Penale

Wednesday 21 September 2005

Concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. Il punto delle Sezioni Unite Cassazione – Sezioni Unite Penali – Sentenza 12 luglio 2005 – 20 settembre 2005 – 33748/2005

Concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. Il punto
delle Sezioni Unite

Cassazione – Sezioni Unite Penali – Sentenza
12 luglio 2005 – 20 settembre 2005 – 33748/2005

Sentenza.- Presidente N. Marvulli, Relatore G. Canzio

Ritenuto in fatto

1. — Calogero Mannino deve rispondere
del delitto di concorso eventuale nell’associazione mafiosa Cosa nostra, “per
avere – avvalendosi del potere personale e delle relazioni derivanti dalla sua
qualità di esponente di rilievo della Democrazia
Cristiana siciliana, di esponente principale di una importante corrente del
partito in Sicilia, di segretario regionale del partito nonché di membro del
consiglio nazionale dello stesso – contribuito sistematicamente e
consapevolmente alle attività e al raggiungimento degli scopi criminali di Cosa
nostra, mediante la strumentalizzazione della propria attività politica, nonché
delle attività politiche ed amministrative di esponenti della stessa area,
collocati in centri di potere istituzionale (amministratori comunali,
provinciali e regionali) e sub-istituzionali (enti pubblici e privati) onde
agevolare la attribuzione di appalti, concessioni, licenze, finanziamenti,
posti di lavoro ed altre utilità in favore di membri di organizzazioni
criminali di stampo mafioso. Con le aggravanti costituite dall’essere Cosa nostra un’associazione armata volta a commettere delitti,
nonché ad assumere e mantenere il controllo di attività economiche mediante
risorse finanziarie di provenienza delittuosa. In territorio di
Agrigento, Trapani, Palermo e altrove, fino al 28/9/1982 (art. 110 e 416
cod. pen.) e poi fino al marzo 1994 (art. 110 e 416
bis cod. pen.)”.

Il Tribunale di Palermo, dopo avere
postulato per la configurabilità della fattispecie criminosa la necessità di
individuare concrete, positive e sistematiche condotte
aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento dell’organizzazione
mafiosa, accompagnate dalla consapevolezza e volontà del contributo apportato,
e avere esaminato analiticamente, in successione cronologica, una serie di
episodi di cui il Mannino era stato protagonista per un arco temporale di quasi
un ventennio dal 1974 al 1994, è pervenuto con sentenza del 5/7/-29/12/2001
all’assoluzione dell’imputato con la formula di cui all’art. 530 comma 2 cod. proc. pen.
“perché i fatti non sussistono”, non essendo emersi all’esito dell’istruzione
dibattimentale certi e sufficienti elementi di prova di responsabilità a carico
dello stesso. Le condotte dell’imputato, esaminate seguendo la cronologia degli
eventi, pur non essendo esenti da censurabili legami e rapporti non occasionali
fin dalla seconda metà degli anni ’70 con esponenti delle famiglie mafiose agrigentina e palermitana di Cosa nostra, sarebbero
interpretabili in chiave di “vicinanza” e “disponibilità”, secondo una casuale
di tipo elettorale-clientelare o anche corruttiva, ma
non quali contributi di favore destinati al consolidamento dell’organizzazione
mafiosa, sì che in esse, non essendo espressione di un
sistematico rapporto sinallagmatico fra Mannino e
Cosa nostra, non sarebbero configurabili gli elementi costitutivi del concorso
esterno. Specificamente:

a) I rapporti con Nino
e Ignazio Salvo. L’episodio più risalente nel tempo riguardava la pretesa
condotta agevolatrice nei confronti dei Salvo, gestori di numerose esattorie
comunali, della cui collocazione mafiosa l’imputato
sarebbe stato a conoscenza, al fine di contribuire al rafforzamento di Cosa
nostra. I fatti individuati dal P.M. come espressione di “appoggio” ai Salvo
(anche sulla base delle generiche e indirette dichiarazioni dei collaboratori
di giustizia Pennino, Siino e Lanzalaco,
per i quali il Mannino avrebbe aiutato i Salvo quando
rivestiva la carica di assessore regionale alle finanze) risalirebbero al 1974
e consisterebbero: nell’avere affidato ai Salvo la gestione della ricca
esattoria di Siracusa, un tempo concessa alla Langione
s.r.l., mediante un surrettizio accorpamento ad essa
delle esattorie vacanti e più povere, sparse su tutto il territorio regionale e
distanti da Siracusa, così da dissuadere il Langione,
non munito di adeguato apparato organizzativo, dal riconfermare la richiesta di
aggiudicazione; nonché nel non avere promosso una riforma legislativa in campo
esattoriale che, consentendo di affidare il servizio di riscossione delle imposte
a enti pubblici o a istituti bancari, privasse i Salvo della egemonia posseduta
con aggi superiori al resto d’Italia.

La sentenza di primo grado, riassunta
la situazione normativa riguardante il servizio di
riscossione dei tributi affidato in Sicilia ad esattori privati e considerato
che nel regolamentare la materia la
Regione, con l. 21/12/1974 n. 40 proposta dal Mannino e
approvata quasi all’unanimità, deliberò l’accorpamento delle esattorie povere e
vacanti a quelle ricche e la riduzione graduale della misura degli aggi secondo
il d.p.R. 29/9/1973 n. 603 (decreto Visentini), concludeva che la disciplina regionale, anziché
configurarsi come agevolatrice dei Salvo, fosse finalizzata al perseguimento
dell’interesse pubblico. Si sarebbe potuto individuare una condotta di favore
nel conferimento ai Salvo della gestione dell’esattoria di Siracusa, in forza
del criterio di aggregazione delle esattorie povere e
vacanti a quelle ricche, ma tale favore non aveva peso determinante, mancando
all’epoca la consapevolezza dell’organica appartenenza dei Salvo a Cosa nostra
(secondo la significativa testimonianza dell’on. Mattarella) e sembrando l’episodio ascrivibile ad una
logica di mediazione tra gli interessi del gruppo imprenditoriale e l’interesse
pubblico. Sarebbero ancora riconducibili alla logica dei rapporti
“istituzionali” e alla generale e deprecabile prassi “clientelare” di relazioni
tra pubblico amministratore e imprenditori le
assunzioni di tre soggetti “raccomandati” dal Mannino nelle aziende dei Salvo.

b) I rapporti con Cosa nostra di Agrigento. Nella roccaforte agrigentina
(giusta le convergenti dichiarazioni dei collaboratori Virone,
Leto, Di Carlo, Siino e Bono Benedetta) non sarebbero
mancati fin dalla metà degli anni ’70 i contatti del Mannino con esponenti di
vertice della locale cosca mafiosa quali Salemi, Settecasi, Colletti, De
Caro, Vella. Ma, in assenza di prova di specifiche
condotte intese a favorire Cosa nostra, detti rapporti e i singoli episodi di
partecipazione a taluni incontri con questi personaggi (il 10/9/1977 testimone
alle nozze Caruana; nel dicembre 1978 ospite ad un
pranzo di ufficiali medici presso la Taverna Mosè
cui era presente Settecasi; tra il 1979 e il 1980
incontro con Salemi a Roma, per la concessione di un
subappalto dalla soc. Icori alla soc. Samovi facente
capo al primo, per il quale non erano emersi elementi idonei a corroborare la
veridicità dell’assunto indiretto di Virone di un
interessamento del politico; il 29/8/1988 testimone alle nozze della figlia di Di Maida, già segretario provinciale della D.C. e
imparentato con esponenti mafiosi agrigentini,
giustificata dalla comune militanza nello stesso partito), andavano tutti letti
in chiave elettorale-clientelare e valutati in
termini di “vicinanza” politica a Mannino delle famiglie mafiose in quel
contesto provinciale che costituiva la base del suo elettorato.

c) Il patto elettorale
politico-mafioso risalente al 1980-1981. In relazione agli incontri con Gioacchino Pennino (segretario
della sezione D.C. di Palermo-Brancaccio, della
corrente cianciminiana, e uomo d’onore “riservato”
della famiglia di Brancaccio) e con Antonio Vella
(esponente della cosca agrigentina), che secondo
l’attendibile e riscontrata versione di Pennino sarebbero serviti per gettare
le basi di un accordo elettorale diretto all’espansione del Mannino dal feudo
di Agrigento al territorio palermitano, fino ad allora dominato dalle correnti
degli on. Lima e Ciancimino,
la sentenza riconosce al patto una precisa connotazione mafiosa per la genesi
degli incontri e per i ruoli e gli atteggiamenti dei protagonisti. Vella, accompagnato da Salvatore Lattuca,
uomo di rango della famiglia agrigentina, aveva
incontrato Pennino prima presso l’abitazione di
Giuseppe Di Maggio, capo della famiglia di Brancaccio, e poi presso il suo
studio, al fine di metterlo in contatto col Mannino; al di fuori dell’esigenza
di implicare l’avallo di esponenti di Cosa nostra non vi era alcuna necessità
di intermediazione per organizzare l’incontro, stante la pregressa conoscenza e
vicinanza politica da parte del Mannino sia di Pennino che di Vella; nel corso dell’incontro svoltosi tra i tre
personaggi presso l’abitazione del Mannino, questi aveva chiesto esplicitamente
a Pennino un “aiuto elettorale” nell’area palermitana in vista delle successive
competizioni politiche, ricevendone la promessa di attivarsi in suo favore,
mentre a sua volta egli sarebbe stato “disponibile” nei confronti dei suoi
sostenitori; altri incontri tra i tre sarebbero seguiti nel medesimo arco
temporale per ribadire l’accordo, in esecuzione del quale Pennino s’era
attivato nella competizione elettorale del 1983, fornendo ai compagni di
partito della zona di Brancaccio, anche secondo la deposizione del collaborante
Cannella, l’indicazione di sostenere la candidatura del Mannino e spostando
“alcune migliaia di voti” di preferenza (che passavano da n. 38593 a n. 55069).

La sentenza di primo grado ha escluso
tuttavia che in questo episodio, collocabile intorno
agli anni 1980-1981, potessero ravvisarsi, di per sé, gli estremi del concorso
esterno, sul rilievo che non vi era prova che l’accordo di natura elettorale,
stipulato dal Mannino con esponenti mafiosi delle famiglie agrigentina
e palermitana, sconoscendosene il preciso contenuto, avesse avuto ad oggetto,
oltre la generica “vicinanza” e “disponibilità”, la promessa dell’imputato di
svolgere specifiche attività di rilevanza causale per il rafforzamento del
sodalizio criminoso, anziché l’esecuzione di prestazioni di interesse personale
di singoli mafiosi quale corrispettivo dell’appoggio elettorale ricevuto. Si è sottolineato che, pur volendo accedere alla tesi secondo cui
la semplice promessa basterebbe a configurare il reato, mancherebbe la prova
relativa all’effettivo contenuto della promessa, elemento decisivo per
valutarne la serietà e l’intrinseca rilevanza causale. Il significato meramente
indiziario dell’episodio comportava dunque l’esigenza di individuare ulteriori
e successive condotte dell’imputato e di accertare se esse potessero
interpretarsi come consapevolmente dirette a offrire un contributo per il
rafforzamento di Cosa nostra in esecuzione del patto, sì da poterne inferire
elementi chiarificatori del suo contenuto.

d) La vicenda Mortillaro.
Circa l’assunzione nel luglio 1983 di Antonino Mortillaro, esponente della famiglia di Palermo centro,
presso un ufficio periferico del Ministero dell’agricoltura, la sentenza di
primo grado, facendo leva sulla circostanziata deposizione di Pennino che aveva
presentato Mortillaro a Mannino come possessore di un
pacchetto di voti nell’area palermitana, ha sottolineato come l’immediata
attivazione del politico per trovare un posto di lavoro a Mortillaro,
importante collettore di voti in contatto con un rilevante numero di persone,
fosse legata al ruolo che lo stesso aveva svolto nel 1983 e avrebbe potuto in
futuro svolgere a suo favore nelle competizioni elettorali. Di talché, attesa
anche la non accertata consapevolezza da parte del Mannino dello spessore
mafioso di Mortillaro, non vi era prova che
l’assunzione di questi, al di fuori dello schema della raccomandazione legata
alla causale elettorale-clientelare posta a base del
patto Mannino-Pennino-Vella, avesse
agevolato il rafforzamento di Cosa nostra.

e) Gli appalti di opere
pubbliche. All’imputato è stato contestato di avere tenuto condotte di favore
nei confronti di esponenti della imprenditoria
siciliana, agevolando sistematicamente l’aggiudicazione di finanziamenti o
comunque interagendo nel corso delle procedure relative agli appalti di opere
pubbliche, consapevole del beneficio economico che Cosa nostra traeva in un
settore in cui esercitava l’imposizione mafiosa attraverso la “messa a posto” e
la “protezione” oppure, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, mediante
accordi di vertice con gli imprenditori di maggior rilievo. Il ruolo attribuito
dall’accusa all’imputato non era quello di avere concretamente gestito singoli
appalti insieme con l’imprenditore agevolato e con l’associazione mafiosa (Siino ha escluso di avere mai incontrato il Mannino, il quale
non sarebbe entrato in rapporti diretti con Cosa nostra), bensì di avere
presieduto “a monte” ad una generale politica di
indirizzo, programma e gestione dei finanziamenti, statali e regionali, sì da
canalizzare l’aggiudicazione degli appalti a singoli imprenditori compiacenti,
nella comune consapevolezza dei componenti dell’accordo dei reciproci vantaggi
economici e in particolare degli enormi benefici che Cosa nostra traeva,
direttamente o indirettamente, dal sistema “generalizzato” di spartizione degli
appalti di opere pubbliche.

L’ipotesi accusatoria, prospettata
alla stregua di tale modello totalizzante di accordi
tra politici, imprenditori (che, a fronte dell’aggiudicazione dei lavori,
versavano una quota ai politici e un’altra a Cosa nostra) e mafiosi, nei
termini descritti negli aspetti d’assieme dai collaboranti Siino
e Brusca (i quali, incaricati di occuparsi degli appalti per conto di Cosa
nostra, hanno distinto l’ “accordo provincia” di Palermo dagli “accordi in
campo regionale”, gestiti quest’ultimi
dall’imprenditore agrigentino Filippo Salamone per investitura diretta della mafia), è stata
sottoposta a severo vaglio critico da parte del Tribunale. Ritenuta
l’inidoneità probatoria delle dichiarazioni di Lanzalaco
e Salamone per la genericità del racconto circa le
linee del sistema, oltre l’ammissione di rapporti a tenore corruttivo tra
politici e imprenditori, sono state attentamente analizzate le singole vicende
oggetto di contestazione, al fine di identificare il tenore dei legami dell’imputato
con i singoli imprenditori, in particolare con Salamone
e Antonio Vita, e di quest’ultimi
con Cosa nostra, e quindi di verificare se specifiche condotte compiacenti del
Mannino potessero configurare, direttamente o indirettamente, al di là dei
connotati corruttivi connessi alle tangenti asseritamente
versategli per l’aggiudicazione degli appalti, consapevoli contributi di
agevolazione della mafia tramite i favori fatti agli imprenditori collusi con
la stessa.

e1) La vicenda SITAS. Il primo episodio
in materia di appalti riguardava la soc. Sitas, che s’era occupata della costruzione di un
insediamento alberghiero in territorio di Sciacca.
L’iniziativa, partita da un gruppo di imprenditori di
Abano Terme nel 1973, si era conclusa nel 1988 rivelandosi finanziariamente
disastrosa per gli imprenditori e per l’erario regionale. La sentenza di primo
grado, alla luce delle deposizioni dei testi Rossetto, Voltolina,
Mioni, Valenti e della documentazione acquisita, ha
riconosciuto una forte ingerenza dell’imputato, all’epoca assessore regionale
alle finanze, nella scelta dei mediatori, dei notai e del legale, per le
assunzioni e i corsi di addestramento del personale,
nonché per l’affidamento a trattativa privata dei lavori alle imprese Salamone, Vita, Brucculeri e Pullara (le prime due, secondo l’accusa, colluse con Cosa
nostra), facenti parte di un consorzio temporaneo di imprese. Ma questo
comportamento è stato letto in chiave politico-clientelare e corruttiva, non di
contributo all’organizzazione mafiosa, essendo finalizzato alla promozione dell’immagine del Mannino nella sua roccaforte
elettorale. Salamone e Vita non erano d’altra parte
negli anni ’70 in rapporti di collusione ma di vessazione estorsiva con la
mafia, essendo documentati attentati intimidatori ai loro cantieri finalizzati
al “pizzo”, alla “messa a posto” o alla “protezione”, proseguiti nonostante
l’intervento del Mannino presso il capomafia Colletti (teste Siino). Appariva dunque verosimile che la causale
giustificativa dell’interessamento a favore delle imprese consorziate fosse di
tipo corruttivo, emergendo dalle deposizioni di Rossetto e Siino
la figura del Mannino come percettore di tangenti dagli imprenditori favoriti
nell’affidamento dei lavori, tanto che egli aveva opposto un netto rifiuto alla
partecipazione della famiglia Cuntrera all’affare Sitas, pure sollecitata dal capomafia De Caro tramite il
canale Siino-Vita.

e2) I rapporti con Filippo Salamone e Antonio Vita. Partendo dall’ipotesi accusatoria
che Mannino avrebbe favorito Cosa nostra attraverso condotte agevolatrici nei
confronti dei singoli imprenditori, consapevole della loro collusione con il
sodalizio criminoso, la sentenza passava ad esaminare i rapporti del Mannino
con Salamone e Vita, figure originarie dell’agrigentino, non inserite organicamente in Cosa nostra ma
imputate in altri procedimenti di concorso esterno in associazione mafiosa, in relazione alla gestione degli appalti pubblici in Sicilia
dalla metà degli anni ’80 all’inizio degli anni ’90.

Dall’analisi della vicenda Sitas emergeva che i rapporti dei due imprenditori con la
mafia erano strutturati fino alla metà degli anni ’80 in termini di
protezione-estorsione e non di contiguità. Nel 1988-89 secondo Siino o nel 1991 secondo Brusca si sarebbe invece
verificato un salto di qualità nei rapporti fra mafia
e imprenditoria nel campo dei lavori pubblici, rappresentato dal c.d. accordo
del tavolino, concluso tra Salamone, Antonino Buscemi, boss di Passo di Rigano, Pino Lipari e l’ing.
Giovanni Bini del gruppo Ferruzzi. Il sistema spartitorio prevedeva vere e proprie percentuali
dall’imprenditoria alla politica a titolo di tangenti, da cui veniva decurtata una subpercentuale
di spettanza della mafia. Salamone, divenuto
referente di Cosa nostra, avrebbe svolto funzioni di raccordo consentendo a Buscemi ed alle imprese da costui controllate di aggiudicarsi gli appalti di volta in volta richiesti,
acquisendone le garanzie mafiose e trasmettendogli mediante Bini una somma di
denaro (la “messa a posto” preventiva) destinata alle casse di Cosa nostra,
pari allo 0,80% del finanziamento ottenuto dagli imprenditori vincitori delle
gare; ogni impresa avrebbe poi regolato “a valle” i rapporti con le famiglie
locali mediante il pagamento del “pizzo” o “zona”. Essendo stato arrestato Siino nel 1991, l’accordo avrebbe avuto peraltro
applicazione solo per i lavori nel settore idrico gestiti dal Consorzio Basso
Belice Carboj.

Circa il grado di consapevolezza che
i politici e in particolare Mannino potevano avere del patto mafioso in cui sarebbe
stato coinvolto alla fine degli anni ’80 Salamone, ha
sottolineato la sentenza di primo grado come questi, Siino e Brusca abbiano fatto esplicito riferimento a
“tangenti” percepite dal Mannino almeno a partire dal 1986 e Siino, sia pure indirettamente e sul punto non riscontrato
da altri elementi di prova, anche a lamentele del Mannino e dell’on. Nicolosi per la sopravvenuta
decurtazione delle percentuali delle tangenti (“portava meno soldi nelle casse
dei politici”). Mancava tuttavia la prova diretta e specifica che l’imputato,
al di fuori della causale corruttiva, fosse al corrente
del nuovo ruolo assunto da Salamone e dell’accordo
del tavolino, risultando carenti i riscontri alla sua asserita consapevolezza
che la decurtazione dell’importo delle tangenti, a favore della componente
mafiosa, fosse conseguenza di un’intesa di vertice e dell’attribuzione a Salamone della funzione di raccordo fra politici,
imprenditori e mafia e quindi di agevolazione dei fini di Cosa nostra.

Altro elemento di distonia rispetto
alla prospettazione accusatoria era costituito
dall’accertato deterioramento dei rapporti tra il Mannino e Salamone
dopo il 1988, nella stagione culminante della relazione collusiva
dell’imprenditore con la mafia secondo il racconto di Siino,
e più in generale dalla circostanza, risultante dalla vicenda Rossano di cui si
dirà appresso, che l’imputato, pur considerato il
referente politico nella zona interessata e fino ad allora partecipe, sulla
base della causale corruttiva, dei proventi derivati dall’affidamento delle
opere idriche ad un’associazione di imprese di cui facevano parte Salamone e Vita, in relazione al lasso temporale successivo
al 1988 non era più al corrente delle vicende gestionali del Consorzio di
bonifica Basso Belice Carboj: unico esempio, questo,
di applicazione dell’accordo del tavolino.

Quanto ai rapporti personali e di amicizia tra Mannino e Vita, il giudice di primo grado ha
evidenziato come l’imprenditore non fosse entrato in causa nel citato accordo
del tavolino, essendo ricollegabile a tale contesto solo per i rapporti di
amicizia e societari con Salamone, mentre, secondo Siino, egli si sarebbe limitato a svolgere un ruolo di
mediazione tra lo stesso collaboratore e l’imputato in una serie di episodi
ritenuti scarsamente significativi ai fini della configurabilità
del reato, quali: l’acquisto di un terreno in Licata; la vicenda Sitas; la vicenda Rossano di cui si dirà appresso; la
campagna elettorale del 1991
a favore di Cuffaro; la
sollecitazione per l’inserimento nelle liste elettorali di Muratore Maurizio,
legato al gruppo Ferraro-Inzerillo; gli attentati di Sciacca del 1990-1991, per i quali l’imputato, con
l’intermediazione di Vita, avrebbe chiesto a Siino se
potesse fare qualcosa. Per quest’ultima vicenda Siino si sarebbe rivolto a Giovanni
Brusca, insieme al quale si sarebbero recati dal capomafia saccense Di Ganci che aveva risposto di non saperne nulla
(la responsabilità dell’attentato, in un colloquio in carcere con Siino, sarebbe stata poi assunta da Giuseppe Grassonelli per conto della Stidda).
La sentenza ha evidenziato la carenza del riscontro di
Brusca alle dichiarazioni di Siino circa l’incontro
con Di Ganci, la possibilità di una causale autonoma che avrebbe determinato
Vita a muoversi verso Siino, cioè la preoccupazione
che si alterassero situazioni consolidate nell’esecuzione dei lavori nella zona
di Sciacca, e comunque la mancanza di prova di
qualsiasi condotta di favore del Mannino verso la famiglia saccense,
dimostrata dall’ignoranza dell’imputato circa l’esatta provenienza degli atti
intimidatori, che non si coniugava con una pretesa contiguità mafiosa, e
dall’attivazione di ulteriori canali istituzionali.

e3) I rapporti con Lorenzo Rossano.
L’episodio, concernente la concessione di un subappalto a Rossano per la
fornitura di apparecchiature elettroniche per gli
impianti idrici del Consorzio Basso Belice Carboj,
costituiva uno dei casi di intermediazione di Vita tra Mannino e Siino, indicativo, secondo l’accusa, di una vicinanza
dell’imputato al collaboratore. Rossano, che intendeva aggiudicarsi
un subappalto in quel settore, su suggerimento di Cuffaro
aveva invitato il Mannino alla cerimonia di inaugurazione della propria azienda
nel 1989; questi aveva prospettato a Rossano la possibilità di fargli ottenere
un subappalto nell’ambito dei lavori affidati al Consorzio mettendolo in
contatto con il direttore tecnico ing. Vetrano, senza
richiedergli come contropartita alcuna tangente, tanto che Cuffaro,
richiesto delle ragioni di tale interessamento, aveva rilevato che il Mannino
era rimasto deluso dal comportamento di alcuni imprenditori agrigentini,
in particolare di Salamone che aveva appoggiato in
passato e che ora gli aveva voltato le spalle. I successivi incontri di Rossano
con Vetrano e Salamone si
rivelarono negativi essendosi entrambi mostrati ostili alla realizzazione del
progetto; seguirono, con l’intermediazione di Vita, gli incontri con Siino, ma dopo l’arresto di questi la trattativa non fu conclusa. Il giudice di primo grado riteneva provato che Vita
avesse avuto incarico dal Mannino di perorare la causa
di Rossano, ma non anche di contattare Siino, col
quale non aveva alcun rapporto. Da quest’episodio si
desumeva inoltre che in relazione alle attività del
Consorzio si era formato un gruppo di potere, costituito da Salamone,
Vetrano e Argiroffi,
direttore del raggruppamento di imprese aggiudicatarie dei lavori, rispetto
alle cui scelte operative il potere di interferenza del Mannino era minimo. Il
che avrebbe confermato l’esclusione dell’imputato dagli equilibri sanciti con
l’accordo del tavolino e l’avvenuto distacco dalle recenti logiche
imprenditoriali, segnate dal salto di qualità di Salamone in favore dell’organizzazione mafiosa, nonostante
il persistere di versamenti a favore del politico in un’ottica meramente
corruttiva.

f) I rapporti con i
“cianciminiani” e con Pietro Ferraro
e Vincenzo Inzerillo. Nel contesto
degli anni 1985/1991 erano addebitate al Mannino talune scelte di natura
correntizia, dalle quali l’accusa intendeva trarre argomenti interpretativi
della volontà di agevolare Cosa nostra: in particolare, la cooptazione
nella corrente manniniana del gruppo palermitano
facente capo a Vito Ciancimino, compromesso con la
giustizia per la sua contiguità con la mafia e l’utilizzo, al fine di intensificare
la sua presenza in Palermo e Trapani, di personaggi di spessore mafioso quali
il notaio Ferraro e il politico Inzerillo.

Premesso che da nessuno dei
collaboratori di giustizia (Di Carlo, Cannella, Cancemi,
Pennino, Mutolo, Drago, Marchese, Siino
e Brusca) erano pervenute indicazioni circa rapporti personali o di conoscenza
ovvero circa specifiche condotte per favorire esponenti della famiglia
palermitana di Cosa nostra, il giudice di primo grado, sulla base del racconto
di Pennino, ha posto in rilievo la natura esclusivamente correntizia del
transito dei cianciminiani nella corrente manniniana in occasione delle elezioni regionali del 1991;
all’interno del gruppo, nei confronti del quale anche l’on. Donat Cattin aveva manifestato un certo interesse, militavano
personaggi esenti da sospetti di contiguità insieme ad altri di spessore
mafioso, come Lo Jacono e Zarcone,
con i quali però non vi era prova di contatti personali né tanto meno della
consapevolezza da parte dell’imputato della loro valenza mafiosa.

Per quanto riguardava i rapporti con Ferraro e Inzerillo, in
particolare nel periodo della campagna elettorale del 1992, Pennino riferisce
dell’esistenza di un comitato di affari composto da Ferraro, Inzerillo, Zarcone e Muratore, basato su accordi di natura clientelare
rispetto ai quali non vi era tuttavia prova che il Mannino avesse interagito.

Il notaio Ferraro,
imputato dello stesso reato per un’asserita disponibilità nei confronti di Cosa
nostra e legato da rapporti di amicizia con Inzerillo, assessore comunale e poi senatore, aveva
attivamente sostenuto a Palermo e nel trapanese la
candidatura Mannino cui era politicamente vicino; ma, al di là del sostegno
elettorale e di contatti di tipo clientelare, non erano emerse condotte di
favore compiute dal notaio per agevolare l’organizzazione mafiosa che fossero
indirettamente riferibili alla posizione dell’imputato. Da un lato, il
tentativo di aggiustamento del processo Basile sarebbe
stato eseguito da Ferraro nei confronti del dott.
Scaduti, presidente della Corte di assise, per conto non di Mannino ma di un
“deputato dell’area manniniana trombato”
o di “Enzo” Inzerillo; dall’altro, l’intermediazione
di Ferraro nei primi anni ’90 per un finanziamento di
sei miliardi da parte del Ministero dell’agricoltura diretto dal Mannino, per
agevolare la vendita di una cantina agricola di Bono Pietro (per la quale era
stabilita una tangente di cinquecento milioni, di cui i primi cinquanta versati
subito alla consegna di un nulla osta ministeriale), pure a prescindere
dall’archiviazione del relativo procedimento instaurato sulla base delle
dichiarazioni del collaboratore Bono, della cui valenza mafiosa il Mannino non
poteva dirsi consapevole, non aveva visto come protagonisti l’imputato né
l’associazione mafiosa.

Quanto ai rapporti fra il Mannino e Inzerillo, la sentenza di primo grado ha evidenziato la
funzione di raccordo svolta da Ferraro tra i due
esponenti democristiani con l’avvicinamento delle posizioni politiche culminato
nella candidatura e successiva elezione nel 1992 di Inzerillo al Senato nella corrente manniniana.
Sulla pretesa mafiosità di quest’ultimo
si sottolineavano la non definitività
della sentenza di condanna e la dubbia consapevolezza da parte del Mannino
della sua caratura mafiosa, atteso che anche altri qualificati esponenti
democristiani, come gli on. Orlando e Mattarella, avevano escluso ogni sospetto di collusione
mafiosa. Si rammentava anche il contenuto di una conversazione riferita da
Pennino, nel corso della quale il Mannino gli aveva chiesto se Inzerillo poteva conquistare il seggio senatoriale, domanda alla quale Pennino aveva risposto cercando di
sminuire la forza elettorale di Inzerillo, già
compromesso con Cosa nostra, per indurre il Mannino a non candidarlo, evitando
così il suo coinvolgimento in eventuali problemi giudiziari: il dubbio
esternato a Pennino sarebbe incompatibile con la volontà di favorire Cosa
nostra attraverso la candidatura di Inzerillo e
dimostrerebbe che i rapporti tra il Mannino e Pennino erano ispirati solo a
ragioni clientelari-elettorali. Circa l’episodio riguardante l’aggiudicazione di un appalto avente ad oggetto
la metanizzazione della città di Palermo, per il
quale Siino era entrato in contatto con Inzerillo per acquisirne la disponibilità, quale espressione
della corrente manniniana, se ne è esclusa ogni
valenza per la persona dell’imputato, proprio perché rimasto estraneo alla
vicenda.

g) I rapporti con la famiglia mafiosa
di Sciacca. Le intercettazioni ambientali eseguite
tra il 1992 e il 1993 di conversazioni tra alcuni personaggi (Ambla, Dimino, Leggio e Messana) appartenenti alla cosca di Sciacca,
cittadina cui Mannino era legato da motivi familiari ed elettorali, con
riferimento a episodi coevi o riferibili agli anni
precedenti, consentivano di accertare la “vicinanza” dell’imputato ad esponenti
di quella famiglia capeggiata da Di Ganci. Mancavano tuttavia elementi di prova
certi per l’individuazione di specifici “favori” e della rilevanza causale
degli stessi per il rafforzamento di Cosa nostra, evidenziandosi anzi dalle
intercettazioni un distanziamento di posizioni tra
l’imputato e la famiglia saccense nei primi anni ’90,
rispetto alla maggiore “disponibilità” e “vicinanza” manifestate in passato. E
tale ricostruzione probatoria era confortata dalle dichiarazioni di Siino, che aveva fatto generico riferimento ad
“acquisizioni di posti o qualche favore” senza alcuna nota significativa
per gli interessi dell’associazione, e di Brusca, il quale, nonostante il ruolo
di vertice di Cosa nostra e gli stretti contatti con la mafia agrigentina e saccense per la
materia degli appalti, non aveva saputo indicare se vi fossero stati rapporti
tra Di Ganci e l’imputato ed anzi aveva affermato, più in generale, di non
essere a conoscenza di eventuali favori fatti da Mannino a Cosa nostra.

h) Gli atti intimidatori del 1992.
Oltre l’attentato incendiario alla segreteria di Sciacca
del dicembre 1990, riferito nell’ambito dei contatti Vita-Siino
e di cui si dirà ancora a proposito dei rapporti con la Stidda,
il Mannino ebbe a subire nel 1992 una serie di atti
intimidatori che, ad avviso dell’accusa, erano da riconnettere alla strategia
stragista di Cosa nostra diretta a punire i politici che avevano fatto promesse
poi non mantenute, com’era avvenuto per Ignazio Salvo e per l’on. Lima.

La sentenza di primo grado, alla luce
delle propalazioni di Brusca, uno dei principali protagonisti di quella
strategia, ha ritenuto provato che l’attentato dinamitardo al comitato
elettorale fosse finalizzato a depistare le indagini, nel
senso di far ritenere che quello che stava avvenendo in Sicilia in quegli anni
avesse a che fare con la politica e non con la mafia, mentre la causale del
progetto di sopprimere il Mannino veniva individuata nella esigenza di punire
un politico che nel corso della sua carriera aveva avversato pubblicamente Cosa
nostra, dimenticando di possedere anch’egli un’oscura dimensione illecita,
costituita dal clientelismo e dalle corruzioni riferibili al mondo
dell’imprenditoria: dichiarazioni queste collimanti con l’altra del medesimo
collaboratore, secondo cui il Mannino non aveva mai posto in essere specifiche,
concrete e precise condotte di favore per Cosa nostra.

i) I rapporti con la “Stidda”. Secondo l’accusa (sostenuta sulla base delle
dichiarazioni dei collaboranti Benvenuto Croce, Calafato, Salemi
Pasquale e Giuseppe, Canino, Sciabica e Siino) il
Mannino, per il tramite di Enzo Lattuca,
avrebbe tenuto nei primi anni ’90 rapporti con esponenti di vertice della Stidda, organizzazione mafiosa capeggiata da Giuseppe Grassonelli e operante nell’agrigentino,
ottenendo l’appoggio elettorale per sé e per suo fratello Pasquale nelle
competizioni del 1991-1992 e favorendo, come contropartita, il sodalizio
nell’aggiudicazione di appalti per opere pubbliche.

Il giudice di primo grado, premesso
che la Stidda
– formata da vari soggetti, anche fuoriusciti da Cosa nostra, e costituitasi
nella Sicilia sud-orientale a seguito della strage di Porto Empedocle del
21/9/1986 dopo l’alleanza di Grassonelli con il clan gelese Paolello – era
un’organizzazione di stampo mafioso autonoma e antagonista rispetto a Cosa
nostra (a proposito della feroce guerra di mafia tra le due associazioni almeno
fino a tutto il 1992 e a contestazione della tesi accusatoria per cui la Stidda, prima antagonista, si sarebbe poi
omologata a Cosa nostra, sono state citate le relative sentenze di merito e di
legittimità), ha escluso che eventuali condotte del Mannino in favore di Grassonelli, arrestato nel novembre del 1992, o di altri
esponenti di quel sodalizio fossero sussumibili
nell’imputazione contestata come concorso esterno nell’associazione mafiosa
Cosa nostra. Si è anche ricordato che Siino,
riferendo del colloquio avuto in carcere con Grassonelli
nel 1994 circa l’attentato di Sciacca del dicembre 1990, ha affermato che lo
stesso non era riconducibile al boss saccense Di
Ganci, bensì allo stesso Grassonelli, che intendeva
far credere all’imputato che la colpa fosse di Cosa nostra e così orientarlo
contro questa organizzazione ed a favore della propria.
D’altra parte, Siino, Benvenuto Croce e Salemi, pur ammettendo che si fosse realizzata una sorta di
pace armata tra i due sodalizi nella fase di disarticolazione della Stidda per l’arresto nel 1993 di molti suoi componenti, ne hanno escluso ogni ipotesi di integrazione o
fusione in Cosa nostra.

Si è aggiunto che, anche a voler
ritenere provata la “disponibilità” o “vicinanza” dell’imputato al clan Grassonelli e in particolare alla persona di quest’ultimo sulla base delle propalazioni dei collaboranti
e dell’esame dei tabulati del cellulare in uso allo stesso (da cui sarebbero
partite numerose telefonate alla segreteria palermitana del politico
quando questi era però fuori sede), sarebbe mancata la prova di
effettive controprestazioni all’appoggio elettorale degli stiddari
nei primi anni ’90, non essendo state evidenziate condotte concrete di
aggiudicazione di appalti a persone o imprese legate al sodalizio o a Grassonelli. Anche in relazione ad alcuni, modesti favori a
beneficio di singoli esponenti, le indicazioni dei collaboratori si erano
rivelate confuse e non riscontrate, mentre, per l’episodio narrato da Benvenuto
Croce del preteso avvicinamento del Mannino da parte di Grassonelli
per l’aggiustamento del processo Livatino, si è
puntualizzato che il Mannino avrebbe comunque dato una
risposta negativa all’interlocutore.

l) Le dichiarazioni dei collaboratori Spatola, Sciabica e Messina. Secondo Spatola il Mannino, a quel tempo Ministro, si
sarebbe attivato sfruttando le sue amicizie istituzionali (il procuratore della
Repubblica di Sciacca, Messana,
ed il generale Subranni, comandante del Ros) per l’archiviazione delle indagini scaturite dalle
rivelazioni del collaboratore, il quale nel 1991 aveva accusato l’imputato di
avere tenuto relazioni collusive con Cosa nostra. La sentenza di primo grado ha
escluso la valenza indiziante di queste dichiarazioni sul rilievo che il P.M.
non aveva neppure chiesto che Spatola, il quale aveva poi indirizzato al
Mannino una lettera di scuse, fosse esaminato al
dibattimento, mentre restava incensurabile l’interesse dell’imputato ad
attivare i canali istituzionali per tutelare la propria immagine e far emergere
la verità dei fatti.

Parimenti inattendibili, e in
contrasto con le altre fonti probatorie anche interne ai vertici di Cosa
nostra, sono state considerate le propalazioni indirette di Sciabica, associato
alla Stidda, il quale avrebbe appreso da altri stiddari che le imprese Salamone
e Vita sarebbero state imposte sul mercato degli appalti dai vertici corleonesi di Cosa nostra mediante un diretto
coinvolgimento del Mannino, organicamente inserito nel sodalizio mafioso.

In riferimento alle dichiarazioni de relato di Messina, il quale aveva affermato di aver saputo
da due elementi di spicco della mafia agrigentina, De
Caro e Guarnieri, che il Mannino era un “mafioso”,
“vicino alle posizioni” di Cosa nostra, esse, non
essendo accompagnate da indicazioni volte a specificarne il contenuto in
termini di condotte dirette ad agevolare il rafforzamento del sodalizio, non potevano
esser valorizzate come prova del reato contestato.

m) I risultati elettorali. Anche per
quanto riguardava i risultati elettorali conseguiti dal Mannino nel corso della
sua lunga carriera politica, la sentenza di primo grado ha messo
in rilievo come, nonostante i comprovati contatti con esponenti mafiosi agrigentini e palermitani, non vi era prova di alcuna
controprestazione da parte dell’imputato all’appoggio eventualmente fornitogli
dall’organizzazione mafiosa, che da sempre votava e faceva votare per il
partito di maggioranza relativa, mentre non era affatto verificabile in termini
concreti la misura dell’incidenza delle scelte della mafia sulle fortune
elettorali dell’uomo politico. Avuto riguardo ai tabulati delle preferenze
riportate nelle diverse circoscrizioni in cui dal 1967 al 1992 era stato
candidato, risultava invalidata la tesi di matrice
sociologica di una corrispondenza tra successo elettorale e appoggio mafioso,
essendosi rilevato ad esempio che il Mannino conseguì un apprezzabile successo
nelle elezioni del 1987 nonostante che, sulla scorta di varie dichiarazioni di
collaboratori, proprio in quell’anno Cosa nostra
avesse dato indicazione di votare per il partito socialista, per avere la
componente democristiana tradito le aspettative della mafia.

Il Tribunale, attraverso la puntuale
analisi delle risultanze processuali, perveniva
pertanto alla conclusione che la prova della fondatezza dell’ipotesi
accusatoria non era stata raggiunta. Non era emerso con sufficiente margine di
certezza che l’imputato dall’esterno avesse realizzato
condotte consapevoli di contributo materiale che, al di là dell’interesse
personale di singoli personaggi mafiosi, fossero state di rilevanza causale in
ordine al rafforzamento di Cosa nostra; né tanto meno poteva sostenersi che
esse avessero il carattere della “infungibilità” o fossero state compiute in un
momento di “fibrillazione” della vita del sodalizio criminoso. La mancata concretizzazione probatoria di tali condotte e l’autonomo
movente elettorale-clientelare o di tipo corruttivo
impedivano qualsiasi connessione logica e causale con i rapporti di “amicizia”,
“vicinanza” e “disponibilità”, pure incontrovertibilmente
instaurati e coltivati dal Mannino con taluni esponenti agrigentini
e palermitani dell’organizzazione mafiosa.

2. — Disposta la riapertura
dell’istruzione dibattimentale, mediante l’acquisizione delle sentenze
irrevocabili riguardanti rispettivamente i procedimenti Rizzani
De Eccher (di assoluzione
del Mannino per il reato di corruzione e di estinzione per amnistia del reato
di finanziamento illecito dei partiti), Vita (di assoluzione dell’imputato dal
reato di partecipazione mafiosa) e Aragona, e l’audizione degli imputati di
reato connesso Brusca, Giuffré e Aragona, la Corte di appello di Palermo,
con sentenza dell’11/5-5/11/2004, all’esito di una rinnovata disamina dei
fatti, giustificata dall’asserita “destoricizzazione
e destrutturazione” del compendio probatorio effettuata dal primo giudice,
ribaltava la pronunzia assolutoria e dichiarava Mannino colpevole dell’unico
reato permanente di cui agli artt. 110 e 416 bis cod.
pen. protrattosi fino al
marzo 1994, in
esso assorbite le condotte contestate per il periodo antecedente al 28/9/1982,
e, negate le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di anni 5 e mesi 4
di reclusione.

Esclusa l’inammissibilità
dell’appello del P.M. per difetto di specificità delle censure, la Corte palermitana enunciava
in premessa i parametri giurisprudenziali presi in considerazione per il reato
di concorso esterno in associazione mafiosa, sostenendo di condividere i
principi affermati dalle Sezioni Unite nelle sentenze Demitry
e Carnevale, e, movendo dal rilievo critico del metodo atomistico seguito dal
primo giudice, poiché difettava la valutazione sintetica complessiva degli
elementi indiziari mentre taluni episodi sarebbero
rimasti “inesplorati”, ne inferiva la necessità della integrale rilettura delle
prove per verificarne l’effettiva portata.

Erano così ricostruiti la carriera e
il ruolo politico di Mannino, quale esponente della Democrazia Cristiana e uomo
di Governo, regionale e nazionale, ed erano rivisitate le vicende già oggetto
di disamina da parte del giudice di primo grado, la cui interpretazione veniva integralmente rovesciata in chiave accusatoria.

In particolare, erano ritenute
utilizzabili, per trarne elementi per la formazione del convincimento
giudiziale, le sentenze di primo grado nelle quali risultava
accertata la mafiosità di taluni soggetti che avevano
avuto consistenti rapporti con Mannino (Ferraro e Inzerillo). Era anche utilizzata la sentenza non
irrevocabile del Tribunale di Palermo 2/7/2002 di condanna di Salamone per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., nella quale era descritto il
sistema dei rapporti tra politici, imprenditori e mafia nella gestione degli
appalti pubblici, ripercorrendosi (anche alla luce delle propalazioni di Giuffrè che aveva riferito quanto sentito in proposito da Bernardo Provenzano) il passaggio
dal vecchio metodo “parassitario e vessatorio” alla ristrutturazione verticistica di Cosa nostra con il coinvolgimento
“simbiotico” del livello politico, individuato nelle persone di Mannino, Lima, Nicolosi e Sciangula, la cui
contropartita era costituita dai voti procurati dalla mafia mediante il
controllo del territorio e dalle tangenti versate dagli imprenditori.

Dopo avere preso in considerazione
ciascun elemento indiziante, la
Corte passava alla valutazione complessiva degli stessi,
avvalendosi anche dell’analisi storico-sociologica del fenomeno della
“contiguità compiacente”, col risultato di trasformare la valenza del singolo
fatto, in sé spiegabile come episodio di malcostume e frutto di
attività politico-clientelare o corruttiva, come sintomatico di un
fascio di relazioni di scambio dipendente da un accordo “occulto”, comportante
l’adesione del Mannino alle finalità dell’associazione mafiosa secondo lo
schema del concorso esterno. Ed il patto, così ricostruito probatoriamente, era ritenuto penalmente rilevante ai sensi
degli artt. 110 e 416 bis cod. pen., ravvisandosi l’idoneità
causale della disponibilità manifestata dal politico rispetto al fine di
consolidamento del livello di efficienza del sodalizio criminoso.

Elencate quindi le condotte di adempimento della promessa fatta dal Mannino in occasione
del patto elettorale (l’assunzione di Mortillaro; il
finanziamento per la cantina di Bono; i contatti con Siino
per il tramite di Vita; la costante attenzione per gli appalti a favore delle
imprese Salamone e Vita nella vicenda Sitas e nella realizzazione di altre opere pubbliche;
l’attribuzione di posti di sottogoverno a Ferraro e
ad esponenti del gruppo palermitano; l’appoggio elettorale a Inzerillo; gli stretti rapporti con Pennino, organico a
Cosa nostra; i contatti con il clan Grassonelli) e
individuata nella stagione delle stragi la crisi del patto, la conclusione era
che il Mannino aveva favorito Cosa nostra, senza soluzione di continuità, fin
dall’accordo del 1981, susseguendosi da allora una serie di eventi indicativi
della sua persistente efficacia nel tempo.

3. — La difesa del Mannino ha
proposto ricorso per cassazione chiedendo l’annullamento senza rinvio della
sentenza di appello e formulando a sostegno della
richiesta una serie consistente di motivi.

In rito, è stata riproposta
la questione della inammissibilità, per difetto di specificità dei motivi,
dell’appello del P.M. ed eccepita l’illegittimità costituzionale dell’art. 570
cod. proc. pen.
per contrasto con le garanzie del diritto di difesa e del contraddittorio nella
formazione della prova, garanzie assicurate dagli artt.
24 comma 2 e 111 Cost.,
nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero non possa proporre
appello avverso la sentenza assolutoria di primo grado, lamentando altresì, in
collegamento con la censura di incostituzionalità, il difetto di motivazione
con riferimento all’omessa valutazione di prove decisive indicate nelle memorie
depositate per contrastare il gravame del P.M..

E’ stata anche dedotta la nullità
della sentenza per violazione degli artt. 111 Cost., 190, 234, 238 bis e 526, in
relazione all’art. 178 lett. c) cod. proc. pen., essendo state prese in
esame, senza essere state ritualmente acquisite, e
utilizzate nel merito della ricostruzione e valutazione probatoria dei fatti,
le sentenze non ancora irrevocabili di condanna per il reato di cui all’art.
416 bis cod. pen., 2/7/2002 del Tribunale di Palermo
a carico di Salamone, 20/11/2000 del Tribunale di
Palermo a carico di Inzerillo (seguita tuttavia dalla
pronunzia assolutoria di secondo grado 3/12/2004) e 10/7/2003 del Tribunale di Caltanissetta nei confronti di Ferraro.

La difesa ha censurato inoltre:
l’erronea applicazione della legge penale con riferimento ai presupposti della
condotta qualificata come concorso esterno in associazione mafiosa, in punto di efficacia causale del contributo e di dolo del
concorrente; l’erroneità del metodo di valutazione globale della prova
dichiarativa, pure in assenza dei requisiti di certezza e precisione dei
singoli elementi indiziari e di obiettivi riscontri individualizzanti per le
propalazioni dirette e de relato dei collaboratori;
la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione desumibile dalla
mancanza di linearità e dalla disordinata trattazione dei temi in discussione.

L’illogicità e l’interna
contraddittorietà della motivazione è stata denunziata
anche in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche, negate nonostante la scelta di determinare la pena nel minimo edittale.

In subordine, si è dedotto che, in
violazione della disciplina della successione delle
leggi nel tempo, l’art. 416 bis cod. pen. sarebbe stato erroneamente applicato anche ai fatti
anteriori all’entrata in vigore della norma incriminatrice
(art. 1 l.
13/9/1982, n. 646), sulla base di una indebita equiparazione della fattispecie
di concorso esterno al reato di partecipazione associativa, solo quest’ultimo essendo di natura permanente. Lo scambio
elettorale politico-mafioso risalente al 1981 sarebbe ricompreso,
d’altra parte, nella previsione dell’ultimo inciso del terzo comma dell’art.
416 bis cod. pen.,
introdotto, insieme con l’art. 416 ter, solo ad opera
del d.l. n. 306/1992 conv. in
l. n. 356/1992: donde la non punibilità della condotta
precedente l’entrata in vigore della norma incriminatrice.

Con un’articolata memoria, dal
contenuto essenzialmente riepilogativo dei motivi di ricorso, la difesa ha
infine sollecitato una pronuncia delle Sezioni Unite che definisse
i contorni della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa nel
caso del politico che stringe un accordo elettorale con la mafia, e ha
diffusamente argomentato le ragioni della richiesta di annullamento senza
rinvio della sentenza impugnata, sull’assunto che le situazioni di fatto e
l’intero materiale probatorio ad esse pertinente fossero già stati scandagliati
e valorizzati al limite massimo, sì da potersi escludere radicalmente la
responsabilità dell’imputato “oltre il ragionevole dubbio”.

A seguito di tale motivata richiesta
il Primo Presidente, rilevato che tra le varie questioni prospettate nel
ricorso figuravano anche quelle, controverse e di speciale importanza, aventi
ad oggetto da un lato i requisiti per la configurabilità
del concorso esterno del politico nell’associazione mafiosa (nel caso
paradigmatico del patto di scambio tra l’appoggio elettorale da parte
dell’associazione e l’appoggio promesso a questa da parte del candidato) e
dall’altro i limiti di utilizzabilità probatoria delle
sentenze pronunciate in procedimenti diversi e non ancora divenute
irrevocabili, con decreto 30/3/2005 ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite
fissando per la discussione l’odierna udienza pubblica.

Considerato in diritto

1. — Il ricorrente ha riproposto innanzitutto la questione di inammissibilità (o
solo parziale ammissibilità nei limiti del devolutum)
dell’appello del pubblico ministero, per difetto di specificità dei motivi, sul
rilievo che il P.M. aveva genericamente censurato “tutti i capitoli della
sentenza impugnata” per l’asserita atomizzazione e frammentazione del materiale
probatorio, sostenendo la critica con riferimento solo a taluni episodi esemplificativamente citati per argomentare la sussistenza
degli estremi del reato contestato: il che avrebbe prodotto l’effetto di
circoscrivere la materia devoluta alla cognizione del giudice dell’appello, con
la contestuale implicita rinuncia alla verifica della valenza probatoria di
tutti gli elementi di fatto non espressamente citati, da reputarsi ormai
coperti da giudicato.

E siffatto onere di specificazione
dei punti della sentenza da devolvere al giudice di appello,
insieme con i motivi di dissenso, non poteva ritenersi assolto dal pubblico
ministero attraverso il rinvio per relationem ad un
atto (la memoria riepilogativa depositata nel giudizio di primo grado)
antecedente alla pronuncia della sentenza, non essendo consentita la mera riproposizione di argomenti vanamente prospettati al primo
giudice.

Il motivo di impugnazione
è privo di pregio poiché, come ha esattamente rilevato la Corte palermitana, risulta
devoluto dall’appello del P.M. al giudice di secondo grado il punto cruciale
della sussistenza o meno del contestato reato di concorso esterno in
associazione mafiosa, mediante specifiche e articolate critiche al metodo di
valutazione del compendio probatorio del primo giudice, a prescindere dalle
singole argomentazioni logiche portate a sostegno della tesi accusatoria e del petitum oggetto del gravame (Sez.
Un., 27/9/1995, Timpanaro, Cass. pen.
1996, 1398) e nonostante l’improprio richiamo dell’appellante
ad una memoria redatta in prime cure, funzionale alla rilettura dei singoli episodi
probatoriamente valorizzati come sintomatici della
contiguità mafiosa dell’imputato.

D’altra parte è pacifico in dottrina
e in giurisprudenza che l’appello del pubblico ministero contro la sentenza
assolutoria emessa dal giudice del dibattimento, salva l’esigenza di contenere
la pronuncia nei limiti dell’originaria contestazione, ha effetto “pienamente devolutivo”, attribuendo tradizionalmente al giudice ad quem gli ampi poteri decisori
elencati negli artt. 515 comma
2 cod. proc. pen.
1930 e 597 comma 2 lett. b) del vigente codice di rito (Sez.
Un., 31/3/2004, Donelli, Cass. pen.
2004, 2746). Ciò comporta, da un lato, che il giudice dell’appello è
legittimato a verificare tutte le risultanze
processuali e a riconsiderare anche i punti della motivazione della sentenza di
primo grado che non abbiano formato oggetto di specifica critica, non essendo
vincolato alle alternative decisorie prospettate con
i motivi di appello, e dall’altro che l’imputato è rimesso nella fase iniziale
del giudizio e può riproporre, anche se respinte, tutte le istanze difensive
che concernono la ricostruzione probatoria del fatto e la sussistenza delle
condizioni che configurano gli estremi del reato, in riferimento alle quali il
giudice dell’appello non può sottrarsi all’onere di esprimere le sue
determinazioni.

2. — Il ricorrente ha eccepito
altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 570 (rectius:
593 comma 1) cod. proc. pen., per contrasto con le garanzie del diritto di
difesa e del contraddittorio nella formazione della prova assicurate dagli artt. 24 comma 2 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero
non possa proporre appello avverso la sentenza assolutoria di primo grado. Si
sostiene che l’appello del pubblico ministero sia privo di rango costituzionale
e contrasti con i diritti difensivi quando viene
esercitato contro una sentenza di assoluzione poiché il gravame, che nello
stesso caso è precluso all’imputato, determina il devolutum
impedendo il rilievo di eventuali nullità o profili di incompetenza sollevati e
respinti dal primo giudice e l’escussione di prove a discarico non ammesse in
prime cure né riproposte in appello. Quanto al denunziato sacrificio del
contraddittorio nella formazione della prova, nel giudizio di
appello promosso dall’esclusivo gravame del P.M. l’imputato subisce il
controllo che la Corte
effettua sugli atti probatori già acquisiti, senza possibilità di partecipare
alla formazione della conoscenza di quel giudice, col rischio della reformatio in pejus conseguente
al mero esercizio del diritto potestativo del pubblico ministero appellante.

Ritiene il Collegio che i prospettati
dubbi di costituzionalità siano manifestamente
infondati.

Si è già detto che, in virtù del
carattere ampiamente devolutivo del giudizio di appello instaurato a seguito di impugnazione del P.M.
contro la pronunzia assolutoria, l’imputato ha il diritto di riproporre ogni
questione sostanziale e processuale già posta e disattesa in primo grado.

Va inoltre sottolineato
che, nella prospettiva ermeneutica disegnata dalle Sezioni Unite con la
sentenza 30/10/2003, Andreotti (Cass. pen. 2004, 811) in coerenza con le
disposizioni di diritto internazionale pattizio di
cui all’art. 14.5 Patto intern. dir. civ. e pol. ed all’art. 2.2
Protocollo n. 7 Conv. eur. dir. uomo, la garanzia apprestata dall’ordinamento
processuale interno, per la verifica di legittimità della condanna
dell’imputato intervenuta in appello dopo l’assoluzione in primo grado, riveste
carattere “sostanziale” in termini di effettività del sindacato di legittimità
ex art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen., a fronte della mancanza e/o
manifesta illogicità della motivazione della sentenza di condanna derivante
dall’omessa valutazione di prove decisive per il proscioglimento dell’imputato
da parte del giudice di appello e, ancor prima, del giudice di primo grado che
pure lo aveva assolto. Ai fini della rilevabilità del
vizio di prova omessa decisiva, la
Corte di cassazione può e deve fare riferimento, pertanto,
non solo alla sentenza assolutoria di primo grado, ma anche alle memorie ed
agli atti con i quali la difesa, nel contestare il gravame del pubblico
ministero, abbia prospettato al giudice di appello
l’avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e
nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di
primo grado nell’economia di quel giudizio, oltre quelle apprezzate ed
utilizzate per fondare la decisione assolutoria. Con il lineare corollario che
la mancata risposta del giudice di appello alle
argomentazioni svolte dalla difesa nel contraddittorio dibattimentale circa la
portata di decisive risultanze probatorie, conducente all’illegittimo esercizio
del potere demolitorio della sentenza di assoluzione
di primo grado ad opera di un giudice che ha valutato solo il carteggio
processuale, inficia la tenuta “informativa” e “logico-argomentativa”
della sentenza di condanna e, a causa della negativa verifica di corrispondenza
tra il chiesto e il pronunciato, la rende suscettibile di annullamento.

Né va sottaciuto il principio più
volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale il
giudice di appello che riformi totalmente la sentenza
di primo grado, sostituendo all’assoluzione l’affermazione di colpevolezza
dell’imputato, ha l’obbligo di dimostrarne con rigorosa analisi critica
l’incompletezza o l’incoerenza, non essendo altrimenti razionalmente
giustificato il rovesciamento della statuizione assolutoria in quella di
condanna.

Di talché, ferma restando la
discrezionalità delle scelte legislative quanto alla riperimetrazione
delle opzioni decisorie
consentite al giudice di appello, ritiene il Collegio, alla stregua della
formulata soluzione interpretativa, che le fondamentali garanzie di cui agli artt. 24 comma 2 e 111 Cost. attinenti al pieno esercizio
delle facoltà difensive, anche per i profili della formazione della prova nel
contraddittorio fra le parti e dell’obbligo di valutazione della stessa nel
rispetto dei canoni di legalità e razionalità, siano riconosciute ed assicurate
nel giudizio di appello instaurato a seguito
dell’impugnazione del pubblico ministero contro la sentenza assolutoria di
primo grado.

3. — Chiamata a pronunziarsi
sull’appello del pubblico ministero, che aveva censurato la prima decisione per
non avere osservato i principi giurisprudenziali in tema di requisiti della
fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, per essersi
disancorata dai dati certi costituiti dalle plurime e convergenti
dichiarazioni, dirette o de relato, dei collaboratori
e per avere valutato frammentariamente la portata dei numerosi indizi raccolti
a carico dell’imputato, la Corte di appello di
Palermo, criticata la “destoricizzazione e
destrutturazione” del compendio probatorio effettuate dal primo giudice, all’esito
di una rinnovata disamina dei fatti ha dichiarato il Mannino colpevole del
reato di cui agli artt. 110 e 416 bis cod. pen..

Premesso che costituisce un compito
davvero arduo procedere a una ordinata esposizione del
ragionamento probatorio della sentenza di secondo grado per la palese farraginosità dei passaggi argomentativi (taluni temi
vengono prima trattati, poi abbandonati per essere infine ripresi in contesti
diversi e lontani) e per la complessiva disorganicità, anche grafica, della
motivazione sia in fatto che in diritto, se ne segnalano in estrema sintesi i
contenuti, contrapposti al ragionamento del giudice di primo grado.

La
Corte
palermitana, sembrando prestare formale adesione ai parametri giurisprudenziali
fissati per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa dalle sentenze
delle Sezioni Unite 5/10/1994, Demitry e 30/10/2002,
Carnevale, ne ha così illustrato gli elementi costitutivi: – il dolo del
concorrente è quello generico, dato dalla consapevolezza e volontà
dell’efficienza causale del proprio contributo rispetto al conseguimento degli
scopi dell’associazione, anche soltanto nella forma dell’accettazione del
rischio, non quello specifico che caratterizza la posizione del partecipe; – la
prova da acquisire è quella di ogni singolo contributo
apportato dall’agente e della sua portata agevolativa
rispetto agli scopi dell’associazione, non essendo sufficiente la mera
“disponibilità”; – il patto stretto tra esponenti di una cosca e il politico
che si impegni a fornire utilità di tipo economico-imprenditoriale in cambio di
sostegno elettorale appare di per sé idoneo ad integrare la responsabilità per
concorso esterno quando la promessa, per la caratura e l’affidabilità del promittente, sia in grado di determinare un immediato salto
di qualità nel livello di efficienza dell’organizzazione criminale, mentre il
successivo adempimento degli impegni assunti costituisce condotta susseguente
al reato valutabile sotto il profilo probatorio, e parimenti indifferente è
l’esito delle consultazioni elettorali; il reato di cui all’art. 416 ter cod. pen., che punisce la
promessa di voti in cambio di somme di denaro, è un reato di pericolo astratto
che resta integrato senza che occorra la prova che il contributo del politico
abbia avuto efficacia causale per il rafforzamento del sodalizio mafioso.

Quindi, movendo dal rilievo critico
del metodo seguito dal primo giudice, che aveva assolto l’imputato per carenza dell’elemento soggettivo circa la consapevolezza
della mafiosità di taluni soggetti con i quali aveva
avuto significativi rapporti o per insufficienza probatoria della rilevanza
causale di talune condotte ai fini del rafforzamento dell’associazione,
considerate solo come espressione di una politica clientelare e corruttiva, il
giudice di appello ha proceduto all’integrale rilettura degli indizi per
verificarne l’effettiva portata con una valutazione sintetica e aggregata. E,
all’esito di tale operazione, condotta anche mediante il ricorso all’analisi
storico-sociologica del fenomeno criminale “per orientarsi nella zona grigia
della contiguità compiacente”, ha ritenuto che ogni singolo episodio, in sé
spiegabile come frutto di malcostume o di attività
politico-clientelare, fosse in realtà sintomatico di un fascio di relazioni di
scambio dipendenti da un accordo “occulto”, comportante l’adesione del Mannino
alle finalità dell’associazione mafiosa secondo lo schema del concorso esterno.
In particolare, si è affermato che: tra le strategie di
rafforzamento della mafia vi è quella di trarre profitto dalle relazioni
intessute con esponenti del potere politico-amministrativo per il conseguimento
di finanziamenti e appalti, potendo la consorteria a sua volta contare su un
vasto potenziale elettorale; negli anni ’80 il Mannino aveva bisogno di voti
per la sua ascesa politica e ne chiese, in occasione delle consultazioni
regionali e nazionali, ad esponenti mafiosi di spicco agrigentini
e palermitani; dei “favori” fatti dal Mannino hanno parlato taluni
collaboratori di giustizia, riferendosi alla “vicinanza” e “disponibilità” del
politico, assistita dalla consapevolezza e volontà di interagire con
l’associazione mafiosa; in questa prospettiva andava interpretato il patto
stretto nel 1980-1981 tra il Mannino e Pennino, col quale il primo manifestò la
sua “disponibilità” in cambio dell’appoggio elettorale nell’area palermitana,
anche se non erano predeterminate nel dettaglio le controprestazioni in termini
di “favori” all’associazione mafiosa, subordinati alla positività dei risultati
elettorali che arrivarono con notevole incremento nel 1983. Mannino
favorì dunque Cosa nostra senza soluzione di continuità, fin dall’accordo del
1981, susseguendosi da allora una serie di episodi
indicativi della sua persistente efficacia nel tempo, cronologicamente elencati
e qualificati come condotte di adempimento della promessa.

Così ricostruito, il patto elettorale
politico-mafioso è stato ritenuto rilevante ai sensi degli artt.
110 e 416 bis cod. pen.,
essendosi ravvisata l’immediata idoneità causale della “disponibilità” manifestata
dal politico (la cui affidabilità era desumibile dai rapporti da tempo
instaurati con i capi della famiglia agrigentina e
dalla gravità delle reazioni cui sarebbe andato incontro se non avesse tenuto
fede agli impegni) e, con essa, dell’acquisizione di un rapporto privilegiato
con un referente istituzionale (“sicuro punto di riferimento” e “interfaccia
politica” dell’associazione), rispetto al fine di consolidamento e
rafforzamento del livello di efficienza del sodalizio criminoso, che dal patto
trasse linfa vitale quantomeno in alcuni settori di influenza.

Rispetto a siffatto apparato argomentativo la difesa del ricorrente, dopo averne
preliminarmente sottolineato l’adesione acritica alle
tesi del pubblico ministero, la sistematica pretermissione
delle proposizioni difensive, il “disordine”, la “frammentarietà” e la
“prolissità” nella superficiale analisi dei fatti, ha denunziato, con due
motivi di impugnazione, il cui assunto appare sostanzialmente unitario, da un
lato, l’erronea applicazione della legge penale con riferimento ai requisiti
della condotta qualificata come concorso esterno in associazione mafiosa e,
dall’altro, l’inosservanza dei criteri di valutazione della prova dichiarativa,
nonché la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione. E’ stato anche
rilevato che, a differenza della chiara ricostruzione delle vicende effettuata
dai giudici di primo grado all’esito di una complessa e laboriosa istruttoria
dibattimentale, la sentenza impugnata risultava
inficiata dalla disordinata trattazione dei temi e dalla mancanza di linearità
dell’iter logico e argomentativo, che rendeva
incomprensibili e insuscettibili di controllo il
ragionamento probatorio e le modalità di formazione del convincimento del
giudice.

In particolare, a fronte dell’ineccepibile metodo di interpretazione del primo giudice,
coerente ante litteram con i principi poi fissati da Sez. Un., 30/10/2002, Carnevale in tema di efficacia
causale del contributo e di dolo del concorrente, la Corte di appello, con una
confusa e ridondante disamina del patto elettorale politico-mafioso, si sarebbe
discostata da essi e, nell’esprimere un giudizio di disvalore
essenzialmente etico-sociale, avrebbe attribuito alla
“disponibilità” mostrata dal politico nell’incontro con Pennino e Vella, di per sé, rilevanza causale nel determinare
l’immediato salto di qualità del livello di efficienza del sodalizio criminoso,
per la particolare caratura, serietà e affidabilità del politico, senza
verificare l’oggettivo e concreto contributo effettivamente dato al
consolidamento o al rafforzamento del medesimo sodalizio o di un suo
particolare settore. Nella sentenza impugnata si sarebbe altresì affermata la
sufficienza del dolo generico o addirittura eventuale del concorrente,
indipendentemente dalla consapevolezza e volontà di perseguire il programma
criminale dell’associazione mafiosa, nonché sostenuto
che dalle aspettative di “impunità” e “favori” create dalla promessa del
politico il sodalizio avrebbe tratto “sostegno morale”, concorrendo la “carica
psicologica” e il “prestigio” acquisito al rafforzamento della struttura
associativa, sebbene nel capo di imputazione si facesse esclusivo riferimento a
condotte di natura materiale e il concorso morale non avesse mai trovato
ingresso nel processo.

Quanto alle indicazioni di metodo
nella valutazione della prova dichiarativa, il ricorrente ha dedotto che,
mentre la sentenza di primo grado aveva analizzato singolarmente gli elementi
indiziari indicati a sostegno dei temi di accusa,
applicando a ciascuna delle dichiarazioni, dirette o indirette, dei
collaboratori di giustizia le regole stabilite dagli artt.
192 e 195 cod. proc. pen. sulla attendibilità intrinseca ed estrinseca e
sul carattere individualizzante dei riscontri, il giudice di appello, accedendo
alla critica del P.M. di “frammentazione”, “atomizzazione” e “destoricizzazione” delle prove e pervenendo all’indebito
capovolgimento della decisione assolutoria, aveva invece assemblato l’intero
compendio probatorio secondo una lettura totalizzante e d’assieme, corroborata
anche da parametri socio-culturali in tema di “contiguità compiacente”, pure in
assenza di obiettivi riscontri individualizzanti, soprattutto per le
propalazioni de relato dei collaboratori, e della
verifica analitica di certezza, conferenza, gravità e precisione di ciascuno
degli indizi, che deve metodologicamente precedere la sintesi finale degli
stessi in una prospettiva dimostrativa globale.

Il mancato rispetto dei criteri
legali di valutazione della prova in riferimento alle
dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia era censurabile anche perché
le stesse non avevano superato il vaglio di attendibilità all’esito del
contraddittorio in prime cure, sì che la diversa valutazione in senso
favorevole all’accusa imponeva un onere motivazionale particolarmente rigoroso
nell’indicazione delle ragioni del contrario avviso, onere in realtà non
assolto; con riferimento ai collaboranti Brusca e Siino,
l’omissione appariva ancora più grave, posto che le dichiarazioni dei due sulla
collocazione temporale del c.d. accordo del tavolino – 1988 o 1991 – o sulla
genesi mafiosa degli attentati di Sciacca e
sull’incontro col boss Di Ganci erano risultate in contrasto a seguito della
riapertura dell’istruzione dibattimentale. Si sarebbe inoltre fatto largo uso
del criterio secondo cui Mannino “non poteva non conoscere” la mafiosità di alcuni soggetti con i
quali era entrato in contatto (Ignazio e Nino Salvo, Settecasi, Caruana, Mortillaro, Inzerillo, Ferraro ecc.), senza però tenere conto di insuperabili
elementi storici e logici di segno contrario a tale apodittica presunzione,
ovvero utilizzando passaggi argomentativi o valutativi di sentenze non
irrevocabili e neppure acquisite ritualmente al
dibattimento.

4. — Le Sezioni Unite ritengono
innanzi tutto di confermare il principio giurisprudenziale (Sez.
Un., 5/10/1994, Demitry,
Foro it. 1995, II, 422; Sez.
Un., 27/9/1995, Mannino, Cass. pen. 1996, 1087; Sez. Un., 30/10/2002, Carnevale,
Foro it. 2003, II, 453), secondo cui anche per il
delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis cod. pen. è configurabile il concorso
esterno.

Nel tracciare il criterio discretivo
tra le rispettive categorie concettuali della partecipazione interna e del
concorso esterno, si definisce “partecipe” colui che,
risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa
dell’associazione mafiosa, non solo “è” ma “fa parte” della (meglio ancora:
“prende parte” alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso
statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui
si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione
raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate
della medesima.

Di talché, sul piano della dimensione
probatoria della partecipazione rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di
attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della
criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale
della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto
nel tessuto organizzativo del sodalizio. Deve dunque trattarsi di indizi gravi e precisi (tra i quali le prassi giurisprudenziali
hanno individuato, ad esempio, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di
“osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica
di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici,
variegati e però significativi “facta concludentia”) dai quali sia lecito dedurre, senza alcun
automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del
vincolo nonché della duratura, e sempre utilizzabile, “messa a disposizione”
della persona per ogni attività del sodalizio criminoso, con puntuale
riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato
dall’imputazione.

Assume invece la veste di concorrente
“esterno” il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura
organizzativa dell’associazione mafiosa e privo dell’affectio
societatis (che quindi non ne
“fa parte”), fornisce tuttavia un concreto, specifico, consapevole e volontario
contributo, sempre che questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini
della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative
dell’associazione (o, per quelle operanti su larga scala come “Cosa nostra”, di
un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e
sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma
criminoso della medesima.

Può dunque dirsi ormai incontroversa
in giurisprudenza e pressoché unanimemente asseverata dalla dottrina (ma anche
il più recente progetto di riforma del codice penale elaborato nel 2005 dalla
Commissione Nordio estende espressamente, all’art.
47, le disposizioni sul concorso eventuale ai reati associativi, intendendosi
per tali i “reati di associazione criminale” o a
concorso comunque necessario) l’astratta configurabilità
della fattispecie di concorso “eventuale” di persone, rispetto a soggetti
diversi dai concorrenti necessari in senso stretto, in un reato necessariamente
plurisoggettivo proprio, quale è quello di natura
associativa. Ed invero, anche in tal caso la funzione incriminatrice dell’art. 110 cod. pen. (mediante la combinazione della
clausola generale in essa contenuta con le disposizioni di parte speciale che
prevedono le ipotesi-base di reato) consente di dare rilevanza e di estendere
l’area della tipicità e della punibilità alle condotte, altrimenti atipiche, di
soggetti “esterni” che rivestano le caratteristiche suindicate.

Ma siffatta opzione
ermeneutica, favorevole in linea di principio alla configurabilità
dell’autonoma fattispecie di concorso “eventuale “ o “esterno” nei reati
associativi, postula ovviamente che sussistano tutti i requisiti strutturali
che caratterizzano il nucleo centrale significativo del concorso di persone nel
reato. E cioè:

– da un lato, che siano
realizzati, nella forma consumata o tentata, tutti gli elementi del fatto tipico
di reato descritto dalla norma incriminatrice di
parte speciale e che la condotta di concorso sia oggettivamente e
soggettivamente collegata con quegli elementi (arg. ex art. 115 cod. pen., circa la non punibilità del mero tentativo di
concorso, nelle forme dell’accordo per commettere un reato e dell’istigazione
accolta a commettere un reato, non seguite però dalla commissione dello
stesso);

– dall’altro, che il contributo
atipico del concorrente esterno, di natura materiale o morale, diverso ma operante
in sinergia con quello dei partecipi interni, abbia avuto una reale efficienza
causale, sia stato condizione “necessaria” – secondo
un modello unitario e indifferenziato, ispirato allo schema della condicio sine qua non proprio
delle fattispecie a forma libera e causalmente
orientate – per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per
la produzione dell’evento lesivo del bene giuridico protetto, che nella specie
è costituito dall’integrità dell’ordine pubblico, violata dall’esistenza e
dall’operatività del sodalizio e dal diffuso pericolo di attuazione dei
delitti-scopo del programma criminoso.

La particolare struttura della
fattispecie concorsuale comporta infine, quale essenziale requisito, che il
dolo del concorrente esterno investa, nei momenti
della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali
della figura criminosa tipica sia il contributo causale recato dal proprio
comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la
volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione
dell’evento lesivo del “medesimo reato”. E, sotto questo profilo, nei delitti
associativi si esige che il concorrente esterno, pur sprovvisto dell’affectio societatis e cioè della volontà di far parte dell’associazione, sia
altresì consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla
condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e
fini, che lo muovono nel foro interno) e si renda compiutamente conto
dell’efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la
conservazione o il rafforzamento dell’associazione: egli “sa” e “vuole” che il
suo contributo sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma
criminoso del sodalizio.

In merito allo statuto della
causalità, sono ben note le difficoltà di accertamento
(mediante la cruciale operazione controfattuale di
eliminazione mentale della condotta materiale atipica del concorrente esterno,
integrata dal criterio di sussunzione sotto leggi di
copertura o generalizzazioni e massime di esperienza dotate di affidabile
plausibilità empirica) dell’effettivo nesso condizionalistico
tra la condotta stessa e la realizzazione del fatto di reato, come storicamente
verificatosi, hic et nunc, con tutte le sue caratteristiche essenziali,
soprattutto laddove questo rivesta dimensione plurisoggettiva
e natura associativa. E però, trattandosi in ogni caso di accertamento
di natura causale che svolge una funzione selettiva delle condotte penalmente
rilevanti e per ciò delimitativa dell’area
dell’illecito, ritiene il Collegio che non sia affatto sufficiente che il
contributo atipico – con prognosi di mera pericolosità ex ante – sia
considerato idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione
del fatto di reato, qualora poi, con giudizio ex post, si riveli per contro
ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell’evento
lesivo. L’opposta tesi, che pretende di prescindere
dal paradigma eziologico, tende ad anticipare
arbitrariamente la soglia di punibilità in contrasto con il principio di
tipicità e con l’affermata inammissibilità del mero tentativo di concorso.

D’altra parte, ferma restando
l’astratta configurabilità dell’autonoma categoria
del concorso eventuale “morale” in associazione mafiosa, neppure sembra
consentito accedere ad un’impostazione di tipo
meramente “soggettivistico” che, operando una sorta di conversione concettuale
(e talora di sovvertimento dell’imputazione fattuale
contestata), autorizzi il surrettizio e indiretto impiego della causalità
psichica c.d. da “rafforzamento” dell’organizzazione criminale, per dissimulare
in realtà l’assenza di prova dell’effettiva incidenza causale del contributo
materiale per la realizzazione del reato: nel senso che la condotta atipica, se
obiettivamente significativa, determinerebbe comunque nei membri
dell’associazione criminosa la fiduciosa consapevolezza di poter contare sul
sicuro apporto del concorrente esterno, e quindi un reale effetto vantaggioso
per la struttura organizzativa della stessa.

Occorre ribadire
che pretese difficoltà di ricostruzione probatoria del fatto e degli elementi
oggettivi che lo compongono non possono mai legittimare – come queste Sezioni
Unite hanno già in altra occasione affermato (sent.
10 luglio 2002, Franzese, Foro it., 2002, II, 601) – un’attenuazione del rigore
nell’accertamento del nesso di causalità e una nozione “debole” della stessa
che, collocandosi sul terreno della teoria dell’ “aumento del rischio”,
finirebbe per comportare un’abnorme espansione della responsabilità penale. Ed
invero, poiché la condizione “necessaria” si configura come requisito oggettivo
della fattispecie criminosa, non possono non valere per essa
l’identico rigore dimostrativo e il conseguente standard probatorio dell’
“oltre il ragionevole dubbio” che il giudizio penale riserva a tutti gli
elementi costitutivi del fatto di reato.

Si è peraltro sottolineato
da parte delle Sezioni Unite, nella citata sentenza Franzese,
che, attesa la natura preminentemente induttiva dell’accertamento e del
ragionamento inferenziale nel giudizio penale, “il
giudice, pur dovendo accertare ex post, inferendo dalle suddette
generalizzazioni causali e sulla base dell’intera evidenza probatoria
disponibile, che la condotta dell’agente è condizione necessaria del singolo
evento lesivo, è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni
canoni di certezza processuale, conducenti conclusivamente, all’esito del
ragionamento probatorio di tipo largamente induttivo [ispirato ai criteri
valutativi delineati nell’art. 192 commi 1 e 2 e, quanto alla doverosa
ponderazione delle ipotesi antagoniste, nell’art. 546 comma 1 lett. e cod. proc. pen.],
ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da alto grado di credibilità razionale
o conferma dell’ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare: giudizio
[nella specie, quello in ordine alla reale efficacia condizionante della
condotta atipica del concorrente esterno] enunciato anche in termini di elevata
probabilità logica o probabilità prossima alla – confinante con la – certezza
”.

Che il criterio di imputazione
causale dell’evento cagionato dalla condotta concorsuale costituisca il
presupposto indispensabile di tipicità della disciplina del concorso di persone
nel reato e la fonte ascrittiva della responsabilità
del singolo concorrente, secondo il classico modello condizionalistico
della spiegazione causale dell’evento, è infine ribadito tanto dal progetto
2001 della Commissione Grosso quanto da quello 2005 della Commissione Nordio di riforma della parte generale del codice penale.
Nella relazione al primo, in tema di concorso di persone nel reato, si segnala
la specificazione aggiunta all’art. 43 comma 1 – “causalmente
rilevanti per la sua esecuzione” – per sottolineare
“l’elemento fondamentale della efficacia causale rispetto alla realizzazione
del reato che ogni condotta atipica deve in ogni caso possedere”, sì da
“assicurare l’esigenza di provare la realizzazione di un apporto causale
significativo”. Parimenti, nella relazione al secondo
si avverte, nel definire le forme di partecipazione consistenti in specifici
“atti di agevolazione”, che anche per essi “l’art. 43 comma 5 rapporta il
contributo agevolatore alla sua efficacia causale”, in modo da rendere
“l’accertamento del contributo nettamente più concreto perché impone al giudice
di verificare se realmente il singolo concorrente abbia materialmente portato
al fatto un quid pluris (contributo
individualizzante) che abbia effettivamente influenzato il fatto storico”.

5. — Calogero Mannino è imputato del
delitto di concorso eventuale in associazione mafiosa, “per avere – avvalendosi
del potere personale e delle relazioni derivanti dalla sua qualità di esponente di rilievo della Democrazia Cristiana siciliana
– contribuito sistematicamente e consapevolmente alle attività e al
raggiungimento degli scopi criminali di Cosa nostra, mediante la
strumentalizzazione della propria attività politica, nonché delle attività
politiche ed amministrative di esponenti della stessa area, collocati in centri
di potere istituzionale (amministratori comunali, provinciali e regionali) e
sub-istituzionali (enti pubblici e privati), onde agevolare la attribuzione di
appalti, concessioni, licenze, finanziamenti, posti di lavoro ed altre utilità
in favore di membri di organizzazioni criminali di stampo mafioso”.

Il thema decidendum sotteso alla vicenda processuale, che sembra
scontare fin dall’origine l’insufficiente determinatezza nella descrizione fattuale dell’imputazione contestata, riguarda quella
particolare forma di contiguità alla mafia comunemente definita come “patto di
scambio politico-mafioso”. In forza dell’accordo, a fronte del richiesto
appoggio dell’associazione mafiosa nelle competizioni elettorali succedutesi
nel corso della sua carriera locale o nazionale, il personaggio politico, senza
essere organicamente inserito come partecipe nelle logiche organizzatorie
del sodalizio criminoso, s’impegna a strumentalizzare
i poteri e le funzioni collegati alla posizione pubblica conseguente all’esito
positivo dell’elezione a vantaggio dello stesso sodalizio, assicurandone così
dall’esterno l’accesso ai circuiti finanziari e al controllo delle risorse
economiche, ovvero rendendo una serie di favori quale corrispettivo del
richiesto procacciamento di voti.

Chiamate a rispondere al quesito
interpretativo se sia configurabile il concorso
esterno nel reato di associazione di tipo mafioso, nel caso paradigmatico del
patto di scambio tra l’appoggio elettorale da parte della associazione e l’appoggio
promesso a questa da parte del candidato, le Sezioni Unite ne condividono la
soluzione affermativa unanimemente offerta dalla giurisprudenza di legittimità
(Sez. I, 8/6/1992, Battaglini,
Foro it. 1993, II, 133, in una fattispecie
nella quale è stata ravvisata, peraltro, l’ipotesi di partecipazione “interna”
del politico; Sez. V, 16/3/2000, P.G. in proc. Frasca, Foro it.
2001, II, 80; Sez. VI, 15/5/2000, P.M. in proc. Pangallo, rv. 216815; Sez. V, 26/5/2001,
Allegro, rv. 220266; Sez. I, 17/4/2002, Frasca, Foro it.
2003, II, 5; Sez. V, 13/11/2002, Gorgone,
rv. 224274; Sez. I, 25/11/2003, Cito, rv.
229991-993; Sez. I, 4/2/2005,
Micari), anche se necessitano di essere rivisitate e
puntualizzate le ragioni di ordine logico-giuridico che la giustificano.

In linea di principio non può
escludersi, infatti, per questa particolare tipologia di relazioni collusive
con la mafia che anche la promessa e l’impegno del politico di attivarsi, una volta eletto, a favore della cosca mafiosa possano già
integrare, di per sé, gli estremi del contributo atipico del concorrente
eventuale nel delitto associativo, a prescindere dalle successive condotte di
esecuzione dell’accordo valutabili sotto il profilo probatorio.

D’altra parte, la
scelta legislativa di incriminare con la nuova fattispecie dell’art. 416 ter cod. pen. (introdotta
dall’art. 11 ter d.l. n. 306/1992, conv. dalla l. n. 356/1992, in
funzione complementare rispetto al precetto dell’art. 416 bis, comma 3, ultima
parte, al pari inserito dall’art. 11 bis del medesimo decreto legge) l’accordo
elettorale politico-mafioso in termini di scambio denaro/voti non può essere intesa come espressiva dell’intento di limitare solo a
questa fattispecie l’ambito di operatività dei variegati patti collusivi in
materia elettorale con un’associazione mafiosa, negandosi dunque rilievo penale
ad ogni altro accordo diverso da quel tipo di scambio. L’esegesi
storico-sistematica della disposizione incriminatrice
dell’art. 416 ter lascia invero intendere che la
soluzione legislativa – in vece dell’emendamento di largo respiro elaborato al
comitato ristretto della Commissione Giustizia della Camera dei deputati – sia
stata dettata dalla volontà di costruire una specifica e tipica figura, alternativa al modello concorsuale, sì che (come si è già
ritenuto dalle Sezioni Unite, sent. 30/10/2002,
Carnevale, cit.) “la relativa introduzione deve leggersi come strumento di estensione della punibilità oltre il concorso esterno, e
cioè anche ai casi in cui il patto preso in considerazione, non risolvendosi in
contributo al mantenimento o rafforzamento dell’organizzazione, resterebbe
irrilevante quanto al combinato disposto degli artt.
416 bis e 110 cod. pen.”.

S’intende affermare che neppure
un’ampia e diffusa frammentazione legislativa in autonome e tipiche fattispecie
criminose dei vari casi di contiguità mafiosa (com’è avvenuto, ad esempio, sul
terreno del distinto fenomeno terroristico, mediante l’introduzione delle nuove
figure del “finanziamento” di associazioni con
finalità di terrorismo – art. 270 bis comma 1 cod. pen.,
ins. dall’art. 1.1 d.l. n.
374/2001 conv. in l. n.
438/2001 -, ovvero dell’ “arruolamento” e
“addestramento” di persone per il compimento di attività con finalità di
terrorismo anche internazionale – artt. 270 quater e 270 quinquies cod. pen., ins.
dall’art. 15.1 d.l. n. 144/2005 conv.
in l. n. 155/2005 -) sarebbe comunque
in grado di paralizzare l’espansione operativa della clausola generale di
estensione della responsabilità per i contributi atipici ed esterni diversi da
quelli analiticamente elencati, secondo il modello dettato dall’art. 110 cod. pen. sul concorso di persone nel
reato, se non introducendosi una disposizione derogatoria escludente
l’applicabilità della suddetta clausola per i reati associativi.

E però, ammessa l’astratta configurabilità delle regole del concorso eventuale anche
per l’ipotesi di accordo politico-mafioso diverso
dallo scambio denaro/voti, occorre trarne le conseguenze in punto di rigorosa
ricostruzione dei requisiti di fattispecie, con particolare riguardo, oltre che
al dolo, anzitutto all’efficacia causale del contributo atipico del concorrente
esterno.

Non basta certamente la mera
“disponibilità” o “vicinanza”, né appare sufficiente che gli impegni presi dal
politico a favore dell’associazione mafiosa, per l’affidabilità e la caratura
dei protagonisti dell’accordo, per i connotati strutturali del sodalizio
criminoso, per il contesto storico di riferimento e
per la specificità dei contenuti del patto, abbiano il carattere della serietà
e della concretezza. Ed invero, la promessa e l’impegno del politico (ad
esempio, nel campo – pure oggetto dell’imputazione – della programmazione,
regolamentazione e avvio di flussi di finanziamenti o dell’aggiudicazione di appalti di opere o servizi pubblici a favore di
particolari imprese) in tanto assumono veste di apporto dall’esterno alla
conservazione o al rafforzamento dell’associazione mafiosa, rilevanti come
concorso eventuale nel reato, in quanto, all’esito della verifica probatoria ex
post della loro efficacia causale e non già mediante una mera valutazione prognostica di idoneità ex ante (che pure sembra
acriticamente recepita in talune decisioni di legittimità, fra quelle sopra
citate), si possa sostenere che, di per sé, abbiano inciso immediatamente ed effettivamente
sulle capacità operative dell’organizzazione criminale, essendone derivati
concreti vantaggi o utilità per la stessa o per le sue articolazioni settoriali
coinvolte dall’impegno assunto. Il politico, concorrente esterno, viene in tal
modo ad interagire con i capi e i partecipi nel funzionamento
dell’organizzazione criminale, che si modula in conseguenza della promessa di
sostegno e di favori mediante le varie operazioni di predisposizione e
allocazione di risorse umane, materiali, finanziarie e di selezione strategica
degli obiettivi, più in generale di equilibrio degli
assetti strutturali e di comando, derivandone l’immediato ed effettivo
potenziamento dell’efficienza operativa dell’associazione mafiosa con riguardo
allo specifico settore di influenza.

Una volta prospettata l’ipotesi di accusa in riferimento al patto elettorale
politico-mafioso, si rivela quindi necessaria la ricerca e l’acquisizione
probatoria di concreti elementi di fatto, dai quali si possa desumere con
logica a posteriori che il patto ha prodotto risultati positivi, qualificabili
in termini di reale rafforzamento o consolidamento dell’associazione mafiosa,
sulla base di generalizzazioni del senso comune o di massime di esperienza
dotate di empirica plausibilità.

Con l’avvertenza peraltro che,
laddove risulti indimostrata
l’efficienza causale dell’impegno e della promessa di aiuto del politico sul
piano oggettivo del potenziamento della struttura organizzativa dell’ente, non
è consentito convertire surrettiziamente la fattispecie di concorso materiale
oggetto dell’imputazione in una sorta di -apodittico ed empiricamente
inafferrabile- contributo al rafforzamento dell’associazione mafiosa in chiave
psicologica: nel senso che, in virtù del sostegno del politico, risulterebbero
comunque, quindi automaticamente, sia “all’esterno” aumentato il credito del
sodalizio nel contesto ambientale di riferimento (ove tuttavia non si accerti e
si definisca “occulto” l’accordo) che “all’interno” rafforzati il senso di
superiorità e il prestigio dei capi e la fiducia di sicura impunità dei
partecipi.

In ordine al quesito interpretativo riportato in
premessa e sottoposto all’esame delle Sezioni Unite, dev’essere
pertanto enunciato, a norma dell’art. 173.3 disp. att. cod. proc. pen., il seguente principio di
diritto: “E’ configurabile il concorso esterno nel reato di associazione di
tipo mafioso nell’ipotesi di scambio elettorale politico-mafioso, in forza del
quale il personaggio politico, a fronte del richiesto appoggio
dell’associazione nella competizione elettorale, s’impegna ad attivarsi una
volta eletto a favore del sodalizio criminoso, pur senza essere organicamente
inserito in esso, a condizione che:

a) gli impegni assunti dal politico,
per l’affidabilità dei protagonisti dell’accordo, per i caratteri strutturali
dell’associazione, per il contesto di riferimento e
per la specificità dei contenuti, abbiano il carattere della serietà e della
concretezza;

b) all’esito della verifica
probatoria ex post della loro efficacia causale risulti
accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità,
che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e
significativamente, di per sé e a prescindere da successive ed eventuali
condotte esecutive dell’accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle
capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni
settoriali”.

6. — Orbene, ritiene il Collegio che
le censure della difesa involgenti la congruenza giuridica e logica della sentenza
impugnata siano fondate, atteso che i principi
giurisprudenziali sopra enunciati in tema di disciplina normativa della
fattispecie concorsuale, ai quali la Corte palermitana pure ha affermato in
premessa di volersi programmaticamente ispirare,
risultano per contro sistematicamente pretermessi o
esplicitamente inosservati in numerosi e cruciali snodi argomentativi della
motivazione.

Quanto al momento rappresentativo ed
a quello volitivo dell’elemento soggettivo del reato, si è già detto che il
dolo deve investire sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice sia il contributo causale recato dalla
propria condotta alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione
mafiosa, ben sapendo e volendo il concorrente esterno che il suo apporto è
diretto alla realizzazione, anche parziale, del
programma criminoso del sodalizio. Ma, a fronte del duplice coefficiente
psicologico del dolo come sopra delineato, restano
ambigue le soluzioni prospettate nella sentenza di appello, il cui itinerario argomentativo anche su tale punto si rivela dubbio e
incerto, fino a tendere in taluni passi ad una connotazione dell’atteggiamento
soggettivo addirittura nella forma meno intensa del dolo “eventuale”, inteso
come mera accettazione da parte del concorrente esterno del rischio di
verificazione dell’evento, ritenuto solamente probabile o possibile insieme ad
altri risultati intenzionalmente perseguiti. Operazione questa che, oltre che
difficoltosa sul terreno della dimostrazione probatoria per il carattere ipotetico
dell’accertamento, si palesa fortemente censurabile,
dovendosi ancora una volta sottolineare l’esigenza concettuale – in funzione
della rilevata estensione dell’area della tipicità e della punibilità a
condotte altrimenti atipiche – che la realizzazione del fatto tipico mediante
l’evento di conservazione o rafforzamento dell’associazione mafiosa sia
rappresentata e voluta dal concorrente esterno, nel senso sicuramente più
pregnante che l’obiettivo del verificarsi del risultato dell’azione criminosa sia
accettato e perseguito dall’agente a prescindere dagli scopi ulteriori o ultimi
avuti di mira.

Risultano altresì del tutto omesse dal giudice
di appello sia l’indagine sui contenuti oggettivi dell’accordo elettorale
politico-mafioso, che è rimasto indefinito quanto alla natura degli specifici
impegni assunti dal Mannino a sostegno di Cosa nostra, sia la verifica ex post
della positiva rilevanza causale del promesso aiuto per la conservazione o il
rafforzamento dell’associazione mafiosa, in termini di logica inferenza
probatoria dell’effetto di potenziamento delle capacità e strategie operative
della medesima.

Da un lato sembrano indeterminate le
concrete linee dell’apporto del politico, al di là dell’assicurazione
di una generica “disponibilità” o “vicinanza”, di continuative e stabili
relazioni personali con esponenti della mafia agrigentina
e palermitana, di incontri e frequentazioni giuridicamente indifferenti o di
ambigua decifrazione sul piano della “contiguità”. Dall’altro, con riferimento
alla mera idoneità ex ante del patto – che si definisce “occulto” – per il
rafforzamento della struttura associativa e ad una sorta di “sostegno morale”
da esso derivante, si sottolineano la previsione di
“favori” nei vari settori di interesse del sodalizio e la “carica psicologica
dell’intera organizzazione” per il “rinnovato prestigio criminale acquisito” e
per l’ “aspettativa di impunità”. Concetti, questi, fluidi e virtuali dalla cui
vaghezza semantica e retorica non sembra lecito, a ben vedere, trarre solide conclusioni
probatorie in tema di concorso esterno in associazione mafiosa secondo massime di esperienza empiricamente controllabili.

7. — La sentenza di colpevolezza
poggia inoltre su una ratio decidendi che, oltre a
rappresentare il frutto di vistose violazioni sia dei
canoni sostanziali che di quelli processuali, evidenzia una grave frattura
logica del ragionamento probatorio conducente al rovesciamento della decisione
assolutoria, in un quadro espositivo graficamente e logicamente sconnesso,
caratterizzato da percorsi frammentari e itinerari “carsici”, le cui linee argomentative sono di difficile identificazione e
interpretazione.

Il vizio del ragionamento giudiziale
è reso innanzi tutto palese dal fatto che il convincimento di responsabilità
dell’imputato si è formato anche mediante l’utilizzo, nella valutazione del
compendio probatorio, di sentenze non definitive pronunciate da altri giudici
penali.

In effetti, oltre le due sentenze
irrevocabili prodotte dalla difesa nel corso della rinnovata istruzione
dibattimentale (Trib. Palermo 1/3/2000, di assoluzione del Mannino dal reato di corruzione; Trib. Palermo 22/7/2002, di assoluzione del Vita dal reato
di concorso esterno in associazione mafiosa), viene diffusamente citata in
motivazione anche la sentenza non definitiva del Tribunale di Palermo 2/7/2002
di condanna di Salamone ed altri per il reato di cui
all’art. 416 bis cod. pen., traendone argomenti per
descrivere le varie fasi del sistema di intercettazione degli appalti pubblici,
in base all’accordo del tavolino tra mafia, imprenditori e politici, e ritenere
provato l’attivo coinvolgimento in esso del Mannino. Sono state ritenute
inoltre acquisibili e utilizzabili, non solo come attestato
del fatto processuale dalle stesse rappresentato ma anche per trarne elementi
di prova in merito agli aspetti di contiguità mafiosa delle condotte del
Mannino, le sentenze non definitive di condanna di Inzerillo
e Ferraro (Trib. Palermo,
20/11/2000, riformata però in appello in senso assolutorio con sentenza
pronunciata il 3/12/2004 nelle more del presente giudizio, e rispettivamente Trib. Caltanissetta, 10/7/2003),
nelle quali risultava accertata la mafiosità di
soggetti che rivestivano una centrale importanza nella ricostruzione del
contributo causale del Mannino all’associazione mafiosa per le consistenti
relazioni con essi intessute.

Orbene, la difesa del ricorrente
deduce in proposito la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 111 Cost.,
190, 234, 238, 238 bis e 526,
in relazione all’art. 178 lett. c) cod. proc. pen.,
ossia per inosservanza del canone interpretativo relativo alla acquisizione e
utilizzabilità di provvedimenti giudiziari non definitivi, per un duplice
ordine di ragioni: per avere la
Corte preso in esame le citate sentenze di primo grado senza
che fosse dato rintracciare nei verbali di udienza un formale provvedimento
acquisitivo delle medesime, e quindi in violazione del principio del
contraddittorio; per avere la
Corte utilizzato tali sentenze non definitive, non come
documenti che attestassero l’esistenza del fatto storico della decisione e dei
caratteri essenziali della stessa, bensì come mezzo di prova “completo”, nel
merito della ricostruzione dei fatti e della valutazione probatoria di quei
giudici e, per giunta, senza neppure la verifica critica prescritta dall’art.
238 bis per le sentenze irrevocabili.

Le censure del ricorrente sono
fondate sotto entrambi i profili.

Osserva innanzi tutto il Collegio che
nel giudizio di appello l’acquisizione di documenti è
senz’altro rituale senza che sia necessaria un’apposita ordinanza che disponga
a tal fine la rinnovazione parziale del dibattimento (Cass.,
Sez. VI, 24/11/1993, De Carolis,
rv. 197263; Sez. I, 23/9/1998, Cassandra, rv.
212121; Sez. VI, 10/7/2000, D’Ambrosio, rv. 217993; Sez.
VI, 2/2/2004, Agate, rv. 228657, per le
sentenze irrevocabili; Sez. V, 22/4/2004, Communara, rv. 230238, per le
sentenze non irrevocabili). Resta pur sempre ineludibile,
tuttavia, che il documento venga legittimamente
acquisito al fascicolo per il dibattimento nel contraddittorio fra le parti,
derivandone ex adverso, in caso di privata conoscenza
del giudice non mediata dalla partecipazione dialettica delle parti alla
formazione della prova, l’inutilizzabilità probatoria dello stesso ai fini
della deliberazione secondo il chiaro disposto dell’art. 526 comma 1 cod. proc. pen..

Sul distinto tema dei limiti di efficacia dimostrativa e di utilizzabilità delle sentenze
pronunciate in procedimenti penali diversi e non ancora divenute irrevocabili
si sono invece delineati due contrastanti indirizzi interpretativi nella
giurisprudenza della Corte di cassazione. Secondo un primo orientamento, esse
costituiscono prova solo dei fatti documentali rappresentati – ad esempio, che
un certo imputato sia stato sottoposto a procedimento penale e che la sua
posizione sia stata definita in un certo modo – e non della ricostruzione dei
fatti accertati nel giudizio e della valutazione probatoria degli stessi da
parte di quel giudice, atteso che tale valore
probatorio è riconosciuto dall’art. 238 bis solo alle sentenze irrevocabili (Sez. II, 12/3/1996, Lento, Cass. pen.
1997, 1762; Sez. VI, 7/7/1999, Arcadi, rv. 215266; Sez.
IV, 5/12/2000, Reina, rv. 218315; Sez. IV, 11/5/2004, Tahir, rv. 228936). A tale orientamento si contrappone l’altro, di
matrice sostanzialista, secondo cui non può
escludersi che il giudice, in base al principio del libero convincimento, possa
comunque trarre dal provvedimento elementi di giudizio
finalizzati all’accertamento della verità (Sez. II,
16/1/1996, Romeo, rv. 204767; Sez.
III, 4/12/1996, Eviani, rv.
207300; Sez. I, 2/5/1997,
Dragone, rv. 208573; Sez.
VI, 2/5/1998, De Michelis, rv.
211999; Sez. II, 5/5/2003, Passalacqua, rv. 225157; Sez. V, 22/10/2003, Leoni, rv. 226839; Sez. V, 26/10/2004, P.G. in proc. Tripodi, rv.
230457).

Le Sezioni Unite condividono la prima
e più rigorosa soluzione ermeneutica sul rilievo che le
sentenze non irrevocabili – delle quali è certamente ammissibile la produzione
e l’acquisizione al pari degli altri documenti ex artt.
234 comma 1 e 236 -, siccome non ancora assistite dalla intangibilità
del decisum, sono idonee, in ragione dell’oggetto
della rappresentazione incorporata nella scrittura, a documentare il (e ad
essere utilizzate come prova extra- e pre- costituita
limitatamente al) mero fatto storico dell’esistenza della decisione e le
scansioni delle relative vicende processuali, ma non la ricostruzione, né il
ragionamento probatorio sui fatti oggetto di accertamento in quei procedimenti,
inerenti più propriamente alla regiudicanda ancora in
discussione, per la cui valutazione soccorre lo specifico modulo acquisitivo
dei verbali di prove di altri procedimenti predisposto dall’art. 238 del codice
di rito.

A questa regola di indubbia
ragionevolezza sistematica deroga infatti, limitatamente alle sentenze
irrevocabili, la disposizione dell’art. 238 bis dettata da esigenze
eminentemente pratiche di coordinamento probatorio fra processi. Norma, questa,
sicuramente eccezionale nell’impianto codicistico
ispirato ai principi di oralità e immediatezza,
rispetto alla quale si sostiene peraltro nella giurisprudenza di legittimità
(ex plurimis, Sez. I,
16/11/1998, Hass, rv.
211768) che l’acquisizione agli atti del procedimento di sentenze divenute
irrevocabili neppure comporta, per il giudice di detto procedimento, alcun
automatismo nel recepimento e nell’utilizzazione a
fini decisori dei fatti in esse accertati, né tanto
meno dei giudizi di fatto contenuti nei passaggi argomentativi della
motivazione delle suddette sentenze, dovendosi al contrario ritenere che quel
giudice conservi integra l’autonomia critica e la libertà delle operazioni
logiche di accertamento e di formulazione di giudizio a lui istituzionalmente
riservate.

In ordine all’ulteriore quesito interpretativo
sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite, dev’essere
pertanto enunciato il seguente principio di diritto: “Le sentenze pronunciate
in procedimenti penali diversi e non ancora divenute irrevocabili,
legittimamente acquisite al fascicolo per il dibattimento nel contraddittorio
fra le parti, possono essere utilizzate come prova limitatamente all’esistenza
della decisione e alle vicende processuali in esse rappresentate, ma non ai
fini della valutazione delle prove e della ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento in quei procedimenti”.

8. — Colgono nel segno anche le
critiche del ricorrente circa la disapplicazione dei
criteri legali di valutazione della prova indiziaria e l’incompletezza o la carenza della motivazione, in ordine alla basilare
operazione logica tendente alla verifica dei singoli episodi indicati
dall’accusa come sintomatici delle specifiche condotte di favore poste in
essere dal Mannino in esecuzione del patto elettorale.

Essendo stato privilegiato
dalla Corte palermitana il metodo di lettura unitaria e complessiva dell’intero
compendio probatorio, a fronte di una pretesa polverizzazione ed atomizzazione
delle fonti di prova asseritamente operata dal
giudice di primo grado, si è finito per dare rilevanza anche ad una serie di
indizi che, pur analiticamente presi in esame in prime cure e ritenuti ciascuno
di essi incerto, non preciso né grave (ovvero, trattandosi di dichiarazioni
dirette o de relato di collaboratori di giustizia,
neppure assistite da riscontri individualizzanti) e perciò probatoriamente
ininfluente, sembravano tuttavia raccordabili e coerenti con la narrazione
storica delle vicende, come ipotizzata dall’accusa e recepita dai giudici di
appello.

Ma un siffatto metodo di assemblaggio e di mera sommatoria degli elementi
indiziari viola le regole della logica e del diritto nell’interpretazione dei
risultati probatori. Secondo i rigorosi criteri legali
dettati dall’art. 192 comma 2 cod. proc. pen. gli indizi devono essere,
infatti, prima vagliati singolarmente, verificandone la valenza qualitativa
individuale e il grado di inferenza derivante dalla loro gravità e precisione,
per poi essere esaminati in una prospettiva globale e unitaria, tendente a
porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo, univoco e
pregnante contesto dimostrativo: sicché ogni “episodio” va dapprima considerato
di per sé come oggetto di prova autonomo onde poter poi ricostruire
organicamente il tessuto della “storia” racchiusa nell’imputazione (da ultimo,
per un’analoga fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, v. Cass., Sez. VI, 6/4/2005, P.G. in
proc. Marasà).

Parimenti fondata risulta
l’ulteriore doglianza, collegata alla censura di incostituzionalità trattata in
premessa, con la quale il ricorrente lamenta il difetto di motivazione della
sentenza impugnata, con riguardo all’omessa valutazione di prove decisive
indicate nelle memorie depositate nel procedimento di appello per contrastare
le ragioni di gravame del P.M., nelle quali, con
accenti anche critici rispetto ai rilievi fattuali
della sentenza assolutoria, erano state trattate talune circostanze delle
vicende riguardanti i rapporti con i Salvo, l’incontro del Mannino con Pennino
e Vella, l’assunzione di Mortillaro,
il sistema di controllo degli appalti pubblici, la formazione del gruppo
politico palermitano, gli attentati di Sciacca, la
vicenda narrata dal collaboratore Bono, il pranzo alla taverna Mosè, le nozze Caruana, i
rapporti con Salemi e Virone.

In effetti, non è dato rinvenire
nella motivazione della impugnata decisione alcun
cenno almeno alla terza memoria depositata dalla difesa in appello dopo la
requisitoria del P.G., nella quale venivano
analizzate criticamente e diffusamente talune emergenze probatorie attinenti
agli episodi sopra citati, onde inferirne l’insussistenza in fatto e in diritto
degli elementi costitutivi del contestato concorso esterno. E la mancata
risposta del giudice di appello alle argomentazioni
svolte dalla difesa circa la portata di decisive risultanze probatorie inficia
la tenuta logico-argomentativa della sentenza di
condanna (Sez. Un., 30/10/2003, Andreotti,
cit.).

Appare infine altrettanto evidente la
violazione del principio più volte affermato dalla
giurisprudenza di legittimità (Sez. II, 12/12/2002,
P.G. in proc. Contrada, rv.
225564; Sez. IV, 29/11/2004, P.G. in proc. Marchiorello, rv. 231136), per il quale il giudice di appello
che riformi totalmente la sentenza di primo grado, caratterizzata come nella
specie da un solido impianto argomentativo, ha
l’obbligo non solo di delineare con chiarezza le linee portanti del proprio,
alternativo, ragionamento probatorio ma anche di confutare specificamente e
adeguatamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza
e, soprattutto quando all’assoluzione si sostituisca la decisione di
colpevolezza dell’imputato, di dimostrarne con rigorosa analisi critica
l’incompletezza o l’incoerenza, non essendo altrimenti razionalmente
giustificata la riforma.

9. — Alla luce dei principi
giurisprudenziali sopra enucleati in tema di requisiti della fattispecie
criminosa di concorso esterno in associazione mafiosa,
con particolare riguardo all’ipotesi del patto elettorale politico-mafioso, e
dell’analisi retrospettiva della struttura razionale delle inferenze probatorie
che legano la linea logica della motivazione della sentenza impugnata, ritiene
in definitiva il Collegio che risulta evidente tanto la violazione della legge
penale sostanziale, con specifico riguardo alle regulae
iuris stabilite dagli artt.
110 e 416 bis cod. pen.,
quanto di quella processuale in tema di applicazione dei criteri di
utilizzazione e valutazione delle prove dettati dagli artt.
192, 234, 238 bis e 526 comma 1 cod. proc. pen.,
nonché la rilevanza testuale ex art. 606 comma 1 lett. e) dell’illogicità del
ragionamento probatorio.

D’altra parte, prendendo la
motivazione ad oggetto fatti diversi da quelli rilevanti per la disposizione incriminatrice, si è creata una palese asimmetria fra
l’interpretazione della norma sostanziale sul concorso esterno in associazione
mafiosa e il giudizio di fatto. Di talché, solo configurandosi in termini
corretti l’impostazione giuridica dei requisiti soggettivi ed oggettivi della
fattispecie criminosa, viene a ridefinirsi l’area della prova e della
motivazione mediante la prospettazione di più solidi
temi probatori e la valorizzazione in tal senso del
materiale indiziario.

I rilevati vizi logici e giuridici
della sentenza impugnata ne giustificano pertanto l’annullamento in ordine ai molteplici punti presi in considerazione
(restando assorbite le doglianze prospettate in subordine dal ricorrente), con
rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Palermo la
quale, uniformandosi ai principi di diritto precedentemente enunciati, dovrà
rivalutare tutti gli elementi di prova legittimamente acquisiti ed
utilizzabili.

Nell’affidare al giudice di rinvio il
delicato compito di delineare la corretta
qualificazione giuridica e l’eventuale rilevanza penale delle condotte ascritte
al Mannino, in stretta correlazione con la specifica situazione probatoria e
con l’identificazione dell’effettivo contributo materiale dallo stesso
apportato alla conservazione o al rafforzamento di Cosa nostra, sembra infine
opportuno ribadire che nella pur accertata “vicinanza” e “disponibilità” di un
personaggio politico nei confronti di un sodalizio criminoso o di singoli
esponenti del medesimo sono da ravvisare relazioni e contiguità sicuramente
riprovevoli da un punto di vista etico e sociale, ma di per sé estranee,
tuttavia, all’area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione
mafiosa, la cui esistenza postula la rigorosa verifica probatoria, nel
giudizio, degli elementi costitutivi del nesso di causalità e del dolo del
concorrente.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, a
Sezioni Unite,

annulla la sentenza impugnata e rinvia per
nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Palermo.