del fatto, la correttezza della qualificazione normativa. Il giudice era interprete della legge e del fatto.

Contro la fallibilità del giudizio era previsto un sistema articolato di rimedi: l’obbligo del giudice di motivare i suoi provvedimenti, il doppio grado del giudizio di merito, il controllo della Corte di cassazione sulla logicità della motivazione.

Tutto il processo penale era orientato verso un fine essenziale: la ricerca della verità materiale. È stato questo fine a dare al processo penale se non un alone di sacralità, certo una legittimazione sociale e a imporre a tutti il senso di un timoroso rispetto.

Quel processo non ha retto a fronte dei mutamenti avvenuti in questi ultimi anni e, secondo gli studiosi, è imploso per le sue contraddizioni interne.

Avevamo provato a migliorare le cose immettendo in esso dosi robuste di garanzie (il c.d. garantismo inquisitorio), ma è servito poco: il processo è rimasto inappagante nei risultati e disfunzionale nei tempi. Per questa ragione abbiamo optato per un mutamento radicale di modello processuale.

Sono ormai quindici anni che questa rivoluzione è in atto e non sappiamo ancora in quale direzione si muova e quali ne saranno gli esiti.

È forse in corso un movimento di revisione che riguarda, prima ancora che le strutture e gli atti del processo, il ruolo e il volto dei suoi protagonisti.

Il Pm, che prima aveva il compito di impedire nel corso del giudizio la dispersione delle prove da lui formate, ha ora anche il compito di controllare la formazione delle prove richieste dalla difesa. Nel dibattimento, prima la requisitoria del Pm mirava essenzialmente a verificare l’ipotesi accusatoria, ora egli deve anche confutare le prove e le ipotesi antagoniste eventualmente prospettate dalla difesa. Il ruolo del Pm si arricchisce poi di una nuova funzione: quella negoziale, soprattutto a seguito della introduzione dei riti alternativi, che gli impongono, se non di negoziare, certo di dialogare con la difesa. In questo modo il potere del Pm è meno potere autoritativo e più potere negoziale.

Correlativamente, vistosi cambiamenti si registrano anche nel ruolo del difensore.

La sua funzione non è più quella dell’osservatore-garante, per quanto riguarda il rispetto da parte del Pm dei limiti processuali a lui imposti. Attualmente la difesa, anche se ne rivendica uno ancora maggiore, ha uno spazio processuale più ampio: formare prove a favore, costruire ipotesi alternative sul fatto, negoziare riti alternativi e soluzioni processuali. È diventata un vero e proprio contropotere processuale rispetto al potere del Pm. Il processo penale non è più il luogo della tradizionale dialettica potere-garanzie, ma il luogo in cui potere accusatorio e contropotere difensivo dialogano e contrattano.

Ma il mutamento più sensibile si è forse verificato nella funzione del giudice.

Nel codice previgente il punto focale del processo era l’istruttoria, non il dibattimento: se un giudice istruttore formava le prove, il giudice del dibattimento doveva solo valutarle o, meglio, controllare la correttezza delle valutazioni già effettuate dall’istruttore. Nel nuovo codice il giudice consegue un ruolo centrale: è l’ago della bilancia tra accusa e difesa. Deve presiedere alla formazione della prova prima ancora che alla sua valutazione; deve giudicare non solo l’ipotesi accusatoria, ma anche le controipotesi difensive.

Si comprende allora perché la figura del giudice è diventata il vero punto focale, ma anche il più sovraesposto del processo. Ora come non mai, il giudice attira critiche, diffidenze e timori. Sembra quasi che sia la figura attuale del giudice, soggetto a continui attacchi e contestazioni, a provocare la crisi del processo, per le tensioni che intorno a lui si sviluppano, sprigionando un malessere che investe anche il rapporto tra cittadino e giustizia.

Non sarà più così quando le parti del processo avranno preso coscienza dei limiti che accompagnano questi nuovi loro ruoli e quando avranno imparato a rispettare le decisioni emesse dal giudice, a sua volta consapevole del nuovo ruolo assegnatogli nel processo. Ma tutto questo dovrà svolgersi secondo un corretto gioco delle parti, restituendo legittimazione e autorevolezza al giudice anche quando emette decisioni sfavorevoli.

La discrezionalità del giudice. L’interpretazione della legge e la valutazione del fatto e delle prove

Secondo taluni, uno dei problemi della giurisdizione risiede nella discrezionalità del giudice: discrezionalità nell’interpretare la legge e discrezionalità nell’accertare il fatto. Va perciò maturando una precisa opzione volta a contenere la discrezionalità del giudice.

Per contrastarla, si sono dilatate le ipotesi di incompatibilità e di ricusazione al fine di garantire la neutralità del giudice. Si è poi pensato di togliere progressivamente spazio al suo libero convincimento, da un lato aggravando gli obblighi di motivazione (v., ad esempio, le modifiche apportate all’articolo 292 Cpp dall’articolo 9 della legge 332/95); dall’altro lato, restringendo l’area stessa del libero convincimento e di valutazione della prova, con la previsione di regole rigide di inutilizzabilità della prova e quindi di regole di giudizio sulle prove (v., ad esempio, le modifiche apportate agli articolo 513 e 729 Cpp, rispettivamente, dall’articolo 1 della legge 267/97 e 13 della legge 367/01).

Si propone, altresì, di introdurre regole che mirano a devitalizzare il suo potere di interpretazione del diritto. È il vecchio ideale illuministico (fatto proprio dai codici napoleonici) della lex clara, che va applicata senza bisogno che il giudice la interpreti.

Tutto ciò rischia di risolversi in una limitazione dell’autonomo esercizio della funzione giurisdizionale garantito dalla Costituzione. Inoltre, nel momento in cui si riduce progressivamente il ruolo e la competenza cognitiva del giudice, finisce con lo scolorarsi la stessa figura del giudice professionale: se non deve interpretare la legge e ha molti vincoli nella valutazione del fatto, viene meno la esigenza di avere un giudice siffatto, sulla cui formazione tecnica e deontologica si è finora fatto affidamento.

Di fronte a simili scenari vanno ribaditi con fermezza quelli che sono i principi indefettibili della funzione giurisdizionale: l’interpretazione della legge e la valutazione delle prove, che del resto – eloquentemente – non sembrano essere contestate per quanto concerne il processo civile.

Precludere al giudice, o limitare, come da qualche parte si è proposto, la facoltà di interpretare la legge è antistorico Anche il testo normativo più chiaro può presentare zone marginali d’ombra. Ciò è frequente soprattutto nei testi più recenti volti, come sono, a regolare fenomeni sempre più complessi e imprevedibili, che inducono a privilegiare termini semanticamente elastici, spesso frutto di mediazione nella dialettica parlamentare.

Come ha rilevato il Presidente della Repubblica nel suo intervento al Consiglio Superiore della Magistratura del 29 ottobre 2003, l’indipendenza del giudice nella interpretazione ed applicazione della legge è “intangibile”, allo stesso modo in cui non è eliminabile la sua discrezionalità nella valutazione del fatto, entrambe correggibili solo col sistema interno delle impugnazioni. Il libero convincimento è un principio che va salvaguardato, perché è la cifra della indipendenza della funzione giurisdizionale da altri poteri.

Certo nessuno si nasconde il pericolo che il libero convincimento del giudice possa essere occasione di abusi. Ma contro tale evenienza il sistema attuale già predispone una serie cospicua di garanzie che agiscono a vari livelli.

La verità è che la imprevedibilità dei giudizi non deriva dal libero convincimento, ma dalla struttura stessa dell’attuale processo penale che è stato sovraccaricato di molteplici funzioni e di aspettative incongrue; nonché dalla complessità dell’attuale diritto penale, che presenta anche moderne fattispecie di reato, sempre più articolate e difficili da accertare, mentre la elaborazione di un nuovo codice penale appare ancora lontana. Sono questi i veri problemi da risolvere al fine di ottenere una giustizia penale giusta e resa in tempi ragionevoli.

Il ruolo che compete all’ufficio del Pm. Il promovimento dell’azione penale. L’appello del Pm

Prima di affrontare il tema delle riforme del processo penale, è opportuna però qualche considerazione su uno degli aspetti di maggiore importanza per la giustizia penale: il promovimento dell’azione penale e il ruolo che compete oggi all’ufficio del Pm, oberato nella sua funzione inquirente da un sempre maggiore tecnicismo delle indagini e da una crescente massa di notizie di reato. Il centro di gravità delle investigazioni si sposta molto spesso, a causa di tale complessità, a favore della polizia giudiziaria; e, per altro verso, come si è detto, il Pm deve far fronte al fenomeno delle indagini difensive – ora numericamente irrilevante, ma potenzialmente dirompente – che apre gli scenari di un’area concorrenziale delle informazioni. Da ultimo, la vicenda evolutiva del processo penale mostra una progressiva sottrazione dei poteri decisori del Pm a favore del giudice: dove tali poteri sono rimasti, essi sono sottoposti a immediati e penetranti controlli ad opera del giudice.

Il Pm, accusato di eccessi e personalismi, minacciato di separazione della carriera, vive oggi forse una crisi di identità.

Attualmente, anche per il sovraccarico di lavoro, egli è posto di fronte al dilemma se privilegiare il ruolo inquirente o quello requirente. In realtà è bene che li conservi entrambi, scongiurando sia la soluzione di “una fuga dal giudizio” per dedicarsi alle sole indagini, sia quella di limitarsi al solo compito di presenziare ai dibattimenti; abbandonando le investigazioni nelle mani della polizia giudiziaria.

Occorre ricordare che le indagini hanno una vocazione processuale, cioè sono fatte in funzione di un possibile processo. Ma occorre anche ricordare che nel processo accusatorio – diversamente da quello inquisitorio – le indagini non si riversano automaticamente nel giudizio, ma vanno filtrate e rielaborate nel contraddittorio. Dunque, non basta la sola competenza investigativa, occorre una competenza processuale.

Per reati a bassa complessità processuale e a limitato impatto sociale, un dominante ruolo investigativo e processuale della polizia giudiziaria appare soluzione ragionevole. Tale assetto, infatti, ha il duplice vantaggio di responsabilizzare maggiormente la polizia e di farle progressivamente assimilare la mentalità del processo. Ma appare problematico estendere questa formula ai procedimenti più complessi dove, a tacer d’altro, le indagini pongono problemi delicati di scelte processuali e dei mezzi di prova idonei ad incidere pesantemente sulle posizioni soggettive dei singoli.

Ciò non significa che non possa essere presa in considerazione una maggiore autonomia della polizia giudiziaria nello svolgimento della propria attività di indagine, purché ciò non comporti un capovolgimento della riforma introdotta con il codice di rito del 1988, che in materia, da un lato, ha dato attuazione all’articolo 109 Costituzione («l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria»), dall’altro ha contribuito a rendere possibile l’adempimento dell’obbligo, imposto al Pm dall’articolo 112 Costituzione, di esercitare l’azione penale.

Altro tema delicato concerne proprio l’esercizio dell’azione penale. Invero, l’oculatezza nella decisione di promuovere l’azione penale può avere un impatto rilevante e positivo sull’intero sistema, evitando il sovraccarico di processi inutili.

Va dato atto alla magistratura inquirente di aver palesato una spiccata capacità critica al riguardo. Infatti, nell’anno trascorso, a fronte di poco più di 600.000 procedimenti nei quali è stata esercitata l’azione penale, in circa 1.950.000 è stata formulata richiesta di archiviazione. Trattasi di lavoro oscuro, poco percepito dalla collettività; prezioso, perché evita costi umani e sociali.

Va però aggiunto che questa opera di selezione andrebbe ancora migliorata, perché dalle statistiche allegate risulta che oltre il 30% dei processi per i quali viene iniziata l’azione penale si concludono con assoluzioni o proscioglimenti. Basterebbe la riduzione di qualche punto percentuale per incrementare sensibilmente l’efficienza globale del sistema. Anche in questa fase si apprezza la complessità del ruolo del Pm: egli non deve essere solo un accusatore, ma deve essere il primo giudice delle proprie indagini.

Altro problema che merita una riflessione profonda è l’appello del Pm. Una forte corrente di opinione auspica che questo potere venga eliminato. Non ci si può nascondere che l’appello del Pm contro una sentenza di assoluzione, se accolto, crea disorientamento nella coscienza sociale, mina la prevedibilità del giudizio e la credibilità della condanna: un giudice ritiene colpevole un uomo che un altro giudice ha prima ritenuto innocente. Tutto ciò ha indotto le Sezioni unite penali della Corte di cassazione ad affermare, in una recentissima sentenza (45276/03), che «principi costituzionali, norme di diritto internazionale convenzionale ed autorevole dottrina suggeriscono … di ristrutturare sapientemente il giudizio di appello secondo cadenze e modalità tali da precludere a quel giudice (che di regola rimane estraneo alla formazione dialettica della prova) di ribaltare il costrutto logico della decisione di proscioglimento dell’imputato, all’esito di una mera rilettura delle carte del processo e di un contraddittorio dibattimentale ex actis». In alternativa alla conferma sella sentenza assolutoria, secondo le Sezioni unite, il giudizio di appello in tal caso dovrebbe configurarsi come “giudizio di natura esclusivamente rescindente”.

Certo, sarebbe privo di qualsiasi giustificazione razionale escludere il potere di appellare per violazioni di legge sostanziale e processuale. Il problema riguarda l’appello volto ad ottenere un nuovo giudizio sul fatto e quello volto ad ottenere una diversa entità della pena.

L’esclusione dell’appello del Pm sulla entità della pena (quello sulla legalità della pena rientra nella violazione di norma sostanziale o processuale) non sarebbe dissonante con le linee concettuali del sistema. In effetti, il potere della pubblica accusa di incidere sulla pena ha subito una lenta erosione, come dimostra la vicenda del giudizio abbreviato. Si tratterebbe di estendere la logica dell’abbreviato al giudizio ordinario.

Rilevanti ripercussioni sul sistema avrebbe invece l’esclusione dell’appello del Pm avverso le sentenze di assoluzione, con cui si punta ad una nuova rivalutazione del fatto, quanto meno nel caso di impugnazione basata anche su nuove prove e, quindi, su una motivata richiesta di rinnovazione del dibattimento.

Il ruolo del difensore

Sempre più chiaramente va delineandosi anche il nuovo ruolo del difensore. Dobbiamo tutti ricordare che una migliore avvocatura rende migliore la giustizia. Nel passaggio dal processo inquisitorio a quello accusatorio si è ovviamente espanso lo spazio della difesa. Ma questa nuova funzione non può essere svolta con la vecchia mentalità.

In un processo poco garantito, come era quello previgente, al difensore rimanevano poche facoltà. Pertanto, era tentato da una strategia ostruzionistica, volta ad intralciare l’azione del Pm e a rallentare il corso del processo con tutti i mezzi legali a disposizione.

Il processo attuale fa meno paura, riconosce diffuse facoltà, offre opportunità molteplici. L’attitudine della difesa dovrebbe essere quella di difendersi nel processo, non di aggredire il processo (il contempt of court anglosassone).

Non si invoca un dovere di collaborazione della difesa alla ricerca di un veridico accertamento dei fatti. Si auspica un dovere di astensione della difesa da atteggiamenti ostili al processo. Il processo deve essere visto come un strumento per difendersi, non come un male da bloccare. Il giudice rispetti il ruolo del difensore, il difensore rispetti quello del giudice, senza antagonismi preconcetti, senza accanimenti e reiterazioni ostinate di richieste già disattese.

Questa nuova attitudine deve maturare attraverso le prassi. E le prassi vanno formate dalle norme. Finché le norme esistenti renderanno utile e desiderabile il ricorso a tattiche dilatorie è irrealistico sperare in un cambiamento di mentalità. Non si possono chiedere alla difesa scelte consapevolmente lesive degli interessi dell’assistito.

Ecco perché appare urgente un intervento legislativo, che tolga ogni attrattiva alla scelta difensiva di “tirare il processo per le lunghe”. La irragionevole durata del processo non deve essere un fine utilmente perseguibile.

Alcune riforme essenziali: il regime della prescrizione; la provvisoria esecuzione delle sentenze di condanna; la incentivazione dei riti speciali; il sistema delle impugnazioni

Nella prospettiva di un processo “giusto” e di durata ragionevole, occorrerebbe ridiscutere due argomenti: quello della prescrizione e quello della provvisoria esecuzione della sentenza di condanna.

Non ha senso una prescrizione breve per un processo lungo. Questa disarmonia di tempi crea un circolo vizioso: la prospettiva della prescrizione invoglia a tattiche dilatorie. Ma le tattiche dilatorie allungano la durata del processo e ne avvelenano il clima per le contrapposte esigenze dei magistrati e dei difensori. Pertanto, o si accorcia la durata del processo o – se non si riesce a far questo – si deve intervenire sulla prescrizione, eventualmente mediante il meccanismo della sospensione. Va aggiunto che una estensione della prescrizione potrebbe avere un effetto salutare perché invertirebbe il circolo vizioso facendolo diventare virtuoso, dal momento che la sua dilatazione renderebbe irrealistico perseguirne il fine dilatorio.

Altro tema spinoso che andrebbe affrontato è quello della provvisoria esecuzione della sentenza di condanna di primo grado, pur nella piena consapevolezza del dettato costituzionale sulla presunzione di non colpevolezza (articolo 27, comma 3).

La sospensione dell’esecuzione della condanna ha senso in un processo inquisitorio, che ruota sul ruolo preminente dell’accusatore e che si basa su meccanismi autocorrettivi verticali. È nella logica di tale processo che la verità si formi progressivamente e che la sentenza giusta sia quella del giudice di grado superiore.

Ma nel giusto processo delineato dalla nostra Costituzione la logica è invertita. Qui viene meno il ruolo schiacciante dell’accusa, l’azione penale è sottoposta a filtri penetranti prima di sfociare nel dibattimento, nel giudizio la prova si forma in contraddittorio su un piede di parità tra le parti.

Appare difficilmente controvertibile che una sentenza emessa a seguito di un giudizio siffatto ha una affidabilità di gran lunga superiore a quella emessa a seguito di una procedura inquisitoria.

La crisi che investe il giudice richiede una ridefinizione, più che del suo ruolo, della logica del giudizio.

Finora, il giudizio è stato fondato sul principio del libero convincimento del giudice. Attualmente tale principio, come s’è detto, suscita da più parti diffidenza perché è visto come un retaggio del processo inquisitorio, tanto che si è pensato da taluni di sostituirlo con il principio dell’oltre il ragionevole dubbio, – di stampo anglosassone – tipico del processo accusatorio. Ci sono tuttavia fondate perplessità sulla utilità di un siffatto trapianto, difficile da attuare in un sistema ancora fondato sul principio del libero convincimento. Del resto il libero convincimento non è libertà da regole, né è percepito come tale dai nostri giudici; è libertà secondo regole. La legge non lascia il giudice libero di decidere, ma fissa un metodo legale di valutazione e impone poi una struttura legale della motivazione dei provvedimenti giudiziari; egli deve anche attenersi ai principi affermati dalla giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione, in tal modo armonizzando la sua libertà interiore con il primato della legge e assicurando, per quanto possibile, la prevedibilità delle sentenze.

Ma per arginare l’enorme massa di processi che schiacciano l’attività del giudice, sarebbe forse auspicabile una più rigorosa regola decisoria per l’udienza preliminare, in modo da creare un più efficace filtro processuale, che potrebbe essere quello della “ragionevole probabilità di condanna”; ne risulterebbe ulteriormente allargata la forbice tra i processi definiti a detta udienza con sentenza di non luogo o non doversi procedere (35.687) e quelli definiti con decreto che dispone il giudizio (29.761).

Ma c’è un’altra linea di tendenza che andrebbe rovesciata e riguarda i riti speciali. È noto che il processo penale di tipo accusatorio può funzionare solo se una piccola parte dei processi (una soglia accettabile si aggira intorno al 10 %) giunge al dibattimento, mentre la stragrande massa dei processi viene definita con i riti speciali. Da noi, invece, pur se vi è stato un progressivo aumento negli ultimi anni, solo un terzo dei procedimenti per i quali viene promossa l’azione penale è definito con tali riti che, piaccia o meno, occorre invece incentivare. Il patteggiamento allargato, introdotto con la legge 134/03 (il cui livello di incidenza sui processi in corso non è ancora stimabile) sembra andare in questa direzione.

Da più parti si rileva, infine, come la vera parte malata del processo penale è il sistema delle impugnazioni. Di esso, per quanto riguarda il giudizio di merito e rinviando all’apposito capitolo l’esame dei problemi riguardanti il ricorso per cassazione, si è già fatto cenno parlando dell’appello del Pm. Ma è l’appello in sé come grado di impugnazione che viene in discussione.

L’obiezione teorica che si muove è di indubbio peso: l’appello è tipico di un processo inquisitorio; è incoerente rispetto alla razionalità del processo accusatorio.

Ma questa obiezione dimentica che il nostro processo presenta una singolarità che ne fa un tertium genus tra inquisitorio e accusatorio. I due modelli storici di processo penale sono stati il processo inquisitorio a verdetto motivato emesso da giudici professionali e il processo accusatorio a verdetto immotivato emesso dalla giuria. Noi invece abbiamo un processo accusatorio a verdetto motivato di giudici professionali. Ora, l’appello è dissonante con il secondo modello, ma non con il primo.

In una prospettiva di gradualità e prudente sperimentazione, dovrebbe essere studiata la possibilità di una progressiva riduzione dell’area delle sentenze appellabili e dei motivi di appello. Si potrebbe, per esempio, pensare di rendere inammissibile l’appello riguardante esclusivamente l’entità della pena. Il giudizio di appello in molti casi è visto come un giudizio di mitigazione della pena.

Di fatto, la funzione dell’appello è proprio quella di ridurre la pena allungando i tempi del processo (mentre secondo alcuni tale funzione va ravvisata nella necessità di omogeneizzare i trattamenti sanzionatori a livello distrettuale). La congiunzione di questi due effetti (clemenziale e dilatorio) rende l’appello estremamente conveniente all’imputato, perché è a costo zero. Ma visto nella sua funzione oggettiva, un tale appello finisce col minare l’efficienza e la credibilità del sistema perché sconfessa il principio criminologico della prontezza della pena.

Va aggiunto che l’appello sulla pena, se è, di fatto, il principale fattore propulsivo di questo tipo di impugnazione, è anche quello teoricamente più criticabile: infatti, il giudice di primo grado, che vive il processo, è in grado di dosare la pena al fatto e al reo meglio di quanto possa fare un giudice di appello, che trae la conoscenza del fatto e dell’autore esclusivamente dalle carte processuali.

Una riforma ancora più radicale e decisiva – ove si tenga conto che su una durata media del procedimento nelle fasi di merito di giorni 1.589, ben 543 sono necessari per il giudizio di appello – potrebbe essere quella di consentire l’appello solo ove sia necessario procedere alla assunzione di nuove prove.

Nel nostro Paese i tempi non sembrano ancora maturi per una tale “rivoluzione” processuale.

B) I vari tipi di criminalità. L’azione di contrasto

L’andamento della criminalità. Considerazioni generali

Le relazioni dei Procuratori generali presso le corti di appello tracciano ancora una volta un quadro complessivo della criminalità che non si discosta in maniera sostanziale rispetto agli anni precedenti; il che trova riscontro nei dati statistici di seguito riportati.

Infatti, dai dati forniti dall’Istituto Nazionale di Statistica (i cui tempi e metodi di rilevazione sono diversi da quelli delle Forze di Polizia) emerge che nel periodo 1° luglio 2002 – 30 giugno 2003 i delitti registrati dagli uffici di procura (che comprendono anche i delitti commessi da ignoti) sono stati 2.782.252, con una diminuzione, rispetto al corrispondente periodo precedente, di 39.372 unità (-1,3%), assai meno marcata di quella registrata lo scorso anno. Tale dato conferma la tendenza verso una contrazione dei delitti, che tuttavia non può considerarsi generalizzata giacché a fronte di consistenti riduzioni di talune tipologie di delitti (ad esempio, le violenze sessuali), si riscontra un preoccupante aumento di reati che suscitano un elevato allarme sociale (rapine, estorsioni e furti), come risulta dalla tabella qui di seguito riportata:

Omicidi tentati e consumati               3.056    (- 1,7%)

Rapine                               56.052    (+ 9,5%)

Estorsioni                             8.307    (+ 8%)

Sequestro di persona a scopo di estorsione     220    (+ 6%)

Violenza sessuale                        4.074   (- 21%)

Maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli   4.656   (+ 5%)

Bancarotta                              5.738   (+ 4%)

Stupefacenti                           35.207    (+ 8%)

Truffe                                64.688    (+ 21%)

Furti                               1.522.297    (+ 4%)

Tali dati, nonché quelli più dettagliati riportati alla tavola 14 delle statistiche allegate alla presente relazione, se consentono di guardare al futuro con moderato ottimismo, non debbono tuttavia creare la ingannevole illusione che si sia in presenza di una definitiva inversione di tendenza nell’andamento della criminalità, in quanto per affermare ciò è necessario, quantomeno, un suo ulteriore consolidamento temporale.

Resta ancora elevatissimo il numero dei delitti dei quali sono rimasti sconosciuti gli autori, pur se, anche in questo caso, un segnale di ottimismo può trarsi dalla conferma di una tendenza alla loro riduzione, seppure assai lieve: nel periodo considerato sono stati 2.236.650, pari all’80% di tutti i delitti denunciati (nel periodo precedente erano stati 2.289.363, pari all’81%). Sono rimasti ignoti il 96% degli autori di furti (1.461.091; percentuale identica rispetto al periodo precedente), il 46% degli omicidi tentati e consumati e l’81% delle rapine. Siffatte percentuali si attestano al 61% se si tiene conto di tutti i delitti con esclusione dei furti, mentre nel periodo precedente tale percentuale era stata del 65%.

Tali dati – che, come ho già posto in rilievo nelle mie precedenti relazioni, non tengono conto delle contravvenzioni, le quali non sono oggetto di rilevazione da parte dell’ISTAT – dimostrano che la diffusa preoccupazione dei cittadini per la loro sicurezza, soprattutto nelle grandi aree metropolitane, è tutt’altro che priva di giustificazione; occorre intensificare gli sforzi per una più efficace azione di prevenzione e repressione della criminalità e, soprattutto, per dissipare il senso di impunità, oggi tanto diffuso, che le statistiche confermano.

La criminalità organizzata

a) Premessa

La valutazione sullo stato della giustizia penale nel Paese non può, ancora una volta, che muovere dalla constatazione del rilevante impegno lavorativo che le forze dell’ordine e la magistratura devono destinare al contrasto delle associazioni criminali di vario genere ed origine.

I risultati positivi raggiunti trovano un riscontro a vari livelli di intervento: operazioni di polizia giudiziaria culminate con arresti e sequestri, attività investigativa degli uffici del Pm tradotta in puntuali richieste di misure cautelari e di rinvio a giudizio, attività giurisdizionale che, in larghissima percentuale, convalida a livello dibattimentale le tesi accusatorie e provvede ad irrogare pesanti condanne ai responsabili.

È evidente, peraltro, che la struttura associativa di questa forma delinquenziale richiede ed impone allo Stato non solo una risposta in termini di repressione immediata quanto, soprattutto in una prospettiva di lungo periodo, una costante azione di monitoraggio e conoscenza dei vari fenomeni criminosi che consenta di configurare, in funzione di prevenzione generale, un effettivo raccordo tra la lotta alla criminalità e le politiche generali del Paese di carattere economico, sociale e culturale. È sufficiente evidenziare, in proposito, le interconnessioni tra le forme di criminalità ed il fenomeno, non certo di mera valenza criminale, della immigrazione.

b) Le associazioni criminali nazionali

La permanenza di una forte presenza di gruppi di criminalità organizzata di origine nazionale, con radici storiche nei rispettivi territori, è un dato ormai costante di tutte le relazioni sullo stato della giustizia penale in Italia.

Le indicate strutture, accanto alla accertata continuità di un assetto verticistico e militare, la cui coesione è salvaguardata dal comune interesse ad evitare conflitti disaggreganti, presentano tuttavia una grande fluidità nel senso della continua evoluzione dei vari gruppi, la cui composizione, nella acquisizione delle posizioni di preminenza nei vari settori delinquenziali in cui si realizzano i diversi interessi criminosi, in molti casi segue l’andamento degli eventuali successi delle forze dell’ordine.

Detta caratteristica si ritrova anche nelle forme più importanti e storiche di criminalità (Cosa Nostra e N’drangheta), che mostrano una apparente mutazione delle forme di condotta verso una pax interna.

Da diversi segnali, colti da indagini in corso e da singoli episodi criminosi, emergono, tuttavia, anche fattori di instabilità e di crisi, legati a conflitti connessi al controllo di alcuni territori e a tensioni derivanti dell’emergere di nuove leve criminali che cercano di colmare i vuoti provocati dai continui arresti di uomini d’onore.

Elemento di rischio più specifico in tale direzione, capace di determinare imprevedibili sviluppi, appare quello connesso ad eventuali contrasti – in particolare per Cosa Nostra – tra il gruppo, tuttora egemone, composto da soggetti latitanti e il gruppo composto da detenuti che sembrano proporre esigenze legate sia all’attenuazione della rigidità del regime carcerario cui sono sottoposti, sia alla possibilità di continuare ad influire sull’esercizio del potere criminale e sulle linee d’azione dell’organizzazione.

L’attuale prevalente strategia, di basso profilo, evita di provocare reazioni forti dello Stato e mira ad esercitare il potere criminale con il rafforzamento della propria presenza attiva, come struttura portante dell’economia, nei settori produttivi e negli altri centri vitali della società.

L’intimidazione e la corruzione costituiscono le concrete modalità operative con cui l’imprenditoria mafiosa mira ad emarginare l’imprenditoria sana e a farla soccombere ad una concorrenza sleale, che realizza costi più bassi e vincenti nel mercato mediante la violazione di ogni regola. Una simbiosi tra crimine ed economia, il cui effetto negativo si riverbera in maniera diretta sull’economia di realtà territoriali già gravemente colpite su questo fronte e che presentano elevati livelli di disoccupazione.

In un contesto siffatto si va sempre più consolidando il “modello mafia-impresa” che tende a porsi come alternativo allo Stato ed alle forze sane del Paese, anche nella capacità di creare occupazione.

Alcuni procuratori segnalano il pericolo concreto di infiltrazioni criminali in regioni più tranquille per effetto di sollecitazioni e spinte criminali da parte dei clan malavitosi delle regioni confinanti, o del transito di attività criminali riconducibili a gruppi di extracomunitari. Taluni evidenziano il pericolo di un possibile interesse della mafia per le importantissime opere pubbliche programmate.

A fronte della persistente pericolosità del fenomeno, di assoluto rilievo è la risposta delle forze di polizia e dell’apparato giudiziario nel suo complesso che, vale la pena evidenziarlo, in alcune realtà giudiziarie sta affrontando impegni gravosissimi.

Per rendersene conto, basterà la lettura dei dati statistici allegati alla presente relazione, che testimonia di tale impegno, spinto, in molti casi, oltre il limite di quello che dovrebbe essere il carico di lavoro sopportabile per il singolo, sicché ingiuste appaiono talune critiche che si sentono rivolgere alla magistratura nel suo complesso, quando le stesse sembrano non tenere conto del sacrificio, spesso oscuro e silenzioso, di tanti suoi componenti.

Tutte le procure della Repubblica impegnate nella lotta alla criminalità organizzata attribuiscono grande importanza ed efficacia al sistema delle misure di prevenzione, soprattutto di carattere patrimoniale.

L’aggressione ai patrimoni mafiosi costituisce uno strumento necessario e complementare della forma tradizionale di intervento repressivo per molteplici motivi. Esso consente di colpire non solo uno dei punti di forza dell’organizzazione, ma anche una delle sue stesse ragioni di esistere e cioè l’illecita accumulazione di capitale; inoltre, è evidente che rimpiazzare i patrimoni confiscati può essere per Cosa Nostra più difficile che sostituire un numero anche non irrilevante di affiliati tratti in arresto. Infine, le iniziative volte al depauperamento dei sodalizi provocano per gli uomini d’onore la perdita di prestigio nel loro stesso ambiente, li priva di uno strumento di condizionamento della realtà circostante e costituisce un mezzo rilevante per la destrutturazione del potere criminale delle cosche.

Si tratta, peraltro, di un’attività di indagine particolarmente difficile, perché il sistema di illecita accumulazione e riciclaggio dei capitali mafiosi si è evoluto al fine di sottrarsi ai sistemi di controllo sempre più raffinati posti in essere per contrastarne l’esistenza.

Le più avanzate ricerche di tipo economico ed i risultati delle indagini e delle conseguenti acquisizioni processuali, rivelano che abbiamo assistito, in questo campo, alla sostituzione dell’impresa mafiosa di tipo classico con l’impresa di proprietà sostanziale del mafioso e, in una fase successiva di evoluzione, con l’impresa a partecipazione mafiosa, anche se le varie forme possono intrecciarsi e coesistere a seconda del tipo di meccanismi economico-finanziari attraverso cui l’attività illecita cerca di occultarsi.

Tale ultima forma di impresa ha permesso a Cosa Nostra di rendere ancor più occulti i canali di riciclaggio e di reimpiego dei capitali illeciti, di diversificare gli investimenti e di utilizzare strutture imprenditoriali che, per la loro rispettabilità e la loro esperienza, sono capaci di operare come normali agenti di mercato, raggiungendo lo scopo di compenetrare l’economia mafiosa con quella legale, rendendole difficilmente distinguibili tra loro.

Di fronte alla complessità di questa nuova situazione le classiche indagini bancarie e patrimoniali si rivelano scarsamente utili all’accertamento dell’esistenza dei presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione. L’unico modo di superare le difficoltà è costituito dall’utilizzazione delle tecniche di indagine del procedimento penale e dall’acquisizione dei risultati ottenuti in quella sede. Così, sono state utilizzate le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (sia pure con tutti i limiti propri di questo strumento, ancor più accentuati nel campo delle indagini patrimoniali) e le intercettazioni telefoniche e ambientali: tale modus procedendi ha permesso, da un lato, di individuare molti prestanome degli esponenti mafiosi, che essendo estranei alla cerchia familiare non avrebbero mai potuto essere individuati in altro modo, e, d’altro lato, di accertare l’esistenza di attività economiche (soprattutto imprenditoriali) apparentemente lecite che fanno capo direttamente o indirettamente a persone riconosciute appartenenti all’organizzazione mafiosa.

L’indicata interconnessione tra indagini penali in senso stretto e indagini patrimoniali e di prevenzione impone nuovi assetti organizzativi degli uffici giudiziari e interventi normativi tra i quali, in particolare, la elaborazione di un testo unico delle misure di prevenzione che elimini le incongruenze tra le varie disposizioni, fornisca uno strumento di più facile applicazione e preveda anche nuove norme in materia di tutela dei terzi di buona fede.

Positivo è, infine, il giudizio sull’elevato livello di efficienza raggiunto, in moltissimi uffici, nello svolgimento dell’attività con l’uso di modelli di protocollo e di coordinamento delle indagini tra autorità giudiziarie, Dna, forze di polizia, e con l’utilizzo delle forme di cooperazione giudiziaria che vanno estendendosi sempre più in termini di contenuto e di Paesi interessati.

c) I reati commessi da stranieri e la criminalità organizzata di origine straniera

Molte organizzazioni criminali straniere hanno invaso il mercato del crimine. Tale realtà comporta un impegno sempre maggiore nell’attività investigativa per affrontare strutture tanto efficienti da avere assunto addirittura posizioni monopolistiche in alcuni settori.

La delinquenza dei cittadini stranieri, particolarmente extracomunitari, tende ad aumentare in linea con il generale andamento crescente della loro presenza sul territorio. Ai flussi migratori si accompagnano inevitabilmente altrettante migrazioni di ambienti criminali di diversa estrazione (nigeriani, magrebini, albanesi, russi, ucraini, turchi, cinesi, ecc…), tutti capaci di adeguarsi rapidamente alla realtà del luogo, nonché di procedere a collegamenti tra loro e con soggetti della malavita locale. Inevitabili gli scontri interni e, talvolta, esterni alle etnie.

Il flusso migratorio assume rilievo, per i connessi aspetti criminosi, sotto tre distinti ambiti.

1. C’è innanzitutto quello relativo alle violazioni minori, legate ai tentativi di sfuggire all’espulsione che la legge prevede come conseguenza della clandestinità, e che consistono nella mancata esibizione di documenti d’identità e nella inottemperanza agli ordini di espulsione.

Le norme in vigore in tema di disciplina della immigrazione hanno indubbiamente conseguito alcuni obiettivi in termini di maggiore conoscenza e limitazione del fenomeno. Restano, però, profili di perplessità circa la reale efficacia delle condanne (a volte a pene effettivamente troppo miti, forse nell’erronea prospettiva di sanzioni detentive solo funzionali all’espulsione) e la troppo frequente ricorrenza degli arresti in flagranza nei confronti degli stessi soggetti, senza l’esatta percezione di quanti condannati siano effettivamente espulsi, con i connessi effetti di induzione e moltiplicazione dei reati di falsificazione.

2. Il secondo ambito di reati nei quali rimane coinvolta la popolazione straniera è quello funzionale ai tentativi di inserimento nel corpo sociale. Sono frequenti i falsi personali e documentali, i furti, le ricettazioni e le attività criminose collegate alla vendita ambulante di prodotti con marchi contraffatti. Area, quest’ultima, di notevole interesse anche per organizzazioni criminali di grande calibro (in ragione dell’elevatissimo volume d’affari), come dimostrano recentissime acquisizioni investigative promosse dalla Direzione Nazionale Antimafia; su di essa sussiste l’esigenza di un più puntuale impegno, ben al di là dell’accertamento di responsabilità penali limitate all’ultimo modesto anello della catena.

Molteplici sono le indagini nei confronti di promotori ed organizzatori di associazioni per delinquere dirette a costituire fittizie società commerciali al solo scopo di simulare l’assunzione di cittadini extracomunitari e favorirne la permanenza nel territorio dello Stato, o comunque di coprirne la clandestinità mediante false documentazioni.

            È bene essere chiari sul punto. In molte realtà gli extracomunitari presenti sul territorio in posizione regolare si sono integrati nel tessuto sociale, che non mostra segni di intolleranza. L’area criminogena allarmante è, invece, quella dei clandestini, del cui movimento è ancora poco conosciuta la reale dimensione. È la clandestinità che spinge alla commissione di reati, alla partecipazione alle attività delle organizzazioni criminali ovvero a continuare ad essere vittime di tali organizzazioni, anche dopo l’arrivo in Italia, sotto forma di sottoposizione ad odiose forme di caporalato, lavoro nero, sfruttamento e addirittura tratta di esseri umani.

3. Il terzo e più alto livello di attività delinquenziale è quello che si manifesta come effetto della massiccia immigrazione, ma che talvolta è legato a quella che viene chiamata la criminalità transnazionale, spesso facente capo alle cosiddette “mafie straniere”.

È in continuo aumento l’instaurazione di indagini su articolate strutture delinquenziali, coinvolgenti cospicui interessi economici, che richiedono lo sviluppo di tecniche idonee a superare i confini nazionali per approdare alle organizzazioni criminali operanti all’estero. Si tratta di organizzazioni che presentano un’elevata dinamicità della struttura, non di tipo verticistico, ma composta da bande e gruppi che operano in buona parte autonomamente: un assetto che crea difficoltà allo svolgimento delle indagini. Profili di preoccupazione sono offerti dall’espansione di tale forma di criminalità verso territori nazionali con forte sviluppo economico, connotati dalla presenza di un tessuto economico-sociale sano e che rischiano di essere compromessi da organizzazioni criminali coinvolte in operazioni finanziarie di riciclaggio, accertate, ad esempio, in complesse triangolazioni fra soggetti di nazionalità russa, società aventi sede negli Stati Uniti d’America e persone operanti in Italia, con concreti rischi di saldatura tra le componenti di diversa nazionalità.

Inquietante è anche l’ampliamento costante della presenza e diffusione, su tutto il territorio nazionale, della criminalità albanese che, attraverso cellule operative contraddistinte da vincoli di parentela e gerarchia interna, va estendendo la propria attività dai reati minori alle forme criminose, più gravi ed incisive, dello sfruttamento della prostituzione, del traffico degli stupefacenti (con diretti collegamenti con i mercati europei) e che, attraverso gli stessi canali della droga, cerca di espandere la propria influenza anche al settore della immigrazione clandestina e della tratta degli esseri umani.

Preoccupante è anche l’aumento della mafia cinese, che va sempre più espandendo la propria presenza nel sottobosco imprenditoriale di varie regioni italiane, attraverso l’immissione di centinaia e centinaia di “schiavi” senza volto, senza nome e senza voce, spesso rinvenuti a lavorare in condizioni sub-umane in scantinati e soffitte, i quali immettono sul mercato, a prezzi di assoluta concorrenza, prodotti finiti ovvero semilavorati venduti in nero alle più spregiudicate, se non disoneste, imprese del settore. Se pur non esistono sicuri elementi per far presumere l’esistenza di un’unica grande organizzazione che dirige i flussi migratori dalla Cina, la dimensione del fenomeno ha assunto connotati allarmanti, anche per la crescente acquisizione da parte di cittadini cinesi di attività commerciali in varie città italiane a prezzi superiori a quelli di mercato e con capitali di dubbia provenienza.

Sempre nel terzo livello di coinvolgimento della criminalità straniera si incontrano i delitti relativi al traffico di esseri umani, che vedono all’opera bande organizzatrici di penose odissee di uomini e donne destinati ad essere immessi nei mercati illeciti del lavoro attraverso forme di sfruttamento, vendita e diretta utilizzazione delle vittime in attività criminose, in Italia e in altri Stati europei, con acquisizione di ingenti somme di denaro da parte degli organizzatori

Le difficoltà di coniugare gli aspetti umanitari con quelli della sicurezza sono aumentate dalla pericolosità e dalla efficienza di sodalizi criminosi che operano con vera gestione imprenditoriale, tanto da prevedere nuovi arrivi quando gli istituti di accoglienza sono vuoti. Peraltro, significativi successi sono segnalati su questo versante grazie allo sviluppo della cooperazione tra forze di polizia e tra autorità giudiziarie, anche mediante protocolli specifici per fronteggiare il fenomeno degli sbarchi clandestini e accordi con le autorità di polizia dei Paesi coinvolti nella immigrazione (ad esempio, l’Albania).

È stata rilevata la drastica riduzione degli arrivi in Puglia di immigrati irregolari. Dagli elementi acquisiti nel corso delle indagini, ciò appare il risultato della forte azione di contrasto attuata in Albania, a decorrere dall’estate 2002, con la distruzione di molte imbarcazioni utilizzate per il trasporto di persone verso le coste pugliesi; anche l’immigrazione dei curdi ha subito una sensibile riduzione.

Il contrasto giudiziario alla criminalità straniera, ed in particolare a quella che si realizza nel favoreggiamento della immigrazione clandestina e della tratta di esseri umani, sicuramente beneficerà della applicazione della legge 11 agosto 2003 n. 228, con la quale è stata attribuita alle Direzioni distrettuali antimafia la competenza delle indagini per i nuovi delitti di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, di tratta di persone, di acquisto ed alienazione di schiavi e di associazione per delinquere finalizzata a tali delitti. A ciò si aggiunga che, in futuro, la conoscenza delle fenomenologie criminali straniere e la ricostruzione analitica del loro comportamento potrebbe consentire in numerosi casi giudiziari (ad esempio, riguardo ad organizzazioni albanesi e cinesi) anche l’applicabilità della fattispecie associativa dell’articolo 416 bis c.p.

Decisamente positivo è l’apprezzamento per la nuova legge che, ai fini dell’accertamento degli indicati reati, ha esteso la possibilità di utilizzare gli incisivi strumenti investigativi della intercettazione, dell’attività sotto copertura e delle collaborazioni con la giustizia, oltre che l’applicazione delle norme in tema di confisca dei patrimoni. Merita pure di essere segnalata l’istituzione di un fondo per il finanziamento dei programmi di assistenza, di integrazione e protezione sociale in favore delle vittime dei reati predetti e per l’impegno assunto dallo Stato italiano ad un rafforzamento dell’azione di prevenzione ed al potenziamento della cooperazione con i Paesi interessati, «tenendo conto della loro reale collaborazione ed attenzione da essi prestata alle problematiche della tutela dei diritti umani».

Sono convinto che le nuove disposizioni, mediante il necessario respiro internazionale, aumenteranno i risultati cui tutte le strutture investigative e giudiziarie tendono nella lotta contro questi reati che ripugnano al senso di umanità e civiltà.

Terrorismo e reati contro lo Stato

L’area dell’eversione e del terrorismo interno presenta una persistente pericolosità, come emerge dalle recenti manifestazioni dirette ad inasprire la lotta contro il “sistema”, con spunti di convergenza verso un fronte eversivo unitario.

È sempre attiva la minaccia dell’area brigatista (BR-PCC) i cui programmi rimangono ancorati alla originaria contrapposizione classe-Stato e imperialismo-antimperialismo con finalità di lotta sul fronte interno. Dagli arresti della primavera 2002 sino agli ultimi sviluppi delle indagini volte all’individuazione degli ideatori ed esecutori degli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi, l’organizzazione ha, peraltro, subito un duro colpo dall’azione di contrasto dello Stato. Va posta in evidenza la buona sinergia tra le varie forze di polizia e fra tutti gli organi inquirenti coinvolti, nell’utilizzazione degli strumenti processuali espressamente previsti per il coordinamento delle indagini.

È certo che anche per il futuro sarà particolarmente forte l’impegno di tutte le istituzioni nell’azione di contrasto e repressione di attività che mettono in pericolo la serena convivenza sociale e le stesse libertà democratiche garantite dalla Costituzione repubblicana. La conferma di un tale impegno si è avuta anche recentemente con l’acquisizione di ulteriori elementi su una attiva presenza di brigatisti nella capitale.

A vecchie e nuove sigle clandestine di matrice marxista-leninista sono attribuite iniziative dimostrative e propagandistiche finalizzate all’acquisizione di spazio e visibilità. In quest’area si segnala l’azione dei Nta (nuclei territoriali antimperialisti) e dei Nac (nuclei armati per il comunismo) che, in talune zone del Paese, agiscono in posizione satellitare all’area delle nuove Br e si sono resi responsabili sia di attentati che della diffusione di volantini e documenti.

All’aerea anarchica sono riconducibili gli attentati e le azioni dimostrative posti in essere di recente nei confronti di appartenenti alle forze dell’ordine e di personalità che rivestono elevati incarichi istituzionali.

Risultano attive anche formazioni rappresentative della destra radicale, delle quali si registra il consolidamento di legami con omologhe formazioni straniere, nella prospettiva di dare vita ad un unico fronte dell’ultra-destra sul piano internazionale.

In tutti i distretti, anche in quelli non direttamente interessati da concreti episodi riconducibili a organizzazioni eversive, rimane alta l’attenzione verso situazioni che possano apparire sintomatiche di attività in prospettiva di proselitismo e riconducibili a gruppi terroristici clandestini. Sono segnalati episodi espressione di un forte antagonismo politico anche se non riconducibili a gruppi organizzati.

Sul versante giudiziario interno, segnatamente per il consistente impegno investigativo, si riverberano anche i riflessi di un quadro internazionale caratterizzato da fattori d’instabilità legati alla precaria situazione irachena ed israelo-palestinese, oltre che al perdurante attivismo di cellule del terrorismo di matrice islamica.

In uno scenario complesso, nel quale interagiscono molteplici fattori di destabilizzazione, all’adesione del nostro Paese alla coalizione internazionale anti-terrorismo si riconnettono potenziali minacce anche interne, che hanno allertato l’azione investigativa, sfociata in sequestri e congelamenti di beni di enti dei quali s’ipotizza il collegamento alle reti dell’estremismo islamico. Gli interventi muovono da indizi dell’operatività in Italia di militanti che sfruttano il territorio nazionale come ponte di collegamento all’interno del continente europeo e come base logistica per il reclutamento, l’assistenza, l’avviamento di volontari ed il procacciamento di documenti contraffatti (spesso di eccellente fattura, reperiti attraverso organizzazioni criminali locali).

La situazione complessiva induce a prendere in considerazione il rischio di iniziative ostili anche in ambito nazionale. Il progressivo ampliamento della comunità islamica italiana offre un quadro generale di sostanziale prevalenza di orientamenti moderati, concilianti ed aperti al dialogo. A questi si contrappone, tuttavia, un esiguo numero di strutture su posizioni di acceso radicalismo, aventi convergenze e connessioni con movimenti attivi a livello internazionale.

In processi già definiti in primo grado, le sentenze hanno riconosciuto l’esistenza stabile e durevole di un nucleo associativo formato da cittadini arabi operanti in Italia con funzioni di supporto alle attività terroristiche, coinvolto nella consumazione in Italia di reati contro il patrimonio i cui proventi sono destinati a finanziare i gruppi più radicali e le relative attività terroristiche in Europa e Africa.

Sono tuttora in corso complesse attività d’indagine per la verifica di possibili collegamenti con gruppi armati operanti all’estero, anche nei cosiddetti territori di guerra.

Le altre manifestazioni criminose

a) Reati contro la pubblica amministrazione

L’andamento dei procedimenti penali in questo settore è sostanzialmente immutato, pur se esso assume caratteristiche diverse nelle varie zone del Paese. L’investigazione deve confrontarsi con la complessità delle attività istruttorie previste in molti procedimenti amministrativi che possono favorire devianze illecite a favore di imprese colluse o conniventi ed in danno delle imprese concorrenti. Con riferimento alle nuove leggi in tema di appalto, approvate in sede nazionale ed in alcune regioni (ad esempio, la Sicilia), non si è ancora in grado di fornire esatta ed adeguata valutazione sulla effettiva capacità di contrastare l’illegalità che si annida in questo settore.

Sul fronte investigativo rimane alta l’azione volta ad assicurare, nel comparto dei pubblici appalti, sempre più elevati standard di sicurezza e legalità. La prevenzione e la repressione delle infiltrazioni criminali e la trasparenza nel settore costituiscono, del resto, una delle tematiche sulle quali deve essere costante l’attenzione di tutti gli apparati istituzionali. Significativo, in proposito, lo sforzo volto al monitoraggio delle aziende assegnatarie dei lavori pubblici, secondo modelli centralizzati ed informatizzati (v., ad esempio, il recente Dm nel delicato settore della realizzazione delle c.d. “grandi opere”).

Merita anche di essere evidenziato come, in alcuni distretti del nord Italia, si è riscontrata una diminuzione dei reati di turbativa d’asta, segnalata come direttamente ricollegabile all’attenzione che la pubblica amministrazione locale ha dedicato alla gestione degli appalti attraverso iniziative che sembrano dimostrarsi vincenti. Per converso, in altre zone del Paese – pur in presenza di segnali di un “risveglio” di attenzione da parte di alcuni enti pubblici – le caratteristiche della criminalità e la loro massima espansione e pervasività finiscono spesso per “imporre” una diffusa inefficienza della macchina amministrativa, attraverso forme di prevaricazione verso coloro che non si piegano alla logica della forza e che sono sottoposti persino ad attentati con chiara funzione punitiva per chi ha cercato di agire con maggiore correttezza.

Si segnalano, infine, alcune inchieste in corso per il reato di corruzione, nelle quali è emerso il coinvolgimento di magistrati e di altre realtà impensate, quali gli ambienti ospedalieri.

La normativa sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche (D.Lgs 231/01) incomincia a trovare attuazione. Per la prima volta, nell’ambito di indagini relative ad irregolarità nell’aggiudicazione di lavori edilizi, sono stati disposti, su richiesta del Pm, il commissariamento e il versamento di una cauzione da parte di un ente, previsti dalla normativa suddetta.

b) La criminalità economica: i reati societari, i reati tributari e l’usura

L’iscrizione di procedimenti concernenti i reati di falso in bilancio e, più in generale, i reati societari registra un consistente decremento per effetto delle innovazioni legislative intervenute in materia ad opera del d.lgs. 61/2002, che ha ridotto in misura consistente l’area dell’illecito penale.

Numerosi, con un lieve incremento, sono stati invece i procedimenti penali per bancarotta fraudolenta, anche riguardo a fallimenti di società di rilevanti proporzioni. Si tratta di reati che spesso sono la conseguenza di prassi produttive, commerciali e finanziarie non improntate a criteri di trasparenza e legalità, nelle quali imprenditori e professionisti di vario tipo si distinguono per una forte e disinvolta spregiudicatezza verso gli interessi generali sottostanti ad una corretta economia di mercato.

Recenti episodi di clamorose insolvenze evidenziano i limiti dell’intervento repressivo penale e la necessità di un più adeguato sistema preventivo di controlli, interni ed esterni, a tutela dei terzi creditori nonché degli investitori istituzionali e dei piccoli risparmiatori.

Sempre impegnativa è l’attività di indagine diretta a porre in evidenza il collegamento tra settori illegali di investimento a fini di riciclaggio e segmenti leciti dell’economia; all’esito di laboriose operazioni investigative in collaborazione anche con Stati non appartenenti all’Unione Europea, essa ha condotto a risultati apprezzabili in termini di sequestro di ingenti somme di denaro nei c.d. paradisi fiscali.

I procedimenti penali per reati fiscali si sono ridotti in misura notevole. Difficoltà si stanno determinando nell’accertamento dell’entità dell’imposta evasa, prevista come soglia quantitativa per la punibilità; ciò aumenta il tecnicismo della materia, con inevitabile ricorso a consulenti tecnici e periti, e rischia di creare discrasie tra accertamento in sede penale ed accertamento realizzato in sede tributaria.

Sempre di difficile valutazione sono i reati di usura che, secondo varie segnalazioni, talora risultano essere in numero sottostimato rispetto alla presumibile effettiva consistenza del fenomeno, mentre in alcune località si suppone che le denunce siano addirittura in eccesso rispetto alla realtà: effetto, quest’ultimo, desunto in qualche distretto dall’alto numero di archiviazioni e ricollegato a denunce solo strumentali a tentativi di accesso ai benefici concessi in favore delle vittime di questo reato.

Peraltro, in alcune zone del meridione si è constatata, in tempi recenti, una sia pur modesta rottura del muro dell’omertà e della timorosa inerzia dei soggetti passivi, incoraggiati dalla proficua azione di contrasto delle forze dell’ordine, oltre che dalle iniziative lodevoli di alcune associazioni “antiracket”.

c) Omicidi, sequestri di persona, estorsioni, rapine, furti e c.d. microcriminalità.

L’andamento dei reati di maggiore allarme sociale si prospetta in modo diversificato.

In molte zone è in aumento il numero di omicidi causati da motivi passionali o dalle condizioni psichiche degli imputati.

La linea dura in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione, nonostante il lieve incremento, pare abbia dato ottimi risultati anche mediante il coordinamento a livello distrettuale e la creazione di forze speciali di polizia giudiziaria; il fenomeno rimane circoscritto all’interno delle comunità straniere, in stretta connessione con i flussi di immigrazione clandestina e le forme di sfruttamento della manodopera o di riduzione in schiavitù.

Forte il carico di lavoro derivante dai reati contro il patrimonio, anche mediante violenza e minaccia, riconducibili alla criminalità diffusa o c.d. “microcriminalità”. Quest’ultima espressione è, per la verità, impropria. Talora l’aggressione al patrimonio si esprime con atti di violenza estrema ed anche mortale, specialmente in danno di anziani e deboli, aggrediti selvaggiamente per un misero bottino. In particolare al Nord, permane alto il numero di rapine in case di abitazione (confermato dai dati statistici) realizzate con cinica violenza, brutalità, accettazione dello scontro fisico e da rapinatori che non ricorrono ad alcun sistema di occultamento della propria identità.

Le sanzioni in concreto irrogate (che, ovviamente, pure non costituiscono, di per sé, il rimedio decisivo) è auspicabile siano adeguate alla estrema gravità dei crimini, con opportuno esercizio della discrezionalità che, in materia, l’ordinamento assegna ai giudici di merito.

La ancora troppo recente istituzione, in alcune città, del poliziotto di quartiere si spera possa in futuro rispondere adeguatamente allo scopo di ridurre la costante ed elevata presenza di microcriminalità. In proposito si prospetta l’esigenza di una presenza visibile delle forze di polizia sul territorio anche nelle ore notturne.

d) Reati inerenti alla sfera sessuale

A fronte di una riduzione delle denunce, i reati di violenza sessuale dei quali vengono individuati gli autori sono in aumento, a riprova che la normativa vigente offre più sicurezza alle vittime sollecitando una loro maggiore partecipazione alle fasi investigative e dibattimentali.

È stata segnalata, in proposito, la opportunità di prevedere la realizzazione in tutti gli uffici giudiziari di specifiche strutture attrezzate in maniera che la vittima del reato, nel corso dell’esame videoregistrato, non venga a contatto diretto con le parti.

Tuttora preoccupanti ed in via di ulteriore espansione i reati in materia di pedofilia, realizzati principalmente mediante l’utilizzazione della rete informatica, rispetto ai quali sono stati, tuttavia, conseguiti positivi risultati investigativi.

e) Reati in materia di stupefacenti

Permane la forte dimensione trasnazionale di questa forma di criminalità.

Come già si è accennato nella parte sulla delinquenza organizzata, l’incidenza dei reati in materia di stupefacenti nel nostro Paese è direttamente collegata alla acquisizione, da parte della criminalità di origine nazionale, di una posizione di controllo di importanti traffici internazionali di droga attraverso rapporti privilegiati con i gruppi criminali delle aree di produzione e dei luoghi di destinazione.

Numerosi i procedimenti che, con ampio utilizzo di forme di cooperazione giudiziaria e delle più sofisticate tecniche investigative, hanno consentito di ricostruire i “quadri” di estesi sodalizi criminali, di accertare provenienza, itinerari e luoghi di destinazione delle sostanze stupefacenti e di sequestrare quantitativi notevoli di droghe sintetiche e di sostanze tradizionali.

Nonostante gli indicati successi, il numero di reati relativi al traffico della droga permane elevato ed in costante aumento a causa di un mercato criminale che riesce ad imporre una domanda tale da sostenere una quotidiana attività di spaccio, nonché per la facile sostituzione dei soggetti, processati e condannati, con altre unità pronte e disponibili ad operare nel settore. L’attività di spaccio accertata conferma, inoltre, l’estesa presenza, in molte aree del Paese, della criminalità del nord-Africa in questo specifico mercato.

f) Reati ambientali, edilizi ed urbanistici

Si tratta di un settore che, al di là della più o meno estesa sensibilità degli uffici di procura, non sempre si caratterizza per l’adeguata attenzione dei cittadini e delle amministrazioni alla tutela di interessi di natura collettiva.

L’estensione e specialità della materia, direttamente influenzata dalla normativa comunitaria, comporta anche problematici aspetti interpretativi che, a volte, vedono contrapposte l’autorità giudiziaria e gli amministratori locali, tanto da richiedere ripetuti interventi del legislatore culminati anche in interpretazioni autentiche (vedi la nozione di rifiuti).

In generale si rileva l’esistenza di ricorrenti episodi di inquinamento di vaste dimensioni interessanti il suolo, il sottosuolo, le falde idriche, l’aria, le acque costiere, il mare e di deturpamento del paesaggio e del patrimonio artistico ed archeologico, che danno origine a complessi e difficili procedimenti penali per la tutela di beni fondamentali dell’individuo e caratterizzanti la stessa identità culturale del nostro Paese.

In molti casi i processi riguardano ambiti in cui operano stabilimenti produttivi la cui attività ha comportato la formale qualificazione del territorio come “area ad elevato rischio ambientale”, con la conseguente grande attenzione richiesta all’autorità giudiziaria nell’ipotesi di sequestri di impianti produttivi che comportano riflessi di ordine economico-sociale per la loro incidenza sulla prosecuzione della attività e sul lavoro.

Si tratta, inoltre, di un settore oggetto di infiltrazione della criminalità, di cui è stata accertata la penetrazione diretta nell’economia e nel mercato collegato allo smaltimento dei rifiuti e alla gestione delle discariche, anche a mezzo di poche imprese private che, collegate tra loro, hanno assunto posizioni di monopolio.

Nella stragrande maggioranza, accanto a distretti in cui il fenomeno concerne soltanto casi di lieve entità per l’esistenza di efficienti strutture di controllo, si segnalano situazioni di grande pericolosità per la tutela delle acque, delle falde sotterranee e del mare, con gli enti locali non in grado di fronteggiare la situazione anche per la carenza di fondi necessari all’installazione degli impianti di depurazione (quando non, addirittura, degli impianti fognari).

g) Sicurezza sul lavoro e tutela della salute

Sempre più numerosi i distretti nei quali sono in aumento i procedimenti avviati per l’accertamento di malattie professionali legate non solo a tecnopatie tradizionali, ma anche a forme nuove di malattie occupazionali, ad infermità apparse in mondi del lavoro prima insospettati ed a nuovissime patologie, che stanno attirando l’attenzione di esperti sui connessi rischi di natura psico-sociale.

Altrettanto importante è la presenza di procedimenti penali collegati all’impiego di sostanze alimentari e “dopanti”, di alimenti transgenici ed all’uso di integratori e strumenti paramedici ed estetici pericolosi per la salute.

Insufficiente appare l’attenzione degli operatori del settore alla osservanza delle norme in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro; il fenomeno richiederebbe, invece, una forte azione di vigilanza anche per l’impiego di molta manovalanza straniera.

Clamoroso è il dato riferito dal distretto di Palermo nel quale il numero degli omicidi colposi commessi con violazione delle norme anti-infortunistiche supera quello degli omicidi colposi conseguenti a violazione delle norme del codice della strada.

h) Criminalità informatica

Credo sia giunto il momento di dedicare a questo tema un’attenzione particolare.

La scarsità delle emergenze processuali in materia di criminalità informatica ha trovato anche quest’anno sostanziale conferma. Nell’assoluta maggioranza i Procuratori generali distrettuali riferiscono che le segnalazioni di processi o di indagini nel settore sono modeste, e addirittura inesistenti in alcuni distretti (fra i quali Roma e Milano).

Si tratta di una constatazione che sarebbe riduttivo registrare passivamente, come dato statistico neutro. Essendo inverosimile che l’Italia sia un’isola felice, inspiegabilmente estranea ad un trend che accomuna tutti i paesi occidentali, il dato richiamato induce ad una seria riflessione.

Molteplici, e ad alto potenziale di pericolosità ed invasività, sono infatti le possibili manifestazioni di questo tipo di criminalità. Non vi è soltanto la pedofilia via Internet: vi sono anche – più in generale – l’utilizzo della Rete per fini criminali o terroristici, la diffusione di informazioni illegali on-line, le frodi patrimoniali, l’acquisizione a fini illeciti di dati riservati o coperti da segreto, le violazioni della privacy e del diritto d’autore, l’aggressione di programmi altrui ad opera dei c.d. hackers.

Avuto riguardo al livello di avanzamento tecnologico dei traffici in Italia, deve rimarcarsi l’esigenza di maggiore attenzione e di incremento delle professionalità impiegate per l’azione di contrasto al cyber crime (cui è dedicata la Convenzione europea del 23 novembre 2001). Soltanto in pochi luoghi (è il caso, ad esempio, del distretto di Catania) si ha notizia di consistenti misure organizzative in materia nelle procure della Repubblica.

A livello generale, dovrebbe in primo luogo suscitarsi maggiore consapevolezza nelle potenziali vittime di questo genere di illecito: di frequente le aggressioni subite non vengono denunciate perché il danno economico è esiguo, ma, essendo diffuso su una miriade di utenti, alla polverizzazione dei reati corrisponde una forte concentrazione di vantaggi economici illeciti. Vi è altresì il caso delle aziende che, per evitare danni di immagine, non denunciano le intrusioni informatiche subite, accettando consapevolmente il danno economico che ne deriva. Queste scelte favoriscono il proliferare di comportamenti criminali da parte di un numero sempre più vasto di soggetti.

Una risposta efficace a questi fenomeni delinquenziali emergenti si basa su quattro punti: continuo adeguamento normativo, collaborazione internazionale, forze di polizia specializzate, adeguatezza della risposta giudiziaria.

In quest’ultimo ambito, in particolare, occorrono misure organizzative (specie negli uffici di procura) idonee a contrastare una fenomenologia delittuosa complessa ed in costante, rapidissima evoluzione. Occorre incrementare le iniziative di preparazione professionale specialistica dei magistrati ed un maggiore raccordo tra le procure della Repubblica e la Polizia postale e delle comunicazioni, che – con 2.000 operatori altamente specializzati in questo tipo di indagine, distribuiti capillarmente sul territorio nazionale – è in grado di assicurare l’essenziale supporto tecnico-investigativo in tutte le inchieste penali nelle quali gli strumenti informatici e ad alta tecnologia hanno un ruolo primario.

Questa prospettiva non intende certo trascurare i problemi di garanzia della privacy individuale e della riservatezza dei rapporti economici; ma un punto di equilibrio con la generale esigenza di tutela dall’impiego illecito delle moderne, potentissime tecnologie di comunicazione può e deve essere ricercato con rinnovato impegno.

i) Criminalità minorile

La criminalità giovanile si caratterizza come fenomeno che, soprattutto in alcune realtà, ha un contenuto quantitativo sempre maggiore, che acquista, sotto il profilo qualitativo, maggiore complessità per la problematicità dei ragazzi italiani e per la peculiarità della criminalità risalente ai minori stranieri. Si tratta di un fenomeno che necessita di strategie operative e progettuali trasversali ai soggetti che si occupano, a vario titolo, dei minori adolescenti.

La devianza minorile appare essenzialmente riconducibile all’assenza di validi riferimenti parentali, allo scadimento dei valori tradizionali, al diffuso consumismo, all’enfatizzazione di modelli di vita negativi ed alla influenza della criminalità organizzata.

Il numero dei procedimenti che vede coinvolti minori, da soli o in concorso con adulti, è molto elevato e si estende ad una tipologia di reati sempre più vasta.

Resta, altresì, confermato il fenomeno del coinvolgimento dei minori nei reati di criminalità organizzata di stampo mafioso, fenomeno dovuto a sintomi di devianza giovanile e di dispersione scolastica per cui i minori, che tendono a riunirsi in bande, sono facilmente attratti dalle organizzazioni criminali, specie per quel che riguarda lo spaccio di sostanze stupefacenti ed i danneggiamenti. Il dato risulta anche comprovato da vari procedimenti penali in corso e da alcuni già definiti in primo grado, nei quali tra le persone arrestate vi sono stati minori imputati di associazione per delinquere, danneggiamento ed estorsione.

Risulta abbastanza generalizzata, tra gli indagati minorenni, la massiccia presenza di soggetti stranieri, il cui numero crescente – in alcune realtà – supera il 50% del totale.

L’incertezza della loro identificazione, la assai frequente irreperibilità ed il loro mancato radicamento culturale e sociale pongono notevoli problemi giacché, il più delle volte, rendono aleatoria l’efficacia dell’istituto della “messa alla prova” e determinano sovente – per soddisfare le esigenze di tutela della collettività – un percorso giudiziario caratterizzato dalle misure cautelari e dal più ridotto ricorso, in carenza dei presupposti di prognosi positiva, ai benefici del perdono giudiziale e della sospensione condizionale della pena.

Non solo, ma nei loro confronti, anche per la diversità dei parametri culturali, che addirittura condiziona la stessa disponibilità di tali minori (soprattutto quelli nomadi) ad essere aiutati, rimane ancor più difficile l’applicabilità anche di altri istituti, più prettamente minorili, come la “mediazione penale” ed il “proscioglimento per irrilevanza del fatto”, così impedendo di promuovere la conciliazione del minore con la persona offesa dal reato e di favorire una giustizia riparativa con la fuoriuscita del minore dal sistema penale.

Più in generale, la sperimentazione di un’attività di mediazione e riconciliazione tra vittima ed autore del reato, per i tempi e la specifica preparazione di idonei operatori sociali che essa richiede (aspetto su cui si invoca un maggiore sforzo di formazione da parte delle regioni), è ancora scarsamente incisiva e, talvolta, è vissuta come fonte di ulteriori rallentamenti dei tempi della giustizia.

Da più parti viene segnalata la mancanza di centri di prima accoglienza, con un minimo di ricettività, o la carenza di un’equilibrata distribuzione della loro ubicazione sul territorio nazionale con la conseguenza che, spesso, l’esecuzione di misure di custodia cautelare in carcere avviene in località molto distanti, con intuibili riflessi negativi per i minori ristretti, che non possono usufruire regolarmente di visite da parte dei familiari.

La difficoltà di reperire case di rieducazione e strutture diverse dal carcere, ma pur sempre idonee ad una funzione di contenimento dei minori, in taluni casi indispensabile, fa permanere la discrasia tra il principio della non carcerazione, cui è improntato il sistema penale minorile, e la carenza delle strutture di tipo comunitario destinate istituzionalmente al recupero dei soggetti devianti.

Positivo, infine, è il giudizio verso l’operato delle forze di polizia giudiziaria, integrata da personale degli enti locali, nello svolgimento dei delicati compiti di indagine per casi di abusi e violenze in danno dei minori.

La Direzione nazionale antimafia

Come è noto, nell’ambito della Procura generale presso la Corte di cassazione, è istituita la Direzione Nazionale Antimafia (Dna) e, a norma dell’articolo 76ter comma 2 dell’ordinamento giudiziario, dell’attività da essa svolta, oltre che dei risultati conseguiti, spetta al Procuratore generale fornire notizie in questa relazione.

L’attività di impulso e di coordinamento svolta dalla Dna è stata, come per il passato, particolarmente incisiva ed ha permesso di conseguire validi risultati conoscitivi e investigativi, anche con riferimento a situazioni criminali solitamente non approfondite ma di specifica pericolosità. Apprezzamento meritano perciò l’attenzione e l’impegno che il Procuratore nazionale e i magistrati dell’ufficio hanno saputo porre nell’individuare l’atteggiarsi della nuova criminalità organizzata nazionale e transnazionale; nel sensibilizzare al loro contrasto le procure distrettuali e gli organismi investigativi; nel promuovere e sollecitare una intensa cooperazione internazionale.

Particolare attenzione è stata dedicata all’inquietante tema della infiltrazione della criminalità organizzata nella economia legale.

Nell’ambito delle attività di contrasto dell’economia criminale si collocano sia la convenzione stipulata tra la Dna e l’Autorità di Vigilanza sui lavori pubblici e altri moduli operativi, per l’acquisizione di informazioni sui trasferimenti di esercizi e imprese commerciali, sia l’attività di proposta compiuta dalla stessa Dna nel Comitato di sicurezza finanziaria creato alla fine del 2001 per la prevenzione e la repressione dell’utilizzo del sistema finanziario a fini di riciclaggio. Alla medesima finalità è riconducibile la istituzione, all’interno della Direzione nazionale, di un autonomo “Servizio criminalità organizzata nel settore agricolo”, creato dopo che le analisi e le ricerche effettuate in Campania, Puglia e Sicilia avevano permesso di stabilire che a molti produttori agricoli i gruppi mafiosi imponevano i loro prezzi, chiedevano “tasse” per il trasporto dei prodotti, sottraevano i mezzi per la coltivazione.

Pressoché contestuale alla istituzione del Servizio nel settore agricolo è stata la istituzione del “Servizio stragi”, finalizzato ad una lettura sistematica del materiale investigativo e processuale sugli episodi di strage degli anni 1992 (in Sicilia) e 1993-1994 (in Firenze, Milano e Roma) con riferimento alla individuazione di eventuali ulteriori filoni di indagine.

Dal punto di vista del modello organizzativo, la Dna non ha subito variazioni strutturali perché la organizzazione in Dipartimenti e Servizi è apparsa rispondente alle necessità e in grado di far fronte alle esigenze di indagini. Al riguardo, va segnalato con soddisfazione che a tale modello si sono ispirati omologhi organismi di Paesi stranieri, nonché Eurojust, la struttura europea per il coordinamento giudiziario nel contrasto della criminalità organizzata, già dianzi ricordata.

La istituzione del Settore delle “Nuove Mafie” transnazionali e dei Settori addetti alla cooperazione internazionale, oltre che allo studio delle infiltrazioni nell’economia (cui si è già accennato), ha permesso di apprestare tempestivamente nuovi strumenti di prevenzione e repressione e di suggerire l’opportunità di nuovi interventi normativi.

Tra questi ultimi, va annoverato anche quello introdotto dalla già ricordata legge 11 agosto 2003 n. 228 che, proprio partendo dalla allarmata constatazione della esistenza di nuove forme di sfruttamento della persona, ha attribuito alla Direzione Nazionale Antimafia il compito di svolgere le sue funzioni anche in ordine a delitti specifici e associativi connessi all’attività di gruppi dediti alla tratta delle persone, alla riduzione e al mantenimento in schiavitù o servitù, all’acquisto e alienazione di schiavi.

L’ampliamento delle attribuzioni della Dna evidenzia la consapevolezza che, per reprimere delitti che sono espressione della c.d. criminalità internazionale, è opportuna una concentrazione delle indagini presso pochi organi (le ventisei procure distrettuali) operanti con un flessibile coordinamento: coordinamento attuato anche per mezzo del sofisticato sistema informativo introdotto presso la Dna e che il Procuratore nazionale chiede ancora una volta di sviluppare ricorrendo a una speciale “Sezione di analisti”.

A livello internazionale, la Dna ha partecipato al gruppo di lavoro per la predisposizione del testo normativo di ratifica della Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale aperta alla firma nel dicembre 2000 a Palermo, al gruppo multidisciplinare sulla criminalità organizzata costituito presso il Consiglio dell’Unione Europea, al gruppo orizzontale della droga e alla sessione Onu sugli stupefacenti. Numerose e intense sono state le riunioni dei magistrati della Dna all’estero; altrettanto numerosi gli incontri con autorità straniere, taluni inerenti al coordinamento di particolari indagini.

Importante è stata infine l’attività svolta dalla Dna a livello di coordinamento operativo; sono state 129 le riunioni organizzate con le procure distrettuali, con le forze di polizia ed altre autorità.

L’attività della Dna nei suoi principali campi di azione è resa poi palese dai seguenti, ulteriori dati statistici: 49 applicazioni di magistrati della Direzione agli uffici di procura impegnati nelle indagini per reati di criminalità organizzata, 20 colloqui investigativi, 910 pareri ex articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario sulla richiesta di misure alternative alla detenzione da parte di soggetti collegati alla criminalità organizzata, 1142 pareri sulla protezione dei collaboratori di giustizia, 2958 pareri in tema di gratuito patrocinio.

Alla luce di quel che si è esposto sin qui, va dunque ribadito l’apprezzamento per l’attività della Dna e va anche sottolineata l’importanza di potenziare le strutture giudiziarie e di investigazione deputate alla lotta della delinquenza organizzata adeguando, organicamente e rapidamente, le loro caratteristiche operative al modificarsi delle realtà criminali.

Polizia giudiziaria e strutture investigative

Grande e convinto, da parte di tutti i Procuratori generali, è l’apprezzamento per l’impegno ed i positivi risultati raggiunti dagli organi della polizia giudiziaria (Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza e, per quanto di competenza, gli altri Corpi e Servizi); tutti uniti da una lodevole abnegazione nello svolgimento dei propri compiti, da grande attaccamento al servizio e da una sempre più diffusa ed elevata professionalità.

L’apprezzamento va rivolto non solo alla specifica attività di polizia giudiziaria, ma anche alla complessa attività di ricerca di molti e pericolosi latitanti, al controllo dei detenuti agli arresti domiciliari ed al sempre più frequente esercizio delle funzioni di Pm dinanzi al giudice di pace.

Il successo conseguito dalla polizia giudiziaria e dalla forze dell’ordine sui vari fronti investigativi ha contribuito in maniera determinante al contrasto della criminalità sul territorio con significativi successi in termini di riaffermazione della legalità.

Proprio in funzione di questi lodevoli risultati si giustifica la rinnovata richiesta di potenziamento degli organici delle sezioni (in proposito si ricorda che l’articolo 6 del d.lgs. 271/79 stabilisce che l’organico delle sezioni sia costituito da personale in numero non inferiore al doppio dei magistrati previsti in organico nelle rispettive procure), di sottrazione alla polizia giudiziaria di compiti estranei alle sue specifiche funzioni e di incremento delle attrezzature e strumentazioni tecniche più aggiornate, per lo svolgimento delle indagini secondo sistemi e metodologie che siano continuamente al passo con l’incessante progresso tecnologico.

A tal proposito, nel dare atto del progressivo miglioramento dei servizi forniti dagli organi di polizia, sembra giusto ribadire la necessità di adeguati finanziamenti che consentano di utilizzare al meglio le grandi risorse professionali che vanno emergendo nei vari corpi. Degna di nota è, ad esempio, l’elevata professionalità – da rimarcare anche nella difficile, ma sempre più riuscita, opera di coordinamento e collaborazione tra i vari organi (comprese le polizie locali e quella postale) – dimostrata in materia di violenza ed abusi nei confronti dei minori, di reati a tutela della libertà sessuale, di violazioni finanziarie e reati di riciclaggio, di reati compiuti con l’uso di strumenti informatici.

C) L’esecuzione della pena

L’ultimo quinquennio è stato contrassegnato da rilevanti novità legislative, di alcune delle quali si possono indicare i risultati almeno per linee di tendenza. Occorre però osservare che anche in questa materia si procede complessivamente con leggi-tampone che affrontano singoli aspetti critici, senza una visione d’insieme e una progettualità complessiva.

Dopo la riforma abbastanza ampia introdotta dalla legge 165/98, si sono infatti succedute ben otto leggi che riguardano direttamente la materia dell’ esecuzione della pena e della sorveglianza, spesso in modo contraddittorio e disorganico: mentre sono stati estesi progressivamente i limiti di concedibilità della detenzione domiciliare, si sono inserite nuove tipologie di reato nell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, rendendo inapplicabili i benefici penitenziari ai detenuti condannati per tali delitti. Del pari è stata limitata la possibilità di concedere le principali misure alternative ai collaboratori di giustizia (legge 45/2001) e si è modificato e reso permanente l’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario (legge 279/02), mostrando la volontà di un parziale recupero della filosofia originaria della legge 354/75 (c.d. legge Gozzini), almeno nel senso di escludere o limitare i benefici per gli autori dei reati più gravi. Ciò peraltro è avvenuto in modo asistematico, non prendendo a base una regola generale quale la pena irrogata, ma per tipologie di reati che in un particolare momento suscitano allarme sociale e vengono inseriti nell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario (situazione in parte determinata dagli interventi della Corte costituzionale, che non ha ritenuto un parametro adeguato per l’esclusione dalle misure alternative il livello della pena irrogata), con rilevanti difficoltà applicative, che negli anni passati si sono tradotte in contrasti di giurisprudenza nel caso di cumulo tra condanne per reati ostativi e reati comuni.

Non è invece ancora valutabile l’effetto deflativo che dovrebbe derivare dalle sanzioni previste per i reati passati alla competenza del giudice di pace, essendo la riforma entrata in vigore solo il 2 gennaio 2002. Presumibilmente, tuttavia, i problemi dell’esecuzione delle nuove sanzioni della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità non saranno, sul piano organizzativo, di agevole soluzione.

Il quadro è completato dalla reintroduzione dell’espulsione dei condannati extracomunitari per gli ultimi due anni di pena detentiva (legge 189/02), che è prevista come misura di sicurezza, come sanzione sostitutiva e come vera e propria sanzione alternativa da applicarsi anche d’ufficio.

Tra le novità recenti in materia processuale va segnalata l’introduzione del comma 2bis all’articolo 677 Cpp che impone, a pena di inammissibilità, ai condannati liberi che presentano istanza di misure alternative di eleggere o dichiarare domicilio. La norma è certamente positiva, perché evita ricerche in sede di notifica e consente di accertare, fin dal primo momento, una reperibilità reale che è presupposto indispensabile per la fruizione di qualsiasi misura alternativa.

Apprezzabile è anche la già ricordata modifica del regime dell’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, che da un lato ha stabilito una durata minima (un anno), ma dall’altro ha rafforzato le garanzie difensive (essendo previsto il procedimento camerale ordinario). Del resto la prassi precedente di emettere un nuovo provvedimento ogni sei mesi, frustrava completamente la garanzia del ricorso per cassazione, poiché la Corte non riusciva quasi mai a decidere entro il termine di efficacia del decreto impugnato, mentre in realtà le limitazioni dei diritti del detenuto, per effetto di ininterrotte proroghe, erano di fatto a tempo indeterminato.

Apprezzamento positivo ha ricevuto anche la riforma dell’istituto della liberazione anticipata (legge 277/02), che ha reso più snella e agevole la concessione del beneficio, ora disposto de plano dal magistrato di sorveglianza.

Tra le riforme fallite va invece richiamata quella introdotta dal Dpr 115/02, che aveva affidato al giudice dell’esecuzione la conversione delle pene pecuniarie. Dopo un’imponente migrazione di fascicoli dal magistrato di sorveglianza al giudice dell’ esecuzione, e un rilevante numero di conflitti di competenza pervenuti al giudizio della Corte di cassazione, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime le disposizioni predette per difetto di delega.

Più in generale va osservato che la procedura di conversione è comunque eccessivamente farraginosa, ha un costo assai elevato in termini di dispendio di energie, a fronte di risultati quasi trascurabili, e distoglie i magistrati dai compiti di controllo e di rapporto con i detenuti.

È presto per fare un bilancio sull’applicazione della legge 207/03 (cosiddetto indultino): i primissimi dati sembrano indicare una applicazione limitata del beneficio. Va comunque rilevato che si tratta di un’ulteriore misura alternativa non una tantum, ma permanente, che pone complessi problemi di rapporti con l’affidamento in prova, e deve essere applicata con la procedura e i controlli stabiliti per le altre misure.

Premesso questo quadro, che denota attenzione del Parlamento per il settore, cui non corrisponde però fino ad ora una adeguata progettualità complessiva, capace di razionalizzare un sistema sviluppatosi alluvionalmente, va osservato che gli uffici esecuzione delle procure risultano aver ormai raggiunto quasi ovunque una piena efficienza, essendo in grado di iniziare l’esecuzione entro pochissimi giorni dalla comunicazione del passaggio in giudicato della sentenza. Diversa è, invece, la situazione della magistratura di sorveglianza, gravata di sempre nuovi compiti, con un organico largamente sottodimensionato e non sempre coperto e un personale di cancelleria ritenuto del tutto insufficiente.

Nonostante ciò, alcune situazioni di emergenza sembrano avviarsi al superamento. In particolare, quella del tribunale di sorveglianza di Napoli, in cui la pendenza si è ridotta dal secondo semestre 2002 al primo 2003 da 17.582 a 13.423 procedimenti, numero peraltro ancora intollerabile, anche se è da apprezzare l’impegno profuso, con la celebrazione di quattro udienze settimanali che hanno consentito la definizione, in un solo semestre, di ben 11.355 procedimenti. A causa di un simile sovraccarico di lavoro, i magistrati di sorveglianza non hanno però la possibilità di instaurare rapporti continui con gli istituti ed i singoli detenuti.

Difficoltà evidenti presenta ancora il tribunale di sorveglianza di Torino, in cui, nonostante la celebrazione di udienze con una media di cento procedimenti, i tempi di definizione per i condannati liberi oscillano tra i dodici e i diciotto mesi; mentre il tribunale di Palermo ha dovuto fronteggiare una scopertura di ben due terzi dell’organico.

Peraltro la situazione è generalmente migliore nelle corti d’appello medio-piccole. Ma in definitiva per ripristinare la possibilità di decidere le istanze di misure alternative in tempi vicini a quelli previsti dalla legge anche per i condannati in stato di libertà e assicurare l’attività di vigilanza sugli istituti imposta dalla legge occorrerebbe un consistente aumento di organico.  

Sul piano dei risultati conseguiti occorre segnalare una situazione sostanzialmente sovrapponibile a quella dell’anno scorso. Cresce l’applicazione della detenzione domiciliare, anche per effetto dell’ampliamento dei limiti dell’istituto stabilito con i recenti provvedimenti legislativi, mentre stazionario è il numero di affidamenti in prova.

Il numero delle revoche per comportamenti incompatibili è limitatissimo, come pure quello dei mancati rientri dai permessi (in molti distretti al limite della irrilevanza statistica). Occorre tuttavia segnalare che i controlli sui beneficiari delle misure alternative sono episodici, e che i Centri servizio sociale, che hanno una rilevantissima funzione nell’istruzione del procedimento e nei controlli sull’adempimento delle prescrizioni, sia per grave carenza di personale, sia per una mancata formazione professionale, si limitano il più delle volte ad episodici colloqui con l’interessato e la famiglia.

Persiste il grave sovraffollamento di molti istituti di pena già denunziato l’anno scorso: alla fine del primo semestre 2003 la situazione presentava semmai un lievissimo peggioramento (56.403 detenuti, rispetto ai 56.277 presenti al 30 giugno 2002). Va tuttavia rilevato che la situazione non è omogenea: generalmente gravissima nelle sedi maggiori, gestibile in alcuni piccoli distretti, ma con differenze rilevanti tra un istituto e l’altro anche all’interno del distretto.

Sempre allarmante il numero dei suicidi e tentati suicidi dei detenuti, anche se molti Procuratori generali non hanno fornito dati precisi; da altra fonte risulta, però, che dal 1° gennaio 2002 al 30 settembre 2003 sono stati ben 108, di cui 83 suicidi, per di più concentrati negli istituti in cui le condizioni di vita sono peggiori.

In questo quadro, tuttavia, va segnalato almeno un aspetto positivo: la accentuata riduzione del numero dei detenuti in custodia cautelare rispetto ai definitivi. Su 56.403 detenuti al 30 giugno 2003, ben 34.695 erano definitivi (rispetto ai 32.729 al 30 giugno 2002, su di un totale pressoché equivalente di detenuti). Per i non definitivi, 11.419 erano in attesa del giudizio di primo grado, 6.135 di quello di secondo grado, mentre 2.970 avevano già riportato condanna in primo grado e in appello.

I dati appena richiamati fanno ritenere che il ricorso alla misura cautelare della custodia in carcere sia abbastanza limitato, soprattutto tenendo conto dell’esistenza di delitti per i quali le esigenze cautelari sono presunte per legge, salvo prova contraria. Se si riuscirà a ridurre la durata dei processi e a semplificare e razionalizzare la fase dell’esecuzione, l’obiettivo di una ulteriore riduzione della custodia cautelare ai soli casi di assoluta necessità sembra raggiungibile.