Enti pubblici

Friday 01 June 2007

BANCA ITALIA. Considerazioni finali Assemblea Ordinaria dei Partecipanti Roma, 31 maggio 2007 anno 2006 CENTOTREDICESIMO ESERCIZIO

BANCA ITALIA. Considerazioni
finali Assemblea Ordinaria dei Partecipanti Roma, 31
maggio 2007 anno 2006 CENTOTREDICESIMO ESERCIZIO

Signori Partecipanti, Autorità,
Signore, Signori,

ai
membri del Direttorio che nel 2006 hanno lasciato la Banca dopo decenni di lavoro
svolto con impegno, rigore ed equilibrio rivolgo un saluto grato e affettuoso.
Hanno accompagnato i miei primi passi in questa istituzione con il conforto
della loro lealtà ed esperienza.

Vincenzo Desario, Direttore
generale dal 1994, ha
servito l’Istituto nell’esercizio di delicatissime funzioni, segnatamente
nell’area della Vigilanza creditizia. Dopo le dimissioni del dottor Antonio
Fazio ha retto ad interim l’Istituto. Di lui resta un’impronta indelebile
nell’impostazione della supervisione prudenziale, nei principi
dell’organizzazione interna, nella prassi quotidiana dell’amministrazione. Il
Consiglio superiore lo ha nominato Direttore generale onorario .

Pierluigi Ciocca, Vice direttore
generale dal 1995, ha
dato alla Banca l’originalità e la profondità del suo pensiero, della sua
cultura economica e giuridica. Ha promosso lo studio del diritto dell’economia.
Ha ispirato la ricerca per molti anni. Ha contribuito all’affinamento
dell’analisi delle funzioni della banca centrale.

Nel 2006 il Direttorio accoglie
nuove professionalità, esperienze maturate anche all’estero. Fabrizio
Saccomanni, che ha diretto per tre anni, come Vice presidente, la gestione dei
rischi della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, dall’ottobre è
Direttore generale. Da dicembre si affiancano ad Antonio Finocchiaro, come Vice
direttori generali, Ignazio Visco, Direttore centrale per la Ricerca economica e già
per cinque anni Chief Economist dell’OCSE, e Giovanni Carosio, in precedenza Direttore centrale per la Vigilanza creditizia e
finanziaria. Il Direttorio si ricompone congiungendo prestigiose
esperienze internazionali con profonda conoscenza dell’Istituzione, competenze
di analisi e ricerca con specializzazione nell’area regolamentare e della banca
centrale.

Nell’anno appena trascorso è
stato approvato il nuovo Statuto della Banca.

Esso introduce modifiche
nell’operatività degli organi dell’Istituto: Consiglio superiore, Collegio sindacale,
Direttorio. Stabilisce il principio della collegialità per i provvedimenti che
hanno rilevanza esterna.

La Banca intende rinnovarsi. Ha
già iniziato a farlo. Il processo di ristrutturazione organizzativa interessa
le funzioni dell’Amministrazione centrale, la rete territoriale e le
rappresentanze all’estero; prevede la piena integrazione dell’Ufficio italiano
dei cambi. L’impegno è ridurre le procedure burocratiche; semplifi care,
razionalizzare i processi di lavoro, promuovendo l’autonoma

responsabilità
dei singoli; riallocare risorse dalle funzioni di amministrazione interna a
quelle istituzionali; arricchire i canali di reclutamento, come avverrà con
l’imminente concorso per economisti, rivolto al mercato internazionale.

Nei prossimi giorni attueremo la
ristrutturazione delle attività di ricerca economica e relazioni
internazionali. L’obiettivo è articolarne meglio i compiti
secondo le diverse esigenze: contribuire alla definizione della politica
monetaria comune con previsioni e studi della congiuntura, con analisi della
strategia monetaria e dei meccanismi di trasmissione; studiare i problemi di
fondo dello sviluppo economico del Paese; compiere ricerche sull’economia
mondiale e cooperare con le istituzioni internazionali; affinare la metodologia
statistico-economica e diffondere statistiche economiche e finanziarie.
È in corso di definizione l’intervento organizzativo
sulla struttura della Vigilanza, volto a dare maggiore importanza all’analisi
macroeconomica dei rischi, alla qualità della regolamentazione, alla tutela del
consumatore; si accrescerà l’interazione fra ricerca e vigilanza; saranno
accentuate l’integrazione e la comunanza di metodi fra i controlli a distanza e
quelli ispettivi. Seguiranno via via le altre funzioni.

La Banca d’Italia sta anche
rivedendo i principi e le modalità di gestione del proprio portafoglio di
attività finanziarie. L’azione intrapresa mira a rafforzare la
trasparenza e la separazione tra le attività di investimento e le altre
attività istituzionali.

Nel periodo più recente la Banca ha introdotto numerose
innovazioni nelle procedure operative. Dall’inizio del 2007 le banche possono
includere i prestiti bancari tra gli strumenti a garanzia delle operazioni di
finanziamento dell’Eurosistema. Dalla metà di aprile l’Istituto effettua, per
conto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, nuove operazioni di raccolta
a brevissimo termine; risultano più agevoli la gestione della liquidità di
Tesoreria e la sua prevedibilità. Sempre per conto del Ministero dell’Economia,
è stato avviato il Sistema informativo delle operazioni degli enti pubblici,
che permetterà alle amministrazioni di valutare in tempo reale i propri
flussi di cassa e faciliterà l’adozione di procedure telematiche di
pagamento. È in corso di avanzata realizzazione, insieme con la Banque de France e con la Bundesbank, la nuova
piattaforma europea TARGET2 per il regolamento dei pagamenti di importo
rilevante, che inizierà a operare a novembre. TARGET2 centralizza
l’infrastruttura tecnica del sistema dei pagamenti europeo, riducendo i costi
delle transazioni interbancarie tra paesi; consentirà al numero sempre
crescente delle banche presenti in più paesi europei di operare con un solo
conto in moneta della banca centrale, di comprimere i costi di gestione della tesoreria.

L’articolazione delle Filiali
sarà riorganizzata su base regionale, nelle forme oggi più efficaci, e senza
abbandonare il presidio del territorio. La compressione dei compiti di
autoamministrazione e l’incremento di quelli di più alto contenuto tecnico
offriranno al personale delle Filiali nuove opportunità di accrescimento
culturale e professionale.

Sull’evoluzione organizzativa è
in corso da mesi un ampio confronto con le Organizzazioni sindacali. Auspico
una sostanziale convergenza, in tempi non lunghi, su interventi che mirano a
consolidare il ruolo, il prestigio dell’Istituzione, e un’intesa sulle misure
di sostegno per i lavoratori coinvolti. La crescita dell’impegno
internazionale, la riforma della governance dell’Istituto, le nuove iniziative
operative hanno posto sfide impegnative. Il personale della Banca le ha
affrontate con la professionalità e la dedizione di sempre, frutto di una
tradizione in cui si sono coltivati spirito del servizio pubblico, senso di
appartenenza all’Istituzione, selezione meritocratica all’ingresso e negli
avanzamenti. A tutti i dipendenti desidero esprimere la mia gratitudine.

I principi comunitari, la
legislazione primaria, le regole statutarie preservano l’assoluta autonomia
della Banca nello svolgimento delle funzioni istituzionali da possibili
infl uenze dei proprietari delle quote. La disciplina dei criteri di
partecipazione al capitale appare però obsoleta e non garantisce una
distribuzione di quote sufficientemente ampia. La previsione del recente
disegno di legge sulla riforma delle Autorità muove nella giusta direzione,
basandosi sui principi dell’indipendenza dell’Istituto e dell’equilibrata
distribuzione del suo capitale.

Credibilità, indipendenza sono
essenziali per adempiere ai nostri compiti.
L’autonomia della banca centrale, pur protetta dall’ordinamento, può essere
fragile se non è sorretta dall’autorevolezza dell’analisi, ma anche dall’azione
conseguente.

L’economia mondiale, la
finanza e la politica monetaria

L’economia mondiale è cresciuta
nel 2006 del 5,4 per cento, il ritmo più alto da oltre trent’anni. Al
rallentamento dell’economia statunitense fanno da contrappeso la prosecuzione
del forte sviluppo della Cina e degli altri paesi
emergenti, la ripresa in atto nell’area dell’euro e in Giappone.

Il commercio internazionale
continua a espandersi a ritmi superiori al 7 per cento. L’integrazione
economica è stata un motore importante della crescita ininterrotta di questi
anni; è minacciata dal risorgere di tendenze protezionistiche. Non ne mancano i
segni, primo fra tutti lo stallo del negoziato sulle
misure di liberalizzazione del Doha Round.

Fattore di rischio resta il
persistente aumento degli squilibri nei pagamenti correnti. Negli Stati Uniti
il disavanzo con l’estero ha raggiunto nel 2006 il 6,5 per cento del prodotto
interno lordo, il valore più alto mai registrato; contropartita di crescenti
avanzi della Cina e di altri paesi asiatici e
produttori di petrolio, sino ad oggi è stato finanziato agevolmente; ma
sale la quota degli investitori pubblici.

La finanza ha dato un
contributo fondamentale alla crescita economica degli ultimi anni: consentendo
una mobilità dei capitali senza precedenti e favorendone l’efficiente
allocazione; finanziando in modo ordinato squilibri che in altre epoche
sarebbero stati dirompenti. L’innovazione finanziaria ha conferito
liquidità ai mercati, ne ha ridotto la volatilità. L’espansione dei mercati e
il continuo processo di innovazione finanziaria mutano anche la struttura
dei rischi.

È ancora aumentato il ricorso
agli strumenti derivati, il cui valore nozionale è oggi dieci volte il prodotto
mondiale. Accanto agli strumenti che offrono copertura dai rischi di mercato,
si sono diffusi rapidamente quelli che consentono di trasferire il rischio di
credito; il valore nozionale dei credit default swaps, dopo essere più che
raddoppiato nel 2005, è ancora raddoppiato nel 2006. Consentendo di scomporre e
valutare con precisione il rischio di credito, allocandolo e disperdendolo tra
una moltitudine di operatori, i derivati di credito contribuiscono a innalzare
la produttività del sistema finanziario, proprio come nuove tecnologie
produttive accrescono quella dell’economia reale. Essi possono tuttavia
divenire fonte di instabilità se utilizzati dagli intermediari non per coprire
il rischio esistente, bensì per accrescere la quantità dei rischi da assumere.
I derivati di credito possono modificare inoltre
il modus operandi delle banche che se ne servono: se chi eroga il prestito ne
cede in parte il rischio ad altri, l’incentivo a vagliare la qualità dei
debitori può ridursi; ne è un segnale l’aumento delle insolvenze nel mercato
dei mutui ipotecari negli Stati Uniti, dove il trasferimento del rischio è diffuso.

Liquidità abbondante e bassi
tassi di interesse hanno contribuito allo sviluppo tumultuoso di hedge funds e
fondi di private equity. Il loro ruolo nel funzionamento dei mercati è stato
positivo. Ma la dimensione del fenomeno, l’alta leva finanziaria che
caratterizza gli hedge funds, la richiesta di maggiore trasparenza da parte di
investitori e controparti, i potenziali rischi di instabilità richiedono
l’attenzione del mercato e dei regolatori. Le autorità mirano a contenere il
rischio sistemico facendo leva sulla disciplina di mercato, stimolando i
soggetti da esse direttamente vigilati affinché
ottengano dagli hedge funds le informazioni necessarie e si assicurino
dell’esistenza di procedure per la migliore gestione dei rischi.

I premi per il rischio sono oggi
ridotti su un ampio spettro di strumenti e di mercati. La percezione del
rischio da parte degli investitori potrebbe repentinamente cambiare; una brusca
ricomposizione dei portafogli, qualunque ne fosse l’origine, avrebbe effetti
destabilizzanti sui tassi di cambio, sui mercati finanziari. Benché in grado di
assorbire meglio che in passato shock di piccole e medie dimensioni, il sistema
finanziario potrebbe essere divenuto più vulnerabile rispetto a eventi
"estremi", con bassa probabilità di realizzarsi
ma con effetti potenzialmente dirompenti, anche in ragione della crescente
complessità del sistema stesso, della più stretta interdipendenza tra i
mercati.

Lo sviluppo di nuovi strumenti e
la nascita di nuovi intermediari pone sfide inedite anche alla politica
monetaria. I mercati finanziari sono, come mai prima d’ora, fonte di
informazione sull’andamento delle economie e sulle aspettative degli operatori;
le azioni delle banche centrali si riflettono
più rapidamente sui prezzi delle attività finanziarie. Allo stesso tempo,
la dinamica

degli
aggregati monetari e creditizi è sempre più influenzata dal comportamento
degli intermediari non bancari: l’innovazione finanziaria rende più
complessa l’interpretazione dell’andamento della moneta.

Dal dicembre del 2005 il
Consiglio direttivo della BCE ha gradualmente attenuato la precedente
espansione monetaria; da allora, ha innalzato i tassi ufficiali di 1,75 punti.
In un periodo di ripresa dell’attività economica, di crescita dell’occupazione,
di forti rincari dell’energia e delle materie prime, le nostre decisioni hanno
mantenuto le aspettative di inflazione
saldamente ancorate all’obiettivo della stabilità dei prezzi. Per la prima
volta un forte shock petrolifero non si è rifl esso
sull’inflazione. La moneta e il credito continuano a crescere a ritmi
sostenuti. Nonostante

gli
effetti dell’innovazione finanziaria sulla velocità di circolazione, la
moneta resta un elemento fondamentale della strategia dell’Eurosistema. Il
cambio effettivo nominale dell’euro si è apprezzato di quasi il 5 per cento nel
corso del 2006. Al vigore della moneta unica europea hanno contribuito le
migliori prospettive economiche dell’area, a fronte dei timori di un
rallentamento negli Stati Uniti.

La politica monetaria è rimasta
favorevole alla crescita. I tassi d’interesse reali a breve termine sono ancora
al di sotto del livello medio osservato nell’area negli ultimi vent’anni. I
rendimenti a lungo termine sono aumentati, ma meno che in analoghe fasi
cicliche. La gradualità e l’attenta comunicazione delle decisioni di politica
monetaria hanno favorito il mantenimento di condizioni stabili sui mercati
monetari e finanziari.

Nell’area dell’euro
l’inflazione al consumo è stata nel 2006 del 2,2 per cento, quasi
dimezzata dai primi anni novanta. Una diminuzione analoga è avvenuta
nell’insieme dei paesi industriali; nei paesi emergenti l’inflazione è
scesa dal 60 al 5 per cento. L’indipendenza delle banche centrali, la chiarezza
dei loro obiettivi istituzionali, ma anche l’aumento della concorrenza scaturito

dall’apertura
dei mercati, hanno prodotto questo straordinario risultato.

Rafforzare la crescita in Italia

Dalla metà del 2005 l’economia
italiana è in ripresa. La crescita si è consolidata nel corso del 2006,
sfiorando in media il 2 per cento, un risultato che non si aveva da
cinque anni. Per il 2007 ci si attende un tasso di sviluppo simile, nonostante
il rallentamento del primo trimestre. La ripresa è alimentata dagli
investimenti e dall’espansione della domanda estera, in primo luogo in
Germania. L’occupazione è notevolmente cresciuta, ancora in larga misura nelle
posizioni dipendenti temporanee.

Uscita dal ristagno, l’economia
italiana si espande a un ritmo che resta fra i più bassi dell’area dell’euro.
Nella prima metà di questo decennio la produttività del lavoro è diminuita in
tutti i settori, segnatamente nell’industria. I divari indicano un ritardo
nell’adeguamento del sistema produttivo italiano ai mutamenti del contesto
tecnologico e competitivo.

I recenti progressi nella
produttività e nelle esportazioni, pur ancora modesti e largamente di natura
ciclica, possono però suggerire che un processo di ristrutturazione si sia avviato.

La ristrutturazione del sistema
produttivo.

Un’indagine condotta nei mesi
scorsi da ricercatori della Banca su un campione di oltre 4.000 imprese
fornisce alcuni primi segnali in questa direzione.

Oltre la metà delle imprese
industriali del campione ha cambiato la propria strategia nell’ultimo
quinquennio. Il 12 per cento che ha spostato la gamma dei prodotti verso nuovi
settori ha conseguito nel 2006 profitti più alti della media. Un’impresa
su cinque, una quota quasi doppia rispetto all’inizio del decennio, adotta
forme di internazionalizzazione: dalla collaborazione

con
partner esteri, preferita dalle più piccole, alla delocalizzazione di attività
di produzione o di commercializzazione. In tutte le imprese si è accresciuta
l’importanza degli investimenti in progettazione, design, marchi, reti
distributive e di assistenza. Fra le medio-grandi si
diffondono nuove tecnologie di gestione aziendale integrata; cresce il ricorso
a personale con livelli di

istruzione
più elevati; ne beneficiano i risultati aziendali. Questi
ultimi – fatto di grande rilevanza nel paese del capitalismo familiare –
sono anche correlati inversamente con l’età dei capi d’azienda: le imprese che
hanno affrontato il problema del ricambio generazionale hanno in media risultati
migliori.

Emerge dalla nostra indagine, dai
numerosi studi di casi che l’hanno corredata, dalle evidenze raccolte da altri
centri di ricerca, un quadro in trasformazione, anche per gli effetti della più
aspra selezione delle imprese. Negli ultimi cinque anni, secondo i registri
delle Camere di commercio, il saldo netto fra iscrizioni e cancellazioni nel
settore manifatturiero è stato negativo per oltre 50 mila unità. Il sistema, di
fronte al duplice shock della globalizzazione e del ricambio tecnologico,
inizia a reagire.

Sarebbe sbagliato concludere che
la crisi di produttività e competitività degli anni scorsi sia ormai dietro le
nostre spalle. La produttività nell’industria, caduta di tre punti percentuali
fra il 2001 e il 2005, è cresciuta lo scorso anno di poco più di un punto; in
Germania, Francia e Spagna è salita fra il 3 e il 6 per cento. Il divario nella
dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto si è ampliato. La strada da
percorrere è ancora lunga. Resta cruciale la dimensione delle imprese. Occorre
una scala dimensionale adeguata per affrontare gli alti costi fissi
dell’innovazione continua e della

presenza
attiva su mercati lontani; ancor più che negli impianti di produzione, la scala
conta negli apparati che innovano il prodotto, che alimentano la visibilità e
la reputazione del marchio, che organizzano la produzione. Le indagini sul
campo mostrano l’esistenza di ostacoli alla crescita. Nella nostra ricerca, il
40 per cento delle imprese che giudicano troppo piccola la propria

dimensione
ha mancato concrete occasioni di ampliamento, per acquisizione o fusione,
nell’ultimo decennio. Un ritardo da colmare

La trasformazione produttiva è
ostacolata da un contesto istituzionale che rimane carente, anche se alcuni
progressi non vanno taciuti. La riduzione della disoccupazione è l’unico,
importante, aspetto che vede l’Italia in linea con la tabella di marcia prevista
dall’agenda di Lisbona. Nell’accrescere il tasso di occupazione, specie delle
donne e delle coorti più anziane, nell’istruzione dei giovani, nella formazione
della forza lavoro, nella riduzione del rischio di povertà, nell’attività
innovativa, nel rispetto dei vincoli ambientali, il Paese è indietro; spesso
più della media europea.

Segnalai l’anno passato aree
d’intervento strutturale di particolare rilevanza ai fi ni della crescita
dell’economia e delle sue imprese. Vorrei tornare su taluni di quei temi, anche
alla luce degli sviluppi da allora trascorsi. L’istruzione si conferma al primo
posto fra i campi dove un cambiamento forte è necessario. La bassa collocazione
del nostro sistema scolastico nelle

graduatorie
internazionali ha una caratterizzazione territoriale che merita attenzione. Al
Sud i divari nei livelli di apprendimento sono significativi già a
partire dalla scuola primaria, tendono ad ampliarsi nei gradi successivi: un
quindicenne su cinque nel Mezzogiorno versa in una condizione di "povertà
di conoscenze", anticamera della povertà economica. Il ritardo si amplia
se si tiene conto dei più elevati tassi di abbandono scolastico. L’esistenza di
un divario territoriale così marcato mostra che il problema non sta solo nelle
regole, ma anche nella loro applicazione concreta.

In Italia il reclutamento dei
docenti, la loro distribuzione geografica e fra le diverse scuole, i
percorsi di carriera sono governati da meccanismi che mescolano, a stadi
diversi, precarietà e inamovibilità. La mobilità ha scarso legame con le
esigenze educative, con meriti e capacità: ogni anno più di 150 mila insegnanti
su 800 mila cambiano cattedra in un travagliato percorso di

avvicinamento
alla posizione desiderata. Pesa il ritardo nello sviluppo di un efficace
sistema di valutazione delle scuole, che nell’esperienza degli altri paesi
appare indispensabile complemento dell’autonomia scolastica. Per cambiare la
scuola italiana si deve muovere dalla constatazione dei circoli viziosi che la
penalizzano, disincentivano gli insegnanti, tradiscono le responsabilità della

scuola
pubblica. I problemi nascono qui, non da una carenza di risorse per studente
destinate all’istruzione scolastica, che sono invece più elevate in Italia che
nella media dei paesi europei.

Ancor più diretto e immediato,
per un’economia avanzata, è il contributo allo sviluppo dell’università. Alcuni
importanti interventi degli anni passati, dall’autonomia finanziaria alla
valutazione della qualità della ricerca, attendono di essere portati a compimento.
L’allocazione dei fondi pubblici dovrebbe privilegiare il finanziamento diretto
degli studenti meritevoli e meno abbienti. Gli atenei dovrebbero potersi fare
concorrenza, nell’attrarre studenti e fondi pubblici, con la qualità dei loro
docenti e ricercatori, selezionati in base alla reputazione e remunerati di
conseguenza.

Il grado di concorrenza nel
mercato interno dei servizi, pubblici e privati, influenza la crescita
delle imprese che competono sul mercato internazionale: nei paesi in cui
maggiori sono gli ostacoli legali o regolamentari alla concorrenza nell’offerta
di servizi energetici, di telecomunicazione, di trasporto e professionali,
l’industria manifatturiera cresce di meno. Il nostro paese è stato fi no
a poco tempo fa, e in parte è tuttora, fra quelli con la regolamentazione più
sfavorevole agli utenti. Nel settore energetico la liberalizzazione è stata
fi nora esitante. Nonostante la dinamica contenuta degli ultimi anni, il
prezzo dell’energia elettrica per usi industriali in Italia, al netto delle imposte,
è ancora tra i più alti d’Europa, maggiore del 20 per cento
circa rispetto alla media. Puntare sulle liberalizzazioni dei mercati
dei servizi, come si è iniziato a fare, è essenziale per recuperare
competitività e crescita. L’obiettivo va perseguito anche per le ricadute sul
benessere dei consumatori, non da ultimo in

termini
distributivi. Nel 2005 il 20 per cento più povero della popolazione italiana
spendeva in quei servizi e beni oggi coinvolti in iniziative di
liberalizzazione oltre il 15 per cento del totale dei suoi consumi mensili: 140
euro su 940, la metà dei quali per consumi di energia in varie forme.

Ritardi e problemi si addensano
nel comparto dei servizi pubblici locali, a iniziare dal trasporto pubblico
urbano e dalla raccolta e smaltimento dei rifiuti. Le norme succedutesi
nel corso degli anni novanta avevano cercato forme di separazione fra la
gestione del servizio, da assegnare con meccanismi concorrenziali, e le
attività che hanno carattere di monopolio naturale, attribuendo

agli enti
locali compiti di regolamentazione. Tali indirizzi sono stati spesso disattesi.
I risultati in termini di costi e qualità dei servizi appaiono deludenti e
differenziati sul territorio in ragione delle diverse capacità amministrative
degli enti locali.

In altri campi l’azione
liberalizzatrice ha compiuto progressi. Nei servizi professionali le iniziative
avviate nel 2006 hanno portato la regolamentazione italiana, che era la più
restrittiva del mondo avanzato, su livelli vicini alla media. Nel campo delle
attività commerciali l’azione va proseguita, radicando non solo nella legge, ma
anche nella prassi, il principio che i punti di vendita non devono essere
razionati sul territorio se non per valide ragioni di tutela ambientale;
assicurando la piena applicazione di questo principio a livello regionale e
locale.

Le manchevolezze della nostra
giustizia civile sono segnalate da studi internazionali, testimoniate dal
disagio dei cittadini e delle imprese. Nella durata dei processi il confronto
internazionale è impietoso. Un esempio fra tutti: i procedimenti di lavoro nel
primo grado di giudizio durano da noi in media oltre due anni, un anno in
Francia, meno di sei mesi in Germania. I tempi lunghi della giustizia non
dipendono tanto da una carenza relativa di risorse, quanto da difetti
nell’organizzazione e nel sistema degli incentivi. Emerge anche in questo campo
uno specifico problema meridionale: la durata media di un processo civile
ordinario di primo grado si triplica passando dal distretto di Torino a quello
di Messina, da 500 a
1.500 giorni. Un pieno utilizzo dell’informatica renderebbe i
procedimenti più rapidi ed efficienti, trasparente l’operato dei diversi
uffici; fornirebbe la base conoscitiva indispensabile per incisivi interventi
di riorganizzazione.

Per rimuovere le inefficienze
l’informazione è vitale. La qualità dei servizi forniti deve divenire il
cardine per la valutazione delle amministrazioni pubbliche e dell’azione dei
suoi dirigenti. Gli obiettivi devono essere chiari e verificabili. Un
trattamento economico differenziato, in parte fondato sulla produttività
individuale, valutata in maniera omogenea e trasparente, aiuterebbe

a
raggiungerli. Questa previsione è contenuta nel Memorandum d’intesa tra Governo
e organizzazioni sindacali dello scorso gennaio.

Nell’area delle infrastrutture
sta un nodo irrisolto. L’esperienza degli ultimi anni, dopo la riforma del
Titolo V della Costituzione, mostra come il processo decisionale condiviso fra
Stato e Regioni sia faticoso e spesso ineffiace. Nell’interesse generale,
occorre riflettere sui casi in cui è opportuno,

trascorso
un tempo definito, svincolare l’azione del governo centrale dall’obbligo
di assenso degli enti regionali e locali interessati. Dare voce alle esigenze
locali deve essere possibile senza bloccare sine die la realizzazione di opere
necessarie alla modernizzazione del Paese.

Una finanza pubblica
sostenibile

Nel 2007 l’indebitamento netto,
secondo le stime del Governo, sarà pari al 2,3 per cento del prodotto interno
lordo, mezzo punto in meno dell’obiettivo indicato alla fi ne dell’anno scorso. L’avanzo primario salirà al 2,6 per
cento. Per assicurare la sostenibilità dei conti pubblici, la riduzione del
disavanzo deve proseguire con interventi incisivi sulle dimensioni e sulla
composizione del bilancio.

Alla fi ne
del 2006 il debito pubblico aveva raggiunto 1.575 miliardi, quasi 27 mila euro
per ogni cittadino. La sua incidenza sul prodotto è salita
per trent’anni, dal 32 per cento del 1964 al 121 per cento del 1994; è scesa di
18 punti tra il 1994 e il 2004; da allora è tornata ad aumentare. Senza
vendite di attività e operazioni di ristrutturazione del passivo, oggi il rapporto
tra debito e prodotto sarebbe circa lo stesso del 1994.

L’accumulo del debito non ha
aiutato l’Italia a crescere. Non ha dato al Paese un’adeguata dotazione di
infrastrutture. Un debito elevato vincola le politiche pubbliche: richiede
imposte più

alte;
riduce le risorse per gli investimenti, per la spesa sociale. Con il rialzo dei
tassi, benché tuttora molto contenuto, la spesa per interessi tende di nuovo ad
aumentare. Essa è già pari alla spesa per l’istruzione pubblica, ai due terzi
della spesa per la sanità.

Nel 2005 vi erano 42
ultrasessantenni per ogni 100 cittadini in età da lavoro. Ve ne saranno 53 nel
2020, 83 nel 2040. Queste tendenze si rifletteranno sulla spesa per le
pensioni, la sanità, l’assistenza. A noi la scelta se abbattere il peso del
debito nei prossimi dieci anni, prima dell’accentuarsi dell’invecchiamento, o
aspettare: accettando però profondi cambiamenti nel

sostegno
che la società sarà in grado di assicurare ai più deboli.

Il recente miglioramento dei
conti pubblici è dovuto al forte aumento delle
entrate; le stime del Governo indicano per quest’anno un ulteriore incremento
della pressione fi scale. Il livello è più alto della media europea; è
prossimo ai massimi degli ultimi decenni. Fra i grandi paesi d’Europa solo la

Francia ha una pressione fi
scale più elevata. A causa del peso dell’evasione, che resta forte nonostante
qualche primo segno di recupero di gettito, la differenza tra l’Italia e il
resto d’Europa è maggiore se si guarda al prelievo sui contribuenti fiscalmente
onesti. Le aliquote legali delle imposte che gravano tanto sul lavoro quanto
sul capitale sono elevate: quella sul reddito delle società è inferiore solo
all’aliquota in vigore in Germania, dove il governo ha recentemente annunciato
un taglio di nove punti. Livello eccessivo del prelievo, variabilità e
complessità delle regole fi scali scoraggiano l’investimento in capitale
fisico e umano; rendono più onerosa l’osservanza delle norme.

È solo riducendo stabilmente la
spesa corrente che si può comprimere il disavanzo e abbattere il debito senza
aggravare ancora il carico fi scale. Dal 2000 la
spesa primaria corrente è aumentata in media di un punto percentuale all’anno in più del prodotto. Il suo peso sul PIL ha
raggiunto il 40 per cento; è sui livelli più alti dal dopoguerra.

È necessario cambiare i
meccanismi di spesa: ancora nel 2006 le erogazioni primarie correnti sono
cresciute del 3,6 per cento, contro l’1,1 previsto nella manovra di bilancio.
Esistono margini di risparmio in tutte le grandi voci del bilancio pubblico; il
progetto di revisione dei programmi di spesa, avviato dal Governo, muove nella
giusta direzione. Anche le politiche redistributive

andrebbero
valutate confrontando i risultati con i costi.

Un riequilibrio duraturo richiede
un intervento sul sistema previdenziale.

La speranza di vita continua a
crescere, il numero di italiani in età lavorativa a diminuire; il tasso di
occupazione è il più basso dell’area dell’euro. È necessario accrescere nel
tempo l’età media effettiva di pensionamento, anche per mantenere un livello
adeguato dei trattamenti. Si deve

applicare
l’impianto del regime introdotto nel 1995: lo stretto collegamento sul piano
individuale fra contributi e prestazioni riduce le distorsioni del prelievo e
le differenze di trattamento fra categorie di lavoratori; permette
flessibilità nella scelta dell’età di pensionamento. Un’applicazione
rigorosa e tempestiva dei meccanismi di riequilibrio previsti dall’attuale normativa

è
essenziale.

Ma non si potrà riportare il
sistema su un sentiero di sostenibilità, e insieme assicurare ai cittadini
pensioni sufficienti, senza un rapido, convinto avvio della
previdenza complementare, ancora oggi modesta. L’investimento nella
previdenza complementare può offrire risultati superiori al TFR;

ulteriori
vantaggi derivano dai contributi aggiuntivi dei datori di lavoro e dal
favorevole trattamento fi scale. L’anticipo al 2007 del meccanismo del
silenzio-assenso per l’attribuzione alla previdenza complementare delle quote
del trattamento di fi ne rapporto, le nuove forme di flessibilità
nell’utilizzo del risparmio accumulato vanno nella direzione giusta. Tuttavia
in non pochi casi l’adesione ai fondi complementari è frenata dagli oneri eccessivi
che gravano sui risparmiatori: è ancora scarso l’effetto delle economie di
scala prodotte dalla crescita delle masse gestite. La concorrenza deve
crescere; insufficiente è la trasparenza delle commissioni, eccessivi i vincoli
alla mobilità.

Occorre riflettere sui limiti
alla trasferibilità del contributo del datore di lavoro. Va migliorata
l’informazione: se non hanno piena contezza della pensione pubblica di cui
disporranno in futuro, i lavoratori non sono in condizione di fare scelte
consapevoli. La previdenza complementare va estesa al più presto al pubblico
impiego.

Compatibilmente con l’equilibrio
dei conti pubblici, si può anche valutare lo spostamento verso la previdenza
complementare, su base volontaria, di una quota limitata della contribuzione
destinata alla previdenza pubblica,che è pari a 33
punti percentuali del salario, il valore di gran lunga più alto

tra i
maggiori paesi europei.

L’industria della finanza e
i mercati dei capitali

I fondi comuni di investimento
aperti di diritto italiano, che nel 1999 gestivano il 17 per cento dei risparmi
delle famiglie del Paese, oggi ne hanno appena il 7. Il deflusso di
risorse, che ancora risente delle disparità fiscali, si è
intensificato nel periodo più recente: negli ultimi tre anni ha sfiorato
i 100 miliardi. Si è accentuata la presenza di operatori esteri attraverso
accordi di

distribuzione
con banche italiane; i gruppi bancari italiani hanno spostato all’estero parte
delle proprie strutture.

Le strategie del risparmio
gestito restano ancora in gran parte subordinate a
quelle delle società controllanti: la riduzione del conflitto di
interessi insito nell’intreccio azionario con banche e assicurazioni, la
concentrazione degli asset managers sono vitali per la crescita del settore.
Come ho già avuto modo di osservare, architettura aperta, netta separazione
societaria, finanche nella

proprietà,
sono di beneficio per gli azionisti delle banche, per i clienti dei
fondi.

La presenza in
Italia del private equity si sta ampliando, sebbene il volume delle
operazioni resti molto inferiore a quello degli altri principali paesi europei.
Tra il 2003 e il 2006 il numero delle società di gestione italiane è salito da 26 a 49; i mezzi
finanziari per i fondi da 3
a 6 miliardi. Cresce soprattutto la presenza degli
operatori non appartenenti a gruppi bancari o assicurativi, che nel 2006 hanno
superato la metà del totale dei mezzi investiti. Gli intermediari specializzati
nel capitale di rischio possono agevolare la crescita delle piccole e medie
imprese, contribuire al rafforzamento della struttura manageriale, favorire
l’accesso ai mercati di borsa, accompagnare il ricambio generazionale. La
proprietà familiare è un asse portante del nostro
capitalismo; l’identificazione dell’imprenditore con l’impresa è un
motore di sviluppo. Proprio per questo sono essenziali gli strumenti che ne
agevolano il ricambio, se necessario. Quando la proprietà familiare perde il
gusto del rischio creativo, quando la ricchezza investita nell’azienda comincia
a essere vista solo come fonte di rendite o di benefici privati del
controllo, l’immobilismo proprietario può diventare un freno alla crescita
dell’impresa, la avvia al declino. È allora che maggiore diviene per l’impresa
il bisogno di questi intermediari; massimo il guadagno potenziale che tutti
realizzerebbero con un

cambio
della guardia; massima, a volte, anche la resistenza dei proprietari. Vi è uno
stretto legame tra la diffusione degli intermediari specializzati e lo sviluppo
della borsa. Oltre un terzo delle aziende italiane che si sono quotate tra il
1995 e il 2006 è stato assistito da operatori di private equity, ampliando un
accesso al mercato borsistico che in Italia è fi nora rimasto per lo più limitato alle imprese di grandi dimensioni, ed è
molto al di sotto, per capitalizzazione, rispetto agli altri paesi industriali.
In un contesto internazionale in rapida evoluzione, restano non definite
le strategie che Borsa Italiana intende intraprendere: un chiarimento degli
azionisti è necessario. La concentrazione tra società di gestione dei mercati
internazionali è in corso; l’integrazione delle infrastrutture tecniche sta
subendo una forte accelerazione. È un processo che offre grandi prospettive di
sviluppo a chi vi si inserisce, ma apre interrogativi sul destino a lungo
termine di chi ne resta ai margini.

La semplicità della struttura
proprietaria delle imprese ne accresce la capacità di attrarre l’investimento
azionario. Un adeguato sistema di governo societario risponde a un’esigenza di
equità nel trattamento dei diritti patrimoniali dei soci, ma anche a criteri di
efficienza. Sistemi poco trasparenti ostacolano l’azione di stimolo degli
azionisti di minoranza; accentuano l’autoreferenzialità del management;
proteggono i benefici privati del gruppo di
controllo.

Le aziende quotate italiane
ricorrono di frequente a strutture organizzative complesse. Rispetto ad altre
modalità per separare la proprietà dal controllo, una struttura a piramide può
accentuare la difficoltà di vagliare adeguatamente le operazioni all’interno
dei gruppi, aumentandone l’opacità.

Negli ultimi anni in Italia il
grado di complessità dei maggiori gruppi si è ridotto. Tra il
1990 e il 2006 il numero medio di società quotate per gruppo è sceso da 6,8 a 2,5; la distanza media
dal vertice è diminuita; la leva del controllo si è ridotta. Anche se ha
risentito di innovazioni nelle regole fiscali e nella disciplina della
trasparenza dei gruppi, questo fatto è essenzialmente frutto della pressione
del mercato. È soprattutto la concreta applicazione delle norme sulle
operazioni infragruppo e sulla tutela degli azionisti di minoranza che va
ancora rafforzata. Nello stesso periodo il peso sul listino di borsa delle
società controllate da patti di sindacato è salito dal 18 al 22 per cento; il
loro numero dal 5 all’11 per cento delle società quotate.

Le banche

Un anno fa le due banche italiane
più grandi erano al settimo e al diciottesimo posto nella graduatoria europea
per capitalizzazione di borsa. Le prime tre banche popolari detenevano il 49
per cento dell’attivo della categoria in Italia. Oggi, se le operazioni
annunciate dai consigli di amministrazione saranno confermate, le prime due
banche italiane saranno al terzo e all’undicesimo

posto; le
prime tre popolari avranno una quota pari al 73 per cento dell’attivo della
categoria.

Quanto sta accadendo in Italia è
una fase del processo di consolidamento in atto in Europa ormai da vari anni.
Le concentrazioni hanno per lo più avuto avvio all’interno dei singoli paesi;
successivamente si sono talvolta sviluppate in operazioni cross-border. Dove
questo processo è avvenuto con successo, si sono formate aziende bancarie che
godono di vaste economie di

scala,
benefi ciano di una maggiore diversificazione del rischio, hanno
un’alta patrimonializzazione.

I tempi perché le sinergie che
sono all’origine del consolidamento si traducano in maggior valore per gli
azionisti e maggiore efficienza a servizio dei clienti si sono però
drammaticamente ristretti. La creazione della moneta unica, lo sviluppo
dell’industria dei servizi finanziari, la stessa globalizzazione hanno
oggi creato un mercato europeo e mondiale della proprietà e del controllo delle
banche. Né le ampie dimensioni, né le difese nazionalistiche offrono protezione
a quelle aziende che, pur sane, non perseguano costantemente l’aumento del
valore; occorre perciò che il mercato, superate le fasi più complesse dei
processi di aggregazione, veda rapidamente i frutti del consolidamento in atto.
La concentrazione dell’offerta non si deve tradurre in un indebolimento della
concorrenza; i clienti dovranno trarre pieno beneficio dalle economie di
scala.

È essenziale che gli assetti di
governo, l’articolazione societaria, le strutture organizzative che i nuovi gruppi
adottano, assicurino la sana e prudente gestione. Le banche che risultano da
processi di aggregazione si sono date in molti casi nuove forme di governance societaria, adottando il sistema duale;
utilizzano la holding operativa come strumento di coordinamento dei nuovi
gruppi. Il modello duale è efficace se attuato assicurando una chiara
ripartizione della responsabilità tra gli organi societari. Sovrapposizioni di
competenze ostacolano l’efficienza del processo decisionale, sono viste dagli
azionisti come fonte di distruzione di valore; la chiarezza delle linee di
responsabilità è anche presidio di stabilità.

L’adozione della forma
organizzativa basata su una holding di gruppo o la sua
estensione al nuovo perimetro che si forma con le aggregazioni richiede
particolare attenzione ai controlli interni. I nuovi gruppi devono prontamente
assicurare una gestione centralizzata dei rischi, specialmente per le attività
più esposte. Particolare attenzione richiedono i rischi di reputazione. L’adozione

dei modelli
di valutazione dei rischi e l’organizzazione delle funzioni di controllo devono
avvenire rapidamente.

L’acquisizione di
significative partecipazioni nel capitale delle imprese è parte della
strategia dei maggiori gruppi. Essa comporta per le banche l’assunzione di
rischi di tipo nuovo rispetto al passato; può dar luogo a conflitti
di interesse. Al fi ne di tutelare la stabilità
degli intermediari, l’ordinamento ha a lungo ristretto queste partecipazioni.
L’evoluzione delle tecniche di gestione

del
rischio e delle migliori pratiche di vigilanza rende ormai inefficace una
rigida delimitazione. La Banca
ha già da tempo sottoposto al Comitato interministeriale per il credito e il
risparmio un provvedimento che consente di ridurre i vincoli amministrativi,
innalzando i limiti delle partecipazioni che le banche possono detenere; questo
è reso possibile da un sistema di vigilanza

ora
basato sulla valutazione accurata di tutti i rischi, sulla loro copertura con
adeguate dotazioni patrimoniali, sul controllo dei conflitti di interesse
tramite presidi di governance e di trasparenza, e, in prospettiva, su una più
efficace disciplina dei fi di a soggetti collegati.

I giudizi di merito sulle singole
operazioni spettano al mercato e agli azionisti delle banche, cui vanno
garantite ampia informazione e adeguate occasioni di intervento. Agli
azionisti, specialmente in questa materia, si richiede di essere
particolarmente attivi nell’assicurare che le operazioni abbiano per obiettivo
l’aumento del valore dell’azienda, e nel verificare
successivamente la coerenza delle scelte gestionali con questa finalità.
Sono chiamati a questo ruolo soprattutto

gli
investitori istituzionali, per la responsabilità fiduciaria che li lega a
chi ha loro affidato i propri risparmi; le fondazioni, che amministrano risorse
nell’interesse della collettività: meno definita sul piano formale, la
responsabilità di queste ultime è proprio per questo ancora più delicata e
importante.

Anche gli attuali limiti alla
partecipazione nelle banche da parte di soggetti non finanziari e il
relativo divieto di controllo saranno rivisti alla luce della normativa
comunitaria in corso di emanazione. Nella disciplina delle banche popolari sono
mature le condizioni per una

riforma,
cui è auspicabile concorrano le stesse banche con spirito costruttivo.

Un ordinamento originariamente
disegnato per aziende di dimensione contenuta si rivela per alcuni profi li inadeguato di fronte alle basi proprietarie sempre più
ampie e frazionate che emergono dai processi di consolidamento. Sono
condivisibili le iniziative legislative finalizzate ad ampliare i limiti
individuali di partecipazione, rafforzare il ruolo degli investitori
istituzionali ed estendere i meccanismi di delega, senza stravolgere la natura
cooperativa degli intermediari.

Nel 2006 il grado di
patrimonializzazione del sistema bancario italiano è aumentato, al 10,7 per
cento; si è però leggermente ridotto quello dei principali gruppi. Dal 2008
tutte le banche italiane adotteranno i criteri di Basilea II. Ne potranno
derivare, a seconda della struttura dei rischi, minori

obblighi
patrimoniali; certamente si avrà una maggiore variabilità dei requisiti tra
banche. La Vigilanza
è impegnata ad assicurare che le dotazioni patrimoniali, proporzionate
all’intensità dei rischi e all’accuratezza dei metodi per la loro gestione, si
mantengano, perché vi sia flessibilità, ampiamente al di sopra dei limiti
regolamentari. Il dialogo con i gruppi che intendono adottare sistemi interni
di calcolo dei requisiti patrimoniali si è di recente intensificato.

Negli ultimi anni il contenimento
dei costi ha contribuito al miglioramento dell’efficienza operativa dei
principali gruppi bancari italiani, che è oggi allineata alla media delle
grandi banche europee. Nonostante i progressi compiuti, è invece inferiore il
rendimento del capitale, soprattutto a causa

delle
maggiori perdite su crediti: anche se la congiuntura favorevole sta
contribuendo a un miglioramento, la qualità degli attivi resta più bassa
rispetto a quella delle altre maggiori banche europee. L’esposizione delle
banche italiane nei confronti degli hedge funds è inferiore al 3 per cento del
patrimonio. Più significativa è quella nei confronti dei fondi di private
equity che, sommata ai finanziamenti alle società in cui intervengono i
fondi, raggiunge il 13 per cento del patrimonio. Le esposizioni sono
concentrate nelle banche maggiori. Nei derivati di credito il sistema bancario
è in media acquirente netto di protezione.

L’integrazione dei mercati
europei pone nuove sfide alla vigilanza. Le strutture di coordinamento
create dalla procedura Lamfalussy hanno contribuito ad armonizzare la
regolamentazione e a rafforzare la cooperazione tra autorità dei vari paesi.
Nel 2006 abbiamo condotto simulazioni coordinate di eventi critici per esser
pronti a fronteggiare episodi di instabilità con effetti

internazionali. La convergenza
nelle prassi di vigilanza deve aumentare, per rendere il sistema meno
macchinoso, ridurre gli oneri per le banche e garantire parità di condizioni
concorrenziali.

Semplificare le norme
proteggendo la stabilità, vigilare sulla reputazione delle banche accrescendo
la tutela dei clienti sono stati i nostri principi nella regolamentazione del
sistema bancario.

Nel 2006 e nei
primi mesi del 2007 la Banca
d’Italia ha abolito l’obbligo di comunicare preventivamente l’intenzione di
acquisire il controllo di una banca; ha soppresso la disciplina della
trasformazione delle scadenze e dei limiti quantitativi al finanziamento a
medio e a lungo termine alle imprese; ha semplificato le procedure per
l’apertura degli sportelli; ha emanato disposizioni

sulle
obbligazioni bancarie garantite (covered bonds), con l’obiettivo di creare un
mercato ampio e affidabile; ha avviato una riconsiderazione di tutta la
normativa di vigilanza, con l’obiettivo di ridurre drasticamente il numero dei
provvedimenti autorizzativi.

La fiducia del pubblico
resta essenziale per la solidità delle banche. La Banca d’Italia controlla il
rispetto delle regole di trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e
finanziari; le capillari verifiche presso
gli intermediari contribuiscono a migliorarne gli standard di comportamento nei
confronti della clientela. Oltre ad assicurare la correttezza contrattuale,
occorre essere chiari e semplici nell’informazione che si dà ai clienti. Per
rafforzare la tutela sostanziale dei risparmiatori e delle imprese, intendiamo
rivedere la normativa sulla trasparenza, riducendo gli adempimenti formali.

Abbiamo avviato una nuova
rilevazione sui costi di tenuta dei conti correnti bancari, anche al fi ne di individuare il peso di fattori strutturali quali
l’incidenza della fi scalità e l’eccessivo uso del contante. La direttiva
europea sui servizi di pagamento al dettaglio, recentemente approvata, apre il
mercato a nuovi operatori, quali la grande distribuzione e la telefonia mobile;
accresce la concorrenza, riduce i costi, amplia l’offerta di servizi,
predispone la base per un sistema integrato dei pagamenti in Europa. La Banca d’Italia sosterrà
un’applicazione estensiva della direttiva, che è auspicabile sia presto
recepita dal Parlamento.

* * *

Il Paese ha trasformato il
proprio sistema bancario, ha iniziato a rimettere in ordine la finanza
pubblica, ha ripreso a crescere. Ho già dato atto dei progressi del sistema
bancario. Il ruolo che vi

abbiamo
svolto è stato neutrale, non distaccato. Abbiamo indicato l’obiettivo, non il
protagonista del percorso: puntare alla crescita, abbandonando i campanilismi
del passato, accettando la sfida del mercato. Da questo è nata la
trasformazione, non dai programmi delle Autorità. Occorre ora che azionisti,
famiglie, imprese ne vedano chiaramente i benefici:
aziende più forti, pronte a offrire una gamma di servizi più ampia a costi
inferiori. Occorre infine che i conflitti
di interesse, sempre presenti nella terra degli intrecci azionari, vengano
risolti. La Banca
seguirà con attenzione tutti questi sviluppi. Un
sistema finanziario moderno non tollera commistioni tra politica e

banche. La separazione sia netta:
entrambe ne verranno rafforzate.

Perché la finanza pubblica
torni a essere di beneficio per la crescita e non di freno, occorre che
il suo riordino veda meno spese correnti, più investimenti, meno tasse e che
soprattutto continui: abbiamo smesso di accumulare debito, non abbiamo iniziato
a ridurlo.

Dobbiamo por mano con maggiore
determinazione alle debolezze strutturali della nostra economia. Il consumo
delle famiglie, eroso dalle rendite, frenato dall’incertezza sull’esito di
riforme che toccano in profondità la loro vita, deve riprendere slancio.

Affrontare il problema della
previdenza in modo mai definitivo ha un costo in termini di mancata
crescita, minori consumi. Sono mete raggiungibili se tutti noi, ciascuno nel
proprio ruolo, senza attardarsi sul rimpianto per le occasioni mancate, ma
traendo forza dalla consapevolezza dei progressi compiuti, sapremo ritrovare
quel sentire il bene comune che è essenziale per lo sviluppo duraturo del
Paese.