Penale

Friday 11 January 2008

Coltivare piantine di cannabis è sempre reato.

Coltivare piantine di cannabis è
sempre reato.

Cassazione – Sezione quarta
penale – sentenza 28 novembre 2007 – 10 gennaio 2008, n. 871

Presidente Campanato – Relatore
Licari

Pm Iannelli – difforme –
Ricorrente Costa

Osserva

La Corte di Appello di Messina,
investita dell’impugnazione proposta dall’imputata Costa Anna Lucia contro la
sentenza con la quale era stata dichiarata colpevole
del reato di coltivazione di n. 8 piantine di canapa indiana e condannata,
ritenute l’ipotesi del fatto di lieve entità e le attenuanti generiche, alla
pena ritenuta di giustizia, decideva di confermare quella resa in primo grado.

Avverso tale
sentenza l’imputata, per mezzo del difensore, proponeva ricorso per
cassazione, adducendo erronea applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990 con
riferimento alla ritenuta rilevanza penale della condotta contestata di
coltivazione domestica di un esiguo numero di piantine di canapa indiana,
tuttavia destinata al consumo personale. Trattasi di motivo infondato.

Preliminarmente, deve essere
puntualizzato che la coltivazione riguardava, come accertato dai giudici di
merito, n. 8 piantine della specie cannabis indica, piantate in aiuola presente
nel balcone della casa di abitazione dell’imputata, il cui accertato principio
attivo (il tetraidrocannabinolo), inserito nella tabella 2,
allegata al D.P.R. n. 309/1990, avrebbe consentito di ricavare un numero di
dosi compreso tra 28 e 43.

In ordine alla contestata
rilevanza penale della condotta addebitata, va osservato che, ai fini della
ricostruzione della condotta medesima, occorre fare riferimento al D.P.R. n.
309 del 1990, art. 26, che fissa il divieto di coltivazione nel territorio
dello Stato di piante di coca di qualsiasi specie, di piante di canapa indiana,
di funghi allucinogeni e della specie di papavero (papaver somniferum) da cui
si ricava oppio grezzo (comma 1, prima parte), nonché la possibilità di
introdurre nell’elenco da parte del Ministero della Sanità (ora Salute) di
altre piante da cui possano ricavarsi sostanze stupefacenti o psicotrope la cui
coltivazione deve essere vietata (comma 2, seconda
parte).

L’art. 73 previgente del decreto citato, ma applicabile alla fattispecie, e il cui contenuto
non è stato modificato con la L.
n. 49 del 2006, comma 3, prevede poi espressamente tra le attività illecite,
punibili penalmente, la coltivazione delle suddette piante, tra cui quindi la
canapa indiana, precisandosi peraltro che già la L. n. 685 del 1975, art. 26 disponeva la illiceità della coltivazione della canapa indiana, e che
problemi interpretativi erano sorti – prima della più chiara ed ampia dizione
dell’art. 26 e art. 73, comma 3, citato – solo per la punibilità degli altri
tipi di coltivazione.

La giurisprudenza costante – pur
con alcune perplessità della dottrina – ha costantemente ritenuto che la
coltivazione non autorizzata di piante, dalle quali sono estraibili sostanze
stupefacenti o psicotrope, costituisce un reato di pericolo presunto o
astratto, essendo punito ex se il fatto della coltivazione, senza che per
l’integrazione del reato sia necessario individuare l’effettivo grado di
tossicità della pianta e senza che occorra fare riferimento alcuno alla
sostanza stupefacente che da essa si può trarre e che
può dipendere da circostanze contingenti, connesse alla sua crescita, al suo
sviluppo ed alla sua maturazione: la figura criminosa è costruita, infatti,
come reato di pericolo, la cui sussistenza va, quindi, affermata ogni qualvolta
venga coltivata anche una sola piantina vitale ed idonea a produrre sostanza
stupefacente, appartenente ad una delle specie vietate, indipendentemente dalla
percentuale di sostanza pura o di principio attivo presente nelle infiorescenze
e nelle foglie (Cass. 15.11.2005, D’Ambrosio; Cass. 11.3.1998, Pesce ed altro;
Cass. 7.11.1996, Garcea; Cass. 18.6.1993, Gagliardi).

Inoltre, come esattamente
affermato nella inedita sentenza "Garcea", alla valutazione che,
trattandosi di reato di pericolo, la coltivazione di canapa indiana va
sanzionata indipendentemente dall’ampiezza del numero di piante contenenti
sostanze tossiche (contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti), va
aggiunta l’altra considerazione che il reato di pericolo tiene conto di fattori
inerenti alla realizzazione dell’attività criminosa che prescindono anche dalle
aspettative del suo autore. In particolare, nella coltivazione di piante di
canapa indiana, l’idoneità a produrre sostanze droganti dipende anche da
fattori causali di tempo e di luogo della piantagione.

Come poi
ineccepibilmente ritenuto, in fattispecie analoga, relativamente alla
coltivazione di n. 4 piantine di canapa indiana, "la parziale abrogazione
del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 72 e art. 75, comma 1, operata dal
D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171, che ha dato attuazione al risultato positivo
della consultazione referendaria, ha reso penalmente lecita la detenzione,
l’importazione e l’acquisto di sostanze stupefacenti, che sono le sole condotte
tassativamente previste dall’art. 75 citato, con conseguente impossibilità di
estendere tale liceità anche alla coltivazione delle droghe, assolutamente
vietata nel territorio dello Stato senza che possa assumere valore scriminante
l’uso personale della sostanza prodotta; il differente trattamento di tali
ipotesi deriva dalla maggior pericolosità ed offensività insita nell’essere la
coltivazione, la produzione e la fabbricazione attività rivolte alla creazione
di nuove disponibilità, con conseguente pericolo di circolazione e diffusione
delle droghe nel territorio nazionale e rischio per la pubblica salute ed incolumità"
(Cass. 30.5.2000 n. 4928; conformi Cass. n. 913/1995; Cass. 3353/1994).

Ne deriva che, nella specie, le
analisi interpretative dei giudici di merito, sia di primo che di secondo
grado, sono condivisibili, rispettano il dettato normativo e sono conformi
all’indirizzo giurisprudenziale di legittimità, secondo il quale, in buona
sintesi, l’attività di coltivazione, in base al D.P.R. n. 309 del 1990, art.
73, comma 1, come modificato dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, art. 4 bis,
comma 1, di conversione del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272 ,
è vietata e sanzionata penalmente, anche qualora la finalità dell’agente sia di
destinare il prodotto della coltivazione a consumo personale.

Al rigetto del ricorso consegue,
a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna della
ricorrente al pagamento delle spese processuali.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la
ricorrente al pagamento delle spese processuali.